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CARMINE CROCCO
Come divenni brigante

Autobiografia - a cura di Mario Proto

INTRODUZIONE

1) MELFI E LE METAMORFOSI DELLA CONDIZIONE MERIDIONALE


Rileggere l'Autobiografia di Carmine Crocco, capo leggendario del brigantaggio lucano post-unitario, a più di trent'anni dalla celebrazione per l'Unità d'Italia, consumatasi in un clima euforico e retorico, non significa solo ricollocarla in una luce diversa e più attuale, ma anche riproporla come documento contraddittorio e tipico di una condizione meridionale, ancor oggi sospesa tra un rivendicazionismo, sia pur dotto, ed un secessionismo di bassa lega.


Ripubblicata nel 1964 dall'Editore Lacaita, nella collana “Briganti e Galantuomini”, a cura di T. Pedio, l'autobiografia di C. Crocco si presentava ai lettori quale testimonianza di una lotta sociale perduta contro padroni vecchi e nuovi, pronti a riciclarsi come dirigenti della futura classe politica nazionale.


L'iniziativa editoriale marcava una decisa intenzione di rivelare gli aspetti poco noti di un processo unitario, che registrava l'emarginazione, anch'essa violenta, di una parte cospicua della popolazione meridionale dai benefici di uno Stato unificato e nazionale.


Il paesaggio naturale che ha fatto da sfondo all'intera vicenda, e cioè la zona di Melfi, territorio strategico per i movimenti militari della banda di C. Crocco e per l'offensiva dell'esercito sabaudo, può, alla luce di quanto è accaduto prima e dopo, costituire un'espressione emblematica della metamorfosi subita da alcune realtà meridionali dal Medioevo ad oggi.


Alla vigilia delle celebrazioni fridericiane, per ricordare la nascita del grande sovrano di casa sveva, non è di poco conto immaginare un'ipotesi di confronto tra il passato e il presente di Melfi e dei suo circondano.


Il castello di Federico II è ancora oggi il simbolo fisico di un luogo storico nel quale, nel lontano 1231, giuristi provenienti dalle migliori scuole dei momento, hanno redatto il testo di quelle Costituzioni melfitane che hanno anticipato una visione ed una pratica dello Stato laico nei confronti di feudalesimi politici ed ecclesiastici.


Tra le novità vanno sottolineate non solo l'avvio di una distinzione tra i due poteri, il che poteva riempire d'entusiasmo laico il nostro Gabriele Pepe, ma anche quegli articoli della Costituzione melfitana scritti a difesa, tra l'altro, delle donne meretrici e dell'ambiente, prevedendo punizioni esemplari per i responsabili di scarichi abusivi, nei fiumi, di cascami delle pelli lavorate artigianalmente.


Certo con l'appressarsi del centenario l'analisi storica sembra riaprire i termini della riflessione, politica oltre che storiografica, per ridiscutere il ruolo di Federico II nello sviluppo successivo del Mezzogiorno.


A buttare la pietra nello stagno è stato l'americano R. Putnam, gran conoscitore del sistema politico locale del nostro paese, autore di comparazioni istituzionali tra diverse esperienze regionali. Per lo studioso di Harvard non vi sono dubbi: la politica di Federico II non è stata del tutto positiva per il futuro del Sud, perchè pregiudizialmente vincolata ad un obiettivo di autarchia e di separazione nei confronti dei Comuni del nord, che, già da par loro, avevano avviato una rete di collegamenti commerciali, finanziari e culturali, con i paesi europei più sviluppati.


Proibire, ad esempio, ai giovani meridionali di frequentare lo Studio giuridico della Università di Bologna, anche se disponibile in loco l'Università di Napoli, voluta dal sovrano per formare la nuova classe amministrativa, va considerato come uno degli errori di quel governo fridericiano che avrebbe finito per porre le basi di una cittadinanza sotto controllo, basata su un rapporto quasi esclusivo con il proprio re.


Può essere ciò un lontano antecedente di quel regime clientelare, fondato sull'asse sovrano-padrone e cittadino-suddito, tipico di sistemi politici pre-moderni, privi di autentica democrazia emancipatoria?


La pratica della violenza padronale, caratteristica delle zone più isolate del Sud, può aver avuto in tale prassi di governo un suo lontano antecedente? Non è stato F. De Sanctis a scrivere, negli anni '60 del secolo scorso, che “chi non ha santi non va avanti?”.


In realtà il brigantaggio lucano, particolarmente attivo nel melfese, appare, a prima vista, la reazione violenta ad un sistema sociale che ha irrigidito i rapporti di potere tra cafone e padrone, pur in presenza di un fenomeno storico importante come l'unificazione del paese. Si leggano attentamente le pagine di Carmine Crocco, nell'Autobiografia che qui si ripropone, dedicate al suo ingresso trionfale a Melfi nel 1861.


Già famoso per i suoi trascorsi di combattente al seguito di Garibaldi, poi spinto a passare al campo avverso come “comandante francescano”, perchè agli ordini del re borbonico Francesco II, Crocco, dopo le prime vittoriose gesta di capo brigante, entra trionfalmente a Melfi.


Ad attenderlo sono le Autorità del paese, i ricchi signori, i padroni della terra, il Capitolo religioso al gran completo, che lo salutano alle porte del paese per rendergli gli onori, riverirlo, mentre in paese si diffonde un'aria di festa, con i balconi pieni di fiori e coperti di arazzi, mentre il cielo era allietato dal crepitio dei mortaretti.


Eppure Crocco era lì per far razzie di bestiame e di denari, per sostenere e confortare i propri uomini desiderosi, com'egli dice, di tutti i piaceri. A seguire Crocco sono in maggior numero braccianti agricoli, sellai, pastori, contadini a giornata, pronti ad essere assunti nella banda per la durata dei bel tempo e poi rientrare nella fatica quotidiana con il sopraggiungere della cattiva stagione. Nel circondario di Melfi la natura sembra essere rimasta intatta, allo stato selvaggio, da secoli.


Assai poche le vie di comunicazione con il resto della regione, incidentate e pericolose, da sempre facile nascondiglio, soprattutto al limitare dei boschi, per masnadieri e malfattori pronti a saltare addosso al malcapitato viaggiatore.


L'agricoltura estranea ai principi ed alle tecniche di una conduzione moderna, sul tipo di quella sviluppatasi nelle regioni dell'Italia centrale. Ancora in uso pratiche medievali di uso degli attrezzi agricoli, mentre la vita quotidiana del contadino si consumava in angusti tuguri, umidi ed affumicati, in compagnia delle bestie.


Il brigantaggio, e non solo quello lucano, nasce come reazione istintiva e primitiva ad una situazione medievale di sfruttamento, è contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei diseredati e degli ultimi, ma non propone nessun progetto di rinnovamento nè economico né politico, salvo a propagandare l'immediato ritorno sul trono del sovrano borbonico Francesco II, di cui, con il passar del tempo, ci si fidava sempre di meno, anche da parte degli stessi briganti.


Da Francesco II a Federico II, in realtà, le distanze non sembravano ai briganti eccessive, se per loro iniziativa il Castello di Lagopesole diverrà luogo di raccolta del brigantaggio agli ordini di Crocco, dopo essere stato, ai tempi del sovrano svevo, residenza di caccia e luogo ameno di piaceri. Ma Melfi avrà pure una diversa storia da raccontare, se nel suo collegio sarà eletto un politico della statura di Giustino Fortunato e vi nascerà uno statista come Francesco Saverio Nitti, meridionalista e capo del governo fino alla vigilia dell'avvento al potere del fascismo.


È nel presente, però, che Melfi ritorna all'attenzione del paese per l'insediamento di una fabbrica Fiat a sistema integrato, che ha incorporato il modello giapponese Toyota. Eppure un'esperienza di avanguardia tecnologica come lo stabilimento automobilistico, pur nell'indubbio significato di progresso economico e sociale che ha in sè, non esime dal rievocare un passato post-unitario nel quale il relativo cambiamento economico presentava le caratteristiche di una colonizzazione di uomini e mezzi, piemontesi per giunta come ai tempi di Crocco, ricchi di esperienze e di tecnologie, ma privi di efficacia pervasiva per l'hinterland, aggredito da un processo di modernizzazione stradale con un impatto violento sul territorio.


Prima di scegliere Melfi la direzione della Fiat aveva sollevato lo spettro di altri insediamenti territoriali (Spagna, Grecia, Turchia), convincendo governo, regione e sindacati sulla bontà della scelta di Melfi per impiantarvi l'ennesima fabbrica Fiat a sistema integrato, cioè con un sistema produttivo a guida computerizzata gestito, sul piano della direzione dei lavori, da una maestranza torinese, e su quello esecutivo, da una mano d'opera locale sottoposta ad alcuni requisiti; e ben consapevole del carattere totalizzante della nuova fabbrica, che prevede anche il lavoro notturno (a cielo continuato), con il beneplacito della normativa Cee che non esclude il lavoro femminile nei turni di notte.


Su questi temi ha lavorato, con indagini e riflessioni, la rivista calabrese “Meridiana”, ed in particolare Chersosimo che, in un suo recente saggio, intitolato, appunto “Viaggio a Melfi”, ha ricostruito le linee portanti della strategia Fiat di penetrazione nel territorio meridionale, sperimentando il sistema tecnologico giapponese Toyota, come è già accaduto per altre fabbriche Fiat insediate al Sud.


Melfi appare, in tal modo, il segno contradittorio di una realtà che, pur proiettata in avanti, contiene in sè elementi non secondari di una irrisolta questione complessiva circa il ruolo che il Mezzogiorno dovrà rivestire in una strategia di rinnovamento economico e politico del paese, al di fuori degli equivoci di vecchi e nuovi colonialismi, magari con il contributo dello Stato.


L'Autobiografia di Crocco ci riporta alle origini moderne della complessa condizione meridionale.


2) L'AUTOBIOGRAFIA DI C. CROCCO


Al momento del suo primo apparire, stampata dalla Tipografia Greco di Melfi, proprio agli inizi di questo secolo, nel 1903, qualche anno prima della morte del suo autore, l'Autobiografia di Crocco è sembrata agli uni uno scritto pieno di strafalcioni e di bugie ed agli altri una testimonianza credibile e sincera di una vita spesa per la causa delle rivolte contadino.


Le diffidenze di B. Croce non hanno incontrato il favore degli altri studiosi, perchè troppo recisamente negative e stroncatorie. Crocco ha sempre vantato, rispetto agli altri briganti, un uso della parola e dello scritto che lo rendeva superiore, anche se ciò non lo inorgogliva, perchè si rendeva conto che saper leggere e scrivere non è un dono della natura, ma un'abilità che si consegue con gli studi e frequentando scuole, come sa chi ha mezzi per farlo o non ne è stato impedito dalla miseria e dalla sfortuna.


Il manoscritto utilizzato dal capitano Eugenio Massa, suo curatore, appare correttamente elaborato e scritto con cura, anche se alcuni brani originali di Crocco, letti in altra sede, per gli errori che spesso vi ricorrono di sintassi e di grafia, fanno pensare a ben altro livello culturale dell'autore.


Non è da escludere che il Massa abbia posto mano ad una ripulitura del testo per renderlo accessibile ad un più vasto pubblico, date le difficoltà di comprendere una scrittura inframmezzata da espressioni dialettali. Ma nonostante ciò, il nerbo del pensiero politico e militare è di tutto rispetto, chiaro nelle intenzioni, efficace nel modo di esporre ed interpretare la realtà sociale della Lucania nel decennio post-unitario.


L'Autobiografia ha il suo punto d'avvio nella rievocazione accorata del paesello natio, Rionero in Vulture, dove Crocco è nato, in una capanna di foglie e fango alla periferia del paese, a stretto contatto con pecore e galline, in un lembo di terra attaccato al piccolo podere paterno capace di produrre un pò di legumi e verdure per il sostentamento della famiglia numerosa, cinque figli più i genitori.


L'immagine della famiglia è sempre presente nella memoria di Carmine Crocco, soprattutto il dramma della madre, incinta, finita in manicomio per i calci selvaggi subiti da un signorotto locale, inviperito per l'uccisione, forse involontaria, del suo cane levriero provocata dai fratelli di Crocco. Ma i guai giudiziari per la famiglia verranno successivamente, quando il padre sarà ingiustamente accusato di aver proditoriamente colpito a fucilate, in aperta campagna, il signorotto responsabile della violenza alla moglie. In realtà si era trattato, e il racconto di Crocco appare veritiero, di un tentato omicidio perpetrato da chi pensava di vendicarsi dell'arrogante “galantuomo” per aver questi disonorato una onesta fanciulla del posto.


Quel dramma familiare, con il padre in carcere e la madre in manicomio, non si staccherà mai dai ricordi del “comandante”, gli alimenterà la ferocia e la forza di combattere contro qualsiasi forma di oppressione. Era un modo per sentirsi vicini a tutti quelli, ed erano tanti, che condividevano la medesima sorte di emarginazione e di miseria, di soprusi padronali e di angherie personali.


Un sincero attaccamento alla religione cattolica, pur vissuta sotto forma di fede cieca e di superstizione, che non gli impediva di portare sempre addosso ninnoli e oggetti sacri o immagini di santi, venerate come presenze benefiche e cariche di auspici per il futuro. I briganti custodivano una loro religiosità primitiva e superstiziosa, ben salda nelle radici storico-antropologiche del popolo lucano, che spetterà poi a Ernesto De Martino illustrare con la finezza dell'analisi che gli è congeniale.


Certo la religione era anche quella cattolica del sovrano borbonico, di Francesco II, che vantava l'appoggio della Chiesa ufficiale che, nella sua alta gerarchia, non esprimeva intenzione alcuna di accettare la vendita pubblica dei beni ecclesiastici voluta dal nuovo Stato unitario. Ma il rapporto di Crocco con la religione è anche più variegato, meno primitivo, più attento ai risvolti umani di un magistero ecclesiastico che spesso nascondeva tra le sue pieghe personaggi loschi al pari degli odiati padroni, come quel prete a cui egli aveva fatto un prestito cospicuo in scudi, e, al momento della restituzione, aveva preferito dileguarsi.


Del resto i tanti denari sequestratigli nello Stato Pontificio, alla fine delle sue avventure brigantesche, Crocco non li vedrà più e ne scriverà stizzito, ma non meravigliato, nelle ultime pagine della sua Autobiografia. Nemmeno il richiamo alla patria, di cui era infarcita certa retorica nazionale, lo attirava più di tanto. Sapeva assai bene che a combattere erano sempre gli stessi, da una parte e dall'altra, figli della terra, contadini e pastori, al comando di ufficiali ben pagati e reazionari, in grado, se in possesso di denari, di chiedere ed ottenere l'esonero dal servizio militare, nel quale, peraltro, la pratica della violenza era assai diffusa e si esercitava sulle inesperte e malcapitate reclute.


Uno dei primi delitti di Crocco è stato commesso proprio in ambiente militare, al tempo della sua prima chiamata sotto le armi dell'esercito borbonico.


Il ricordo di Rionero, delle sue serate trascorse in una vecchia masseria per ascoltare gli anziani del posto, veterani di tante guerre, tornati dal fronte zoppi o guerci, poteva essere una scuola di vita e disciplina militare, per dirla con un'espressione cara a Luigi Russo.


Il rispetto delle leggi ne era il centro, come pure l'obbedienza ai superiori, anche se questi cambiavano spesso di colore politico, pur rivolgendosi al popolo con la stessa iattanza. La società è fatta di furbi e di bravi cittadini, di gente onesta e di corrotti, ed alla fine sono questi ultimi ad avere la meglio perchè s'impongono con la forza e con l'arroganza. Guai a farsi agnello, è solito ripetere Crocco, perchè a farti pecora ti aggredisce il lupo. La violenza si esercita su tutto, sulle cose e sulle persone. Le donne sono spesso le vittime predestinate.


Chi non le rispetta per quello che sono e rappresentano, e cioè una parte vitale della società, perchè lavorano ed aiutano, allora vada a zappare la terra con l'aratro, scrive il capo dei briganti, e non è degno di rispetto.


Un “galantuomo” di Rionero, che aveva tentato d'insidiare l'onore della sorella Rosina, cadrà sotto il pugnale di Carmine. Certo la violenza sessuale sulle donne è stata una pratica diffusa durante le incursioni dei briganti, assetati di tutto, di ricchezze e di piaceri proibiti, talvolta in ossequio ad un principio di disprezzo dei prossimo che neppure i comandanti più morigerati riuscivano a calmare.


Lo stupro di massa ha molto spesso accompagnato le azioni militari dei briganti, e non sempre si è trattato di sole donne borghesi talvolta in grado di fuggire per tempo, ma anche di figlie del popolo, di contadini più o meno benestanti, o di mogli stuprate alla presenza di mariti, come avverrà nei conflitti etnici di più recente e tragica memoria.


Le dichiarazioni di Crocco su questo punto appaiono sfumate o reticenti. In sede d'interrogatorio al processo penale, presso la Corte di Potenza nel 1872, Crocco, alla domanda sulla violenza alle donne risponde con la metafora del beccafico, cioè di un uccello in libertà che becca dove gli pare e piace.


Certo il racconto delle gesta occupa gran parte dell'Autobiografia, ne è come lo sfondo nel quale sfilano personaggi, amici e collaboratori, bersaglieri e cavalleggeri di Saluzzo, elogiati per l'amore della disciplina e il disprezzo del pericolo, che spesso mancava ai briganti, non addestrati militarmente ed in possesso di armi superate ed impari alle necessità della lotta.


Pur essendo di numero inferiore, la banda di Crocco al massimo del suo fulgore, tra uomini e cavalli, non ha superato le duemila unità; dimostra una conoscenza assai profonda delle asperità dei luoghi, inaccessibili alle armate settentrionali, con grotte naturali e nascoste, talvolta con uscite segrete.


Non sempre la disciplina dei capo è seguita fino al millesimo, come nel caso di Ninco Nanco, senza escludere il tradimento perpetrato proprio dal luogotenente Caruso ai danni della banda di Crocco. Si sa che per le rivelazioni, il “pentito” Caruso avrà salva la vita e possibilità di lavorare, sotto forma di un premio che le Autorità militari, d'intesa con quelle civili, avevano pensato di stabilire nei confronti dei briganti che avessero deciso di parlare.


Non è da escludere che ci si trovi di fronte ad una forma pionieristica di legislazione speciale sul pentitismo, nuova nei confronti di altre come il confino per banditi ed alcuni briganti, già in uso ai tempi dei borboni.


Quanto ai saccheggi dei paesi, di cui si discorre nell'Autobiografia, le immagini che risaltano agli occhi sono quelle di una violenza che non conosce confini, che penetra negli angoli più riposti delle case e dei palazzi per ammazzare donne e uomini, bruciare vecchi, martirizzare bambini. Ma non è stata da meno la ferocia dell'esercito piemontese, con le ordinanze dei Generale Cialdini, disposto a mettere a soqquadro, incendiando e devastando, interi paesi alla semplice, e talvolta non verificata, notizia sulla presenza di briganti in loco.


Il processo presso la Corte di Potenza, nell'estate del 1872, al termine delle peripezie di Carmine Crocco, illuso a più riprese dagli ambienti borbonici, francesi e dello Stato Pontificio, su una eventuale liberazione mediante fuga in Algeria, ha reso possibile una riunificazione dei reati di accusa, omicidi e grassazioni, per un numero assai elevato; ma, comunque, anche inferiore a quello di altri, come Caruso, il pentito che aveva potuto beneficiare dei condoni giudiziari, pur avendo commesso quasi il doppio dei reati contestati allo stesso Crocco.


Certamente è difficile rileggere l'autobiografia di Crocco tralasciando quei documenti di psichiatria positivistica che sono i referti o le relazioni rilasciate dai medici carcerari Penta e Cascella. Oltre i rilievi craniometrici, i riferimenti alle arcate sopraciliari, che ricordano tanto lo stigma del meridionale delinquente diffuso negli ambienti piemontesi da Cesare Lombroso, già ufficiale medico in Calabria presso un battaglione del nord, e teorico sussiegoso di tratti facciali di contadini calabresi e meridionali predisposti da natura a delinquere.


I dottori penitenziari Penta e Cascella, che hanno visitato a più riprese nei bagni penali di Porto Ferraio Carmine Crocco, quasi al termine della sua esistenza, non aiutano assolutamente il lettore dell'Autobiografia o lo studioso del brigantaggio a capire più in profondità il perchè di quella scelta della lotta da parte di un uomo, che probabilmente sarebbe stato lo stesso anche se con labbra, naso ed orecchie diverse da ciò che era stato intravisto dagli ingenui anatomisti del carcere.


Un'ultima questione rimane da chiarire per chi legga quel testo: la reticenza di Carmine Crocco a fare dei nomi di suoi eventuali protettori o manutengoli. La famiglia Crocco ha lavorato su terre che rientravano nella proprietà demaniale dei Fortunato di Rionero in Vulture.


Qualcuno ha pensato che in quella famiglia, successivamente illustrata da Giustino meridionalista e politico, attecchisse qualche forma di “manutengolismo” a difesa dei brigante.


Crocco, in realtà, pur non facendo nomi di personaggi illustri, pur dimostrando reticenza, non ha difficoltà ad orientare il lettore nella direzione giusta, facendogli intuire il bersaglio preciso. Del resto la commutazione della pena capitale in quella dell'ergastolo, avvenuta nel 1874, è il riflesso della convinzione dei giudici di Potenza che le rivelazioni del capo brigante aprivano squarci ampi per conoscere il fenomeno dei brigantaggio; anche se lo stato della magistratura del tempo, con la lentezza dei processi e il numero limitato di magistrati inquirenti, e non sempre ligi al proprio dovere, rendevano possibile quella doppia giustizia, per i poveri e per i ricchi, contro la quale lo stesso Crocco aveva pensato, ricorrendo talvolta a mezzi poco ortodossi, di scatenarsi per dare esempio ai poveri inermi, per intimorire i ricchi arroganti, ma anche per godere, a titolo personale, di vantaggi e piaceri.


3) IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE


Il brigantaggio che si diffonde nell'Italia meridionale, continentale ed insulare, è un fenomeno che si sviluppa a più riprese, e con connotati organizzativi sempre più massicci, tra la fine del '700 e il primo decennio dopo l'unità d'Italia.


Alla base risulta preponderante il contrasto città e campagna, centro e periferia, cioè realtà spaziali in cui la dislocazione del potere ha assunto le configurazioni più disparate. Nel primo ventennio dell'Ottocento prevale una forma variopinta ed eterogenea di personaggi e di gruppi briganteschi che si diffondono nelle campagne con l'obiettivo di difendere i contadini dai soprusi dei padroni.


Le zone maggiormente interessate sono quelle dell'Abruzzo, della Campania e il territorio di confine tra Lucania e Puglia. I capi più ragguardevoli sono il bracciante Gaetano Vardarelli e l'abate Ciro Annicchiarico. Obiettivo delle rivolte non è solo la rivendicazione di una vita migliore nelle campagne, ma pure la reazione contro le truppe straniere stanziate nel Sud a salvaguardia di regimi corrotti e spoliatori. Gaetano Vardarelli, la cui storia è stata ricostruita da A. Lucarelli sulla base di materiali d'archivio di Napoli, è la figura tipica di brigante che si fa vindice di contadini sfruttati, ai quali non è nemmeno consentito raccogliere nei campi le spigolature lasciate libere dalla lama dell'aratro.


Il Vardarelli esige a gran voce, dagli esosi padroni, il rispetto dei contadini affamati, miseri, in cerca del minimo per sopravvivere alle ristrettezze della vita quotidiana.


Naturalmente non propone, nè è in grado di farlo, un programma di riforma agraria che colpisca i rapporti di proprietà secolari nelle campagne del Sud. La sua azione è brigantesca, si limita a saccheggiare e rapinare per distribuire qualcosa, ma lasciando intatto il sistema di vita e di sfruttamento dei contadini. Figura estrosa e caratteristica di brigante d'inizio secolo è quella dell'abate Ciro Annicchiarico, di Grottaglie, trait d'union con il brigantaggio di Terra d'Otranto.


Il prete tarantino, divenuto brigante per sfuggire alla giustizia che lo perseguitava per un delitto commesso nel suo paese per motivi amorosi di rivalità con un altro abate, al pari di lui gaudente e libertino, è personaggio alquanto contraddittorio e paradossale. Cresciuto culturalmente in ambienti religiosi nei quali le regole di condotta erano informate a principi di rigida morale cattolica, don Ciro non perderà tempo ad accorgersi che il mondo va avanti in modo diverso da quello immaginato, perchè in esso la violenza è più diffusa di quanto s'immagini, sicchè il principio evangelico del porgere la guancia a chi ci fa del male può essere rischioso, fino alla perdita della vita.


Sicuro conoscitore delle asprezze naturali di Terra d'Otranto, sceglie quel territorio come luogo prediletto per le sue azioni brigantesche, ben sicuro che in breve volger di tempo sarebbe riuscito a comprometterne la fama di terra civile per arte e monumenti.


È nel leccese, infatti, negli anni 1810-17, che l'abate di Grottaglie intrattiene rapporti di collaborazione di setta e di 16 armi con gruppi della Carboneria salentina, con Filadelfi, Patrioti Europei, Decisi, modificando le procedure di affiliazione con sistemi di giuramento in cui l'affiliato promette di battersi fino in fondo con il nemico del momento (stranieri e padroni).


Il generale irlandese R. Church, ben consapevole del rischio incombente, fa pressione sui gruppi dirigenti della carboneria leccese perchè non offrano aiuto al prete brigante, per agevolare la cattura e la fucilazione.


Nell'intesa tra briganti e Carboneria è centrale un programma alquanto fumoso di palingenesi sociale, di trasformazione delle sorti dei mondo nel quale, dopo la vittoria militare, avrebbero trionfato i principi della giustizia e della salvezza eterna. In quegli anni Lecce è stata teatro di omicidi e delitti efferati, quali mai si erano visti nella storia del passato, a tal punto che sulla stampa nazionale, sui periodici del tempo, ci si chiedeva dove fosse andata a finire tanta civiltà del Salento intessuta di arte e buone maniere.


Certamente il caso di don Ciro può essere emblematico di un comportamento del mondo clericale nei confronti del brigantaggio, che si sarebbe sviluppato, in modo particolare, nel decennio post-unitario.


I Decreti di Pasquale Stanislao Mancini per la vendita dei beni ecclesiastici, alienandoli alla Chiesa e liberalizzandone l'acquisto anche per i borghesi, appariva ed era un colpo per la stessa sopravvivenza della Chiesa, come potere religioso in grado di sottoporre a controllo la massa dei contadini.


I Decreti Mancini annullavano il Concordato del 1818 e ponevano su nuove basi i criteri per la formazione della proprietà fondiaria.


Immediata conseguenza la crisi del clero patrimoniale e la spinta progressiva verso comportamenti di reazione ai processi unitari impersonati dalla monarchia sabauda, da uno statista liberale e da un sistema politico che veniva sostituendo il vecchio ceto politico, di estrazione aristocratica, con burocrati e funzionari di origine borghese.


Nel Mezzogiorno la gran massa del clero, rimasto senza proprietà, non ha difficoltà a schierarsi a fianco di chi, per motivi diversi ma convergenti, combatteva, con rudimentali mezzi militari, l'alterigia dei nuovi padroni.


Il brigantaggio, infatti, negli anni successivi all'Unità d'Italia, insorge e si organizza in tutto il Mezzogiorno, perchè le nuove condizioni politiche s'impongono mediante strategie economiche e fiscali che aggravano le condizioni della campagne, fanno diminuire le attività lavorative, assottigliano le risorse finanziarie del Sud; lo sviluppo industriale del Nord, infatti, basato su lavori pubblici ed incremento delle reti commerciali, ha bisogno di crediti non disponibili in Piemonte, perchè prosciugati dalle tante guerre che si erano combattute dal 1848 in poi.


Senza dire, poi, che l'avvio al Sud del nuovo Stato unitario era stato accompagnato dalla presenza di maestranze e funzionari che inondarono il Mezzogiorno, senza provocarvi fenomeni di sviluppo endogeno, in un territorio da secoli abbandonato alla miopia di politiche prive di respiro regionale o nazionale. In alcune realtà, come la Calabria, il brigantaggio presentava un insediamento oltremodo stabile e rispettato, fondato su un patto segreto di alleanza con il ceto degli agrari e dei padroni, da cui attingeva denari, mezzi, informazioni sui movimenti delle truppe governative.


Indubbiamente l'organizzazione militare delle comitive dei briganti, pur non avendo analogie con le tecniche di guerra delle truppe piemontesi (bersaglieri e cavalleggeri), aveva il suo punto forte in una dislocazione decentrata delle truppe in rapporto alle difficoltà del terreno, conosciuto nei dettagli dai briganti, ma, spesso, trappola mortale per i soldati settentrionali o per la Guardia nazionale. Dopo la fuga a Gaeta del Re Francesco II si era pensato di porre su basi organizzative più efficienti le risorse militari del brigantaggio, per concentrarle ed affidarle, se possibile, al comando più esperto di generali legittimisti.


È il caso, tra gli altri, del comandante spagnolo Josè Borjès, inviato dai circoli borbonici, via Malta, in Calabria, con la promessa, poi rivelatasi illusoria, di un gran seguito tra la popolazione locale. Nell'Autobiografia di Crocco si racconta con realismo l'incontro avvenuto a Lagopesole fra i due uomini d'arme, breve nel tempo ma tale da far capire ad entrambi che al comando unico non si sarebbe arrivati, perchè Crocco diffidava di uno straniero inviato nella sua terra a sottrargli la guida militare dei suoi uomini.


4) IL BRIGANTAGGIO. ANALISI ED INTERPRETAZIONI


Nell'analisi del brigantaggio si può ritenere esaurita la seconda fase della riflessione storiografica, quella provocata dalle celebrazioni per il centenario dell'Unità d'Italia (1961), in uno scenario di retorica nazionale in cui quell'episodio brigantesco appariva quale cronaca inedita di una storia politica ancora da conoscere in profondità.


La prima fase d'indagine si era protratta stancamente nei primi decenni di questo secolo, subito dopo la pubblicazione dell'Autobiografia di Crocco avvenuta a Melfi nel 1903, e si era consumata sul tema della veridicità o meno di quel testo.


La terza fase nasce in un periodo di profondo sconvolgimento della tradizione storica e politica del nostro paese, con un pericolo di secessione all'orizzonte e con un più accentuato interesse a rivedere la storia d'Italia a partire dai primi anni successivi all'unificazione.


Una nuova tensione di analisi che comincia a coniugare meridionalismo e federalismo, rispolvera vecchi progetti e ridà fiato ad una lettura della vita politica e nazionale per troppo tempo esauritasi sul terreno del continuismo ad ogni costo. Nell'interpretazione del brigantaggio è stato ormai accumulato un materiale cospicuo, locale ed internazionale, che attende di essere classificato ed organizzato in rapporto alle nuove esigenze dell'analisi storica.


Finora sono stati elementi decisivi, nell'impostazione del problema storiografico, fonti e testi concernenti Relazioni parlamentari o saggi di studiosi.


Oggi si è in possesso di materiale proveniente dalla stampa dell'epoca, italiana e straniera, che può fare molta luce sul fenomeno del brigantaggio, come sono utili pure i volumi degli studiosi stranieri. Anche per le fonti militari, dispacci privati e lettere di una parte sia pure minoritaria dell'esercito destinato al Sud con obiettivi di repressione, il discorso è aperto.


La stampa locale (Corriere lucano, ad esempio), coeva al brigantaggio di quella regione, è assai attenta nel descrivere scene di rapine e saccheggi dei briganti, nel sottolinearne la particolare efferatezza e la pericolosità per l'ordine pubblico e, soprattutto, per la proprietà privata.


Si tratta sostanzialmente di un foglio locale probabilmente finanziato dal padronato agrario, facile ai cambiamenti d'umore politico e con una tendenza al conformismo ed alle pratiche trasformistiche che da lì a pochi anni avrebbero avvelenato la vita politica meridionale. In Piemonte, a Torino in particolare, la stampa che dedica più spazio al brigantaggio meridionale, è quella satirica, che lancia sberleffi contro lo Stato Pontificio ritenuto fiancheggiatore dei briganti, contro la corte borbonica fomentatrice dei disordini; nel più radicale disprezzo dei briganti, già oggetto di studio di antropologi come Cesare Lombroso che, in qualità di ufficiale medico dell'esercito piemontese, era stato in Calabria a combattere nel 1862, realizzando ricco materiale fotografico su cui avrebbe costruito lo stigma dell'uomo delinquente, frutto selvaggio dell'ambiente mediterraneo ed espressione tipica della razza maledetta.


In Europa la stampa più diffusa (Times, Cazette de Losanne, Revue de deux mondes) è quasi unanime nel riconoscere la pericolosità del brigantaggio meridionale, ma è altresì convinta che va interpretato come spia di un malessere più ampio di cui erano stati responsabili i governi che avevano retto le sorti del Mezzogiorno.


La politica della repressione selvaggia e delle fucilazioni sommarie, tra i Decreti Cialdini e la legge Pica, non ha riscosso, in linea generale, la simpatia della stampa estera, 20 che non poco ha contribuito a far pressione sul governo piemontese, in difficoltà diplomatica, per allentare la morsa ed inaugurare una legislazione penale più rispettosa dei diritti umani. Tra i militari i pareri appaiono assai discordi.


Per alcuni ufficiali e soldati della base il brigantaggio è nient'altro che il riflesso violento di una condizione contadina che non ha pari nel resto del paese.


Risaltano agli occhi dei militari critici, pochi nei confronti degli ufficiali convinti della necessità delle maniere forti, le aspre realtà della campagna meridionale, senza vie di comunicazioni, senza strade nè ospedali, prive di scuole e di mezzi di lavoro moderno, piena di analfabeti incapaci di esprimersi in una lingua italiana comprensibile ai più.


Sono documenti letterari pieni di sconforto e di pietà, per una condizione di miseria che la nuova realtà istituzionale non sembrava avesse voglia di mettere in discussione. Ma non mancava chi, su qualche foglio torinese, rivolgendosi ai battaglioni antibrigantaggio, li sollecitava ad eliminare i briganti, con la stessa risolutezza con cui gli Inglesi avevano debellato le popolazioni dell'India!


Il Parlamento nazionale è costretto a discutere il problema in una riunione riservata dei 1863, nella quale si prenderà spunto dai materiali elaborati dalla Commissione d'inchiesta presieduta dal deputato barese C. Massari. Erano stati interrogati militari, sindaci, impiegati, gente del popolo, e il quadro che ne veniva fuori non lasciava adito a dubbi.


La realtà sociale del Sud risultava drammatica. Lo stesso Massari, pur meridionale ma da anni in volontario esilio, solo attraverso l'inchiesta viene a conoscenza del fenomeno. Nel Mezzogiorno, vi si scrive, lo sviluppo economico immaginato non c'è stato.


Nelle zone un pò più avanzate il brigantaggio si è presentato con caratteristiche di minore entità o pericolosità. Risalta dappertutto l'assenza di lavori pubblici, il mancato ammodernamento delle tecniche agricole, l'assenza di vie di comunicazione, la mancanza di scuole del leggere e dello scrivere. Certo le critiche al governo nazionale appaiono sfumate, prive di contorni precisi, quasi naufragate in un contesto di discorso più attento ai termini metodologici dell'analisi che alla denuncia delle malefatte della nuova classe dirigente.


Sarà più esplicito, in tal senso, il deputato Aurelio Saffi, di orientamento più radicale, e più convinto delle responsabilità dirette del governo unitario più favorevole ad agevolare la classe imprenditoriale del Nord, in competizione con parametri di sviluppo industriale che già si diffondevano in Europa. Ma una conferma della situazione di estremo disagio dei Sud verrà fuori con il viaggio di Zanardelli in Basilicata del 1902, che sarà, com'è noto, alla base della futura legislazione speciale per il Sud.


La Basilicata, visitata in due settimane dallo statista bresciano, è la stessa che si conosce attraverso l'autobiografia di Crocco. Niente vie di comunicazione, nè ferrovie, nè fabbriche, nè lavoro diffuso, ma molta miseria ed ignoranza, condizioni sanitarie deplorevoli, spinta all'emigrazione.


Lo ricorderanno di lì a poco due figli generosi della Lucania, come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti. In tutta la sua attività di parlamentare del circondario di Melfi, e di studioso del Mezzogiorno, il Fortunato indicherà nella irrisolta questione demaniale uno dei nodi più intricati del mancato sviluppo industriale e sociale del Sud, quasi una testimonianza visibile di quel ritornante feudalesimo che sembrava stesse a cuore a tutti i governanti che si erano alternati con responsabilità politiche nei confronti del Sud.


Per Nitti il brigantaggio è da considerare la spia di un grave malessere sociale iniziato con l'imposizione, alle. regioni meridionali, di un sistema fiscale oppressivo che avrebbe drenato verso il Nord risorse finanziarie indispensabili per far decollare in forma autonoma un sistema produttivo, quasi sempre parzialmente assistito da una classe dirigente in cerca di clientele.


Ma i primi ad accorgersene sono i contadini, incerti tra movimento anarchico ed organizzazione socialista, pronti a mollare la presa per lidi lontani in 22 cerca di lavoro (al Nord, in Europa e in America), sicchè l'odissea dei briganti, come dirà Nitti, si concluderà con quella di emigranti.


Gli studiosi più famosi del brigantaggio (P. Villari, A. Lucarelli, F. Molfese), senza dimenticare i tanti che nella storiografia locale hanno agevolato la conoscenza di quel fenomeno, sono abbastanza d'accordo nel denunciare le cause di carattere economico e sociale che hanno dato l'avvio alle azioni brigantesche.


Nelle “Lettere meridionali”, del 1875, Villari ricostruisce il quadro della sofferenza meridionale a partire dalla nascita della criminalità organizzata (dal brigantaggio alla camorra ed alla mafia), per denunciare connivenza della politica con gli affari protette dalla violenza mafiosa e camorristica.


Il malgoverno centrale, ma anche quello delle città , delle grandi città come Napoli o Roma, esprime una classe municipale alleata con le bande criminali per dilapidare il pubblico erario.


Una cosa del genere si era già vista nella strategia del brigantaggio calabrese, non alieno da intese di effettiva collaborazione con il ceto degli agrari e dei ricchi proprietari. Gli scritti su “Il brigantaggio politico” Antonio Lucarelli, allievo di A. Labriola nell'Università di Roma, storico della Puglia nel Risorgimento, offrono al lettore un quadro assai ampio del brigantaggio pre-unitario (Vardarelli, Annicchiarico, Sergente Romano), chiarendo, con ricco materiale d'archivio, il ruolo della Puglia nello sviluppo storico del brigantaggio meridionale (connivenza con la Carboneria leccese, clero legittimista e fiancheggiatore, borghesi reazionari).


Ma è con le ricerche di F. Molfese sulla “Storia del brigantaggio dopo l'Unità” che la riflessione, sul fenomeno di rivolta contadina del decennio post-unitario, acquisisce contorni interpretativi più netti e precisi rispetto al passato. È la strategia complessiva di lotta contro il brigantaggio che tradisce le reali intenzioni del governo unitario.


Anzitutto disperdere l'esercito garibaldino, scioglierlo e in parte, ma in piccolissima parte, farlo rifluire nell'esercito settentrionale, per evitare il rischio, paventato da Cavour, che la rivoluzione di Garibaldi potesse rinfocolare gli spiriti democratici dei liberali meridionali, già esacerbati dal malgoverno borbonico. In un secondo tempo attaccare le forze legittimiste, stroncando con le tecniche della repressione più feroce la resistenza dei briganti, per poi lasciare, diplomaticamente, aperta una porta per la riconciliazione successiva, dei rappresentanti del vecchio ceto borbonico e dei borghesi conservatori, con la politica dei moderati; obiettivo principale dell'egemonia piemontese per ostacolare in tutto il paese qualsiasi forma insurrezionale, brigantaggio o rivoluzione democratica, e per azzerare le chances della rivolta sociale.


In tale circostanza storica sarebbero state poste le basi di quella strategia di controllo sociale che avrebbe segnato il trionfo dell'ora dei moderati, per dirla con un'espressione di Gramsci, in carcere, reduce da una esperienza intellettuale precedente di analista politico della questione meridionale.


5) BANDITI, RIBELLI, RIVOLUZIONARI


La conoscenza del brigantaggio meridionale in Europa, ed in particolare in Francia, Inghilterra e Svizzera, è legata, da molti anni, alla diffusione di ricerche e documenti di autori stranieri (Dumas, Monnier, Church), spesso stimolati da intellettuali italiani in esilio, preoccupati di diffondere, presso l'opinione pubblica internazionale, un'immagine realistica delle malefatte dei vari governi che si sono succeduti nella direzione politica del Mezzogiorno.


Talvolta ci si trova di fronte a ricostruzioni di tipo fantasioso o leggendario, basate su testimonianze di protagonisti, come il generale irlandese R. Church, ma riportate da altri. E noto, infatti, come ricorda Lucarelli, che è stato Carlo Lacaita, in Inghilterra, a spingere una familiare del generale Church a tradurre per iscritto immagini ed impressioni trasmesse oralmente e riguardanti, in particolare, la vicenda del prete brigante di Grottaglie, Ciro Annicchiarico, e la storia dei rapporti tra brigantaggio e Carboneria leccese agli inizi dell'Ottocento. Diari ed epistolari di briganti sono spesso pubblicati in appendice a libri apparsi all'estero, come nel caso del Monnier, giornalista svizzero che ha avuto modo di seguire da vicino molte gesta brigantesche e di raccontarle per i suoi lettori di lingua francese.


Ma tra i libri sul brigantaggio di autori italiani che abbiano varcato la frontiera nazionale, è da ricordare quello di F. Molfese, uscito nel 1964 e ricco di una documentazione originale ritrovata presso Archivi e Biblioteche del Parlamento.


Si pensi alla rilevanza della Relazione di Massari, per decenni rimasta ignorata per gran parte dei politici e degli studiosi. Ma il libro del Molfese è stato al centro dell'attenzione di uno dei più grandi storici inglesi viventi, E. J. Hobsbawm, che ha dedicato, al tema del banditismo sociale nell'Europa moderna, un'ampia ricerca in tre volumi.


L'opera di Hobsbawm segna una tappa importante nella riflessione storiografica sul problema del brigantaggio, non solo per l'ampiezza dei riferimenti storici, che spaziano dall'Italia all'Europa ed al mondo intero, ma, soprattutto, per lo spessore metodologico dell'indagine che mette ordine nella classificazione anche teorica dei concetti di bandito, ribelle e rivoluzionario.


Il riferimento al brigantaggio meridionale, in quella ricerca, è costante, preciso, sempre attento alle connessioni tra i vari fenomeni della violenza sociale nei contesti rurali ed urbani. Nell'opera di Hobsbawm si dà gran rilievo alla figura di Carmine Crocco ed alla sua Autobiografia, considerata “interessante”, perchè in essa vi traspare la vicenda di un capo brigante che nella realtà contradittoria del Sud ha rappresentato al meglio l'idea di una rivolta sociale nelle campagne per obiettivi di liberazione, sia pur priva di progetto rivoluzionario.


I banditi sociali, scrive Hobsbawm, sono fuorilegge rurali, considerati malfattori dal signore e dall'autorità locale, ma che pure restano dentro la società contadina e sono considerati dalla propria gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e “comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio”.


Il fenomeno del banditismo sociale esprime, in situazioni storiche le più disparate, un intreccio significativo tra contadini e ribelli, da non confondere con malavitosi professionali, che fanno delle scorrerie e delle rapine l'oggetto esclusivo della loro attività delinquenziale.


I delinquenti di professione vedono nel contadino la preda naturale, lo aggrediscono e ne violentano le donne, lo rapinano e fanno razzie. Un bandito sociale, al contrario, non metterà mano sul raccolto del contadino, e se talvolta sarà costretto a requisire merci e denari per esigenze logistiche, attenderà il momento propizio per restituire il mal tolto.


Il banditismo sociale non ha senso al di fuori dei rispetto tacito di questa norma. “Il banditismo sociale di questo tipo è uno dei fenomeni sociali più universali della storia e presenta una straordinaria uniformità.


Quasi tutti i casi rientrano in due o tre tipi chiaramente correlati, e all'interno di questi tipi, le variazioni sono relativamente superficiali. E quel che più conta, questa uniformità non è una conseguenza della diffusione culturale, ma il riflesso di situazioni consimili all'interno di società contadine, in Cina come in Perù, in Sicilia come in Ucraina o in Indonesia.


Il fenomeno, geograficamente, è diffuso nelle due Americhe, in Europa, nel mondo islamico, nell'Asia meridionale e anche in Australia”. Nei moderni sistemi agrari, di tipo sia capitalistico che post-capitalistico, è precluso lo spazio al banditismo sociale. È nella modernità che il banditismo sotto qualsiasi forma cambia spetto, perchè lo sviluppo economico, l'efficienza della pubblica amministrazione e della rete stradale, rendono difficoltosa l'attività tradizionale del bandito.


Quanto al numero complessivo delle bande e degli uomini che le costituiscono, non si tratta di grandi cifre, ma di gruppi che spesso appaiono interscambiabili tra di loro, senza tener conto di alcune variazioni regionali. “È un luogo comune, ormai, che i briganti prosperino nelle zone isolate e inaccessibili, come le montagne, le pianure prive di vie di comunicazione, le zone paludose, le foreste o gli estuari, con i loro labirinti di canali e insenature, e siano attirati dalle strade commerciali e dalle grandi arterie, dove, in epoca pre-industriale, i viaggi sono lenti e scomodi”.


L'inefficienza politica e la complicazione della macchina amministrativa favoriscono il brigantaggio, che quasi sempre si dà all'assalto di municipi, per bruciare e mettere a soqquadro archivi comunali e registri fondiari.


Il brigantaggio è stato particolarmente diffuso nell'area del Mediterraneo in epoca moderna, ed è apparso endemico nei momenti di crisi economiche, carestie ed epidemie. Nelle società contadine tradizionali la carestia è come un dato storico permanente, che trascina con sè conseguenze sociali enormi di miseria e povertà, che si riversano pesantemente sui contadini come le guerre e i tracolli amministrativi.


Come individui i banditi, più che ribelli politici o sociali, o ancor meno rivoluzionari, sono contadini che rifiutano l'obbedienza al padrone e si staccano dal ceto di appartenenza; sono costretti a darsi al crimine perchè esclusi dall'occupazione usuale. In gruppo, o in masse, sono sintomi di crisi sociale e di carestia.


I banditi sono uomini d'azione e non profeti o ideologi, nè sono in grado di proporre nuovi piani di organizzazione politica e sociale. “Alcuni capi briganti dell'Italia meridionale, annota Hobsbawm, tra il 1860 e il '70, come Crocco e Ninco Nanco, rivelarono doti di comando che suscitarono l'ammirazione degli ufficiali che combatterono contro di essi, ma per quanto gli “anni del brigantaggio” costituiscano un raro esempio di un'importante sollevazione contadina capitanata da banditi sociali, i capi briganti non incitarono mai, in nessun momento della rivolta, i propri uomini a occupare le terre, e a volte, anzi, parvero addirittura incapaci di concepire una “riforma agraria”, come oggi verrebbe chiamata”.


Obiettivo dei banditi è quello di restaurare l'ordine tradizionale, rimettere a posto le cose nel loro valore mitico o reale, ma non già di chiedere che non ci siano più padroni. “I banditi sociali sono, in questo senso, dei riformatori, non dei rivoluzionari”. Ma se il brigantaggio diventa il simbolo di resistenza dell'intero ordine tradizionale contro le forze rivali, allora può apparire come una “rivoluzione sociale”, anche se opera a favore di una causa reazionaria.


I banditi e i contadini napoletani insorti contro stranieri e giacobini in nome del papa, del re e della fede, erano rivoluzionari, mentre il re e il papa non lo erano. “I briganti non insorgevano a difesa del regno dei Borboni reale - molti, anzi, pochi mesi prima avevano collaborato con Garibaldi per abbatterlo - ma per l'ideale della società dei buon tempo antico, simbolizzata naturalmente dall'ideale del Trono e dell'Altare. In politica i banditi tendono ad essere dei tradizionalisti rivoluzionari.


L'altra ragione per cui i banditi diventano dei rivoluzionari è inerente alla società contadina. Anche chi accetta lo sfruttamento, l'oppressione e la soggezione come norma di vita, sogna un mondo dove essi non esistano: un mondo di uguaglianza, di fratellanza e di libertà, un mondo totalmente nuovo, privo di male. Raramente esso è qualcosa di più di un sogno”.


Per molti banditi sociali, da Pancho Villa a Carmine Crocco, la spinta alla rivolta nasce spesso da una profonda reazione morale a torti o violenze di cui sono state vittime dei familiari (la madre di Pancho Villa violentata e quella di Crocco selvaggiamente aggredita da un signorotto locale). Nei comportamenti dei rivoltosi si distinguono scelte comuni, come il restituire ai contadini tutto o parte di ciò che può essere stato loro preso in tempi di necessità; il non violentare le donne del posto; il denunciare nomi di padroni arroganti da punire.


Se il bandito fa propri obiettivi di rivolta sociale, aggrega gruppi di contadini animati dagli stessi interessi, differisce dal delinquente ordinario o di professione, perchè la malavita rappresenta l'anti-società, la negazione pregiudiziale della convivenza civile.


Il delinquente o il malfattore aggredisce, uccide e rapina per obiettivi immediati di autorisarcimento materiale e il prossimo è nient'altro che oggetto di disprezzo. Si è ormai lontani dall'immagine di Robin Hood bandito mitico della fantasia moderna, vendicatore dei torti subiti, difensore degli umili per solidarietà morale con i derelitti e i sofferenti. Ma l'elemento discriminante che in ultima analisi decide della sopravvivenza del fenomeno banditesco è la realtà economica.


Il banditismo sociale presuppone le società rurali pre-capitalistiche, con il lavoro scarso e le tecniche agricole arretrate. Con l'avvento dei capitalismo agrario ed industriale il fenomeno si attenua fino a scomparire. Un confronto tra il brigantaggio e la mafia può essere illuminante. L'organizzazione mafiosa si sviluppa in Sicilia alla fine dell'Ottocento.


Il terreno di coltura è la crisi dei sistema parlamentare rappresentativo, in cui la mafia s'inserisce con autorevolezza imperiosa, scegliendo nomi e volti dei parlamentari da eleggere per poi intrattenere con loro rapporti di affari e di speculazione. Ma la mafia ha imparato la lezione dei brigantaggio e ha deciso di noti essere più un elemento di criminalità anti-sistema, ma parte essa stessa di un mondo politico da sempre corrotto e facile alla corruzione.


I mafiosi siciliani non avevano niente da temere dal capitalismo settentrionale; anzi, con l'aiuto dei parlamentari eletti in Sicilia con la tecnica del voto di scambio, il terreno era facilitato per l'intesa con capitani d'industria del Nord e con le loro voci parlamentari. La mafia si consolida come struttura del crimine organizzato subito dopo il 1876, con l'avvento della Sinistra al potere, che avvia in Italia l'epoca sempiterna del trasformismo.


L'industria del Nord è occasione di arricchimento per la mafia meridionale, non oggetto d'odio e d'invettiva come in certi programmi di rivolta del brigantaggio. I mafiosi si collegano con le centrali della ricchezza, con le Banche e con il mondo della ricchezza, perchè, come dirà Gaetano Mosca, la mafia non è un fenomeno di povertà ma si sviluppa in contesti nei quali l'arricchimento è apparso facile e a portata di mano. Il ribellismo sociale, invece, attecchisce nelle organizzazioni politiche della sinistra italiana ed europea e si pone obiettivi di emancipazione politica.


La mafia sceglie partners di governo, di fiducia, collabora con gli ambienti della criminalità internazionale, preferisce un campo d'azione locale più facile alle commistioni con i poteri del posto, attraverso patti non scritti di collaborazione e di sporadica belligeranza. Il ribellismo sociale, al contrario, nasce da programmi di rigenerazione collettiva, si batte per un nuovo sistema economico e per la rottura delle barriere gerarchiche nella società.


Può anche presentare una ispirazione religiosa di carattere profetico o millenaristico, che diminuisce nella misura in cui i programmi del gruppo organizzato si fanno più chiari, espliciti, finalizzati ad obiettivi concreti e realistico. Nel mondo contemporaneo cambia la destinazione della violenza. Lo scenario rurale scompare dall'Europa come teatro di conflitto sociale, ma continua a riproporsi per gran parte del Terzo Mondo, nel quale la violenza, alleata con il flagello della fame, continua a mietere vittime nell'era del nuovo disordine mondiale.


La violenza appare la legge della società contemporanea, di cui mette in crisi fondamenta etiche e legittimazione giuridica. È la fine progettuale delle società liberali fondate sul diritto. La nuova divinità del mercato fa i suoi adepti e non disdegna una pratica insidiosa di pressione e condizionamento, che impone scelte con strategie talvolta occulte e clandestine. Oggi è assai difficile parlare di violenza in termini generali, quasi una sorta, di metafisica dell'annientamento dell'altro, ma è più realistico parlare di violenze al plurale (economica, politica, religiosa, culturale, informatica), con la tendenza strisciante più verso la violenza simbolica che quella reale.


Nelle società a capitalismo avanzato, nelle grandi metropoli dell'Occidente, il monopolio statale della violenza è ben consolidato. I gruppi minoritari che ad intervalli della storia decidono di praticarla, ricorrendo ad armamentari appariscenti, con armi e simboli di ascendenza medievale, come nel caso di razzisti ed anti-semiti, cercano in essa di ritrovare radici perdute, identità politicamente compromesse.


La complessità della società industriale avanzata ha dalla sua una riclassificazione dei ruoli dei soggetti sociali, non più e solo padroni e contadini, che pur continuano ad esistere in tanta parte del mondo, ma impiegati, tecnici della ricerca, operatori dell'informazione, studenti, operai, donne e giovani. È la nuova galassia dei malessere sociale che si dirama tra le pieghe di quel capitalismo maturo sul quale hanno meditato le intelligenze più moderne della sinistra occidentale, come I. Habermas, C. Offe, J. O' Connor, ecc.


Nell'odierna realtà sociale sono in crisi tutte le forme di rivolta (banditismo, ribellismo, rivoluzione), ed alcune di esse sono già scomparse. Ma riflettere su di esse è indispensabile, perchè è come un modo tutto nuovo per rileggere la storia del mondo e delle sue parti, la sua configurazione attuale nella quale la dicotomia geografica tra Nord e Sud continua ad essere emblematica di una differente dislocazione della ricchezza e dei diritti, della tradizione o della modernità.


6) NORD E SUD: IL CASO ITALIA


L'analisi delle condizioni geografiche di un paese è già di per sè un elemento rilevante per conoscere in profondità caratteristiche di un territorio, per prevederne sviluppi, sfatare miti. È il caso di Giustino Fortunato, appassionato studioso di geografia negli anni della sua formazione giovanile, esponente di spicco del Club Alpino Italiano che aveva sede a Napoli. C'è solo da chiedersi il perchè di tale interessamento, non certo solo di carattere professionale. Fortunato è chiaro oltre misura nei suoi scritti sul Mezzogiorno: la ricchezza naturale di quelle terre è solo frutto, forse interessato, di una leggenda priva di fondamento.


Il territorio meridionale presenta delle asperità naturali, condizioni climatiche avverse, un dorsale appennico ampiamente esteso, che ha reso sempre difficile un intervento razionale e risolutivo da parte dell'uomo.


Dall'altra la mancanza di capitali e la miopia di molti proprietari hanno contribuito a lasciare per secoli la coltivazione dei legumi quale unica risorsa produttiva, per le necessità alimentari locali oltre che come fonte ben limitata di mercato rionale o di zona. La conoscenza dell'agricoltura meridionale, scrive Fortunato, è la vera fonte, storica oltre che naturale, per risalire alle origini del disagio economico dei Sud.


L'estensione dei latifondi, in possesso molto spesso di padroni assenteisti, ha sottratto ampi settori dei terreno a progetti di trasformazione fondiaria, fomentando parassitismi ed aggravando più di una condizione contadina ai limiti della miseria e della sopravvivenza.


Per questo, osserva il meridionalista di Rionero, senza falsa retorica e con convinzione bisogna affermare che esistono due Italie, diverse e distinte, conseguenza storica di un processo unitario che non ha agevolato, nel grande momento dell'unificazione politica, l'obiettivo di far di un paese una realtà unita.


Il Mezzogiorno, come egli scrive, è quello reso tale dalla natura, dal clima, dalla storia, abbandonato nel momento più delicato del suo processo di sviluppo, ma provvisto di energie e di capacità in grado, se spinto e sollecitato, di fare da sè sotto la direzione di uno Stato moderno ed efficiente. Ma la vera questione del Sud è quella demaniale.


Dopo i Decreti Mancini per la vendita dei beni ecclesiastici, la corsa all'acquisto di terreni appartenenti all'ex asse ecclesiastico, è stata irrefrenabile. Proprietari e borghesi si sono affrettati ad assicurarsi il possesso di ampie estensioni di campagne, molto spesso abbandonate o non coltivate, pur non disponendo, talvolta, dei capitali necessari per l'acquisto.


La vendita dei beni terreni è stata facilitata dal pagamento con il sistema rateale, alimentato da ipoteche sugli immobili, che si è attorcigliato su se stesso in mancanza di rendite Produttive. Sicchè i proprietari, per decenni, hanno avuto difficoltà a pagare le somme pattuite e sono stati costretti a restituire, alle varie banche diffusesi a macchia d'olio al Sud per quella circostanza, enormi interessi.


La conseguenza è stata oltremodo negativa, perchè il terreno degli ex beni ecclesiastici, abbisognevole d'interventi e di moderne tecniche agricole, o è finito nelle mani di altri possessori per fini speculativi o è ristagnato in latifondo parassitario.


Nasce da qui il grosso nodo dei debiti della Basilicata, l'impossibilità a farvi fronte anche in presenza di un'imposizione fiscale che, pur non essendo più alta di altre, costituiva comunque un grosso carico difficile da sopportare.


Condurre in tal modo un piccolo appezzamento di terreno è stata un'impresa per i contadini lucani, e il brigantaggio, nato come spia del malessere della condizione contadina, ha finito con il compromettere le prospettive della rendita fondiaria, facendo decrescere il valore dei terreni o sospendendo, per un periodo di tempo non certo breve, semine e coltivazioni.


Tra l'altro al Sud era venuta meno quella che Cavour aveva chiamato la cura di ferro, cioè una diffusa localizzazione della ferrovia per collegare i paesi dell'interno e la regione con il resto del paese, per gli scambi e il commercio. Viaggiando in Lucania, agli inizi di questo secolo, ma a dorso di mulo, lo statista bresciano Zanardelli si era reso conto della drammaticità della situazione.


Proprio l'assenza di vie moderne di comunicazione lo aveva impressionato di più, oltre che la mancanza di scuola e di ospedali o di civili abitazioni. Senza ferrovie, dirà Fortunato, non si costruisce un paese moderno, si rende difficoltoso lo sviluppo di una civiltà. Quali i rimedi, allora?


L'organizzazione di uno Stato moderno, ben organizzato e fondato sull'onestà dei suoi amministratori, può costituire un elemento importante per il decollo politico e sociale del Sud. Ma uno Stato che abbia la forza di essere esso stesso d'esempio ai cittadini, per il rigore morale e la correttezza dei suoi amministratori, quasi una sfida nei confronti di una situazione morale assai preoccupante, nella quale avevano buon gioco vecchi e nuovi manutengoli del potere, adusi da sempre a manovrare le leve della corruzione e dell'arroganza.


Un male che nel Mezzogiorno ha una storia antica e risale ai tempi delle varie occupazioni straniere, che avevano generato stuoli sempre folti di servitori e cortigiani, pronti ad offrire coperture e protezioni.


Dirà Gabriele Pepe, in un bel saggio sull'Italia spagnola, che nel Sud di quegli anni, e dopo, il brigantaggio ha rappresentato una struttura portante i sostegno del potere in difficoltà, a tal punto che allearsi con esso, per principi, aristocratici e borghesi, era una realtà ineluttabile.


Uno Stato educatore, quindi, per Giustino Fortunato, unito ed efficiente, esemplare per i cittadini, in grado di essere argine per malaffare e corruzione particolarmente radicati al Sud. Basterebbe ricordare le pagine dell'Autobiografia di C. Crocco dedicate alle leggi che fanno gli interessi dei più forti e dei più ricchi, che diventano così più arroganti e più violenti.


Certo i meridionalisti come Fortunato, e quindi i fratelli Spaventa, Pasquale Villari, De Sanctis, pur con le differenze d'impostazione politica, erano convinti che uno Stato unificato e forte, come nella tradizione etica dello hegelismo napoletano, sarebbe stato una barriera al dilagare della corruzione, una leva formidabile per il superamento delle difficoltà presenti.


Solo che quello Stato, che essi teorizzavano o immaginavano, non era all'altezza della situazione, perchè incrinato al suo interno da incompetenza, clientele e facile carrierismo.


Nel programma dei liberali meridionali l'accento cadeva più fortemente, e non sempre declinato in termini teorici, sulla necessità del rigore morale e della trasparenza amministrativa, mentre la realtà andava in direzione contraria, a tal punto che essere incompetenti o disonesti appariva assai di rado un ostacolo a far carriera negli impieghi e nelle professioni.


Oggi l'argomento non è più eludibile, dopo le provocazioni della Lega e la nuova situazione politica che si è delineata nel paese. Il dibattito storiografico si fa politico, militante, e torna a riflettere sui nodi portanti della più recente storia d'Italia. Lo hanno fatto, tra gli altri, Cafagna, Lepre e Salvadori, ma non solo, e con provocazioni che aprono domande ed attendono risposte.


Rileggendo in termini sommari la vicenda dell'unificazione italiana, Cafagna appare assai esplicito sul rapporto Nord e Sud. Sin dall'età moderna, ed ininterrottamente dall'età comunale, l'Italia settentrionale è stata in grado di avviare e sviluppare una industrializzazione diffusa, nelle campagne e nelle fabbriche, alimentandola con un continuo ammodernamento delle reti di trasporto e commerciali.


Naturalmente con differenze tra zona e zona e con prevalenza di realtà territoriali, come il triangolo (Piemonte, Lombardia, Liguria) avviato ad essere testa di ponte della modernità industriale dell'Italia in Europa.


Le difficoltà per il Sud sarebbero venute da una politica miope e poco attenta alle innovazioni, infarcita di retorica, visto che l'unificazione era una richiesta dei letterati e degli intellettuali, ma non un'esigenza dello sviluppo economico.


La diagnosi di Cattaneo federalista esclude il Mezzogiorno e si concentra sul Nord e sull'Europa, in una prospettiva basata sul libero-scambismo, tutta impostata in termini di sviluppo diffuso ma priva dei condizionamenti della politica, oggetto d'odio dei federali- sta lombardo, restìo ad entrare nel Parlamento anche da deputato eletto.


L'aiuto al Nord, in termini di mano d'opera, si verifica nel secondo dopoguerra, che registra un notevole flusso migratorio dal Mezzogiorno, che rende possibile un più accelerato ammodernamento delle regioni settentrionali.


Dall'altra, con la fine della guerra, scrive Cafagna, i capitali affluiscono al Sud, ma sono quelli dello Stato, distribuiti con i sistemi ben noti delle politiche d'intervento straordinario, base di clientele e di facili fortune elettorali.


Ma questa è storia dei nostri giorni che prelude a Tangentopoli, regno spodestato del neo brigantaggio politico. Ma come si risponde alle lamentele ed alle provocazioni del leghismo lombardo e dei suoi affiliati?


Aurelio Lepre rilegge, ora, la storia d'Italia alla luce di questi interrogativi. Sta per andare in pezzi l'Unità d'Italia? Cosa si può fare per arginare l'effetto devastante?


Anzitutto porre le basi di una nuova cultura meridionale, che abbandoni facili rivendicazioni o stucchevoli ideologie del sudismo dotto. Il Mezzogiorno non può attendere Pitagora o Federico II per rinascere; il sudismo di certi intellettuali da salotto rischia di rendere ancora più ambigua l'identità delle regioni meridionali, compromettendone l'apertura a nuovi orizzonti di analisi e d'intervento.


Rileggere gli anni del brigantaggio può esser utile per risalire alle origini di una condizione meridionale che è frutto di responsabilità politiche molteplici, alle quali hanno dato gran parte del loro contributo scelte economiche e culturali radicate sia al Nord che al Sud.


Per questo il processo di unificazione va rivisto integralmente, letto nelle sue pieghe più riposte, per individuare il filo rosso di quel moderatismo permanente che ricollega il presente al passato, la corruzione di ieri all'odierna Tangentopoli, rendendo sempre più urgente il bisogno di una opinione pubblica che abbia suoi codici culturali, frutto di una educazione di massa moderna e scientifica, che non c'è stata.


Il guaio della politica italiana, commenta G. Fortunato, è che la pubblica opinione non esiste, perchè si fa nei circoli ristretti, nei giornali che leggono in pochi, nelle accademie che formano cortigiani. E la politica diventa fatto di leadership da ammirare, di personaggi da costruire, con le tecniche più raffinate della democrazia elettronica. Del resto, e a modo suo, anche Carmine Crocco era diventato un personaggio, riverito ed ammirato da ricchi e poveri, da forti e deboli, e continuò ad esserlo anche da prigioniero, allorchè nel transito delle varie stazioni, pur incatenato e reso inerme, costituiva oggetto di curiosità e meraviglia.


7) PER UNA STORIA DEL FEDERALISMO MERIDIONALE


La polemica contro lo Stato accentratore accomuna, sin dalla fine del secolo scorso, intellettuali e politici del Nord e del Sud, preoccupati, con motivazioni diverse, a difendere un ideale politico di unità in cui le autonomie regionali e locali fossero in grado di produrre istituzioni e strutture degne di un paese moderno.


Il federalismo di Cattaneo, nato in un'area come quella lombarda, aperta all'Europa, non fa cenno a problemi del Mezzogiorno, con esclusione della Sardegna. Ma il suo pensiero sarà fatto proprio, o influenzerà in snodo non secondario, meridionalisti critici della prassi plebiscitaria seguita nel processo unificatorio del 1860.


La critica dello Stato centralista si sviluppa nel contesto di un'analisi che punta all'ipotesi di un'industrializzazione incentrata su idee di investimento autonomo e libero, al di fuori di vincoli burocratici e secondo i suggerimenti della più avanzata scuola di economia liberale. Il federalismo si delinea come una soluzione capace di tutelare le tendenze autonome della società e degli individui, di avviare una legislazione fondata su autonomie regionali nelle quali concentrare l'amministrazione di servizi indispensabili per la comunità locale.


L'unificazione, al contrario, ha imposto una linea di politica amministrativa favorevole ad un timido decentramento (da Rattazzi a Minghetti), inteso come articolazione in periferia dello Stato nazionale. Con il passar degli anni, dopo l'eliminazione del pericolo sia del brigantaggio che della opposizione della Chiesa, il governo centrale approda, in età giolittiana, ad una Legge sulle autonomie locali in cui i processi di decisione sono affidati ad organi che sono emanazione del potere centrale.


Si pensi alla nomina regia del sindaco, al censo elettorale, alla presidenza della Deputazione provinciale affidata al Prefetto, e ci si renderà conto degli esiti di una politica nazionale che aveva fatto propri i caratteri più negativi del moderatismo conservatore.


Gli attacchi dei federalisti meridionali esplodono in quella circostanza, ma sono alquanto attivi, anche prima, sin dagli anni '90 del secolo scorso. Molti di essi (N. Colajanni, E. Ciccotti, Luigi Sturzo, G. Salvemini, G. Dorso, T. Fiore) pongono al centro dell'attenzione le conseguenze negative dello Stato centralista, sul quale si erano illusi i liberali meridionali.


Con argomentazioni diverse, e partendo dal presupposto che la realtà del Sud ha delle peculiarità economiche e sociali di cui tener conto, i federalisti del Sud individuano con maggior realismo le cause del malessere meridionale. Mentre i limiti di governo dello Stato nazionale appaiono al Colajanni una disfunzione grave che facilita anche la connivenza con le forze della malavita organizzata, per Ciccotti il sottosviluppo del Sud è la conseguenza di una strategia economica del capitalismo che è decisa nelle regioni del Nord a scapito delle genti più povere del continente.


Lo Stato oppressivo e fiscale è pure al centro della critica di don Sturzo, favorevole ad una diversa articolazione delle regioni e della loro vita politica, al di fuori di condizionamenti clientelari. In queste teorie di Sturzo è presente un certo autonomismo di origine cattolica che punta sul primato della società civile ed immagina le istituzioni proiezioni di essa.


Nel federalismo salveminiano il regionalismo, in quanto espressione di decentramento burocratico dello Stato centrale, è l'esatta antitesi del federalismo. Il regionalismo è la base della corruzione e delle clientele, è il localismo degli interessi, è la fine della democrazia rappresentativa. Ma il federalismo è da intendere strettamente intrecciato con la concessione del suffragio universale, per dare ai ceti poveri, operai e contadini, l'opportunità concreta di contare nelle scelte della vita politica.


La polemica salveminiana contro il giolittismo nasce dalla convinzione che quel regime, basato sul sostegno delle forze moderate dei riformismo socialista e cattolico, rappresentava la negazione dei principi di libertà e di autonomia reale. La libertà, aveva scritto Cattaneo, è una pianta dalle molte radici. Il federalismo meridionale si confronta con il tema del regionalismo anche sulle riviste gobettiane, con articoli di T. Fiore.


La rivendicazione della libertà comunale ne è alla base, perchè in passato il comune costituiva il simbolo del potere reazionario, a tal punto che i briganti, nell'assaltarlo e distruggerlo, si preoccupavano di dare alle fiamme tutti i documenti ufficiali attestanti le proprietà della terra. Il progetto dell'Autonomismo è centrale nella prospettiva di G. Dorso, consapevole delle responsabilità storiche di quella borghesia parassitaria, sulla quale si era pure scatenata la rabbia incontenibile dei briganti.


L'idea federalista è fallita nella realtà politica italiana, perchè sin dall'Unità è prevalsa una linea dell'accentramento che ha visto il prevalere di tre forme dello Stato accentrato (amministrativo nell'età liberale, nazionale nel regime fascista, partitocratico negli anni della Repubblica). L'obiettivo di affidare alle realtà locali e regionali, nella loro configurazione istituzionale, il compito di essere momenti vivi di mediazione tra la società e lo Stato, è stato, di volta in volta, impedito dall'accentramento burocratico, dal nazionalismo esasperato e dalla partitocrazia dei nostri anni.


I partiti politici si sono progressivamente caratterizzati come macchine per la cooptazione dei funzionari, con enorme difficoltà ad attivare forme concrete di democrazia interna e locale. Tra gli altri appuntamenti politici perduti, quello con la soluzione dei problemi meridionali è stato il più eclatante.


Lo stesso Pds, ex Pci, nato in anni lontani da una severa analisi della questione meridionale, oggi è una realtà delle regioni dell'Italia centrale, separato al Nord dalla Lega e al Sud da Forza Italia e da Alleanza Nazionale. L'ultima stagione del brigantaggio politico è annegata nello scandalo di Tangentopoli, in quella Milano capitale-simbolo dell'Italia unita nell'affarismo e nella corruzione.


Saprà la seconda Repubblica rimediare agli inconvenienti della prima? Se, come ha scritto Salvadori, l'immobilismo delle parti, governo ed opposizioni, ha bloccato lo sviluppo della democrazia in Italia, tra ieri ed oggi, il decisionismo liberista della seconda Repubblica potrà veramente essere una garanzia di vita democratica? Nell'era della democrazia elettronica la risposta non può essere lasciata ad un magnate dell'informazione.


Nell'età dell'informatica si controlla via etere l'opinione pubblica negli interessi strategici delle multinazionali dell'informazione; come, al momento dell'unificazione del paese, Chiesa e reazione si servivano dei briganti per impedire un processo, peraltro ambiguo, di modernizzazione del paese.


Mario Proto

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1) AA. Vv. Il brigantaggio meridionale. A cura di A. De Jaco. Roma, Editori Riuniti,
1979.
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Lacaita Editore, 1992.
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Fondazione C. Agnelli, 1994.
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6) BROSIO G. Equilibri instabili. Politica ed economia nell'evoluzione dei sistemi
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7) BUCCELLATO P. F.-IACCIO M. Gli Anarchici nell'Italia meridionale. Roma, Bulzoni
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10) CROCCO C. Come divenni brigante. Introd. di T. Pedio. Manduria, P. Lacaita
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12) DILIO M. Il viaggio di Zanardelli in Basilicata. Bari, Adriatica editrice, 1970.
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14) FORTUNATO G. Le due Italie. A cura di M. Rossi Doria. Lecce, Argo, 1994.
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dell'introduzione sono da questo volume).
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20) LUCARELLI A. Il brigantaggio politico. Pref. di L. Sciascia. Milano, Longanesi, 1982.
21) MINERVINI G. Salvemini e la democrazia. Pref. di M. Proto. Manduria, P. Lacaita
Editore. 1994.
22) MOLFESE F. Storia del brigantaggio dopo l'Unità. Milano, Feltrinelli, 1964.
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1993.
24) PEPE G. Carlo Magno e Federico II. Firenze, Sansoni, 1952.
25) PUTMAN R. La tradizione civica nelle regioni italiane. Milano, Mondadori, 1993.
26) PROTO M. Il “rischio Mezzogiorno”. Manduria, P. Lacaita Editore, 1991.
27) QUARANTA R. Un prete brigante. Don Ciro Annicchiarico. Lecce, Edizioni del Grifo,
1991.
28) ROBBINS L. Il federalismo e l'ordine economico internazionale. Bologna, Il Mulino,
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29) SALVADORI M. L. Storia d'Italia e crisi di regime. Bologna, Il Mulino, 1994.
30) SCIROCCO A. Briganti e società nell'Ottocento: il caso Calabria. Cavallino (Lecce),
Capone Editore, 1986.
31) SCOZZI F. Brigantaggio e reazione cattolica in Terra d'Otranto. Cavallino (Lecce),
Capone Editore 1986.
32) TREMONTI E VITALETTI. Il federalismo fiscale. Bari, Laterza, 1994.
33) TUCCARI L. Il brigantaggio nelle provincie meridionali dopo l'Unità d'Italia. A cura
del Comune di Lecce, 1982.
34) VILLARI R. Mezzogiorno e democrazia. Bari, Laterza, 1979.



 


 

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