La guerra partigiana, vale a dire la "guerriglia" condotta da bande organizzate di combattenti come strumento offensivo e difensivo di lotta nazionale e popolare, fu uno dei temi centrali di discussione negli ambienti patriottici italiani dall'inizio della Restaurazione al compimento dell'Unità.
La ricerca storica ha ricostruito in maniera esauriente questi
dibattiti e prese di posizione che vennero inizialmente sollecitati
dalle buone prove date dalla guerra per bande nelle insorgenze
calabresi del 1806-1808, nella lotta di liberazione dei greci dal
dominio turco e soprattutto in Spagna nel 1808-1813, quando essa
inferse duri colpi alla macchina militare napoleonica, e che furono
caratterizzati dagli interventi - fra gli altri - di alcuni dei
protagonisti della democrazia risorgimentale, quali Carlo Bianco di
Saint Jorioz, Giuseppe Mazzini e Nicola Fabrizi1. In queste poche
pagine, quindi, ci si limiterà a proporre due testi rimasti
sconosciuti, non certamente con l'intenzione di modificare il quadro di
insieme, ma soltanto per confermare la larga risonanza che il tema
della "guerriglia" per bande ebbe nella fase centrale del nostro
Risorgimento.
Il mezzogiorno, e la Sicilia in particolare, erano state considerate da
una parte cospicua del movimento democratico - e basti pensare alla
Legione italica di Fabrizi o alla spedizione dei Bandiera - come la
sezione del paese più favorevole per avviare l'iniziativa
rivoluzionaria. È quindi comprensibile che, in un ambiente come
quello siciliano, oggetto di particolare attenzione a iniziare dei moti
del 1837 da parte dell'organizzazione creata dal modenese (il quale
avrebbe voluto farne il braccio armato della Giovine Italia, votato
alla creazione di bande da gettare su un terreno ritenuto pronto per la
deflagrazione), ci fosse chi nel corso della rivoluzione isolana del
1848 pensasse proprio alla guerra partigiana come lo strumento migliore
per difendere la Sicilia contro un esercito borbonico che vi fosse
sbarcato in forze per la riconquista. A indicare questa prospettiva fu
Girolamo Castelli, primo tenente del battaglione Girgenti, che
stampò a Trapani alla fine del 1848 (a spese, come si legge nel
frontespizio, "della Guardia Nazionale, ed altri benemeriti cittadini")
alcune pagine intitolate Della guerra nazionale offensiva e difensiva,
da eseguirsi dalla Sicilia in una invasione straniera2.
L'opuscoletto, che per la parte tecnica dipende in tutta evidenza dai
noti scritti dedicati da Bianco di Saint Jorioz e da Mazzini al tema
della guerriglia, partiva dalla constatazione - di prammatica in questa
tipologia di scritti - della mancanza nella Sicilia fattasi
indipendente di una "truppa regolare" da poter opporre all'armata
napoletana; e proponeva quindi di fare ricorso alla "guerra alla
spicciolata per bande", premurandosi di richiamare subito dopo gli ovvi
precedenti spagnolo e greco: "Questa guerra... fu praticata sì
bene dai Suliotti greci moderni... [che] dando prove di valore,
intrepidezza, sofferenza a tutte le privazioni, ... acquistarono la
loro libertà. Guerra che la Spagna con le sue bande, fecero
[sic] del loro suolo la tomba dei francesi per sette anni di continuo".
Subito dopo il Castelli metteva in evidenza quelle che a suo avviso
erano le condizioni particolarmente favorevoli offerte dalla Sicilia
per la guerra "alla spicciolata": condizioni che venivano così
tratteggiate in una pagina che vale la pena di riprodurre integralmente
sia perché costituisce il nucleo centrale dell'intervento, sia
perché dà un'idea del faticoso periodeggiare dell'autore,
che si ispirava assai probabilmente al modello puristico della
scrittura del Bianco di Saint Jorioz.
Essendo coperta questa Isola da fiumi, laghi, foreste, colli, monti:
gli abitanti dei quali sono i soli, che dei tortuosi giri, e coperti
andirivieni, di quei dirupati burroni, di quelle balze alpestri, di
greppi inaccessibili, in profondissimi precipizi terminati, delle
vaste, ed intrigate selve, degl'incavati, e bassi sentieri da
spinosissime macchie coperti, delle incerte traccie, onde passare nei
profondi ampi, e nere paludi, chiane, stagni, e lagumi, il segreto
posseggono: il nemico, che non mai potrà perfettamente
conoscerli, saranno capaci di contenere, e distruggere;
imperciocché non conoscendo il nemico le strade, e la
località del Paese, se si ostina penetrarvi, sarà sempre
circondato, e distrutto, sia che marci in ordine serrato, o compatto,
perirà, tanto per la difficoltà del terreno, come pel
pericolo che corre il soldato, se isolatamente si stacca, si
troverà continuamente circondato dagli abitanti, e bande, che
dalle più erte vette, vedono le loro mosse, e se la perseveranza
del nemico cerca occupare le sommità, si avrà l'agio
potergli gettar addosso, massi per ischiacciarlo, e si avrà il
destro portarsi in altri luoghi per strade note a loro solamente.
Questa spedizione di niuno effetto diverrà con la periodica
distruzione dei suoi soldati, con assottigliargli continuamente le
file.
L'autore dello scritto insisteva anche sul carattere "nazionale" del
modo di guerreggiare proposto, perché solo l'"amor della patria"
e la "forte decisione a sagrificarsi per la felicità, e la
gloria del suo Paese" avrebbero potuto portare alla vittoria, alla fine
di una lotta dura e sanguinosa da condurre con le modalità
canonizzate da una lunga tradizione teorica e pratica. Le bande,
composte da dieci a sessanta uomini e guidate da capi capaci, intrepidi
e dal "cuore severo, inaccessibile a pietà", alle dipendenze di
un "condottiero supremo", avrebbero dovuto adottare un "sistema
generale" mirante a recidere le comunicazioni, i "raggi" del nemico fra
centro e periferia, con l'impiego di tutti i mezzi consigliati
dall'esperienza: rompere strade, far saltare in aria i ponti,
distruggere forni e mulini, avvelenare le acque dei pozzi e delle
fontane, incendiare se necessario borghi e villaggi, così da
fare terra bruciata intorno all'avversario. Era poi consigliabile per i
corpi partigiani evitare gli scontri frontali, e logorare invece il
nemico con "continue scaramucce, assalti continuati..., imboscate, e
stratagemmi", "inquietarlo nella sua marcia", attaccarlo di sorpresa da
posizioni vantaggiose. "L'arte della guerra alla spicciolata - questa
la prospettiva conclusiva - consiste nel comparire sulla fronte del
nemico, sul fianco, alle spalle, e quindi scomparire, nel farsi vedere
inaspettatamente ora sull'una vetta, ora sull'altra, tenendo sempre a
bada l'avversario molestato, e confuso: onde avviene, che le continue
marce, e contromarcie, e ritirate debbono esser quelle, che finalmente
a quel condottiero daranno la causa vinta, che saprà con
accortezza, velocità e prontezza portare ad effetto".
Il secondo documento su cui ci si soffermerà è di qualche
anno successivo: si tratta di un librettino pubblicato nel 1853 con
l'indicazione "Italia" come luogo di stampa e il titolo Della guerra
d'insurrezione, posto tra la dicitura "Partito d'azione" e due
citazioni, una del IX Salmo biblico e l'altra su uno scritto di Mazzini
che suonava: "L'Italia è matura per l'azione; ogni indugio
è disonore e rovina al partito: è tempo in un modo o in
un altro di fare".
Lo stampato, qualora ci si limitasse al frontespizio, potrebbe quindi
essere preso per una pubblicazione del mazziniano Partito d'azione
costituito dal rivoluzionario genovese subito dopo il fallito tentativo
insurrezionale del 6 febbraio 1853; ma già prima di percorrere
le sue pagine è sufficiente il nome dell'autore, indicato a
chiare lettere in Giuseppe Lucarelli, ad avvertire il lettore che in
realtà si è in presenza di un prodotto di parte
reazionaria, e della più estrema. Infatti Lucarelli, un nativo
di Gubbio di professione ingegnere, si era messo dal 1822 al servizio
delle autorità pontificie, svolgendo un'attività
provocatorio-spionistica ai danni degli oppositori liberali
dell'autocratico governo papale, come egli stesso lasciava intendere in
qualche pagina di un altro suo scritto, Le spie, anch'esso edito nel
18533. La tesi di fondo di questo libro era che molti dei capi del
movimento nazionale - liberali o democratici che fossero - avevano
svolto un'opera di delazione o di spionaggio contro i loro compagni di
fede, definiti di volta in volta "satelliti di Catilina", "setta
antisociale", "macchinatori instancabili contro l'Altare ed il Trono",
soliti usare nelle loro trame "le falsificazioni di monete, di chiavi,
di scritture; le aggressioni, le grassazioni, le rapine, le
propinazioni di veleno, le uccisioni proditorie; e perfino il
manutengolismo, il borseggiamento coordinati, architettati, lavorati
nelle officine della umanitaria liberalesca fratellanza, maestri
Belzebù ed Uriele"4. E l'autore così presentava se
stesso; "Sono uno che A mie spese, ... ho viaggiato fino dalla prima
gioventù per tutta Italia Non per fare la spia, ma per comprare
le spie a vantaggio de' Sovrani che adoro, pel bene delle pacifiche
popolazioni che sono il prossimo mio"5. E grazie a questa sua malefica
operosità Lucarelli - a suo dire - poté fornire alle
autorità di polizia e giudiziarie dello Stato pontificio
informazioni e materiali che compromisero molte persone e resero
possibile i procedimenti penali intentati a loro carico negli anni
precedenti l'avvento al soglio di Pio IX sia nelle Legazioni che nelle
Marche6.
La carriera spionistica di Lucarelli fu però troncata dagli
avvenimenti del 1848-49 a Roma; divennero allora infatti accessibili a
uomini di parte liberale e nazionale molte carte della polizia segreta
vaticana7, e tra l'altro documenti che mettevano in luce il ruolo di
agente della polizia svolto dall'ingegnere eugubino. Costretto per
questo a lasciare l'Italia, il nostro personaggio si recò a
Malta, dove fissò la sua dimora, collaborando a qualche giornale
locale (come "L'Ordine") e dedicandosi a una intensa attività
pubblicistica, naturalmente di senso reazionario, e con toni che
richiamano quelli del principe di Canosa8.
Tornando ora allo scritto Della guerra d'insurrezione, esso si
configura come un attacco virulento contro il movimento nazionale, con
le tinte fosche tipiche di tanta parte della letteratura
controrivoluzionaria e reazionaria, e con un registro stilistico che si
rifà alle scritture bibliche. Le società segrete
risorgimentali sono descritte come un "raccogliticcio di uomini, senza
patria, senza fortuna , senza modestia ... ricchi di tutti gli
obbrobriosi vizi del secolo... sempre pronti a tradire, a conquassare,
a spogliare a man salva", e ancora, come "una verminosa mandria di
atei, che sfida impudente la Divinità!!! un contagioso ammasso
di eterogeneo che congiura alla distruzione del creato!!!"9. E per dare
un'idea più viva del linguaggio e dei toni del libello, che
raggiungono a volte una veemenza ossessiva, sarà utile riportare
qualche brano relativo a Mazzini, così ritratto con sembianze
ferine e deformi insieme a Kossuth e Ledru Rollin (fondatori con il
genovese del Comitato democratico europeo) in una visione dai toni
apocalittici:
E vidi... tre uomini in sembianze di belve... Ciascuno di costoro avea
una faccia di gatto e una faccia di lupo con barba di caprone - Ardevan
gli occhi loro siccome fiaccole - Mostravano sulla fronte... le sette
strisce di sangue, marca dei sette peccati mortali - I capelli loro
erano serpenti. Aveano le mani come gli artigli del falco, come le
unghie del gatto, come le zampe della pantera. I loro piedi erano come
quelli del caprio - E dai calcagni alle spalle sporgean loro due grandi
ali di pipistrello... Ed erano mostri così orribili a vedersi
che senza il conforto di Dio non avrei potuto sostenerne la vista10.
Al solo Mazzini era poi dedicato questo ritratto specifico, che
costituisce una delle pagine più aberranti della pubblicistica
antimazziniana:
Un mostro non nato di donna ... ma sbucciato dalla putredine dei
lupanari nel laberinto di Genova... un ladrone vilissimo... una carogna
fetente... un asino con umane sembianze... che ha la sfacciataggine di
parlare come se fosse un Eroe!!!...
E questo cane da pagliaro, grondante fetida lue, abbaia idrofobo per
adunare i più affamati dei cani, ad avventarsi su di noi...
Il saccheggiatore di Roma... l'organizzatore degli assassinii... il
coraggioso che urla - ruba - e si nasconde... il bestemmiatore dei
bestemmiatori... strombetta - ordina - dispone... millanta generali -
capitani - eserciti11.
Dinanzi alla minaccia rappresentata dagli eversori dei troni e degli
altari, Lucarelli additava ai difensori dei principi e della religione
il dovere della mobilitazione per opporsi al nemico, utilizzando i suoi
stessi strumenti e metodi di lotta. I rivoluzionari, impossibilitati a
"insorgere dal centro alla circonferenza", come aveva dimostrato il
fallimento del moto milanese del 6 febbraio 1853 (che aveva cambiato
"in lutto il carnevale della infelice Milano", si diceva nel pamphet)
avrebbero infatti - avvertiva l'opuscolo - cominciato "a tribolarci
dalla circonferenza al centro"12. E Lucarelli che si dimostrava bene
informato sulla propaganda di parte democratica13, aveva colto bene il
senso della svolta operata in quei mesi da Mazzini in tema di rapporto
fra bande e insurrezione popolare. Fino all'inizio del 1853 il genovese
aveva infatti concepito le bande come un mezzo da utilizzare quale arma
di difesa soltanto dopo che una prima insurrezione vittoriosa avesse
dato ai rivoluzionari il possesso di una porzione più o meno
vasta del territorio nazionale, con il controllo di città,
arsenali e caserme. Ma dopo l'esito infelice del tentativo del 6
febbraio 1853 Mazzini - convinto, nonostante l'insuccesso, che l'Italia
fosse ormai matura per l'azione decisiva - aveva giudicato che fosse
ormai venuto il tempo di dar fuoco alle polveri in un punto qualsiasi
del paese, perché anche un'iniziativa su scala ridotta e locale
avrebbe potuto provocare un'esplosione generale. E in questa mutata
prospettiva la funzione di miccia era attribuita alle bande, la cui
comparsa in uno o più punti del suolo nazionale avrebbe dovuto
avviare un meccanismo insurrezionale imperniato su operazioni condotte
dalla circonferenza al centro, convergendo "da molti punti secondari al
punto decisamente importante, minacciandolo lentamente ma
incessantemente"14. Così che le bande nella nuova strategia
mazziniana non erano più lo strumento tecnico di un'insurrezione
già affermatasi e fattasi "governo" in un determinato ambito
territoriale, ma l'abbrivio dell'insurrezione stessa, il suo
"apostolato armato".
Se così stavano le cose, argomentava dunque Lucarelli, mentre le
truppe dei principi si sarebbero incaricate di soffocare eventuali
"insurrezioni dal centro alla periferia", i partigiani dell'ordine e
della religione - i quali date le disposizioni di animo dei contadini
costituivano la grande maggioranza del paese - avrebbero dovuto
organizzarsi "con fede veramente cristiana" per prevenire e spegnere
"le insurrezioni dalla circonferenza al centro", adottando le tattiche
e gli accorgimenti di una vera e propria controguerriglia, i cui
procedimenti erano così prospettati in una pagina truculenta e
belluina:
Un bastone nodoso - due metri di funicella infilata in due cavicchie di
legno - una scatola di cerini fosforici un pugno di stoppa, sono armi
più che bastanti per noi.
Né i drappelli nostri avranno più di sei uomini... al
primo, e più piccolo movimento di queste birbe, che si aggirano
fra noi... che bene conoscete... una bastonata in testa - una stretta
di funicella alla gola - una fiammata alla barba, ai capelli per
segnale ch'è caccia nostra quel porco... e l'anima del demagogo
è andata al diavolo... Né potete aspettare sempre
l'azione... Un discorso - una esclamazione rivoluzionaria basti per
istrozzarlo, e arrostirlo...
Se fuggirà alla montagna, i contadini nostri hanno giurato a noi
la fede loro... Ardono pel desiderio d'ingrassare i loro campi con
letame di carne repubblicana.
La casa dello strozzato - del fuggiasco sia immediatamente data alle
fiamme... e colla casa arda l'intera famiglia, quand'anche non fosse
così trista come il ribelle... L'empia semenza dev'essere
distrutta...
Se riusciranno a riunirsi in bande - non vi occupate di loro... mettete
a fuoco le famiglie e le case... i contadini nostri faranno il
restante15.
E a queste cruente esortazioni se ne aggiungevano altre di questo
tenore: "Vita per vita - occhio per occhio - dente per dente - pelle
per pelle... Mosè ce lo insegna. Sorpresi nelle nostre case, dal
tetto siano precipitati sulla via... Incontrati sulle vie, pesto il
capo coi selci abbiano per sepoltura la fogna... Tracciati nei boschi,
si strappi loro la pelle per farcene sandali... gettato il carcame alle
belve... Né i boschi avranno più belve, morte per quel
velenoso carnume". Quindi una caccia condotta senza pietà, senza
cedere a nessun impulso di misericordia. "Scannateli sull'altare,
quand'anche il sommo Sacerdote stesse per ribenedirli... Scannateli a
pie' del trono, quand'anche il principe tentasse perdonarli"16.
Le sanguinose esortazioni di Lucarelli mal si conciliavano, come
è dato vedere, con i richiami ai valori e ai principî
della religione cattolica cui egli faceva frequente richiamo; e nella
loro fanatica immoralità confermano che troppo spesso i
rappresentanti più estremi del campo reazionario scambiavano gli
insegnamenti del messaggio evangelico con lo scatenamento degli odi e
delle passioni primitivi che in nome della madonna e del cristianesimo
nel 1799 avevano sparso tanto sangue innocente durante le insorgenze
del "viva Maria" e della "Santa fede".
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