«LA Storia siamo noi». Un verso di Francesco De Gregori è diventato slogan, titolo di trasmissioni tv, modello di dialogo. Ma «la storia siamo noi» si riferisce a quando la facciamo, la Storia, a quando tentiamo di intervenire, nel piccolo, piccolissimo, pur sapendo che «dalla parte sbagliata si muore».
E anche da quella giusta. Ma quando non siamo noi la Storia, allora lei
è quello che ci raccontano, ci insegnano, ci fanno leggere sui
libri e ci vendono per verità. E anche quella che ci correggono
cammin facendo. Eccola qui, la parolaccia: il revisionismo. Ma rivedere
è davvero sbagliato? Rivedere non serve a capire meglio?
Può darsi, ma può darsi anche che a rivedere si vada di
proposito, per aggiustar le cose al servizio di una ideologia. Per
questo la parolaccia «revisionismo» acquista nobiltà
per come viene trattata (da ieri a domani, alla Fondazione Agnelli di
Torino) in un convegno organizzato da «Historia Magistra»,
Associazione Culturale per il Diritto della Storia e la Fondazione
Piemontese Istituto Antonio Gramsci. Per iniziativa del professor
Angelo d´Orsi, si incontrano studiosi di tre generazioni, da
Della Peruta a Verucci, Bravo, Macry, a Pavone, Traniello, Vivarelli,
Franzinelli, Agosti, Salvadori, Della Loggia, Galasso.
Rileggere la Storia è il senso delle tre giornate. E dalle
parole di tutti, fin dall´inizio, emerge chiaro un punto fermo:
rileggere la Storia significa, sempre e comunque, rileggere se stesso,
capire che cosa si sta facendo.
Si piega una realtà a un´idea? O si scopre in un documento
che alle nostre idee crea problemi?
In queste giornate si parla di Risorgimento, di Italia Liberale, di
fascismo, di 8 settembre, di Salò e Resistenza. Sarà
interessante, domani, l´incontro conclusivo, presieduto da
Giuseppe Galasso, su «revisioni storiografiche e revisionismi
ideologici».
Perché è lì il nodo.
C´è una cosa della quale il lavoro storico non può
essere privato: è la visione dello studioso, è il suo
lavoro sui documenti, su realtà che comunque va a leggere.
Eppure l´influenza dell´ideologia, della politica, del
sospetto di appartenenza proprio questa base vanno a minare, da parte
di chi scava nel passato, da parte di chi giudica chi nel passato
è andato a scavare. In apertura di convegno, proprio
d´Orsi mette in risalto l´assurdo per il quale -
occupandosi di fascismo e di vicinanze al fascismo di intellettuali
italiani - si ritrova osteggiato, comunque nemico di una intellighenzia
di sinistra cui appartiene e, insieme, si ritrova suo malgrado aspirato
da una cultura di destra che avverte: avete visto?
lo dicono anche loro, anche quelli non sospetti di scelte.
È fango, questa fase della storiografia. Fango non nel senso che
lo si tira addosso agli altri, ma fango nel senso che da un momento
all´altro diventa sabbie mobili, prigione. Cioè ideologia.
D´Orsi ha fatto citazioni dolorose. Quando uscì, per
Einaudi, il suo La cultura a Torino tra le due guerre, gli domandavano:
«Ma tu non ti sei domandato a chi avrebbe giovato il tuo
libro?» (come ad accusarlo di una confessione di una parte),
oppure: «Era proprio il caso di tirar fuori certe cose?».
Eccolo qui, il vero dilemma dello storico, del quale stanno disquisendo
con rispetto reciproco a Torino. Il centro della questione è
molto più basso, e insieme più profondo, dei dibattiti
saccenti o delle grandi rivelazioni.
È tutto nella differenza fra «revisione», intesa
come «andare a rileggere» situazioni ed episodi e
collegamenti, e «revisionismo», inteso come intervento
ideologico, cioè asservimento del lavoro dello storico a una
ideologia.
Qui si citano Furet, Nolte, De Felice. E si citano anche quali autori
talora di provocazioni. In realtà la questione è spostata
di lato, è agganciata a due piani di rilettura. Non a caso sono
state invitate tre generazioni di storici, quella formatasi negli Anni
50 e quella che in quegli anni è nata, poi ancora quella che
della seconda generazione è diventata allieva.
Se ne accorgono discutendo, gli storici, di come cambia quella frase
che dice «la storia siamo noi»: siamo noi anche mentre la
raccontiamo, non soltanto mentre la viviamo.
Siamo la Storia perché alla Storia aggiungiamo qualcosa di
nostro, per esempio l´occhio con cui andiamo a rivedere brandelli
di passato. Se ascolti con pazienza gli storici che si raccontano,
scopri di tutto: «La Storia serve? Non lo so, ma è
divertente» (citazione da illustre maestro). Invece sanno che
serve: «È democrazia».
Però è un cammino pilotabile, aggiustabile. Il centro del
dibattito sta tutto lì, nell´onestà di chi va a
rileggere. Ha ragione d´Orsi quando dice che uno storico che si
limiti a prender per buono quello che gli hanno passato quelli
più anziani è più un facchino che uno uno
studioso. Il ricercatore ha diritto ad andare a rivedersi ciò
che gli hanno passato.
Ma come lo fa? Con la sua cultura, la sua preparazione, i suoi modelli,
i suoi confronti. E qui tutto può mutare. Eccola, la revisione,
ed ecco perché tre generazioni di storici. Che cos'è
Stalin, che cos'è Hitler di fronte a Milosevic?
Come il passato condiziona la lettura di un presente che è
ancora cronaca e già storia, ma come questo presente di cronaca
condiziona la Storia?
Il dibattito della storiografia «revisionista» nel
senso peggiore è un esempio di battaglia ideologica dove talora
i morti sono più palline da ping pong in una gara che vittime
cui portare rispetto: la Risiera di San Sabba? Vuoi mettere le foibe?
Questo insegnamento vien fuori da questi tre giorni: un conto è
la Storia, un conto è la lettura personale e onesta della
Storia, un terzo conto è il gioco delle tre carte con la Storia,
fino a ribaltare, ingannare, nascondere, far ricomparire.
Si parlava ieri di «pratica rigorosa della ricerca documentale,
fuori da ogni autocensura in nome di una qualche cautela politica, o di
intenti cripticamente agiografici» e altrettanto lontana da
«qualsivoglia intendimento accusatorio».
Ottima intenzione. Quello che ci si aspetta dall´ultima giornata
è sentirsi dire «come si fa» a seguire quei buoni
propositi. Coltiviamo tutti un´idea, se non
un´appartenenza, una simpatia. Lo storico riesce davvero ad avere
un unico amore, una moglie senza amanti chiamata Storia? A sentir loro
è possibile. Ma è altrettanto vero che chi ama ha slanci.
Per questo è giusto il richiamo che esce da questo convegno, pur
nel rispetto delle idee, delle generazioni: si metta in campo il
proprio vissuto storiografico, che coincide con il proprio tragitto
esistenziale, intellettuale, politico.
Però lo si faccia scoprendo le carte. La Storia deve essere
racconto e spiegazione e invece si avvita, almeno in parte si avvita.
Si avvita sul gusto della rilettura da biografia popolar-best seller,
si avvita sull´aggiustamento ideologico di chi quel giorno ha
deciso quella rilettura, si avvita anche sul momento più
faticoso, che forse è quello degli storici più giovani:
io rileggo così perché così io sto leggendo
così, e così mi misurerò con i miei maestri.
La Storia è chi la fa, ma è anche chi la scrive. Per
questo - nemici o cultori di una revisione che non deve essere
revisionismo come ideologia - val la pena di ricordare la
raccomandazione del professor d´Orsi: «Il silenzio è comunque la
più crudele e ingiusta delle armi».
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