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Fonte:
L’Alba della Piana - Luglio 2009 - Pag. 37

IL «BRIGANTE» SONNINO

La tragica fine di Giuseppe Pronestì: feroce criminale o ingenuo vendicatore?

Giovanni Mobilia


Si chiamava Giuseppe Pronestì, ma tutti a Maropati lo conoscevano come il Sonnino. Fu uno degli ultimi personaggi calabresi a cui il popolino, fantasticando, diede l’appellativo di Brigante, sinonimo di astuto, feroce e prestante.

E da brigante, visse e concluse le sue imprese nella valle del fiume Eja, a due passi dalle limpide acque della sorgente Vera, nella notte del 15 novembre 1888.

Figlio del capraio Michelangelo e della filatrice Fortunata Galluzzo, Giuseppe era nato il 28 febbraio 1860 e presentato lo stesso giorno davanti al sindaco di allora, Raffaele Cordiano, dalla levatrice Rosa Pochiero per essere registrato all’anagrafe, come si evince dal certificato di nascita.

Secondo quanto viene riportato da Domenico Dimoro, nipote della Guardia municipale del tempo1, al Pronestì, il sindaco di allora, il cavaliere don Antonio Guerrisi, aveva promesso un posto di lavoro come campestre nelle terre di Luigi Cordiano, un ricco proprietario del luogo.

Pieno di speranza, il giovane si presentava puntualmente in municipio, più volte la settimana e, ogni volta, riceveva da don Antonio assicurazioni certe di un’imminente assunzione.

Un giorno, però, confidandosi con alcuni amici, venne a sapere che il posto di guardiano era già stato assegnato a un altro maropatese, molto vicino politicamente all’amministrazione comunale. Pieno di rabbia, Giuseppe si precipitò alla Casa Comunale e, preso di petto il primo cittadino, si sentì rispondere che i posti di lavoro erano prima di tutto riservati ai figli degli onesti garibaldini e non dei filoborbonici ai quali il Pronestì apparteneva.

«E perciò avete passato il mio posto ad un altro? E già, mio padre era borbonico!...» esplose carico d’ira il giovane Peppino.

Il Cavaliere non ebbe il tempo di ribattere perché fu raggiunto da una raffica di pugni e calci che lo lasciò a terra mezzo morto.

«Comunque – disse il Pronestì, rivolto ai pochi spettatori – non finirà qui...gliela farò pagare cara!».

Appena si riprese, il Sindaco chiamò la guardia municipale Domenico Dimoro2, un uomo dall’aspetto possente, che camminava sempre con una grossa pistola alla cintola. Era questi, oltre che l’unico rappresentante locale della Legge, anche il proprietario dell’osteria e colui che provvedeva la sera ad accendere i lampioni per le strade.

Il Dimoro raccolse la denuncia del Sindaco e la passò al Comandante della Stazione dei Carabinieri di Cinquefrondi, il brigadiere Larussa.

Questi, aiutato dal sottotenente del Comando di Cittanova, un certo Cappellari, riuscì, grazie (pare) al tradimento di un servo della famiglia di Luigi Cordiano, un tale Alì, proveniente da Mammola, a catturare il giovane che si era dato latitante.

Mentre lo conducevano in catene al carcere di Palmi, Peppino giurò sul suo onore che si sarebbe vendicato: «Quando uscirò, li ammazzerò come cani, tutti e tre: Guerrisi, Dimoro e Alì!».

Non molto tempo dopo uscì dalla galera e, per mantenere fede a quanto promesso, invece di tornare a casa, s’insediò nella fitta vegetazione sopra il fiume Eja. Da lì si spostava, facendo delle brevi incursioni in paese, per lo più minacciando la tremenda vendetta che si stava per abbattere sui tre meschini.

In un libello del 1888 a firma Conte di Riva, ma attribuito al notaio di Maropati, Giuseppe Umberto Cavallari3, si precisa, forse esagerando, che per precauzione il sindaco Guerrisi non uscì più da casa, nemmeno per firmare i documenti ufficiali, e si faceva portare le carte a domicilio, dove aveva adibito una stanza per tenervi il Consiglio Comunale4.

Il sottotenente Cappellari, amico del Guerrisi, intensificò le battute di giorno e di notte.

Giuseppe Pronestì, divenne in breve tempo l’ineffabile Sonnino e, come accadde, una decina d’anni dopo, anche per Peppino Musolino, il popolino cominciò a prenderlo in simpatia, proteggendolo, così che vane si mostravano tutte le ricerche.

Ancora oggi, i nostri vecchi raccontano le gesta del Sonnino, come le avevano sentite dai loro nonni, e di come le donne che lavavano i panni alla fiumara, lo nascondevano nelle grandi ceste o sotto le ampie sottane. I carabinieri passavano, guardavano, domandavano...ma ogni tentativo era vano.

Una mattina, infine, il Pronestì decise di dare inizio alle vendette.

Si appostò davanti all’uscio dell’Alì e lo freddò con una scarica di lupara.

La sera, per nulla intimidito dalla massiccia presenza in paese delle Forze dell’Ordine, si nascose in un vicolo dietro la chiesa, vicino all’osteria della guardia municipale, Domenico Dimoro.

Questi, fiutando il pericolo, da uomo scaltro qual era, nel camminare teneva il lume con la mano tesa, distante dal corpo.

Tale precauzione gli salvo la vita.

Il Sonnino, infatti, mirò al lume, supponendo che dietro ci fosse il corpo del Dimoro. Lo sparo echeggiò nel silenzio della notte; la rosa di pallettoni frantumò la lanterna e si conficcò nel muro, sfiorando appena l’uomo.

Il giorno dopo il Pronestì fece sapere a Domenico Dimoro che si riteneva soddisfatto e che se il Cielo lo aveva lasciato vivere nemmeno lui avrebbe più infierito.

Toccava ora al Sindaco Cavaliere.

Don Antonio Guerrisi si armò fino ai denti e non uscì più da casa se non accompagnato dall’amico sottotenente e dal brigadiere Larussa.

Come se ciò non bastasse, pare che il ricercato la sera non disdegnasse di tornare in paese e pranzare con gli amici innaffiando le vivande con abbondante vino di Pescàno5.

Fu una di quelle sere che tornando tra i boschi, mezzo brillo, incontrò tra i vicoli del paese il figlio del Sindaco, il giovane Raffaele Guerrisi.

Visto il latitante che, con la faccia tosta, passandogli accanto, lo salutò con un sarcastico «Vossignoria illustrissima!», si senti salire il sangue alla testa.

«Fermo, ti dichiaro in arresto!» proruppe brandendo il fucile che portava a tracolla.

Giuseppe Pronestì, per tutta risposta, cominciò a scappare. Il Guerrisi sparò, ma non centrò l’avversario che continuò a scappare.

Poi, in un impeto di coraggio, strappò la scure a un passante e inseguì l’uomo. Lo raggiunse e cominciò a colpirlo alla testa e al braccio. Infine, credendolo morto, corse a chiamare gente.

Il Sonnino, anche se ferito si alzò e, giurando atroce vendetta contro la dinastia dei Guerrisi, ritornò tra le aspre balze di Vera6.

Passò l’estate e arrivò l’autunno piovoso del 1888. Da qualche tempo il Brigante dormiva con un pastore del luogo, Pasquale Nasso, che considerava come un amico fidato, più che un fratello.

Il pastore, in un primo tempo, aveva sparso in paese la voce che Giuseppe Pronestì non era più latitante, ma che si trovava oramai da un pezzo in Argentina. Ciò gli era valsa la stima del fuggiasco, anche se le Forze dell’Ordine, invece di abbandonare l’impresa di acciuffarlo, si fecero più presenti sul territorio.

A poco a poco, però, il collega pecoraio cominciò a temere e un giorno confidò a due carabinieri in perlustrazione che, contro la sua volontà e con la minaccia delle armi, il famigerato brigante aveva preso possesso della sua capanna.

Fu così che la notte del 15 novembre, quattro carabinieri e il brigadiere Larussa accerchiarono il pagliaio del pastore.

Il Sonnino, allarmato dall’abbaiare di una cagna, uscì allo scoperto disarmato, scalzo e in maniche di camicia. Capì il tradimento... cercò la fuga, ma fu raggiunto da quattro colpi di fucile esplosi dal carabiniere Faustinelli.

Ormai in fin di vita, venne caricato su di un mulo e portato in paese.

La notizia, intanto, era giunta alle orecchie del Sindaco che fece allestire il giaciglio su cui deporre il morente Pronestì: «…Ora lo sventurato Sonnino stava steso e quasi agonizzante su un giaciglio di piante di rovi, cioè di spine, in una stanza del municipio. Giaciglio che il Sindaco, dopo aver invitato ad un prossimo pranzo i principali esecutori dell’annientamento del fuorilegge, aveva ordinato ad alcuni suoi tirapiedi di andare a falciare alcuni mazzi di quelle piante per fargliene un bel letto»7.

L’episodio viene ignorato nel libello del notaio Cavallari che si preoccupa di trasmettere ai posteri un evento altrettanto deplorevole, se dovesse risultare veritiero: «Il mattino successivo, quando il cadavere del Pronestì era per essere portato alla baracca, che si appella Camposanto, dove aveasi a farne l’autopsia, il sindaco disse che voleva veder ancor una volta il suo amato Pronestì.

E mentre pochi, di sulla porta, guardavano l’uomo che si era ad arte dipinto come il terrore del circondario; mentre i due carabinieri di guardia attendevano altrove, don Antonio Guerrisi, il Sindaco valoroso, tirò un calcio a quel freddo cadavere e sogghignando ferocemente uscì sulla via...»8.

Dal certificato di morte si appura che Giuseppe Pronestì, di anni ventotto, morì alle ore due pomeridiane del sedici novembre nella casa posta in Via Consorzio.

Tale casa poteva essere proprio quella comunale oggi appartenente alla famiglia di Cesare Scarfò, descritta nel manoscritto Galatà-Visalli:

«La via principale, acciottolata con due fasce di lastroni nel mezzo, si dirige verso nor-nord est, col nome di Via del Consorzio, allargandosi nella piazzetta del Consorzio dove è la Chiesa parrocchiale; e più avanti si lascia a manca il Municipio, indi a diritta la Chiesa di Santa Lucia»9.

Di tutt’altro tenore è la cronaca apparsa sul Corriere di Palmi del 2 dicembre 1888. In essa l’anonimo redattore (che si firma con una N), così descrive il Sonnino: «Quest’uomo, allevato fra le montagne, raggiunto i 28 anni, spiegò una audacia incredibile. Sospettoso per natura e cattivo di animo, portava l’improntitudine del bandito nell’insieme del suo personale piccolo, tarchiato. Aveva colorito bruno, fronte stretta, capelli ricci e neri, occhi sfavillanti e feroci.

Più volte arrestato dai Carabinieri della stazione di Cinquefronde per furti commessi, alla fine era stato condannato a tre anni di carcere sotto l’imputazione di assassinio consumato in persona di Monteleone Giuseppe pure capraio e nel mentre che l’infelice dormiva.

Scontata la pena pei reati di furto, nella scorsa primavera ritornava libero in queste contrade, non domato e più fiero di pria; quando negli ultimi di giugno e primi di luglio decorsi, si rendeva reo di altri tre assassinii, cioè: uno mancato contro Dimoro Domenico, uno consumato contro Alì Giuseppe che freddò innanti alla propria casa, ed uno tentato contro il signor Guerrisi Raffaele (…). Consumati tali gravi reati di sangue, egli armato di due fucili, di pistola e di pugnale, lasciavasi scorgere or nell’uno or nell’altro punto, sopra le più alte vette delle montagne, fra inaccessibili dirupi dove ogni sforzo, onde giungere al suo arresto, dall’egregio Brigadiere dei Carabinieri signor La Russa Alessandro e dei suoi Carabinieri di Cinquefronde, tornava senza effetto.

Il bravo Sottotenente dei RR. Carabinieri di Cittanova, signor Cappellari Eustachio, che avea la direzione del servizio, sfidando le intemperie fra ripide montagne, in mezzo al fango ed in luoghi alpestri… si è visto dietro le tracce del bandito arrampicarsi su quei disastrosi dirupi…con coraggio ed ardore ammirabili. Mercè la febbrile solerzia di quello egregio ufficiale e dei lodati Brigadiere La Russa e Carabinieri della stazione di Cinquefronde, e colla stancabile cooperazione dei solertissimi signori Guerrisi Cav. Antonio Sindaco di Maropati e Caristo A. Pretore di Cinquefronde, in breve i latitanti che si aggiravano in questi contorni furono quasi tutti assicurati alla giustizia.

Rimaneva solo il truce assassino Giuseppe Pronestì, e costui verso la mezzanotte del 15 corrente sotto una dirotta pioggia venne pure da loro sorpreso fra gli inaccessibili dirupi della montagna Vera, dove, alla voce del Brigadiere e dei Carabinieri sudetti di arrendersi, egli, uscendo da una capanna, rispose a colpi di arma da fuoco. I bravi militari risposero col fuoco e l’infelice cadde gravemente ferito, rimanendo così in potere della giustizia. Ma la giustizia divina venne pure a passare sul disgraziato perché, trasportato dal punto dell’avvenimento a Maropati, cessava di vivere».

Seguono gli elogi del cronista al Sottotenente Cappellari, al Sindaco di Maropati e al Pretore di Cinquefrondi.

Dove sta la veridicità? Probabilmente, come la virtù, anche la verità sta nel mezzo e, prima che affiori, come una verde piantina, occorre aspettare che arrivi il suo tempo, con pazienza e tolleranza, curando l’arte della riflessione e del discernimento, aiutati dai documenti, ma ricordando che anche le carte sono opera di uomini, soggetti alle passioni e ai moti, spesso capricciosi, di quel travaglio intimo che ci rende fragili umani.

A titolo di cronaca, esattamente un anno dopo la morte del Sonnino, il carabiniere Faustinelli che aveva ferito mortalmente il Pronesti, venne trovato cadavere, ucciso da un colpo di fucile.

Note:

1 D. DIMORO, Al mio Paese tanti anni fa, in Racconti della Calabria, Tip. Santoro, Taranto, 1976.

2 Nonno del cronista.

3 LEGGETE E MEDITATE…GLI SCANDALI DI MAROPATI Denunziati dal Conte di Riva (Giulio Moro) Da Lugano, Napoli, 10 gennaio 1889.

4 Pare che il Guerrisi era solito amministrare il Comune dalla propria abitazione, in quanto afflitto da una grave forma di gotta che lo limitava nei movimenti. Da ricerche effettuate presso l’Archivio Storico Vescovile di Mileto, in effetti, si riscontra una vasta corrispondenza tra il sindaco e il vescovo, nella quale don Antonio chiedeva ripetutamente al Pastore diocesano il permesso di poter adibire alcuni locali della propria abitazione a oratorio e di permettere ivi la celebrazione della S. Messa, essendo impossibilitato a recarsi in chiesa a causa della gotta (Cfr. Archivio Storico Vescovile di Mileto Fasc.

Chiese).

5 Rinomata contrada rurale di Maropati.

6 Questa la versione riportata dal notaio Cavallari, allora rivale politico del Guerrisi; da fonti ufficiali, invece, risulta un’accusa per tentato omicidio nei confronti del figlio del sindaco.

7 D. DIMORO, op. cit., pag. 12 8 LEGGETE E MEDITATE…op. cit., p. 26.

9 M. GALATÀ – V. VISALLI, Il Comune di Maropati, datt. Inedito.


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