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Tratto da:
Il Giornale - 28 SETTEMBRE 2000
MARCELLO VENEZIANI

Il Risorgimento non deve essere il tribunale della storia

Alessandro Galante Garrone & C. dimenticano che gran parte degli italiani fu o si sentì estranea al processo unitario. Ma la patria, evidentemente, è sempre di "lorsignori"
 

Sessantasei intellettuali in fila per sei col resto di zero hanno firmato un appello che è stato pubblicato ieri a firma d'Alessandro Galante Garrone come editoriale della Stampa. L'appello è in difesa del Risorgimento dopo le critiche emerse sull'onda di una mostra sul brigantaggio al meeting di Comunione e liberazione in Rimini.


Un appello che sarebbe in via di principio da condividere se riguardasse la difesa del Risorgimento come evento decisivo e positivo per l'unità nazionale. Ma la netta caratterizzazione polemica, progressista e anticlericale del testo, l'uso di espressioni militanti (come "provocazione", "aggressione", "rifluire di ideologie reazionarie") e l'uso politico dell'antifascismo, finiscono con il rovesciare il proposito dell'appello perché rimarcano la spaccatura nazionale più che l'unità.


Così l'appello divide anziché unire gli italiani.


Sul Giornale e poi in un breve intervento sulla Stampa avevo anch'io tentato una disincantata difesa del Risorgimento, sostenendo che la revisione critica del nostro passato è necessaria e salutare, a patto che non sia animata dal gioco allo sfascio e dalla volontà di disunione. Per la stessa ragione mi pare giusto ricordare ai sessantasei intellettuali tre o quattro cose.


In primo luogo è un errore storico e culturale far coincidere l'identità nazionale con la nascita dello Stato italiano. L'Italia non nacque il 17 marzo del 1861, ma molto prima: nasce nel medioevo cristiano e nella romanità, cresce nel costume e nella lingua italiana, si forma nel carattere nazionale.


Questo ricordava lo storico Gioacchino Volpe all'hegeliano Benedetto Croce. E' sbagliato pensare che le identità, dei popoli coincidano con gli Stati; è un'idea pedagogica e sottilmente autoritaria. E lo dice uno che considera il senso dello Stato e il legame con la storia patria due irrinunciabili risorse per una comunità.


In secondo luogo non va dimenticato per la verità della storia che sia il fascismo sia l'antifascismo amarono presentarsi come la continuità del Risorgimento; entrambi traevano del resto le loro origini dall'interventismo della prima guerra mondiale che fu proprio inteso come secondo Risorgimento. Del resto molti maestri dell'antifascismo furono allievi di Gentile.


E mi preoccupa leggere Adriano Sofri che vede nel Sessantotto e nella minoranza costituente di Lotta continua le stimmate di un terzo Risorgimento: adesso capisco perché l'Italia è, se non morta, certo tramortita da vari decenni...


In terzo luogo non credo che sia saggio indagare sulle ragioni della triplice guerra civile che seguì al Risorgimento: quella tra ,cattolici e laici, quella tra meridionali e piemontesi e quella tra contadini e piccola borghesia urbana. Non si può avere un'immagine stucchevole e manichea del Risorgimento, bisogna pur chiedersi perché gran parte degli italiani furono o si sentirono fuori dal processo unitario.


E scelsero l'opposizione non solo cattolico-reazionaria ma anche socialista-rivoluzionaria contro "la patria di lorsignori". Proprio se abbiamo a cuore l'unità nazionale non possiamo far coincidere la volontà di una minoranza con il tribunale della storia (ah, questa visione giudiziaria della storia). Nessuno ha diritto di parlare nel nome della storia.


Dobbiamo pur chiederci poi perché il divario tra nord e sud crebbe anziché diminuirsi con l'unità d'Italia. Dobbiamo studiare la storia e non celebrare processi. Dobbiamo leggere e rinnovarci e non scrivere sulla lavagna i buoni e i cattivi.


A questo proposito vorrei ricordare una pagina del tutto dimenticata della storia postunitaria: la voglia di dividere l'Italia che animò molti illustri intellettuali e politici alla fine del secolo scorto, sulla base di ragioni razziste. Leggete le pagine di Cesare Lombroso per il quale "l'intero popolo del Mezzogiorno assume i connotati del delinquente atavico"; le pagine di Enrico Ferri secondo cui "la minore criminalità nell'Italia settentrionale derivava assai dall'influenza celtica"; le pagine di Alfredo Niceforo che scriveva: "La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc".


Leggete Giuseppe Sergi che ravvisava la differenza tra meridionali e settentrionali nella diversa conformazione del cranio. Perfino Turati divideva l'Italia in due civiltà.


Sapete che cosa avevano in comune questi intellettuali? Erano tutti anticattolici, positivisti, di sinistra, aderenti al socialismo. Se non credete, leggete il bel libro di Claudia Petraccone, Le due civiltà, edito in questi giorni da Laterza.


La polemica razzista, antiunitaria e antimeridionale, nasce in Italia a sinistra, tra i laicisti e i socialisti. Alla polemica di matrice biologica e culturale si univa la polemica elettorale, perché il sud votava in prevalenza per i moderati e il nord per i progressisti (il mondo si è capovolto: assisteremo a un razzismo all'incontrario?).


Infine, un'osservazione: da una parte sessantasei intellettuali in prevalenza di sinistra firmano un documento contro ogni tentativo di revisione seria o becera; dall'altra parte altri intellettuali di sinistra scrivono che "il revisionismo è di sinistra" (Angelo d'Orsi) e che i soli abilitati a criticare il progresso sono i progressisti (Claudio Magris). Insomma, per uno che di sinistra non è non c'è scampo: deve solo tacere, acconsentire o spararsi.

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