La storiografia odierna è investita da un processo revisionistico che ha comportato un profondo ripensamento della storia passata e recente. La ricerca storiografica, come sosteneva De Felice, è, per sua natura, revisionista.
Lo storico non può accettare passivamente i risultati a cui
è pervenuta la storiografia precedente. Egli ha il compito di
vagliare accuratamente le ricostruzioni dei fatti e di reinterpretare
continuamente questi ultimi alla luce della scoperta di nuova
documentazione.
Sergio Romano, nelle Confessioni di un revisionista (Ed. Ponte alle
Grazie, 1998), sottolinea che, nei Paesi dove si è affermata
l’egemonia culturale del marxismo, il termine
«revisionismo» ha assunto una valenza negativa e
dispregiativa e ricorda come la critica al revisionismo storiografico
rivolta alle ricerche di De Felice sul fascismo equivaleva a un
esplicito biasimo.
Gli storici marxisti, così come avversarono le ricerche di De
Felice sul fascismo, contestano le indagini che revisionano la storia
del comunismo e contrastano con la storiografia tradizionale. Sono
significative le critiche che sono state rivolte alle tesi contenute ne
Il libro nero del comunismo (Mondadori, 1997) sostenute sulla base di
ingenti prove documentarie. Gli stessi storici che hanno contestato Il
libro nero del comunismo rifiutano, insieme a intellettuali cattolici e
laici, i risultati a cui sono pervenute, negli ultimi anni, le indagini
condotte sulla storia del Risorgimento.
Recentemente sono stati pubblicati dei saggi, condotti con rigore
metodologico, i quali hanno fatto cadere molti miti risorgimentali, che
hanno alimentato e alimentano l’immaginario collettivo del popolo
italiano. I manuali scolastici (che influenzano il modo di pensare di
milioni di italiani) presentano il Risorgimento come una nuova nascita
dell’Italia sul piano culturale, politico e civile, dopo un periodo
storico in cui il popolo era stato oppresso dalle potenze straniere e
dal potere temporale della Chiesa.
I manuali diffondono la vulgata risorgimentale secondo la quale i
protagonisti del Risorgimento si distinguono nettamente in
«buoni» e «cattivi».
Buoni sono tutti coloro che approvarono, totalmente o parzialmente, la
politica sabauda, cattivi tutti coloro che la disapprovarono. Buoni
furono Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi, D’Azeglio ecc., cattivi
Ferdinando II, Pio IX ecc.
Secondo Camera - Fabietti nel periodo storico in questione «lo
Stato pontificio e il regno borbonico si erano retti sull’arbitrio e
sull’illegalità, su un’agricoltura estremamente arretrata e su
redditi individuali molto miseri» (A. Camera, R. Fabietti, Storia
per gli Istituti Tecnici, Zanichelli 1967).
Secondo Perugi - Bellucci «Le condizioni dello Stato (pontificio)
rimasero (…) pesanti, con una legislazione arretrata, una pubblica
amministrazione inefficiente e corrotta in mano al clero e un diffuso
malcontento che si esprimeva nella recrudescenza di quel male antico
che era il brigantaggio» (G. Perugi, M. Bellucci, Corso di
storia, Zanichelli, 1998).
Secondo Giardina - Sabbatucci - Vidotto, Pio IX, dopo il fallimento
delle rivoluzioni del 1848-1849 e l’abbandono dell’iniziale apertura
liberale, avrebbe condotto una politica reazionaria e liberticida e
avrebbe «riorganizzato (lo Stato) secondo il vecchio modello
teocratico-assolutistico» (A. Giardina, G. Sabbatucci, V.
Vidotto, Manuale di storia. L’età contemporanea, Laterza,1998).
La Chiesa cattolica, guidata da Pio IX, avrebbe ostacolato
ingiustamente la politica di riforme condotta dallo Stato sabaudo e in
particolare da Cavour. Infatti «le minacce più consistenti
all’azione politica di Cavour non provennero dalla Sinistra, ma dalla
Destra reazionaria e clericale, che aveva il punto di forza nel potere
e nell’influenza della Chiesa» (Perugi - Bellucci). La Chiesa
avrebbe goduto di privilegi ai quali non voleva rinunciare, mentre
Cavour voleva realizzare uno Stato laico, in cui fosse attuata
un’effettiva uguaglianza tra tutti i cittadini. La Chiesa si sarebbe
opposta a tale politica, rifiutando la proposta del governo piemontese
di sopprimere i conventi e confiscare i loro beni.».
Cavour viene presentato come il paladino del liberalismo, che vuole
eliminare i privilegi ecclesiastici per rendere effettiva la
libertà dello Stato e della Chiesa. Pur non essendo cattolico,
sarebbe stato infatti interessato alla missione spirituale della
Chiesa, la quale, grazie alla perdita del potere temporale, avrebbe
potuto dedicarsi con maggiore libertà al suo apostolato. In
generale, i liberali risorgimentali avrebbero condiviso le idee di
Cavour relativamente al rapporto libertà della Chiesa-perdita
del potere temporale. Perugi - Bellucci riferiscono di un’iniziativa
politica di Ricasoli che conferma questa diffusa condivisione delle
idee di Cavour.
Scrivono: «Per risolvere la questione romana il presidente del
consiglio Bettino Ricasoli si rivolse nel settembre del 1861
direttamente al pontefice, auspicando che la Chiesa rinunciasse di
propria iniziativa al potere temporale, per riacquistare, integro e
pieno, il suo magistero spirituale. “La Chiesa ha bisogno di essere
libera - egli scriveva - e noi le renderemo intera la sua
libertà ma per essere libera è necessario che essa si
sciolga dai legacci della politica. Se volete essere maggiore de’ re
della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a
loro. L’Italia Vi darà sede sicura, libertà intera,
grandezza nuova. Ella venera il pontefice, ma non potrebbe arrestarsi
innanzi al principe: ella vuol rimanere cattolica, ma vuol essere
libera e indipendente nazione”. Questo tipo di iniziativa politica non
ebbe però alcun successo». L’iniziativa di Ricasoli non
poteva avere successo perché la Chiesa non avrebbe mai voluto
rinunciare ai suoi privilegi, come dimostra la resistenza che fu
opposta alle misure contenute nelle leggi Siccardi presentate dal
governo presieduto dal cattolico d’Azeglio.
Scrivono Perugi - Bellucci: «Il partito reazionario, legato agli
ambienti più retrivi dell’aristocrazia e sostenuto dalla Chiesa,
spingeva verso l’abrogazione del costituzionalismo e il ripristino
dell’Ancien Régime. Il governo d’Azeglio non si lasciò
condizionare da queste posizioni reazionarie e lo dimostrò
chiaramente con la presentazione nel 1850 di un pacchetto di leggi,
note come leggi Siccardi, dal nome del guardasigilli. Esse colpivano
alcune prerogative ecclesiastiche, che lo Stato non intendeva
ulteriormente riconoscere: proponevano infatti l’abolizione del diritto
d’asilo di cui ancora godevano i luoghi sacri, la soppressione del foro
ecclesiastico per i religiosi accusati di reati comuni, l’abolizione
della censura religiosa preventiva sulle pubblicazioni. Contro le leggi
Siccardi gli ambienti clericali e conservatori scatenarono una protesta
durissima ma inutile. Tra coloro che si adoperarono con successo per
l’approvazione di queste disposizioni si distinse Camillo Benso Conte
di Cavour, leader della maggioranza liberale della Camera».
Analoga resistenza fu opposta dalla Chiesa quando «il patrimonio
fondiario già appartenuto a ordini e congregazioni religiose
(fu) incamerato dallo Stato con una legge del 1866» (Giardina -
Sabbatucci - Vidotto). Il cattolico Vittorio Emanuele II viene
presentato come il «re galantuomo», che «tentò
(…) di convincere Pio IX dell’ineluttabilità dell’annessione di
Roma all’Italia» (Camera - Fabietti) e che occupò lo Stato
pontificio per rispondere al grido degli italiani: «Non siamo
insensibili al grido di dolore che si leva dal popolo italiano».
Pio IX viene presentato come un capo di Stato intransigente che si
oppose al desiderio della popolazione di liberarsi dal peso oppressivo
della politica clericale e di far parte del Regno d’Italia.
Scrivono Giardina - Sabbatucci - Vidotto: «Nel settembre 1870 (…)
il governo italiano decise di mandare un corpo di spedizione nel Lazio
e di avviare contemporaneamente un negoziato col papa per giungere a
una soluzione concordata. Benché fosse completamente isolato in
Europa, soprattutto dopo le decisioni del Concilio Vaticano I, Pio IX
rifiutò ogni accordo, deciso a mostrare al mondo intero di
essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre 1870 le
truppe italiane, dopo avere aperto con l’artiglieria una breccia nella
cinta muraria che allora circondava Roma e dopo avere sostenuto un
breve combattimento con i reparti pontifici, entravano nella
città presso Porta Pia, accolte festosamente dalla popolazione.
Pochi giorni dopo, un plebiscito sanzionava a schiacciante maggioranza
l’annessione di Roma e del Lazio». La popolazione accoglieva
festosamente l’esercito sabaudo e «Pio IX rinnovava la scomunica
contro gli “usurpatori” del territorio pontificio e di Roma,
chiudendosi come un prigioniero in atteggiamento di sdegnosa ripulsa
nei palazzi vaticani» (Camera - Fabietti). Il parlamento italiano
votò nel 1871 la legge delle guarentige, la quale «attuava
largamente il principio della libertà della Chiesa: (essa),
liberatasi dal peso del potere temporale, finì col guadagnare in
dinamismo e in capacità di influenza» (Giardina -
Sabbatucci - Vidotto). Questa legge era ispirata ai principi di Cavour
e «garantiva al pontefice la più larga libertà
nelle sue funzioni spirituali, l’extraterritorialità dei palazzi
vaticani, del Laterano e di Castel Gandolfo, e fissava una donazione
annua a favore delle casse vaticane, pari a quella che l’erario
pontificio versava per il mantenimento della corte papale»
(Camera - Fabietti).
La legge delle guarentige, secondo i manuali in questione, veniva
incontro agli interessi della Chiesa, ma «non per questo si
attenuò l’intransigenza del papa nei confronti del Regno
d’Italia» (Giardina - Sabbatucci - Vidotto).
L’intransigenza manifestata dal Papa nei confronti della politica
risorgimentale si comprenderebbe all’interno di «un’azione di
arroccamento dottrinale», che sarebbe all’origine di eventi
ecclesiali come il Concilio Vaticano I e la pubblicazione
dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo, nel quale sono espresse
posizioni dottrinali in netto contrasto con il rinnovamento culturale e
politico in atto nella società contemporanea.
Scrivono in proposito Perugi - Bellucci: «Le affermazioni del
Concilio sull’infallibilità del pontefice suscitarono molto
scalpore: esse infatti venivano a coronare un’azione di arroccamento
dottrinale che la Chiesa aveva portato avanti fin dal 1854, con la
proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria - un dogma
dal chiaro sapore anti-ecumenico, visto che urtava contro la
sensibilità religiosa dei protestanti -, ed era proseguita con
la pubblicazione dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo nel 1864. Con
questi atti la Chiesa rispondeva agli attacchi della cultura laica,
liberale e positivista, riproponendo nel modo più oltranzista il
proprio magistero e la propria tradizione. In tal modo però essa
rischiava di isolarsi sempre di più rispetto alla cultura e alla
società contemporanea» (Perugi - Bellucci). L’isolamento
della Chiesa nei confronti della modernità sarebbe rappresentato
particolarmente dal Sillabo. Scrivono Camera - Fabietti: «Il
Sillabo ribadiva (…) la condanna del principio della libertà di
coscienza, della libera ricerca filosofica e scientifica, rifiutava
categoricamente il socialismo, il liberalismo e lo stesso cattolicesimo
liberale, respingendo in definitiva tutte quelle manifestazioni del
pensiero moderno che in qualche modo sembravano allontanare i cattolici
dalla guida spirituale della Chiesa di Roma. Un successivo Concilio
Vaticano proclamava anche il dogma dell’infallibilità del papa
parlante ex cathedra in materia di fede e di costumi. Questa drastica
presa di posizione, gettata nel cuore di un’epoca in cui le concezioni
liberali e socialistiche, la libertà di opinione e di stampa e
la libera circolazione delle idee stavano ormai vincendo anche le
più ostinate resistenze politiche, apparve come una condanna di
ogni compromesso tra la Chiesa e il mondo moderno e per reazione
provocò in tutta Europa una violenta ondata anticlericale».
La suddivisione manichea, operata dai testi scolastici, in buoni (pro-Savoia) e cattivi (anti-Savoia) trova conferma nei documenti storici? I liberali risorgimentali furono veramente i liberatori della patria? L’unità d’Italia sotto la bandiera sabauda fu veramente voluta dal popolo italiano?
La soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei beni
ecclesiastici fu veramente un atto di giustizia sociale? Pio IX fu
veramente un despota reazionario?
Pubblicazioni recenti sul Risorgimento revisionano la storia scritta
dopo l’unità d’Italia dai liberali filo-risorgimentali e
smentiscono, sulla base di prove documentarie, una serie di luoghi
comuni propagandati dagli storici di sinistra, che contestano - afferma
Paolo Mieli in Storia e politica (Rizzoli, 2001) - i «nuovi
storici» perché ridiscutono la storia italiana in modo non
ideologico. Denis Mack Smith ha condotto una ricerca sulla storia dei
Savoia (I Savoia re d’Italia, Rizzoli, 1998), consultando numerosi
archivi europei e analizzando documenti di ogni genere, tra i quali
alcuni di carattere riservato, come note diplomatiche e rapporti
segreti inviati dagli ambasciatori ai propri governi.
Da tale indagine emerge un ritratto di Vittorio Emanuele II molto
diverso da quello oleografico tramandato dalla manualistica: un re
più interessato ai propri intrallazzi finanziari e alle proprie
relazioni amorose che al bene della patria.
Cecilia Gatto Trocchi afferma, sulla base delle sue ricerche raccolte
in Il Risorgimento esoterico (Mondadori, 1999) e Storia esoterica
d’Italia (Piemme, 2001), che la cattolica Casa Savoia, durante il
periodo risorgimentale, accolse da tutta Europa maghi, occultisti e
spiritisti in funzione anticattolica. In particolare, Margherita di
Savoia praticava l’occultismo.
L’attuale diffusione nella città di Torino di pratiche
esoteriche troverebbe la propria origine nell’insediamento di tali
personaggi nel capoluogo piemontese. L’autrice evidenzia che la Chiesa
condannò le pratiche esoteriche durante il periodo
risorgimentale e i Savoia, incuranti di tale condanna, protessero i
fautori dello spiritismo.
Gatto Trocchi rivela che Garibaldi, oltre a essere massone, era
presidente onorario di una società di occultismo e che Mazzini,
come Garibaldi, era dedito allo spiritismo.
Antonio Nicoletta, in E furono detti briganti… - mito e realtà
della conquista del Sud (Il Cerchio, 2001), afferma che Garibaldi era
gran maestro della massoneria inglese, la quale sostenne economicamente
e politicamente il processo di unificazione italiana.
Diego Novelli, in Amor di patria (Daniela Piazza, 1999), basandosi
sulla documentazione reperita all’archivio storico di Torino, evidenzia
come le manifestazioni indette in varie parti d’Italia, in occasione
dei «plebisciti», furono organizzate da squadre speciali
inviate da Torino formate anche da malavitosi, che, a Napoli, Modena,
Parma e Firenze compirono omicidi e rapine e, in generale, atti di
violenza.
L’autore ha scoperto una relazione redatta dal Sindaco di Torino
Emanuele Luserna di Rorà, nella quale viene documentata una
strage di Stato, organizzata dal governo piemontese a piazza San Carlo,
con l’intento di fare accettare ai torinesi il trasferimento della
capitale da Torino a Firenze. Tale strage causò decine di morti
e feriti. In generale, nella recente pubblicistica sul Risorgimento si
evidenzia un aspetto di questo periodo storico che era già noto
a Gobetti, che accusava il carattere elitario e antipopolare della
politica liberale risorgimentale, e a Gramsci, secondo il quale, i
«liberali di Cavour» erano «dei conservatori che
concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e
del patrimonio della dinastia, non come movimento dal basso, ma come
conquista regia».
Sono stati pubblicati alcuni testi nei quali viene evidenziata la
matrice anticattolica e massonica del Risorgimento. In particolare, in
La rivoluzione italiana (Il Minotauro, 2001), gli autori sostengono che
il Risorgimento è stata una rivoluzione di ispirazione
illuministica e protestante condotta da una minoranza contro il popolo,
con la finalità di eliminare il cattolicesimo e laicizzare e
ateizzare tutta l’Italia. I liberali risorgimentali erano animati
dall’intento di sostituire al cattolicesimo una religione della patria,
il cui simbolo era costituito dall’«Altare della patria».
Secondo gli autori sia Cavour che il cosiddetto partito piemontese
effettuarono una vera persecuzione nei confronti della Chiesa,
espropriandola dei suoi beni e incarcerando presbiteri e vescovi. Il
Risorgimento viene inteso come una rivoluzione antipopolare, condotta
da una classe dirigente che ha imposto al Paese un’identità
politica diversa da quella cattolica e pre-unitaria.
L’identità cattolica pre-risorgimentale aveva fecondato, secondo
il cardinale Giacomo Biffi (cfr. Risorgimento. Stato laico e
identità nazionale, Piemme, 1999) la cultura italiana,
soprattutto nel campo architettonico, pittorico e letterario, mentre la
nostra cultura si sarebbe impoverita, perdendo in originalità e
adeguandosi a modelli transalpini, nel periodo post-risorgimentale.
I libri che maggiormente hanno evidenziato il carattere intrinsecamente
massonico e anticattolico del Risorgimento sono senz’altro i due testi
scritti da Angela Pellicciari: Risorgimento da riscrivere. Liberali
& massoni contro la Chiesa (Ares, 1998) e L’altro Risorgimento. Una
guerra di religione dimenticata (Piemme, 2000).
Tali testi sono stati e sono oggetto di acceso dibattito intellettuale
ed è quindi opportuno analizzarli in modo essenziale.
L’autrice, in L’altro Risorgimento. Una guerra di religione
dimenticata, amplia e approfondisce, sul fondamento di nuovi documenti
storici, le tesi già espresse nel primo libro, sopra menzionato.
Sono analizzate le «insorgenze» messe in atto dalle
popolazioni italiane per difendere le antiche autonomie e le
consolidate libertà civili, partendo dall’invasione napoleonica
dell’Italia nel 1796 fino al periodo risorgimentale.
Dall’indagine storiografica viene sconfessata la presunta
«moderazione» politica di Cavour, il quale promulgò
le leggi che cancellavano gli ordini religiosi e fu l’artefice di una
politica anti-cattolica che comportò, oltre alla soppressione
degli ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni, anche
l’imprigionamento di presbiteri e l’esilio di vescovi.
Sulla base delle sue ricerche, l’autrice interpreta il Risorgimento
come una guerra condotta dai liberali massoni contro la Chiesa
cattolica.
L’altro libro scritto da Angela Pellicciari, Risorgimento da
riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, è
un’indagine storiografica sul Risorgimento che si basa su una
grandissima quantità di fonti originali e la cui lettura, scrive
Franco Cardini, «obbliga a riconsiderare idee consolidate»,
perché «le vecchie e consolidate menzogne ormai
scricchiolano: e dopo libri come questo, la considerazione del passato
del Paese non sarà, non potrà essere più la
stessa».
Pellicciari ha analizzato i verbali delle sedute dello Stato di
Sardegna dal 1848 al 1855 e dai dibattiti politici emerge che lo Stato
sabaudo, costituzionale e liberale, mentre si proponeva di fronte
all’opinione pubblica internazionale come guida del moto
risorgimentale, dedicò intere sessioni parlamentari a discutere
della soppressione degli ordini religiosi.
I Gesuiti vennero considerati dai parlamentari liberali come nemici
dello Stato. Secondo Bixio erano «seme di discordia» e
«rappresentanti di un funesto passato», Cornerio li
definì «cospiratori» e «torbida e malaugurata
compagnia», Valerio, proponendo la loro soppressione
affermò: «Cacciando lontano la lue gesuitica intendemmo
liberare il Paese dalle sue malefiche influenze, liberare la
gioventù nostra dai pericoli di un’educazione
corrompitrice». Secondo Chenal i Gesuiti dovevano essere banditi
perché «non saranno mai sorvegliati abbastanza: l’ordine
di Lojola è come l’idra di Lerna, che muore per
rinascere».
Perché i Gesuiti dovevano essere soppressi? Quale fu la loro
colpa?
Essi furono accusati di «gesuitismo», un modo di essere
considerato molto pericoloso per la società. Il sacerdote
Vincenzo Gioberti chiarì in uno scritto del 1845 che
cos’è il «gesuitismo»: «È il
gesuitismo, che scredita, molesta, tribola, calunnia, perseguita,
rovina i valorosi ingegni, gli uomini dotati di spirito libero (…)
È il gesuitismo, che rimossi o spiantati dai carichi pubblici i
buoni e i valenti, vi sostituisce i dappochi, i tristi e i vili (….)
È il gesuitismo (…) che rallenta, inceppa, molesta, frastorna,
indebolisce, corrompe in mille guise l’istruzione pubblica e privata
(…). È il gesuitismo, che semina rancori, diffidenze,
animosità, odi, liti, discordie palesi e nascoste fra
gl’individui, le famiglie, le classi, i municipii, le provincie, gli
Stati, i governi e i popoli (…). È il gesuitismo, che arrossisce
gl’intelletti, doma i cuori e i voleri coll’ignavia, snerva i giovani
con una molle disciplina, corrompe l’età matura con una morale
arrendevole e ipocrita, combatte, intiepidisce, spegne l’amicizia, gli
affetti domestici, la pietà filiale, il santo amor della patria
nel maggior numero di cittadini».
Nel 1848 il parlamento soppresse l’ordine dei Gesuiti e incamerò
i suoi beni. Identica decisione fu presa nei confronti di tutti gli
ordini religiosi che, secondo il parlamento, perseguivano le stesse
finalità dei Gesuiti, come, ad esempio, le Dame del Sacro Cuore
di Gesù, denominate «gesuitesse».
Vennero inoltre soppressi i seguenti ordini definiti
«gesuitanti»: gli Oblati di San Carlo, gli Oblati di Maria
Santissima, i Liguoristi. Il deputato Bottone motivò la
decisione del parlamento subalpino con il seguente ragionamento:
«A che varrebbe (…) lo abolire i Gesuiti, ove in uno con essi
abolite non fossero le corporazioni tutte che rette sono dagli stessi
identici principii, e tutte quelle misteriose affiliazioni loro, che
meritatamente riguardarsi possono come altrettante ramificazioni della
infesta ed esiziale pianta?».
Nel 1848 vennero affermate le motivazioni ideologiche per la battaglia
contro tutti gli ordini religiosi condotta negli anni successivi, la
quale comporterà, nel 1855, la soppressione degli ordini
mendicanti e contemplativi. I beni incamerati dallo Stato piemontese
serviranno anche, in parte, per il pagamento delle congrue ai parroci,
dal momento che, come emerge dal dibattito a una seduta alla Camera del
1854, si sostenne che lo Stato non era in grado di erogare ai parroci
l’importo di 928.412 lire, che era il totale di tutte le congrue.
Dal dibattito parlamentare emerge con chiarezza la necessità di
ridistribuire la ricchezza, togliendo beni a ordini ritenuti oziosi e
dannosi per aiutare i parroci poveri. Cavour e Rattazzi presentarono il
progetto di legge per la soppressione degli ordini religiosi il 28
novembre 1854 e la votazione finale avvenne il 28 maggio 1855.
«Il parlamento subalpino - scrive Pellicciari - dedica quasi
esclusivamente alla legge in questione un intero anno parlamentare: chi
potrà negare l’importanza strategica attribuita dalla
maggioranza di governo alla questione religiosa?».
Scrive ancora l’autrice: «La legge contro i conventi,
sanzionata da Vittorio Emanuele il giorno successivo all’approvazione
della Camera avvenuta il 28 maggio, è accompagnata da un regio
decreto (879) che stabilisce in un articolo unico quali sono gli ordini
religiosi colpiti: “Ordini religiosi d’uomini: Agostiniani calzati -
Agostiniani scalzi - Canonici lateranensi - Canonici regolari di
sant’Egidio - Carmelitani calzati - Carmelitani scalzi - Certosini -
Monaci benedettini cassinesi - Cistercensi - Olivetani - Minimi -
Minori conventuali - Minori osservanti - Minori riformati - Minori
cappuccini - Oblati di Santa Maria - Passionisti - Domenicani -
Mercedari - Servi di Maria - Padri dell’Oratorio o Filippini. Ordini
religiosi di donne: Clarisse - Benedettine cassinesi - Canonichesse
lateranensi - Cappuccine - Carmelitane scalze - Carmelitane calzate -
Cistercensi - Crocifisse benedettine - Domenicane - Terziarie
domenicane - Francescane - Celestine o Turchine - Battistine”. Tale
disposizione coinvolse 335 case, per un numero totale di 3.733 uomini e
di 1.756 donne, in tutto 5.489 individui. La lotta contro le
congregazioni terminò il 7 luglio 1866 quando, all’indomani del
disastro della terza guerra di indipendenza, il Regno d’Italia
abolì tutti gli ordini religiosi e confiscò i rispettivi
beni. Il provvedimento fu esteso a Roma circa tre anni dopo la sua
occupazione (legge 19 giugno 1873)». Il decreto di soppressione
fu firmato dal cattolico Vittorio Emanuele che, come re dello Stato
sabaudo, di fatto approvò una vera e propria guerra di religione
condotta dai liberali piemontesi (in particolare Cavour, Rattazzi,
Bixio, Cadorna) contro la Chiesa cattolica.
Pellicciari spiega l’accanimento anticlericale dei parlamentari
liberali (che rappresentavano l’1% della popolazione) con il fatto che
essi erano massoni e perseguivano, quindi, una politica anticattolica.
Secondo l’autrice la massoneria, con l’appoggio dei Savoia,
progettò di distruggere la Chiesa cattolica, estendendo la
politica anticlericale sperimentata nel Piemonte a tutto il territorio
italiano, demolendo anche lo Stato della Chiesa.
Questo progetto politico si è in parte realizzato, per quanto
concerne il potere temporale della Chiesa, grazie anche all’intervento
di cattolici come Vittorio Emanuele e Massimo D’Azeglio, i quali, con
la loro autorità, seppero convincere gli italiani, in gran parte
cattolici, riguardo alla liceità della spoliazione dei beni
ecclesiastici.
In particolare, D’Azeglio condivise la pubblicistica massonica e
protestante che denigrava lo Stato della Chiesa per giustificarne la
soppressione e sostenne che la spoliazione delle ricchezze avrebbe
consentito alla Chiesa di essere più pura e conforme alla
volontà di Gesù Cristo.
Pellicciari riporta questo scritto di D’Azeglio: «In Italia e
fuori d’Italia, non solo i protestanti e altri avversari di Roma ma gli
stessi cattolici (…) e gli stessi preti, ove non sien mossi da private
passioni, si spogliano di ogni stima del principato temporale del papa,
lo predicano dannoso alla fede e alla religione, lo vorrebbero o tolto
affatto o ristretto almeno in brevi confini (…). Se il papa è
divenuto principe per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, della
contessa Matilde e di altri, perché è stato tenuto per
ciò principe legittimo? Perché l’universale consentiva
nel creder legittimo questo modo d’acquistare, nel credere quelli che
donavano legittimi possessori della cosa donata; e si comprende che se
l’universale avesse creduto tutto l’opposto, non solamente questo
acquisto, questo principato, non sarebbe potuto durare, ma neppure
sarebbe venuto in mente né agli uni di concederlo né agli
altri di accettarlo. Ma le età sono mutate (…). Si deve dunque
riconoscere, che l’idea sulla quale posava la legittimità del
principato ecclesiastico, come di tant’altri, più non esiste.
(…) Le nuove fondamenta, le sole sulle quali ormai egli possa reggersi,
sono nel diritto ammesso dal consenso universale, nel diritto
comune».
Il libro della Pellicciari adduce prove documentarie al giudizio
espresso da Pio IX, secondo il quale l’unificazione italiana è
stata imposta «a forza da una minoranza attivissima e forte a una
maggioranza larghissima, ma debole, inerte e impotente». Recenti
studi, apparsi spesso in riviste specializzate, rivalutano la figura di
Pio IX, il quale è vissuto in un periodo storico molto
travagliato: ha assistito all’insurrezione rivoluzionaria del 1848,
all’instaurazione della Repubblica Romana, che comportò il suo
esilio a Gaeta; impotente ha dovuto subire la spoliazione dei legittimi
beni appartenenti alla Chiesa e l’umiliante soppressione di prestigiosi
ordini religiosi; non ha potuto impedire che le milizie sabaude
reprimessero con la violenza gli atti di resistenza espressi dalle
popolazioni meridionali nei confronti dell’occupazione delle loro terre
da parte del Piemonte; ha dovuto accettare l’invasione di Roma, da
parte di potenze militari e politiche ostili alla Chiesa. Il pericolo
maggiore della politica liberal-massonica era rappresentato, secondo il
pontefice, dall’ideologia che ispirava tale politica. I
liberal-massoni, infatti, eredi degli ideali della Rivoluzione
francese, negavano la missione salvifica di Gesù Cristo e della
Chiesa e propugnavano l’autoredenzione dell’umanità sul piano
sociale e politico.
Pio IX era consapevole, in perfetta sintonia con Don Bosco, che
l’unificazione italiana sotto l’egida sabuada e l’avvento al potere di
massoni ostili alla Chiesa, avrebbe provocato la scristianizzazione del
popolo italiano. La difesa del potere temporale «coincise per lui
- scrive Roberto De Mattei nell’Osservatore Romano del 3 settembre 2001
- con la lotta contro quel processo di secolarizzazione e di
immanentizzazione della società che, secondo Del Noce, avrebbe
caratterizzato la storia d’Italia, coprendo nel secolo successivo
all’unificazione realtà politiche diverse come il risorgimento,
il fascismo, l’antifascismo».
Tale difesa era motivata anche dall’esigenza di difendere il Patrimonio
di San Pietro, inteso come bene appartenente a tutto il popolo di Dio,
e di garantire alla Chiesa di esercitare il proprio ministero
liberamente, senza dover subire l’influenza economica e politica di
altri Stati. Pio IX era contrario al modo in cui è stata
realizzata l’unità d’Italia per motivazioni di carattere
dottrinale, mentre era favorevole a un processo di unificazione che
salvaguardasse l’identità cattolica del popolo italiano e le
autonomie locali del Nord, Centro e Sud d’Italia.
È stato pubblicato recentemente un libro, La Rivoluzione
Italiana (Ares, 2000), scritto nel 1875 da Keyes O’ Clery, nel quale
viene documentato come Pio IX auspicasse per l’Italia la costituzione
di una confederazione di Stati, la «Lega italiana»,
presieduta dal pontefice, che doveva comprendere lo Stato Pontificio,
il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e il Regno delle due
Sicilie.
Scrive l’autore: «Non va dimenticato che Pio IX fu il primo a
proporre la Lega italiana, che il granduca di Toscana e il tanto
calunniato re Ferdinando erano pronti a contribuire al costituirsi
della confederazione e che il solo ostacolo a questo processo politico
fu il Piemonte allora sotto l’influenza del partito rivoluzionario.
I veri nemici dell’Italia erano nei ranghi di quel partito nemici
ancora peggiori degli austriaci. Decisi a compiere il loro progetto, la
formazione di una Repubblica italiana atea che si estendesse dalle Alpi
alla Sicilia, si opposero all’idea della Lega perché il papa ne
era il promotore e perché sarebbe stato un ostacolo
insormontabile per i loro piani». O’ Clery, storico revisionista
ante litteram, evidenzia come gli uomini del Meridione insorsero contro
la politica autoritaria e accentratrice imposta dai Savoia (il fenomeno
del «brigantaggio» secondo i libri di testo).
Tale politica provocò una sanguinosa «guerra
civile». L’autore descrive la presa di Roma come un «reale
atto di brigantaggio» perpetrato da un esercito di
sessantacinquemila uomini comandati dal generale Cadorna, senza trovare
alcun sostegno da parte della popolazione, poiché «Roma,
intanto era assolutamente tranquilla e non c’era il minimo segno di
turbamento dell’ordine pubblico, non un solo episodio che significasse
simpatia verso gli invasori o il malcontento verso il governo
pontificio».
Lo Stato Pontificio fu ben governato da Pio IX, la cui attività
riformatrice, come attestano gli studi di Roberto De Mattei, non si
esaurì nel biennio 1846-1848, ma continuò durante tutto
il suo pontificato, che è stato caratterizzato da eventi
significativi per la vita ecclesiale: il Concilio Vaticano I, in cui
viene approfondita la dottrina tradizionale sul primato del papa e
viene definito il dogma dell’infallibilità del pontefice quando
si pronuncia ex cathedra su questioni che riguardano la fede e la
morale, la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria,
la lettera enciclica Quanta Cura, con annesso il Sillabo.
Riguardo al Sillabo Rino Camilleri afferma che esso è un
«documento profetico. È la messa in guardia per le
pecorelle cristiane contro tutti gli ideologismi nascenti, dal
socialismo al liberalismo, al comunismo. È stato l’ultimo grido
al popolo cristiano da parte di un papa quando ormai i bersaglieri
erano alle porte».
Pio IX fu amato dai romani, come testimonia questa lettera scritta da
Don Bosco a monsignor Edoardo Rosaz, il 7 febbraio 1878, giorno della
morte del papa: «Oggi circa alle tre e mezzo si estingueva il
sommo e incomparabile astro della Chiesa, Pio IX. I giornali le daranno
i particolari. Roma è tutta in costernazione e credo lo stesso
in tutto il mondo. Entro brevissimo tempo sarà certamente sugli
altari».
Intellettuali, soprattutto di sinistra, hanno negato che il Risorgimento sia stato un movimento guidato da élites massoniche, ma i diretti interessati cosa pensano in proposito?
Sono trascritti, qui di seguito, brani tratti da pubblicazioni
ufficiali della massoneria ed editi durante il periodo risorgimentale.
«Le nazioni riconoscevano nell’Italia il diritto di esistere come
nazione in quanto le affidavano l’altissimo ufficio di liberarle dal
giogo di Roma cattolica. Non si tratta di forme di governo; non si
tratta di maggior larghezza di libertà; si tratta appunto del
fine che la massoneria si propone; al quale da secoli lavora,
attraverso ogni genere di ostacoli e di pericoli» (Bollettino del
Grande Oriente della Massoneria in Italia, 1865). «La massoneria
avrà la gioia di debellare l’idea terribile del papato,
piantandovi sulla fossa il suo vessillo secolare - verità,
amore» (Bollettino, 1869). «Facciamo sì che dalla
Eterna Città nostra la luce si diffonda per l’Universo, che il
mondo ammiri a canto del nero e avvilito gesuita, il libero gigante
potere della massoneria» (Rivista della Massoneria Italiana,
1872). Il 20 settembre 1870 è stata ed è considerata
dalla Massoneria la data in cui l’Italia è stata liberata
dall’oppressione clericale e in cui si sono affermati i valori
massonici.
Recentemente Hiram, la rivista del Grande Oriente d’Italia, ha
pubblicato una serie di articoli in cui si confermano le tesi che erano
state sostenute da Giuseppe Leti, secondo il quale il processo
risorgimentale è stato originato e guidato quasi esclusivamente
dalla massoneria.
A titolo esemplificativo viene riportato il brano di un articolo
pubblicato nel no 2 del 1999: «Molti patrioti furono iniziati in
logge estere (come Federico Confalonieri, iniziato in Inghilterra, e lo
stesso Garibaldi, iniziato in America latina); molti Fratelli, infine,
furono esuli politici in molte parti del mondo (Europa, America latina,
Malta, ecc.) dove continuarono la loro attività massonica. (…)
Nel programma formulato nel 1861 dal risorto Grande Oriente di Torino
venne inserito, tra i primi obiettivi da perseguire, il “completamento
dell’unità nazionale”, mancando ancora a essa l’acquisizione di
Roma, del Veneto e della Venezia Giulia.
Fu soprattutto Garibaldi a cercare di utilizzare tutti i canali
massonici, nazionali e internazionali, per giungere il più
presto possibile all’unificazione della penisola; anzi, egli sostenne
con forza la necessità dell’unificazione dei vari corpi
massonici italiani, quale premessa indispensabile per l’unificazione
della nazione.
In Italia operarono infatti, per vari anni dopo la creazione del Regno,
dei Grandi Orienti a Torino, a Napoli e a Palermo, conseguenza della
frantumazione esistente a livello politico. La lunga lotta contro il
Papato e contro lo Stato temporale della Chiesa cattolica fece della
presa di Roma del 1870 un episodio di grande significato e la
Massoneria inglese fu la prima nel mondo a inviare le sue felicitazioni
alla giunta del Grande Oriente che aveva allora sede a Firenze, tanto
che questa apprese la notizia prima dello stesso governo italiano.
Il 20 settembre è stato considerato dalla Massoneria una data
emblematica della vittoria della libertà sull’oppressione.
Conseguenza diretta delle ripetute condanne papali contro i reggitori
del nuovo Stato, gran parte dei quali erano Massoni, fu la grande
estensione di sentimenti anticlericali all’interno della Massoneria
italiana». In generale, negli articoli in questione viene
riaffermata la tradizionale avversione per la Chiesa cattolica e
ribadita la missione della Massoneria, custode della verità e
«luce» per l’intero genere umano.
È veramente difficile, dopo l’analisi delle più recenti
acquisizioni storiografiche, negare il carattere essenzialmente
massonico e, quindi, anticattolico del Risorgimento. I liberali
massonici hanno fatto l’Italia risorgimentale e condizionato quella
post-risorgimentale, ma non si identificano con i liberali italiani
tout court.
Sappiamo, infatti, che, dalla fine dell’Ottocento, una corrente
moderata del liberalismo italiano strinse un’alleanza con i cattolici,
che sfociò nel «Patto Gentiloni» del 1913. Oggi
liberali e cattolici dialogano tra di loro e perseguono obiettivi
comuni riguardo al rapporto società civile-Stato, al ruolo del
mercato nello sviluppo della società, alla libertà
educativa ecc.
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