Le difficoltà che l’unificazione italiana incontrò nel Mezzogiorno dopo il compimento dell’impresa garibaldina e la proclamazione del Regno d'Italia furono. per molti aspetti, addirittura superiore a quelle che si erano dovute affrontare tra lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e la caduta di Gaeta.
Il cosiddetto brigantaggio fu soltanto una di tali difficoltà. Delle altre — amministrative, istituzionali, economiche, psicologiche, sociali — troppo spesso non si tiene tutto il conto dovuto.
L'uno fra quei due mondi cosi diversi anche dal punto di vista antropologo culturale, che erano il Nord e il Sud della penisola, fu quale doveva riuscire, e quale era facile prevedere che riuscisse per chi non avesse la mente e lo spirito dominati dalla meta dell'unificazione.
Fu, cioè, un urto violento. Se ne erano accorti gia i garibaldini durante la marcia da Marsala a Napoli. Basterebbe ripercorrere qualcuno dei loro diari o racconti della spedizione: quello, ad esempio, di uno straniero, il francese Maxime Du Camp, veramente esemplare nella tipologia dei giudizi che presenta rispetto al modo di essere e di vivere degli italiani del Sud: esemplare dei giudizi e dei pregiudizi, degli atteggiamenti e delle reazioni di un forestiero sorpreso, prima ancora che impressionato, di trovare tanta singolarità e arretratezza di costumi nella paese meridionale di un paese, che si pretendeva costituisse un’unica Nazione e dovesse formare un solo Stato.
«La questione di tener Napoli dipende, pare a me, soprattutto dai napoletani, salvo che non volessimo, per comodo nostro, mutare i principi che abbiamo banditi finora. Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi, e con questa massima, che io credo e che crederò sempre vera, noi abbiamo inviato più sovrani a farsi benedire.
I loro popoli non avendo punto protestato in alcun modo, si mostrarono contenti dell'opera nostra, e potè notarsi che s'eglino non davano il loro consenso ai governi precedenti, lo davano invece a chi gli succedeva. Cosi i nostri atti furono d'accordo coi nostri principi e nessuno può farci alcuna obiezione.
A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere it regno sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, nessuno vuole saperne di noi. Ma si dirà: e il suffragio universale? lo non so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai napoletani, un'altra volta per tutte, se ci vogliono, si o no».
È l'agosto del 1861; ad appena un anno dalla leggendaria spedizione dei Mille nel Mezzogiorno tutto è mutato: i giorni della marcia trionfale di Garibaldi favorita dai consenso delle popolazioni sembrano appartenere ad un'altra epoca; il Plebiscito, che ha visto 1.302.000 sì su 1.650.000 iscritti, è lontano. Con la vivacità del suo carattere, col moralismo che lo porta a giudizi privi di sfumature, Massimo d'Azeglio dice apertamente ciò che gli uomini politici non vogliono ammettere: il Mezzogiorno respinge l'unità, reagisse al nuovo regime col brigantaggio, esploso violentemente nella primavera estate del 1861.
[...]Per tutto un decennio l’intero Mezzogiorno d'Italia fu percorso da quel moto che con termine forse riduttivo fu definito del brigantaggio. Non si trattava di un semplice fatto di criminalità e sia pure di criminalità di vasta portata. Basti in proposito pensare al fatto che popolazioni di intere provincie vi si trovarono profondamente coinvolte.
Basti ricordare lo spiegamento di forze, davvero eccezionale, che lo stato italiano dovette impiegare per combattere il fenomeno e, almeno in una prima fase, l’accorrere da ogni angolo d'Europa dei nomi più altisonanti dell'aristocrazia legittimista (fossero cavalieri dell'ideale o cerveaux brutes), convinta che nei boschi di Basilicata e sui monti di Abbruzzo si combattesse la romantica lotta del diritto contro l'iniquità, della fede contro 1'ateismo.
Si ricordi, ancora, il vasto dibattito politico e pubblicistico che intorno a quel fenomeno si andò sviluppando e che in non pochi casi cerco, gia allora, di non rimanere alla superficie degli eventi ma comincio, se non altro, ad intravederne motivazioni più antiche e più profonde.
Per non dire di un'altra quasi altrettanto vasta letteratura, sviluppatasi, questa, più in Francia, paese in cui, ci ricorda Croce, è grande l’abilita « a camuffare e ad atteggiare teatralmente la storia, a sceneggiarla in drammatiche situazioni» (Croce, Il romanticismo legittimistico, in Uomini e cose delta vecchia Italia, Bari, 1927, p. 309), nella quale la figura del brigante veniva idealizzata fino a fame il campione della tradizione e della fede, dell'ordine e della legittimità.
Tutto ciò testimonia, se non altro, quanto il fenomeno sfugga alle facili etichettature; come risulti fuorviante ridurlo ad un gigantesco caso di criminalità di massa, o ad un puro episodio di reazione politica alimentata, o strumentalizzata, dalla corte borbonica in esilio.
La ricerca bibliografica condotta per l’allestimento di una mostra storica rappresenta un momento significativo di verifica per il dibattito, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni, sulla ricostruzione e l'interprelazione degli avvenimenti, l’uso delle fondi locali e il ruolo delle biblioteche pubbliche.
Correndo il rischio di essere schematici, il nocciolo di tale dibattito e il seguente: quale rapporto deve instaurarsi tra le storie locali e la storia generale?
Quale ruolo devono esercitare le biblioteche e il materiale da esse posseduto nelle ricerche?
Pur attraverso una grande varietà di posizioni si può dire che, dal dopoguerra in avanti, si siano sviluppate in Italia orientamenti di ricerca tesi a superare la rigida distinzione tra storia politica generale e storie settoriali, geograficamente limitate e di gruppi sociali o di eventi particolari.
Tale distinzione confinava sistematicamente le «storie» minori nel campo d'interesse della curiosità erudita e della filologia spicciola; ciò che rendeva le biblioteche locali, il più delle volte, degli strumenti di esclusiva conservazione che, nel migliore dei casi, erano conosciute solo da un ristretto numero di studiosi.
Il cambiamento avvenuto nella ricerca storica, sulla scia dell'introduzione di nuove metodologie, come quella della scuola francese delle «Annales», si è riflesso in modo decisivo anche sulle biblioteche che, riemerse dal campo della pura conservazione, si trasformano da ausiliarie della scienza storica in strumenti decisivi da sfruttare in tutta la loro ricchezza.
di Maria Antonella fusco
La ricerca di documenti visivi sul brigantaggio meridionale dopo 1'Unità d’Italia ha riservato a chi scrive, nel corso di tre anni, molte sorprese, sfatando tanti luoghi comuni sul rapporto arte società nel corso del secolo XIX. Sono entrati in campo documenti d'ogni tipo, dai dipinti alte fotografie, dalle caricature per i giornali alle incisioni, satiriche e di traduzione: ed ognuna delle duecento immagini che il visitatore potrà esaminare, poneva quesiti nuovi, cambiamenti di rotta per tesi gia intraprese, e spesso confondeva, più che arricchire, il tranquillo campo di una consueta indagine iconografica.
Stentavano, le opere, a trovare la loro casella negli schemi storico-artistici tradizionali, cosi come in questa mostra stentano a recuperare uno spazio che non vuole essere solo di corredo iconografico ai documenti e ai libri, a riacquistare cioè il proprio spazio all'interno delta storia.
Cosi, il tentativo di rintracciare un filo conduttore tra le diverse esperienze visive che espressero a vari livelli una «iconografia del brigantaggio politico », non e risultato impresa facile, proprio perchè tale iconografia, di fatto, non ebbe fisionomia unitaria, ma piuttosto, attraverso una serie di segmenti visivi, presento una situazione problematica: il ruolo delle arti visive, vecchie (la pittura), relativamente giovani (l’illustrazione), e giovanissime (la fotografia) di fronte all'urgenza storica e politica; di fronte all'irruzione della attualità, (e di una attualità cruenta, difficile, che spaccava in due il Mezzogiorno), nei tradizionali mezzi di comunicazione.
Libera, autonoma, forte di uno spazio che si era conquistata in Francia dalla Monarchia di Luglio in poi, gratificata dalla presenza tra le sue fila di un Honorè Daumier, dal retaggio dell'esperienza di Hogarth, ma soprattutto diffusissima, capace ogni giorno di presentare ai suoi spettatori una lettura immediata, facile, gia «incanalata», dei fatti: la caricatura.
270
Nelle intenzioni dell'anonimo artista, che si ispira ai modi di Giuseppe Bonolis, ma accentuando un profilo accademico purista influenzato dall'arte del Mancinelli (e l’opera ha il tono di un saggio d'accademia), è la celebrazione dell'eroismo della Guardia Nazionale.
Quest’Italia ancora non turrita, non retorica, è figura popolare. abbigliata come una borghese, con la bandiera sabauda raccolta tra le mani in segno di lutto.
Anche in questo caso l'elemento melodrammatico è predominante: l'eroico ufficiale e steso sul proscenio, illuminato artificiosamente da sinistra, mentre sullo sfondo un gruppetto di figure forse di briganti, in fuga, e le montagne — Sannio, Matese, Irpinia, o Gran Sasso? — ricordano che questa non è una guerra di eserciti, ma una guerra intestina alla società meridionale.
Nonostante la retoricità estrema del tema, dunque, siamo di fronte ad un'opera realizzata «a caldo», in anni non posteriori al 186-62, e almeno nelle intenzioni dell'artista, ad una sincera testimonianza politica in favore delle forze unitarie.
m.a.f
282
L'Italia, ormai grande Nazione (ha recuperalo infatti statura e configurazione simbolica, con la tradizionale immagine — di derivazione purista — in vesti di donna «turrita»), allontana con fermezza una schiera di briganti, nani e deformi, dal suolo patrio, mentre Bombicella e Pio IX fuggono insieme.
La raffigurazione dei briganti con orride deformità fisiche, che vogliono probabilmente ricordare gli esempi fiamminghi di Bruegel (La caduta dei ciechi), insieme alla didascalia, in cui essi vengono definiti «sciagurati», e viene loro negato il diritto di chiamarsi «figli d'Italia », costituiscono una chiara anticipazione dell'atteggiamento, diffuso a livello di massa dai mezzi d'informazione settentrionali nei confronti del Sud dopo l'Unità, atteggiamento che rasenta a tratti il razzismo.
f.d. m.a.f.
Ai
sensi della legge n.62
del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del
materiale e
del web@master.