Sessantasei intellettuali in fila per sei col resto di zero hanno firmato un appello che è stato pubblicato ieri a firma d'Alessandro Galante Garrone come editoriale della Stampa. L'appello è in difesa del Risorgimento dopo le critiche emerse sull'onda di una mostra sul brigantaggio al meeting di Comunione e liberazione in Rimini.
Un appello che sarebbe in via di principio da condividere se
riguardasse la difesa del Risorgimento come evento decisivo e positivo
per l'unità nazionale. Ma la netta caratterizzazione polemica,
progressista e anticlericale del testo, l'uso di espressioni militanti
(come "provocazione", "aggressione", "rifluire di ideologie
reazionarie") e l'uso politico dell'antifascismo, finiscono con il
rovesciare il proposito dell'appello perché rimarcano la
spaccatura nazionale più che l'unità.
Così l'appello divide anziché unire gli italiani.
Sul Giornale e poi in un breve intervento sulla Stampa avevo anch'io
tentato una disincantata difesa del Risorgimento, sostenendo che la
revisione critica del nostro passato è necessaria e salutare, a
patto che non sia animata dal gioco allo sfascio e dalla volontà
di disunione. Per la stessa ragione mi pare giusto ricordare ai
sessantasei intellettuali tre o quattro cose.
In primo luogo è un errore storico e culturale far coincidere
l'identità nazionale con la nascita dello Stato italiano.
L'Italia non nacque il 17 marzo del 1861, ma molto prima: nasce nel
medioevo cristiano e nella romanità, cresce nel costume e nella
lingua italiana, si forma nel carattere nazionale.
Questo ricordava lo storico Gioacchino Volpe all'hegeliano Benedetto
Croce. E' sbagliato pensare che le identità, dei popoli
coincidano con gli Stati; è un'idea pedagogica e sottilmente
autoritaria. E lo dice uno che considera il senso dello Stato e il
legame con la storia patria due irrinunciabili risorse per una
comunità.
In secondo luogo non va dimenticato per la verità della storia
che sia il fascismo sia l'antifascismo amarono presentarsi come la
continuità del Risorgimento; entrambi traevano del resto le loro
origini dall'interventismo della prima guerra mondiale che fu proprio
inteso come secondo Risorgimento. Del resto molti maestri
dell'antifascismo furono allievi di Gentile.
E mi preoccupa leggere Adriano Sofri che vede nel Sessantotto e nella
minoranza costituente di Lotta continua le stimmate di un terzo
Risorgimento: adesso capisco perché l'Italia è, se non
morta, certo tramortita da vari decenni...
In terzo luogo non credo che sia saggio indagare sulle ragioni della
triplice guerra civile che seguì al Risorgimento: quella tra
,cattolici e laici, quella tra meridionali e piemontesi e quella tra
contadini e piccola borghesia urbana. Non si può avere
un'immagine stucchevole e manichea del Risorgimento, bisogna pur
chiedersi perché gran parte degli italiani furono o si sentirono
fuori dal processo unitario.
E scelsero l'opposizione non solo cattolico-reazionaria ma anche
socialista-rivoluzionaria contro "la patria di lorsignori". Proprio se
abbiamo a cuore l'unità nazionale non possiamo far coincidere la
volontà di una minoranza con il tribunale della storia (ah,
questa visione giudiziaria della storia). Nessuno ha diritto di parlare
nel nome della storia.
Dobbiamo pur chiederci poi perché il divario tra nord e sud
crebbe anziché diminuirsi con l'unità d'Italia. Dobbiamo
studiare la storia e non celebrare processi. Dobbiamo leggere e
rinnovarci e non scrivere sulla lavagna i buoni e i cattivi.
A questo proposito vorrei ricordare una pagina del tutto dimenticata
della storia postunitaria: la voglia di dividere l'Italia che
animò molti illustri intellettuali e politici alla fine del
secolo scorto, sulla base di ragioni razziste. Leggete le pagine di
Cesare Lombroso per il quale "l'intero popolo del Mezzogiorno assume i
connotati del delinquente atavico"; le pagine di Enrico Ferri secondo
cui "la minore criminalità nell'Italia settentrionale derivava
assai dall'influenza celtica"; le pagine di Alfredo Niceforo che
scriveva: "La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia
e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro
e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa,
dell'Australia, ecc".
Leggete Giuseppe Sergi che ravvisava la differenza tra meridionali e
settentrionali nella diversa conformazione del cranio. Perfino Turati
divideva l'Italia in due civiltà.
Sapete che cosa avevano in comune questi intellettuali? Erano tutti
anticattolici, positivisti, di sinistra, aderenti al socialismo. Se non
credete, leggete il bel libro di Claudia Petraccone, Le due
civiltà, edito in questi giorni da Laterza.
La polemica razzista, antiunitaria e antimeridionale, nasce in Italia a
sinistra, tra i laicisti e i socialisti. Alla polemica di matrice
biologica e culturale si univa la polemica elettorale, perché il
sud votava in prevalenza per i moderati e il nord per i progressisti
(il mondo si è capovolto: assisteremo a un razzismo
all'incontrario?).
Infine, un'osservazione: da una parte sessantasei intellettuali in
prevalenza di sinistra firmano un documento contro ogni tentativo di
revisione seria o becera; dall'altra parte altri intellettuali di
sinistra scrivono che "il revisionismo è di sinistra" (Angelo
d'Orsi) e che i soli abilitati a criticare il progresso sono i
progressisti (Claudio Magris). Insomma, per uno che di sinistra non
è non c'è scampo: deve solo tacere, acconsentire o
spararsi.
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