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Carmine Crocco Donatelli

Come divenni brigante


Carmine Crocco Donatelli
I - L'infanzia

II - Il primo delitto

III - Brigante politico

IV - Generale dei briganti

V - Con Borjès

VI - Attacchi isolati

VII - La fuga e la prigionia

VIII - Conclusione


Se volete, potete scaricare la versione in formato PDF stampabile delle Edizioni Trabant,

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CAPITOLO I

L'INFANZIA

Il giorno 27 marzo del 1889 dal bagno di S. Stefano, ove sconto la mia pena, comincio a scrivere i miei ricordi; da questo mio scritto non aspettare cose che l'anima dell'uomo si rallegri, ma bensì dovrà rattristarsi ed inorridire.

Nel Circondario di Melfi, Provincia di Basilicata, è posto il mio paese detto Rionero in Vulture, desso è fabbricato sul pendio di una collina a levante della montagna detta Monticchio, ed il suo tenimento è coperto di vigne, oliveti, ortaglie, castagneti, campi, boschi e pascoli di meravigliosa vegetazione. Secondo alcuno la sua popolazione è di 12.000 abitanti fra i quali trovasi il vero tipo dei Lucani, di cui fa menzione Telemaco. A mezzogiorno di questo bel paese, distaccato a pochi metri dal corpo del paese stesso, si trovano una ventina di case ad un sol piano collocate al pendio di una ripa che si eleva all'altezza varia tra i 25 e 50 metri. Ognuna di dette casarelle era abitata da una famigliola di poveri pastori e coltivatori di campagna, i quali colla fatica tenevano lontano la miseria e la fame. Non mancava però fra quella gente il calzolaio, spia segreta della polizia borbonica, lo scalpellino, qualche decurione, la comare pettegola il sarto ed il maestro di scuola per chi poteva pagarlo. In fra tutte le sopradette famiglie su per giù vi erano un 200 abitanti; aggiungi ai cristiani un trecento animali fra pecore, capre, buoi, porci e somari, che fanno parte comune coi poveri, ed avrai la cifra di cinquecento esseri animati, tutti abitatori di quei affumicati tuguri.

Eppure colà si trovavano vecchi gloriosi mutilati e veterani di Napoleone, crivellati di ferite prese in Spagna, Prussia, in Austria, o contro i Cosacchi del Don; colà si trovavano uomini che avevano sostenuto le turpitudini Borboniche, Repubblicane, Murattiane, Bonapartiste, e che so io quanti altri malanni. Colà si trovavano vecchie onorate, che avevano mantenuto illibato il proprio onore dalle sozzure francesi, giacobine e spagnole, nei torbidi tempi in cui l'uomo fidava nelle sue forze la propria difesa, poichè i governi, mentre attendevano a macellarsi tra loro, fucilavano uomini inermi per bisogno di sangue, si incarceravano innocenti per bisogno di denari, per sete di vendetta. Quei vecchi nelle lunghe serate d'inverno si raccontavano le meravigliose storie della burrascosa loro vita, le battaglie vinte, gli atti di valore compiuti, il sangue che scorreva torrenti pei campi di battaglia seminati di morti e feriti, e ciò temprava gli animi nostri ad istinti bellicosi e guerreschi.

In una di quelle case di cui ora vi ho parlato, la prima domenica di giugno dell'anno 1830 nacqui io da Francesco Crocco Donatelli e da Maria Gera di Santo Mauro.

Mia madre fu sposa nell'anno 1824 e da questa data fino al 1836 in cui posso dar principio ai miei ricordi, mia madre aveva dato alla luce cinque figli cioè Donato, Carmine, che sono io, Rosina, Antonio, e Marco; il sesto era per venire al mondo, quando Iddio invidioso della nostra felicità, incominciò a flagellarci. Ora voglio raccontare quale era la felicità d'una famiglia povera.

Mio padre era pastore e contadino; quando prese moglie si divise da suo padre, comprò poche pecore ed alcune capre, e, tolto in affitto un pezzo di terra da una famiglia patrizia, cominciò a seminare grano, legumi, formentone e qualche poco di canapa. Col suo lavoro quotidiano ricavava tanto da pagare il fitto al padrone e provvedere al vitto della famiglia, mentre colle capre e colle pecore guadagnava altra moneta per far fronte alle spese di casa. Mia madre aveva ereditato un tumulo di terra, piantata a vigna, la quale era la delizia di noi creature; possedeva pure due casupole ed esercitava il mestiere di scardar lana, con cui lucrava il pane per sè e pei figli.

Sia mio padre che mia madre, che Iddio li abbia in pace, non ci lasciavano mancare nulla. Bello era al mattino quando mio padre apriva l'ovile e le capre uscivano all'aperto, saltellando per nutriti pascoli, mentre noi bambini scorazzando uniti, andavamo a gara in cerca di fiori per portare alla mamma.

E mia madre quanta bontà nei suoi sguardi pieni di affetto, quanto amore nelle sue cure, quanta assidua volontà di lavoro! Si alzava all'alba, preparava la bisaccia del marito, rassettava la casa, curava i figli e poscia con faticosa lena si dava al lavoro, sicura di guadagnare i suoi 40 centesimi prima del tramonto.

Quanta pazienza deve avere una madre nell'allevare i suoi figli! Il bimbo piange, strilla a più non posso e la mamma fa tutti i tentativi per tranquillizzarlo e spesso non vi riesce; gli dà la poppa, no; gli dà del pane, lo butta; gli dà il balocco, lo rompe; lo pone a sedere per terra, si rotola nel fango; lo corica nella culla, si butta giù, e la mamma pazienza, lo bacia, lo vince coll'amore. Eppure ho inteso da certi uomini dire: «Eh sono femmine e basta!» quale disprezzo massimo per le donne. Taci fellone: la femmina è la madre dell'uomo, la femmina è la moglie dell'uomo, senza di essa non vi è vita. La femmina è la figlia dell'uomo senza di essa non vi è padre contento; e finalmente la femmina è sorella dell'uomo e senza di essa non vi è fratello contento, né famiglia contenta.

Pensa a quanto scrisse Guerrazzi: «rispettare la donna poichè sua madre fu tale» e se questo rispetto non senti profondamente in te, impugna l'aratro e zappa la terra, tu non meriti sorte migliore.

Io sentivo per mia madre un'affezione così potente e così forte, che nei momenti di maggior orgasmo la sua memoria era sprone all'ardire ed all'audacia ed essa mi appariva col suo sguardo fiero e mi fissava vivamente in viso, come per dirmi: «colpisci, vendicami, altri non ebbero pietà di me, di tuo padre, di tua sorella!».

Ed ora dopo tanti anni vi ripeto che quel figlio che ha a sorte di nascere da una virtuosa madre, dessa avendo ricevuto il minimo oltraggio da un uomo prepotente, se non prende vendetta, egli è un codardo, un uomo dappoco. Dunque

Io che nascendo, ho creduto che sulla terra ero qualche cosa, per un oltraggio fatto alla mia povera madre, mi sono accinto a far scorrere torrenti di sangue, e vi sono riuscito a meraviglia!

Perdona lo sfogo di un animo addolorato, mio caro lettore, e sii meco cortese, favorisci con me e andiamo a casa mia. Quivi non sperar di trovare sofà, comò, tavolini, poltrone ed altri oggetti, non dico di lusso ma di comodo. Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo; una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell'altra dormiamo noi. Vedi quel misero letto sostenuto a assicelle fradicie e cavalletti arrugginiti? Là dormono mio padre e mia madre; nell'altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini, tutti in fascio come stoccafissi. Vedi nel grosso canestro? Là, dorme la sorella piccina; e nella culla, sospesa sul letto e fabbricata con pochi vimini e tolta paglia, dorme l'ultimo nato, Marco di pochi mesi. Eccoti mia madre che si strugge a scardar lana, osserva come è tutta unta e bisunta di olio.

Guarda quel cassone affumicato, contiene segala, formentone, fave, piselli e un poco di grano con cui fare il pane bianco quando Iddio ci castiga colle malattie. È il raccolto fatto da mio padre, Dio sà quanto sudore versò per pochi legumi! Alza il tuo sguardo al soffitto, vedi quei travi come sono anneriti dal fumo ed i muri carichi di fuliggine? Senti il tanfo delle capre, delle pecore, dei conigli, dei polli? Che ne dici? Sul davanzale d'una finta finestra stanno gli utensili di cucina, pignatte, tegami e piatti di creta, cucchiai di legno, una pentola di rame, ecco tutto. Approfitto della tua bontà e t'invito a sedere su queste scranne di legno, fatti a colpi di scure da mio padre, così avrò il piacere di presentarti mio zio Martino, il mio maestro di scuola. Egli è un vecchio sergente maggiore d'artiglieria ed all'assedio di Saragozza in Spagna perdè la gamba sinistra portata via da una palla di cannone; egli è nato qui. Vi è un altro vecchio che ebbe u11    braccio mozzato da un ulano ed ora quel povero uomo vive di elemosina, perchè il governo borbonico non ha riconosciuta la miserabile pensione avuta da Giocchino Murat.

Poco oltre vi è un altro vecchio cieco; perdè la vista alla Beresina, ed ora vive cantando verbum caro. Ma di grazia tu sei qui venuto per saper tutt'altro e non per sentir parlare di uno zoppo, d'un monco e di un cieco. Ma io voglio con ciò conchiudere che i Governi, generalmente parlando, non guardano mai dove nascono i figli della miseria, né come essi fanno a vivere, né si occupano in un modo qualunque onde alleviare in qualche maniere la miseria e toglierli dall'ignoranza. Invece li cercano quando son fatti uomini capaci di vivere da sé e porgere qualche sollievo ai vecchi genitori; allora ecco il signor governatore, senza dimenticarne uno solo, se li prende come sua proprietà e ne fa quello che gli pare e piace.

Il pretesto è bello, la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora.

E Patria e Legge hanno diritti e non doveri e vogliono il sangue dei figli della miseria. Ma vi è forse una legge eguale per tutti? Non dirmi ciò, non parlare di questo gigante mostruoso, poiché conosco che la legge leale non è mai esistita, nè esisterà fin tanto che Iddio non ci sterminerà tutti. L'innocente mio padre non trovò nè la legge nè la giustizia; la trovò invece Don Vincenzo C. assassino di mia madre. Riguardo a me non detesto nè la legge nè il governo, anzi sono loro debitore della vita, ma ripeto quello che Mastrogianni e Victor Hugo scrissero: «Lasciatelo vivere nella miseria e nell'infamia!!!».

Ed eccomi alle cause per le quali scaturì la scintilla che doveva dal 1860 al '64 esser causa di tanto sangue nelle Puglie ed in Basilicata.

Siamo al 1836, un bel mattino del mese di aprile, Donato, mio fratello maggiore ed io eravamo tornati dalla scuola dello zio Martino. Pochi minuti dopo entrati in casa Donato fu mandato a raccoglier l'erba per i conigli, io a comprar del sale per la cucina. Ratti come l'ape corremmo uno a levante, l'altro a ponente ed un quarto d'ora dopo eravamo di ritorno; avendo fatto ognuno il proprio dovere per bene, non ci furono busse, poiché al piccolo sbaglio correvano schiaffi e scappellotti. Per me le busse della mamma erano tanto saporite che qualche volta per averne sbagliavo appositamente.

Venne l'ora del pranzo e seduti attorno ad un tavolo con gran scodellone di minestra fumante ci ponemmo a mangiare, mentre la mamma dava il latte al suo figlioletto. Questo gruppo, che nella miseria era pur felice, fece invidia a Satana, che volle guastarlo e per sempre; in un altro cantuccio della stanzetta eravi un altro gruppo felice di bestioline, conigli e galline che mangiavano l'erba portata da Donato, e il Diavolo, forse geloso anche delle bestie, volle turbare quella felicità; anzi si servì di quelle bestie per portare la sventura in casa nostra.

Inaspettatamente un magnifico cane levriero entrò con un salto nella nostra stanza ed afferrato un coniglio se ne fuggì fuori. A quella vista noi piccini cominciammo a strillare ed uscimmo fuori per togliere la preda a quella bestia, che veniva a turbare la nostra gioia, ma pur troppo il coniglio non fu lasciato che morto. Donato, che era corso ad armarsi di un randello, assestò un formidabile colpo sulla testa del cane, ed il magnifico levriero cadde morto sul colpo.

Disgrazia volle che questo cane appartenesse ad un ricco signore, certo Vincenzo C... il quale non vedendo presso di sè la sua bestia tornò sui suoi passi e trovatala morta sul limitare della casa nostra, scagliò all'indirizzo di mia madre un milione di vituperi, e col frustino cominciò a picchiare noi di santa ragione. Mia madre cercava scusa, perdono, invocava pietà, ma era tutto fiato sprecato, che l'altro, il signorotto, volendo assolutamente sapere chi aveva ucciso il cane, continuava a tempestar di pugni il povero Donato, tenendolo fermo per un braccio. Allora mia madre vedendo flagellare suo figlio, corse in sua difesa; posò il piccino, che aveva in braccio, per terra e si scagliò furibonda verso quell'aguzzino, ma lo scellerato imbestialito le assestò un vigoroso calcio nel ventre, che la fece cadere semiviva per terra.

L'uomo brutale, dopo che ha commesso il delitto, dopo di aver dato sfogo all'infame sua rabbia, piange come il più vile degli esseri. Così fu per Don Vincenzo. Dopo aver quasi uccisa una donna incinta di 5 mesi, si chiuse nella sua camera, e incominciò a piangere. Egli piangeva non per paura della legge, per timore della giustizia, di una condanna, che a noi poveri sarebbe toccata di certo; egli ben sapeva che la giustizia abita i milioni e milioni di metri lontana dalle case dei ricchi e dei potenti, ma piangeva per l'onta e per il rimorso.

Corsero i parenti spaventati, venne il medico, ma mia madre non rinveniva; come Dio volle aprì gli occhi. Ma sarebbe stato meglio non li avesse aperti mai!

Dall'aprile del 1836 al maggio 1839 la povera donna fu costretta a guardare il letto. Chi può dire quante lacrime spargemmo noi cinque creature, il più grande ottenne, il più piccolo di due anni! Chi pensava più a noi? Chi ci puliva, pettinava, rassettava i panni? Chi ci accarezzava? Oh quante volte ho sospirato gli amorosi scappellotti della mamma!

Mio padre non poteva lasciare il lavoro, che saremmo morti di fame. Una zia ladra e ghiottona ebbe l'incarico della casa; essa rubava tutto ciò che le capitava sottomano, divorava quello che trovava di buono, lasciando per noi la roba fradicia e puzzolente. Addio scuole, addio zio Martino, parenti, compagni, amici, addio tutti!

Disperazione e miseria sono con noi. La morte ed il carcere è serbata ai miseri! Eppure abbiamo un padrone in cielo, Iddio, un signore in terra, il Re: in quei tempi avevamo Francesco II per Re, Maria Cristina per Regina; i santa ed il Re buono dei Napoletani; ma essi pensavano alle feste ed alla gloria, mentre, noi morivamo di fame.

Dopo un faticoso aborto mia madre parve migliorare, si fu allora che il padre mio partì per Venosa, alla dipendenza dei signori Santangelo per tosare le pecore e mietere campi di grano.

Don Vincenzo C. l'assassino della mia madre, chiuso nel suo palazzo aveva frattanto pensato al pericolo di una vendetta e, prudentemente, era riuscito ad ottenere che mio padre venisse cassato dal ruolo delle guardie urbane, in conseguenza di che gli fu tolto il fucile.

Ma Iddio non paga il sabato; un bel mattino Don Vincenzo, tutto solo si recò in campagna caracollando un superbo morello. Era armato come un cavaliere antico; pistole all'arcione, fucile a bandoliera, pugnale. Ma con tutto ciò prima di arrivare al punto detto La Torre, a tre miglia circa da Rionero, fu accolto da una fucilata, che lo fece ruzzolare insanguinato a terra. Un altro uomo vegliava sopra di lui ed informato precisamente di quella gita da una spia di casa, misurando luogo, tempo, ebbe agio di dar sfogo al suo odio, quasi certo dell'impunità, poichè egli ben sapeva che la colpa del mancato assassinio non sarebbe caduta su lui, ma su un altro che egli infamemente, a mezzo di vigliacche e false testimonianze avrebbe indicato alla giustizia degli uomini.

Disgraziatamente la mano del vile tremava, forse non per l'assassinio che egli si accingeva a compiere, ma per la falsa denunzia colla quale preparava la condanna d'un innocente; e fu così che la palla sfiorò la fronte di Don Vincenzo C., portandogli via una ciocca di capelli.

Il tentato assassinio di Don Vincenzo doveva essere punito anche a rischio di far vittime innocenti; bisognava assicurare i rei alla giustizia, od almeno fare qualche arresto, anzi molti arresti, per far vedere che gli sgherri del generale Del Carretto, non se ne stavano colle mani nella cintola. Chi credete che sia stata la prima persona arrestata?

Mio padre. Si, si proprio mio padre, il quale nell'ora del misfatto si trovava a Venosa, in casa di Don Felice Santangelo, a nove miglia da Rionero.

Non valsero le dichiarazioni dei suoi padroni di Venosa, nè le testimonianze di ventotto persone di specchiata probità che lavoravano assieme a mio padre; la causa a delinquere era così evidente, così naturale in lui, che niuna testimonianza poteva distruggere la convinzione ch'egli fosse l'assassino materiale e così Francesco Donatelli posto in nudo carcere, venne sottoposto a procedimento penale.

Con mio padre vennero pure arrestati altri cinque poveri diavoli, carichi di numerosa famiglia contro i quali la polizia aveva trovato una lontana ragione a delinquere contro Don Vincenzo. E con queste causali ne avrebbero dovuti arrestare parecchi altri, poichè la prepotenza eccessiva del signorotto era tale, che egli aveva questionato con tutti i contadini del luogo, ora per ragioni di passaggio, ora per derivazione di acque, ora pel pagamento degli affitti, per la divisione del raccolto ecc.

E pensare che quei severi giudici fantasticando sulle cause del delitto non ricordavano il famoso detto «Cherchez la femme!». Sicuro, proprio la donna, una druda di Don Vincenzo era stata la mandante. E quante lacrime per quella lurida femminaccia.

Chi può considerare il dolore di un uomo innocente posto in carcere, con pericolo di cadere in mano del boia. Il reo non ha dolore poichè la sua coscienza si cheta e per lo più diciamo: ho mancato e soffro un castigo che mi sono meritato; ma l'innocente non ha requie, l'innocente non sa darsi pace della libertà perduta, dell'infamia che copre il suo nome, e piange, maledice, impreca... ma tutto invano.

La prigionia di mio padre ebbe il contraccolpo nella malandata salute di mia madre. Quando la povera donna seppe dell'arresto del marito restò pietrificata, non volle più prender cibo ed in breve smarrì la ragione. Una volta piangeva, poco dopo rideva, ora si buttava giù dal letto, ora tentava uscir sulla strada in camicia, distruggeva tutto ciò che le capitava nelle mani, e guai a noi se le andavamo vicini, minacciava strozzarci. L'unica persona che potesse avvicinarla e che esercitava su di lei un ascendente era suo fratello, il quale però aveva una nidiata di figli e più che a mia madre doveva attendere a zappare la terra per dar da mangiare alla famiglia.

Mio padre dal carcere di Potenza scriveva lettere strazianti, raccomandava ai parenti, agli amici la moglie, i figli, ma intanto il piccolo patrimonio nostro andava liquidandosi e la più squallida miseria in breve battè alla porta di casa nostra.

Lo zio, il fratello di mia madre, riunì a consiglio tutti i parenti, e fu deciso che la sorella Rosina se ne andrebbe con la zia materna. Antonio andò in casa di uno zio paterno e morì poco dopo bruciato vivo; Marco, il più piccolo, capitò sotto le unghie di quella zia ladra che durante la malattia della povera mamma, si era rubato ogni cosa.

Donato andò a pastorare le pecore presso un signore, ed io seguii la sorte del fratello presso altro signore in Puglia.

Lontano dal mio paese, da mia madre pazza, da mio padre carcerato, io crebbi conducendo al pascolo armenti, crebbi col veleno nel cuore, colla rabbia nell'animo, col vivo desiderio di offendere.

Un giorno, dopo molto tempo, mi si volle a Rionero per tentare un esperimento presso mia madre nella speranza di renderle la perduta ragione. Appena giunto in casa e vista mia madre ridotta uno scheletro, feci atto di correrle incontro per abbracciarla, ma essa mi respinse inorridita ed esclamò: «toglietemi quel serpente dinanzi agli occhi».

Oh misericordioso Iddio, come sapeva mia madre che io era il serpente velenoso, che doveva mordere i miei simili, che doveva avvelenare tante famiglie; che doveva perdere la figura di uomo e prendere quella di rettile schifoso! Se avessi ponderata quella profezia, se avessi meditato solo su quel rifiuto di mia madre, forse non mi avrei lordate le mani di sangue. Ma che dico, no; furono le sventure di mia madre che mi spinsero al delitto, che mi resero inumano, talvolta feroce; e quando davo la morte a chi invocava pietà, erano le pene che aveva sofferto mia madre, che mi spingevano ad essere crudele.

Ma ohimè che serve ora a pensare al passato, dovevo essere così e così è stato! Non ero ancora ritornato in Puglia, e nonostante le ripulse materne a mio riguardo, il dottore sperava riuscire in qualche cosa utilizzando la mia presenza presso la povera pazza, quando un giorno sentii la campana della parrocchia con lugubri rintocchi chiamare a raccolta i fratelli della congregazione onde riunirli per fare il funerale di un loro fratello. Era morto Francesco A..., detto lo zio Cecco.

«Povero morto che peccato! E che volete, dopo tutto era vecchio, Dio l'abbia in pace, si è confessato, comunicato, è morto da santo: dimane avrà la messa cantata ed il cataletto, illuminazione, ufficio doppio, il sicuro concorso di tutti i fratelli della congregazione del SS. Sacramento, pace all'anima sua» questi erano i discorsi del popolino.

Di fatto la chiesa era stata parata a lutto, l'altare coperto di ceri, la bara di drappo di seta ed oro, e tutti erano accorsi per prender parte ai funerali dello zio Cecco, venerabile uomo dabbene. Ed era veramente un buon uomo, il povero morto; dove vi erano disgrazie egli era primo a soccorrere, faceva elemosine, rimproverava chi faceva male; geloso dell'onore degli altri, come lo era del suo, consigliava a far bene. La sua fisonomia, dopo il trascorso di tanti anni mi è presente e la ricordo benissimo. Era piuttosto alto, fronte spaziosa, occhi neri e grossi, petto largo, braccia e coscie erculee, con una barba bianca lunga ed ispida che gli dava un aspetto selvaggio.

La chiesa era gremita di gente, le donne singhiozzavano picchiandosi il petto, gli uomini erano muti e tristi, solo Don Leonardo Cecero, priore della parrocchia, aveva un aspetto turbato.

Incominciata la messa, intercalata dalla musica funebre, dopo l'elevazione, Don Leonardo, fatto fronte al popolo fe' cenno di voler parlare. Ognuno credeva che il degno parroco magnificasse le tante virtù dello zio Cecero, per cui in un attimo si fece un sepolcrale silenzio. Don Leonardo pressappoco così disse:

«Signori, popolo, uomini e donne voi tutti conoscete Francesco A... Egli prima di morire ha lasciato cinquemila lire per ingrandire la chiesa e mille lire pei poveri bisognosi della parrocchia inoltre mi consegnò questo incartamento pregandomi di leggerlo alla vostra presenza.

«Non tutti voi potete capire l'importanza di questo scritto nel quale vi sono citazioni abbondanti di latino e di greco, io vi dirò perciò la parte più importante.

Ai tempi, della Repubblica Partenopea, Francesco uccideva cinque persone della distrutta casa Mandorano, al tempo di Giuseppe Bonaparte, Re delle Due Sicilie, uccise un capitano francese per gelosia di male donne. Nel 1809 scannò il commissario straordinario di Re Gioacchino Murat in una alla moglie di costui. Uccise il guardaboschi Michele Spiarule, e poco tempo fa, tentò alla vita di D. Vincenzo C...

Quest'ultimo mancato omicidio lo zio Cecco lo perpetrò per vendicare l'onore della trovatella Margherita, cresciuta da lui e da D. Vincenzo sedotta, e costretta a finire in un postribolo».

Don Leonardo invocò la benedizione del cielo sulla salma del trapassato, chiese per l'anima di questi una prece dai fedeli, domandò per lui perdono ai figli, ai nipoti di coloro che furono in vece sua fucilati e promise che avrebbe tosto fatti noti tutti i fatti al Re Ferdinando II, per ottenere la scarcerazione degli innocenti incolpati dell'assassinio di D. Vincenzo C...

Dunque mio padre era innocente, e la sua innocenza era palesemente proclamata a voce alta e notoria a tutti. Zio Cecco non aveva voluto portare nel sepolcro il segreto de' suoi delitti.

Egli avrebbe potuto lasciare di sè un buon ricordo, poichè niuno lo sapeva colpevole, preferì liberarsi l'anima dal rimorso che è sentito oltre tomba; e a parer mio fece bene, inquantochè rimediò in parte minima, alle gravi sue colpe. Conosco molti che la pensano, o meglio che l'hanno pensata diversamente, e che vivi godettero pane e gloria, e morti ebbero l'onore dei ricordo duraturo mentre erano colpevoli e tristi. Conosco persone che dopo la caduta del potere borbonico si misero a capo della reazione, ebbero nelle loro mani migliaia e migliaia di scudi, segretamente iniziarono con me, pratiche perchè colla mia banda sollevassi le popolazioni, e poscia fingendosi liberali, tradirono Francesco II come prima avevano tradito Vittorio Emanuele. Ed io per non svergognare costoro, e far danno ai figli od ai nipoti di codeste anime dannate, mi tocca di morire senza confessione; e dire che potrei, con una parola, far arrossire di vergogna parenti intimi di gente a me ben nota!!... Ma non si allarmino i compromessi e i loro congiunti, io non parlerò; i loro nomi moriranno con me.

Il parroco D. Leonardo Cecero da vero ministro di Dio, mantenne la sua promessa, fu a Napoli, parlò con Ferdinando II e mio padre venne tosto scarcerato.

Ma la sua libertà fu condizionata. Dopo 31 mesi di carcere, reo solo d'essere parente d'una vittima di un signorotto, gli capitò quale contentino la sorveglianza della polizia.

E mio padre chinò rassegnato la fronte e non volle ribellarsi.

Oh moglie! oh figli! voi siete quelli che possedete la virtù di tener l'uomo avvinto alla catena.

Non così fu di me! Io crescevo coll'odio nel cuore; in me si sviluppava con l'energia fisica, un desiderio vivissimo di vendicare tutte le offese ricevute da mia madre e da mio padre.

A 15 anni mi sentivo uomo fatto; non avevo paura di nessuno e sentivo in me il bisogno di prevalermi sui miei simili, di distinguermi dall'ordinario, fosse pure con pericolo della vita.



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CAPITOLO II


IL PRIMO DELITTO


Nell'anno 1845 il caso volle che io salvassi dalle acque dell'Ofanto certo Giovanni Aquilecchia di Atella, persona facoltosa, che mi ricompensò, dell'atto da me compiuto, con 50 scudi.

Quella somma rappresentava un tesoro per me, avvezzo a guadagnare due lire al mese; mi credetti ricco, onde dato un addio alle mie pecore ed alle fertili pianure pugliesi decisi partire per Rionero. Ero assente da casa da oltre 5 anni e mi pullulavano nell'animo tanti e svariati pensieri che il ricordo dei cari genitori ebbe un'attrazione potentissima.

Mio padre aveva esercitato su di me un ascendente morale potentissimo, io non potevo comprendere com'egli uomo gagliardo e forte si fosse così volente-rosamente assoggettato alle ingiustizie sociali e avesse accettato sommesso e tranquillo tutti gli insulti più crudeli, che la giustizia degli uomini gli aveva infamemente gettati sul viso.

Francamente parlando dirò che l'idea predominante in me era quella di vincere l'animo di mio padre, di indurlo a scuotere il giogo della servitù, toglierei tutti dalla condizione di umilissimi pastori e tentar fortuna.

Il lavoro non mi faceva paura, mi sentivo sano e vegeto, ero avvezzo ai disagi, per cui avrei faticato volentieri tutto il giorno pur di coltivare col tempo un pezzo di terreno che fosse mio.

Ma purtroppo io non ero nato per zappare il suolo, a me non spettava la gioia dell'uomo onesto; il serpentello della povera pazza doveva da vero rettile schifoso avvelenare la sua e migliaia di esistenze e così purtroppo fu.

Ed ora che nella solitudine del carcere penso al passato e cerco colla mente scoprire come mai io, nato poverissimo, abbia potuto avere idee da signore sin da piccino, e non abbia di poi, col crescere della ragione, saputo vincere questa smisurata tendenza a voler prevalere, a voler essere qualche cosa, sia pure un grande infame, ne attribuisco la causa a ragioni diverse.

Prima e principalissima è stata quella poca istruzione che lo zio Martino con religiosa pazienza seppe impartirmi. E come nel regno dei ciechi lo sguercio è considerato signore, così io mescolato fra tanta plebe rozza e analfabeta, io che sapevo scrivere una lettera, che facevo versi all'innamorata, mi sentii sommamente a loro superiore.

La vita nomade condotta da fanciullo quale guardiano di cavalli, contribuì in non poca guisa a sviluppare in me il germe della grandezza.

Girando per le fiere avevo visitato Bari, Barletta, Andria, Altamura, Foggia, Gravina, Cerignola, quindi avevo appreso che il mondo, che la vita non era racchiusa tra i confini del Vulture e le boscaglie di Monticchio.

Nei contratti di vendita che si stipulavano quotidianamente vedevo le monete d'oro correre di mano in mano, ed i miei padroni aumentare il già pingue patrimonio, senza una fatica al mondo anzi standosene seduti all'ombra nelle ville loro; e pensavo al perchè fosse a loro riservata tanta fortuna, e miseria per noi che eravamo i soli a lavorare.

Aggiungi a tutto ciò un animo ulcerato dalle sventure di famiglia e non sarà difficile renderti ragione come abbia di poi trasmodato in tanta guisa, rendendomi col tempo celebre non per virtù e per bene ma per infamia e per male.

Mio padre fu sordo alle mie proposte; mostrandomi praticamente come egli fosse felice nella sua miseria, cercò calmare i miei istinti di grandezza e mi consigliò a mantenermi modesto e lavoratore.

Lo lasciai al suo podere o meglio al podere del suo padrone e di comune accordo decidemmo che io sarei ritornato in Rionero a cercar lavoro conducendo meco la sorella Rosina.

Quivi vissi felice un po' di tempo lavorando il terreno di un proprietario certo Don Biagio Lo Vaglio.

Alla masseria di questo signore benefico e buono vi erano numerose famiglie di contadini, i quali conoscendo le sventure della mia famiglia mi colmarono di gentilezze e di bontà. Il fattore, Marco Consiglio, mi assegnò la quota di terreno n. 85, un paio di buoi, la stalla n. 5, l'aratro e gli strumenti da lavoro, e mi accolse quale figlio.

In breve colla volontà e coll'assiduo lavoro m'impratichii nell'arte di agricoltura e potei dedicarmi da solo a coltivare la mia quota.

Nel primo anno il raccolto fu fecondo ed il bene di Dio compensò il mio sudore. Grano, granone, piselli, ceci, fagiuoli, patate, zucche, pomidoro, erano così abbondanti che io non sapevo dove metterli. Oh terra, madre feconda!... perciò Iddio mandò Adamo lo fece contadino e non Re!...

Fatto il raccolto, pagato il fitto ed il pedaggio dei bovi, trovai che avevo guadagnato due lire al giorno, mentre prima, dall'altro padrone, ricevevo 36 centesimi e dovevo lavorare il triplo e, quello che peggio, ero schiavo notte e giorno.

lo ero felice e contento e più di me la mia sorella Rosina che da piccola massaia mi teneva la casa in ordine perfetto.

Alla sera ci riunivamo in parecchie famiglie in una stalla a sentir le storie che ci raccontavano i vecchi. Ricordo un bel tipo settuagenario, ancora vegeto e robusto, che sapendo scarabocchiare il suo nome, voleva passare assolutamente per scienziato, e guai a contrariarlo. Egli ci parlava dei tempi della repubblica e affermava di aver preso parte alla caduta di Vienna, alla presa di Berlino, alla battaglia di Iena ed alla ritirata di Mosca. Aveva memoria ferrea e ricordava fatti storici avvenuti sotto il governo di Giuseppe Bonaparte e sotto quello di Gioacchino Murat e del brigantaggio al tempo del Cardinale Ruffo. Dopo il racconto di scene brigantesche commesse dai numerosi capibanda, dal Vandarelli di Foggia al Fra Diavolo di Itri, da Talarico a Taccone, quel vecchio, sagace ci ammaestrava dicendo: «Figliuoli miei cercate di essere sempre buoni, con la legge, coi superiori, coi signori; fuggite i cattivi compagni, fate del bene quando potete, così facendo godrete libertà e stima e sarete sempre uomini dabbene, che pur essendo poveri, servendo onestamente, si tira avanti la vita e Iddio provvede a tutto. Vedete figliuoli miei io sono più contento di mangiare ghiande cotte sotto la cenere, che polli e capponi di provenienza furtiva, e vi dico sopra il Vangelo, che val più un carlino stentato col sudore della propria fronte, che centomila ducati rubati».

Ah povero vecchio, poteva mai supporre, che colui che gli era vicino, e che di tanto in tanto gli porgeva da bere, era appunto quello che doveva rinnovellare le scene luttuose e nefande di Fra Diavolo e dei Vandarelli! E non per una sera soltanto io ascoltai quei paterni consigli e sentii quel vecchio ripetere il ritornello: «Fate bene ed avrete bene».

Io da quei racconti appresi il bene ed il male; finchè la partita mia si mantenne nel bene fui buono anch'io, quando poi fu urtato dal male, adoperai il cattivo e di peggio divenni il serpente mostruoso.

Non credere però che Carmine Donatelli Crocco sia veramente un ladro ed un assassino, o come taluni credono un funesto soggetto; niente di tutto ciò. La mia ferocia si riduce alla difesa personale ed essendo di complessione forte, di pronta percezione, di acuto intendimento e di lesta mano, un secondo di tempo che l'avversario mi concedeva, egli era cadavere, con qualunque arma, fosse pure a sassate. Del resto, amante della quiete, della pace, dell'ubbidienza, del rispetto dovuto al superiore, alla legge, pronto a soccorrere il mio simile, io non cercai mai litigi, ma... guai a chi mi stuzzicava.

Sono 25 anni che sono rinchiuso in case di pena, non ho mai questionato con alcuno ed avrò divisi un paio di centinaia di rissanti che senza di me avrebbero sparso sangue.

Ma torniamo alla storia e con essa ai bei anni di mia giovinezza.

Nella masseria dei signor Lo Vaglio lavoravo un mattino dei maggio 1847 ad arare terreno, quando un giovanotto di famiglia nobile, montato sopra un superbo cavallo ed accompagnato da una decina di bracchi, mi passò poco distante.

Fermai l'aratro ed appoggiato il braccio a tergo in atto di riposo fissai quel giovanotto che avanzava verso di me; un mio compagno di lavoro vedendone in quella posizione di ozio, passandomi vicino mi disse: «Tocca giovinotto, che fa notte, non perder tempo a guardare il figlio di quel scellerato Don Vincenzo C..., ti potrebbe capitar sventura, per quanto si dica ch'egli non sia come suo padre brutale malvagio».

«Ed io, caro zio Matteo, risposi, voglio attenderlo per dargli una lezione, che se poi non si accontenta, gliene darò una seconda che sarà soverchia».

Quel giovanotto, come ben ricorderai o lettore, era il figlio dell'assassino di mia madre; immaginati il mio stato d'animo in quel momento.

Quando fu alla mia portata mi diressi a lui e con voce rata esclamai: «Ehi pertichino, chiama a te i cani, altrimenti... »; con questa frase io speravo provocare la sua era, dar luogo ad un litigio, per freddarlo di poi con una fucilata e dire, e uno, ma Iddio non volle.

Il giovine patrizio fermò il cavallo, smontò, chiamò a sé cani, poi venne alla mia volta e mi salutò domandandomi perchè gli avevo detto di chiamare i cani, e se questi arrecavano danno.

«Sicuramente signor Don Ferdinandino, risposi io poichè essendo il grano in fiore, dove mette piede il cane, rompe il tenero stelo e la spiga va perduta, e ciò a tutto danno nostro poichè il padrone di danni non vuol saperne e sull'aia si paga colla misura».

«Vi assicuro che non sapevo ciò, soggiunse il Signorino e vi ringrazio della lezione, di grazia come vi chiamate bel giovanotto?».

«Sono Carmine Donatelli Crocco per servire vostra signoria».

Il signorotto montò a cavallo e partì di galoppo; verso sera venne da me certo Vito De Feo, massaro di pecore alla fattoria La Torre, pregandomi di favorire dal signorino Ferdinandino C... che aveva bisogno di parlarmi.

Non volevo si potesse lontanamente supporre ch'io avessi paura, onde indossai la giacca, mi assicurai che vi fosse il coltello ed in compagnia di compare Vito mi avviai alla Torre.

Fui ricevuto come non credevo, un bicchierino di rosolio, dei biscotti di Francia, un sigaro avana ed invitato a sedere su d'una comodissima poltrona.

Don Ferdinando portò il discorso sulle disgrazie di mia famiglia facendomi diverse domande; per tutta risposta gli presentai un manoscritto nel quale era per filo e per segno narrata la storia delle nostre sventure.

Il Signorino lesse e senza dimostrarsi contrariato mi disse:

«Ieri avete cercato adunque di provocarmi?».

«Se vostra signoria ieri adoperava il frustino come soleva fare vostro padre, risposi, vi avrei data una fucilata; dopo avrei preso il vostro cavallo, mi sarei recato da mio padre, e seco lui avrei fatto giustizia di tutti i testimoni che vennero a dire il falso contro mio padre».

Il Signorino parlò a lungo, disse che le colpe dei padri non devono cadere sul capo dei figli; mi assicurò ch'era disposto a soccorrere tutte le vittime di suo padre, a cominciare dalla mia famiglia, e mi offri il posto di fattore in una sua masseria.

Ringraziai, ricusando il posto di fattore ed accontentandomi di avere in affitto tre tumoli di terra, coi quali speravo guadagnare i duecento scudi necessari per esimermi dal servizio militare. Il Signorino voleva a tutti i costi offrirmi in regalo la somma per l'esenzione del servizio, ma rifiutai, pregandolo di offrirmi quanto mi sarebbe mancato al momento della leva.

Così rimanemmo intesi ed io me ne tornai a casa pieno di entusiasmo per Don Ferdinandino e lieto di speranze per me.

Ma il destino mi era contrario.

Il giovane patrizio essendo immischiato nei partiti politici, nella rivoluzione del 15 maggio 1848, in Napoli fu trucidato dagli svizzeri mercenari sotto il palazzo del Duca di Gravina, e mancandomi il suo appoggio e conseguentemen-te i duecento scudi, dovetti recarmi alle bandiere.

Eccomi soldato di Ferdinando II; partii da Potenza il 19 marzo 1849, arrivai a Napoli il 26, ammesso al I reggimento d'artiglieria.

Il 24 giugno andai a raggiungere la mia compagnia di sede di Palermo.

Il servizio militare mi era simpatico, e non mi pareva pesante; quello che non potevo soffrire era il vedere quasi tutti i giorni bastonare i compagni, che per non essere attenti cadevano in qualche mancanza disciplinare. In quanto a me abituato al duro tratto dei castaldi pugliesi, la disciplina rigida e severa non mi spaventava. Sulle prime piangevo pensando al paese, agli amici, alla fidanzata (che si scordò subito di me sposando un altro, che poi io le tolsi per farlo brigante); ma grado a grado mi abituai e fui ottimo soldato di rara condotta, come risulta dai ruoli matricolari del I reggimento artiglieria, 2a compagnia.

Il 16 dicembre 1851 partii da Palermo ed il 18 stesso mese giunsi a Gaeta mia nuova guarnigione, ove mi trovai meglio essendo meno lontano da' miei cari.

Mia sorella aveva frattanto raggiunto i suoi 18 anni. Era di statura giusta, di complessione snella, aveva la testa coperta da una selva di biondi capelli, mento ovale, occhi neri, naso e bocca giusti, viso tondo, petto largo e gonfio.

La poveretta senza padre e senza madre, lontani, separata dal fratello, soldato, campava lavorando 14 ore al giorno, ed era felice nella sua miseria. Carattere fiero ma indole amorosa non era rimasta indifferente alle proteste d'amore di un suo coetaneo contadino, onde di tanto in tanto canterellava: palombella che zompa e vola nelle braccia di Nenna mia.

Ma un giorno una donna infame, una mezzana, certa Rosa... con finta ipocrisia e falsa affezione cercò insinuarsi nell'animo vergine della pastorella e quando credette il momento le propose il turpe mercato con un signorotto certo Don Peppino C...

N'ebbe in risposta una rasoiata in viso, equo compenso all'iniquo mestiere. La sfregiata nascose la sua ferita, mia sorella fuggì in casa dei parenti chiamando loro in protezione ed aiuto.

Stavano così le cose quando ricevetti da Rionero lettera colla quale mi si narrava l'accaduto.

Lascio alle persone di cuore il considerare quale fosse lo stato dell'animo mio nel leggere quella lettera, quale tempesta agitò il mio cuore. Un disonesto ci aveva trascinato nella miseria e alla disperazione, un altro della stessa specie, di una casa infame (poichè sei fratelli avevano cadauno la propria ganza, consapevole la madre, anzi questa serviva da mezzana) voleva toglierei l'onore e la reputazione.

Non potendo più tollerare tanta iniquità sociale, mi frullò nelle vene quel sangue inacidito che da fanciullo aveva cominciato a guastarsi. Una voce mi gridò: «Ah non ti ricordi che da piccolo era qualche cosa sulla terra, è ormai tempo di metterti all'opera e di finire una volta di essere vile».

Avevo da tempo in sospeso una quistione di onore: mi liberai di quel tale che da tanti giorni mi era d'impaccio, poscia strisciando al suolo come un serpente, per Mola, Caserta, Avellino, giunsi alla casa di mia sorella in Rionero.

A notte fatta bussai alla porta.

«Chi è» domandò una timida vocina.

«Aprimi Nezza mia, sono io» risposi commosso.

«Tu qui a quest'ora Carminuccio! Che facesti, fuggi, fuggi subito per carità; la notizia del tuo delitto è giunta fra noi, ieri Don Luigi me ne fece parola; hai ucciso un tuo compagno è vero?».

In quel momento ebbi paura, abbracciai e baciai la mia diletta sorella, la consigliai a mantenersi onesta e poscia uscii sulla via.

Don Peppino il bellimbusto che aveva mercanteggiato l'onore di mia sorella, faceva vita scioperata al Circolo, ove ogni sera si giocava impunemente all'azzardo.

Rincattucciato in un angolo oscuro presso la porta di casa sua, attesi tranquillo la vittima; un buon colpo di pugnale punì l'audacia di quel libertino.

Compiuta la vendetta mi diedi alla campagna ove in breve ebbi a compagni di mestiere altri tre individui, essi pure ricercati dalla giustizia.

Nascosti nel più fitto delle boscaglie, noi si aggrediva chi ci capitava limitando le nostre imprese a svaligiare i viandanti, rubar loro coi denari i cavalli.

Capitato nelle mani degli sgherri di Del Carretto fui condannato a grave pena e mandato al bagno penale.



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CAPITOLO III

BRIGANTE POLITICO


Le vittorie di Garibaldi ebbero per effetto di far insorgere i cosiddetti liberali della Basilicata; i comitati segreti che facevano capo a Corleto avevano da tempo preparato le popolazioni a insorgere contro il mal governo borbonico, per cui in tutti i paesi era un tacito affeccendarsi a prontar armi, a fabbricar cartucce per essere pronti a menar le mani nel momento designato.

Credetti giunto il momento della mia riabilitazione morale. Condannato a grave pena per aver ucciso un vile, che aveva cercato disonorare l'unica mia sorella, io aveva con l'astuzia e con la forza, vinta la continua persecuzione dei gendarmi, guadagnandomi la libertà con altro sangue, la vita con rapine ed aggressioni.

Sotto un governo nuovo, da tutti proclamato liberale, nel trambusto d'una rivoluzione generale, in momenti di entusiasmo e di giubilo, io speravo sorgere a vita nuova, riacquistare quella libertà perduta, per l'onore della famiglia, onde approfittando dei moti popolari mi mescolai cogl'insorti di Rionero e con essi presi parte al moto rivoluzionario.

Non la mia povera penna deve descrivere la storia dell'insurrezione della Basilicata, altri che sono dotti e letterati avranno in proposito scritti volumi, che a me non fu e non sarà dato di leggere, posso però con sicura coscienza affermare che in quei giorni non commisi atti disonesti, ho fatto sempre e dovunque il mio dovere, mostrandomi audace ed intrepido nei momenti di maggior pericolo. Fremeva a me riabilitarmi specialmente di fronte ai paesani, e far vedere ch'ero pronto a dare il sangue mio per l'idea liberale, cercavo tutti i mezzi per distinguermi e così avere persone che potessero a tempo opportuno testimoniare in mio favore.

Ma era scritto ch'io non avessi pace mai; mia madre mi aveva profetizzato serpente, ed io da rettile velenoso dovevo avvelenare il mio paese, la mia bella regione e rendermi celebre per atti briganteschi.

Le spie che avevano servito S.M. Francesco II, cambiando bandiera non cambiarono mestiere; i parenti di Don Vincenzo C... ebbero paura che la mia presenza in Rionero potesse portare danno alla tranquillità delle loro famiglie; i fratelli del signorotto, da me ucciso perchè cercava sedurre mia sorella, si unirono anch'essi agli altri e tutti uniti vollero la mia rovina.

Vivevo tranquillo in paese da due mesi, sicuro di avere ottenuto una tacita grazia pei delitti prima compiuti, quando nel novembre 1860 fui segretamente avvertito, esservi per me un mandato d'arresto, spiccato dalla regia autorità giudiziaria.

Compresi il pericolo che mi minacciava e senza por tempo in mezzo mi salvai, dandomi alla campagna. Ormai in me non rimaneva che odio e desiderio di sangue, mi ero cullato nella speranza di una riabilitazione, che forse, dato i miei istinti, sarebbe venuta meno da sè più tardi; essa invece venne troncata, non per causa mia ma per la infamia dei miei nemici, per cui crebbe in me il desiderio di vendetta e con esso il bisogno di vivere.

Mi unii con altri, che si trovavano presso a poco nelle mie condizioni, e, scelto per dimora la foresta di Monticchio, armato di fucile iniziai le nuove gesta colle aggressioni di viandanti.

La mancanza assoluta di soldati, lo scarso servizio fatto dalle guardie civiche, ci resero in breve temerari e baldanzosi, offrendoci mezzo ai ricchi sequestri, a taglie onerose, a guadagni abbondanti.

Protetto dal terreno eminentemente boschivo, aiutato dai pastori e dai bosca-ioli dei luogo, gente derelitta che traeva un'esistenza miserissima, la mia piccola banda crebbe di numero reclutando fuggitivi delle patrie galere, i contumaci alla giustizia, i molti renitenti alla leva ed i non pochi disertori del Regio Esercito. Ma coll'aumentare della forza numerica crebbero i bisogni indispensabili non solo all'esistenza, ma alla difesa personale, come più tardi si sentì la necessità di provvedere il materiale necessario all'offesa.

Ed allora scorazzando per le campagne cominciammo a requisire cavalli ed armi; tanto che in breve comandavo una ventina di briganti bene armati e meglio equipaggiati, che già avevano sostenuto brillantemente il battesimo del fuoco in un scontro coi militi di Atella.

Conveniva trarre vantaggio da tutto ciò che poteva essere utile alla nostra esistenza, cercare per quanto era possibile l'ausilio dei pastori, dei poverelli, approfittare della crassa ignoranza dei nostri cafoni, per apparire ai loro occhi, non come malfattori comuni, ma come vittime di un'ingiustizia; farsi paladini di un'idea, di un principio e con esso e per esso aver aiutato materiale e morale di tutti coloro che, non contenti del loro stato, avevano nel cuore un'amarezza e nella mente l'idea della ribellione.

La reazione che in qualche punto cominciava a rialzare il capo fu per me arma potentissima che valse a rendermi forte e temuto.

Per quanto deficiente d'istruzione letteraria, l'ingegno non mi faceva difetto, onde compresi tosto tutto l'enorme vantaggio che mi sarebbe venuto facendomi banditore d'una lotta reazionaria. Coll'aiuto di abili confidenti, seppi in breve accaparrarmi tutti coloro ai quali la rivoluzione era stata di danno, dai più sfegatati borbonici, ai melliflui liberali, dagli impiegati, che avevano perduto un lauto stipendio, ai preti e ai frati, resi furibondi dalla legge contro i possessi del clero.

Segretamente aiutato dagli uni e dagli altri, il povero pastore di capre, andava man mano acquistando potenza e prestigio, tanto che il nome di Crocco, per tutte le campagne del Melfese, veniva accolto con entusiasmo, come già un Masaniello per Napoli.

E dopo tanti anni passati in carcere, ancor oggi sento entusiasmarmi pensando ai primi giorni dell'aprile 1861, quando dalla boscaglia di Lagopesole, alla Ginestra, a Barile, a Ripacandida, per tutto il Melfese ero acclamato quale novello liberatore ed accolto con onori veramente trionfali.

Il grido d'onore dei miei satelliti era un evviva pel caduto Francesco II (da me costantemente aborrito), l'emblema una bandiera bianca con nastri azzurri; le armi ci erano fornite segretamente; i cavalli in parte requisiti e in parte avuti in dono. Comitati reazionari con arruolamento segreti fornivano l'elemento uomo, onde in breve ebbi ai miei ordini un piccolo esercito, del quale n'ebbi regolarmente il comando, quale Generale ufficialmente nominato e riconosciuto da tutti i centri dipendenti.

Promettevo a tutti mari e monti, onore e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza d'impadronirsi degli armeti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti il recupero delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche onorifiche.

E così mentre io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemento infimo, ignorante ed ambizioso, il clero ed i nobili borbonici si servivano dell'opera mia per avantaggiarsi nella reazione.

La mancanza di truppe regolari nei paesi ch'io percorrevo, era incitamento ai più titubanti per darsi in braccio alla reazione; in ogni canto della Basilicata si parlava con certezza di una imminente levata di scudi del decaduto Franceschiello, appoggiato dall'Austria, dalla Spagna, e tacitamente aiutato dalla Francia, anzi si vociferava che un poderoso esercito, domata la Puglia, avanzasse vittorioso e trionfante verso la Basilicata.

A poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m'ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria.

Abilmente preparato il moto reazionario scoppiò il 7 aprile alla Ginestra. Contadini, pastori, cittadini di ogni età e condizione al grido «Viva Francesco II», corsero ad armarsi di fucile, di scure, di attrezzi colonici e in massa compatta avanzammo su Ripacandida. La notizia che le guardie mobili di Avigliano e Rionero muovevano unite contro di noi, portò un po' di sgomento nella mia gente; conveniva a me, all'inizio della spedizione, non espormi ad una facile sconfitta, affrontando i militi nazionali in aperta campagna. Una disfatta anche parziale avrebbe influito enormemente sullo spirito delle popolazioni, facendo svaporare quell'entusiasmo popolare, ch'io con tanto lavoro segreto, avevo grado a grado saputo destare per ogni dove. Ad una lotta aperta e cruente preferii la guerra d'astuzia, per cui, lasciata la via, m'internai nei boschi ove sarebbe stato facile l'agguato e la vittoria.

La Ginestra era il mio impero, la sede sicura, il centro della mia forza, e di là mossi risoluto su Ripacandida. Attaccai violentemente ed in breve fui padrone della caserma dei militi e in possesso delle loro armi. La folla selvaggia ch'io comandavo non aveva freno, nè a me conveniva mitigarla.

Quella mia condiscendenza alla distruzione, al saccheggio, era fomite per me di maggior forza avvenire, l'esempio del fatto bottino traeva dalla mia altri proseliti anelanti di guadagnar fortuna col sangue.

Lasciai quindi ognuno libero di sè ordinando solo si rispettassero le famiglie dei nostri compagni d'armi.

Nel conflitto avuto coi militi paesani, il loro capo era caduto morto, il cadavere di costui trascinato per le vie venne portato innanzi all'abitazione della famiglia sua mentre la folla ne saccheggiava la casa. Durò per più ore la baldoria ed il ladroneggio e solo verso sera pensai a riordinare quell'orda ubbriaca.

Prima cura fu quella di decretare decaduta l'autorità imperante, e chiamato a consiglio i caporioni, nominai una giunta provvisoria che doveva sedere al municipio e di là emanare decreti e proclami. Volli che per le chiese venisse cantato il Tedeum in onore della vittoria, e si abbattessero tutti gli stemmi del nuovo governo innalzando quelli, già abbandonati, del Borbone.

Da Ripacandida a Barile breve è il cammino; numerose sollecitazioni mi chiamavano colà a liberare la plebe dalle sozzure dei ricchi prepotenti, per cui mossi tosto per quella volta, e, preso possesso del paese, ne ordinai il governo come avevo fatto per Ripacandida.

Le vittorie di quei primi giorni se avevano allarmato, non a torto, i signori, avevano per altro affezionato alla mia causa migliaia di contadini, così che correvano a me da ogni dove a stuolo numerosi armati per mettersi ai miei ordini. Compresi come dovessi, senza perder tempo, prendere possesso di centri più importanti, per cui inviai alcuni fidi in Venosa perchè mi preparassero il terreno.

Ed il mattino del giorno 10 col mio piccolo esercito di predatori mossi alla conquista della vetusta Venusia.

Sapevo che la città (8000 abitanti) era preparata a difesa e che in aiuto della guardia civica erano giunti i militi di Palazzo S.Gervasio, ma sapevo altresì che in paese la mia venuta era attesa da molte persone, e che queste non erano tutti il popolo, ma in buona parte signori.

A mezza via fui informato che la milizia civica, allarmata dalla forza che era ai miei ordini, aveva deciso chiudere le porte, asserragliare le vie, portandosi ad occupare il castello.

Giunto in vicinanza della città, ripartii la mia forza in diversi gruppi a cadauno dei quali assegnai un settore di attacco; mentre ero occupato in tale operazione, vidi sventolare dall'alto delle chiese alcune banderuole bianche, segnale a me ben noto, per cui ordinai senz'altro l'attacco. Ma fu un attacco incruente, poichè scavalcate le mura mi vennero aperte le porte senza colpo ferire, ed io entrai coi miei occupando subito la piazza principale, di dove mossi per assalire il castello.

Dalle grida di gioia e di furore dei miei, a cui faceva eco l'acclamazione popolare, la difesa comprese tosto essere vano ogni suo sforzo; pochi colpi di fucile sparati contro la mura ebbero il merito di ottenere una resa a discrezione, sotto promessa di lasciar a tutti la vita.

Venosa era mia ed in men che non si dica io ricevevo le congratulazioni dei maggiorenni, mentre a migliaia affluivano a me le suppliche d'ogni genere e specie.

Prima mia cura fu di spalancare le carceri, nominare un consiglio reggente e pubblicare il nome delle persone che dovevano aver rispettate le proprietà e la vita, pena morte ai trasgressori.

Dal 10 al 14 io rimasi coi miei in Venosa spogliando, depredando, imponendo taglie, distruggendo uomini e case, facendo man bassa su tutti coloro che erano nemici della reazione.

Dopo Venosa era stata decisa l'occupazione di Melfi, dove i nostri amici avevano tutto preparato perchè fossi accolto cogli onori dovuti al mio grado.

Il 14 aprile 1861 lasciai Venosa e mi gettai su Lavello accolto da quella popolazione al grido «Viva Francesco II».

Raccolto in paese quel poco che ci fu dato trovare, stante le poche risorse sue e nominata la solita Commissione a governo del Municipio, mi affrettai avanzare su Melfi che con plebiscito popolare aveva decretato decaduto il potere regio.

Fra le non poche soddisfazioni ch'io pure provai nell'avventurosa mia vita, io ricordo con viva compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò il mio ingresso nella città di Melfi, capoluogo di circondario. A qualcuno, leggendo queste memorie, potrà apparire esagerato il mio scritto, ma giuro non sul mio onore, ma sulla sacra memoria di mia madre, che non esagero, che non mento, e d'altronde credo che parleranno di ciò i documenti ufficiali.

Ai piedi della non breve salita che, staccandosi dalla rotabile, conduce alla porta principale, fui accolto, al suono delle musiche, da un comitato composto delle persone più facoltose della città, mentre suonavano a distesa le campane a festa, e dai balconi, gremiti di persone e parati con arazzi variopinti, le donne lanciavano fiori e baci.

Giunto sulla piazza principale il signor     dall'alto del suo sontuoso palazzo dopo un acconcio discorso inneggiante le virtù e glorie del governo Borbonico, invitò il popolo ad acclamare in Crocco, il fiero generale del buonRe Francesco II.

Rispose a quell'invito un triplicato «Evviva a Crocco», mentre sparavano per le vie i mortaretti in segno di maggior contento.

Nella chiesa, addobbata riccamente per me, era stata esposta la Madonna del Carmine, perchè io rendessi omaggio devoto alla Vergine che mi aveva protetto portandomi vincitore e illeso dopo tante ed aspre lotte. Alla sera del mio ingresso per tutta la città vi furono luminarie, feste, balli e baldoria.

Siccome in Melfi, come già dissi, la restaurazione mi aveva prevenuto, io trovai già emanate tutte le disposizioni opportune, anzi quei signori mi avevano del pure prevenuto distruggendo tutti gli archivi (miei nemici mortali) ed aprendo le carceri, come era mia costante abitudine.

Non altro però, mostrando un massimo rispetto per me, quei padri consiglieri vollero ch'io sanzionassi l'opera loro, cosa ch'io feci approvando tutte le disposizioni da loro date e prese.

I nemici della restaurazione furono proscritti, i loro beni confiscati, le case loro saccheggiate; a tutela dell'ordine pubblico venne creato un servizio speciale utilizzando gli uomini più fedeli della mia masnada, costoro dovevano con ogni mezzo, tener a freno i miei masnadieri, impedire che avvenissero scene di sangue, pena la vita ai trasgressori. E poiché l'esempio era indispensabile, ricordo di aver pubblicamente fatto fucilare, un tale di Atella, reo di aver saccheggiato la casa di un reazionario.

Utilizzando le armi requisite a Venosa e quelle sequestrate in Melfi nonchè i cavalli raccolti per via, ordinai tutta quella massa scomposta che mi seguiva, ripartendole in centurie, agli ordini di un capitano, ed in reggimenti sotto il comando di colonnelli.

Due centurie erano a cavallo sotto gli ordini di un maggiore.

Ma purtroppo non potetti godere a lungo gli ozii di Melfi inquantochè venni informato che da Bari, da Potenza e da Foggia erano in marcia, contro di me dirette, numerose colonne di truppe regolari. Compresi ben tosto che, se mi era tornato facile col mio esercito di predoni, affrontare le milizie civiche, ed attaccare città indifese e preparate alla resa, mi sarebbe però stato impossibile combattere all'aperto contro truppe regolari, munite di artiglieria e cavalleria. Nè mi conveniva in conseguenza trarre meco tutte quelle persone che sino ad ora mi avevano seguito, per cui, dopo un'acconcia selezione tra i volontari, lasciai in libertà i meno utili e nella notte del 18 aprile, colle lacrime agli occhi e colla bile nel cuore, lasciai Melfi dirigendomi sul territorio di Avellino.

Mentre le truppe del Re Vittorio Emanuele (un battaglione del 30° ed uno del 5° fanteria) il giorno 19 entrarono in Melfi, io assalivo il paesetto Carbonara, costringendo i cittadini a fornirmi viveri per la mia gente ed oro per la paga.

A Calitri dopo fiera lotta contro i militi paesani, ebbi splendida vittoria e con forte taglia al comune ed ai proprietari, colmai le nostre casse, preparandomi una buona riserva di denari pei giorni di riposo.

L'arrivo delle prime truppe regolari aveva sollevato gli abbattuti spiriti delle guardie civiche, onde le compagnie di militi già in via di sfacelo si andarono riordinando sotto il comando di arditi cittadini e diedero man forte ai soldati nell'opera di repressione. Contemporaneamente il rigore dei comandi militari, che con bandi avvertivano delle gravi pene che andavano incontro tutti coloro che aiutavano in un modo qualsiasi la reazione o gli sbandati reazionari, influì enormemente non solo ad assottigliare la mia banda, ma diminuire l'appoggio dei confidenti e delle spie.

Soffocati ovunque i moti reazionari, rientrati i vari paesi nella orbita della legge, crebbe ne' vari centri l'audacia dei liberali, e nei pubblici Circoli parlando di noi, già un dì terrore della popolazione, ci trattavano da pastorelli, da gente dappoco, facili a fuggire alla vista d'una canna da fucile.

Avevo occupato il paese di Sant'Andrea ove avevo deciso sostare alcuni giorni per dar riposo alla banda, quando seppi da un confidente che il villaggio di Conza il comandante della guardia nazionale aveva, la sera antecedente, proferite ad alta voce parole di sprezzo verso di me, soggiungendo ch'egli coi suoi militi si sentiva capace di mettermi in fuga colla mia banda. Per punire cotanta superbia i miei capi mi suggerirono di muovere tosto alla distruzione di Conza; non fui dei loro parere, e chiamato un mio compagno d'armi gli ordinai di montare a cavallo e consegnare al sindaco di Conza la seguente missiva:

«Signori di Conza.

Occupo come ben sapete, Sant'Andrea colla mia banda. Vi intimo, pena la mia venuta costà, di mandarmi la bandiera tricolore del comune, il quadro del Re Vittorio Emanuele e quello di Garibaldi esistenti nella sala del Consiglio, non che la cassa della fondiaria.

Il tutto dovrà essermi presentato dal Comandante la Guardia Nazionale di persona.

Dò tempo otto ore.

Carmine Crocco Generale di Francesco II».

Sei ore dopo quel comandante era avvilito ai miei piedi implorando pietà per la vecchia madre che sarebbe morta di dolore, ed io pensando a mia madre, gli lasciai salva la vita.

Ai primi di maggio trovando difficoltà a trarre mezzi di sussistenza stante la forza della mia banda, e per sfuggire la caccia senza tregua a noi fatta dalle truppe e dalle guardie nazionali, divisi la mia masnada in diverse bande dando per punto di riunione i boschi di Lagopesole.

La chiamata alle armi delle classi anziane napoletane per essere incorporate colle altre truppe del Regio Esercito, offri mezzo di arruolare nelle mie file un elemento veramente ottimo sotto ogni riguardo.

Ai primi del mese di giugno dovevano i riservisti presentarsi ai depositi per essere vestiti della militare divisa, ma la maggior parte di essi preferirono darsi alla campagna anziché seguire le sorti dell'esercito, e così ebbi campo di assol-dare uomini più provetti alle armi ed abituati alle fatiche de' campi ed alla disciplina.

I moti reazionari soffocati in sul nascere non lasciarono tracce profonde nei vari paesi. La mano ferrea destinata a domare la reazione seppe vincere colla forza e colla clemenza: le poche vittime della controreazione sono da incolparsi alle inimicizie paesane, a basse vendette cittadine, più che al rigore d'una legge che doveva essere marziale.

Molti di coloro che avevano gridato, «Viva Francesco II», «Viva Crocco», all'arrivo delle truppe gridarono «Viva Vittorio», «Viva Cialdini» e passarono per liberali come furono da noi creduti dei reazionari.

A me che della reazione ero capo, sarebbe spettata certo la fucilazione alla schiena, e poichè mi sentivo giovine ed amavo la vita, credetti prudente difendere l'esistenza con tutte le forze che mi venivano da un fisico vigoroso, per cui lasciato da un canto la politica ed i politicanti, ritornai qual'ero prima, brigante comune, costretto ad assalire i viandanti, a imporre taglie per dar da vivere a me ed alla mia banda.

Seppi più tardi, non so con quanta verità, che tra coloro che più avevano contribuito a farmi ricercare dalla giustizia, eravi il Cav. Giulio Roland, governatore della Provincia ed il sottoprefetto Decio Lordi, quegli cioè che mi aveva prima fornite le armi, ed i cavalli per combattere in favore della rivoluzione.

Non si faccia adunque gran colpa se con tanta facilità io avevo voltato bandiera; l'esempio mi veniva dall'alto, da coloro che dovevano essere d'esempio perchè allo stipendio del Regio Governo.

Al Cav. Roland scrissi parecchie volte esortandolo a farsi trovare a tiro che volevo seco lui accomodare una vecchia questione, invitandolo a proseguire nel suo sistema sbirresco, che non gli sarebbe mancata rapida carriera e la gratitudine dei miei fessi compaesani, sempre felici di essere poveri e cornuti per opera dei piemontesi.

Col sottoprefetto mi si presentò occasione favorevole di risolvere di persona la questione; ma il diavolo ci mise la coda, e quel fortunato mortale, mi sfuggi proprio nel momento che pensavo al suo supplizio.

Ma non accelleriamo gli avvenimenti.



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CAPITOLO IV

GENERALE DEI BRIGANTI


Siamo al 10 agosto dell'anno 1861; mi presento a te, cortese lettore, non più come capo riconosciuto dei moti reazionari, ma bensì come generale di formidabile banda brigantesca.

Ho il cappello piumato, la mia tunica ingallonata, un morello puro sangue, sono armato sino ai denti, e quello che più conta, esercito il comando su mille e più uomini, che muovono ed agiscono ad un mio cenno.

Sul far del giorno mi avvicino verso un paesetto, nominato Ruvo del Monte, situato sul pendio di una collinetta, ombreggiata da fronzuti castani, da ubertosi vigneti. Qua e là per l'ombreggiante terreno incontro piccole ma ridenti villette e grosse masserie. Spicca da lungi una gigantesca torre, che sovrasta sul diroccato castello feudale, e palesa l'antichità del villaggio.

Ho ai miei ordini 1200 uomini e 175 cavalli; le campane della parrocchia suonano a stormo, indizio certo che gli abitanti si preparano alla difesa delle loro vite, delle loro sostanze e del loro onore. Mi fermo ad un mezzo miglio distante dalle prime case e scrivo al Sindaco ed alla Giunta la seguente lettera:

«Egregio sig. Sindaco e Signori di Ruvo del Monte.

Sono qua in presenza vostra, non per farvi male, ma bensì per pregarvi affinchè le SS. LL. Ill.me abbiano la bontà di fornirmi per oggi il foraggio per 1200 uomini e 175 cavalli, pagando lo sconto in oro sonante.

Fatto ciò proseguirò il mio cammino; spero che Loro nobili signori esaudiranno la mia preghiera e non mi obbligheranno ricorrere alla forza. Dò un'ora di tempo per rispondere.

Sono: Carmine Donatello Crocco»

Dopo mezz'ora ricevo la seguente risposta:

«Caro Carminuccio.

Non possiamo assolutamente accettare la fattaci richiesta; essa non solo ci compromette col R. Governo ma tocca il cuore ed il nostro amor proprio. E siccome ci troviamo ben forniti di cartucce e vogliamo provare la nostra polvere ed il nostro coraggio, così aspettiamo che ti faccia avanti coi tuoi pastorelli che noi ti faremo il piacere di ucciderli.

Il miglior consiglio che noi ti possiamo fare è quello che tu vada via e presto, poichè fra poco verranno forze da Rionero, da San Fele e da Calitri, ti metteranno in mezzo e sarà finita per te e tuoi.

Sindaco Biasucci»

Dopo data lettura di questa lettera ai miei compagni, così dissi loro: «Giovanotti bisogna vendicare col sangue non solo il rifiuto, ma l'insulto, di averci chiamati pastorelli; chi ha fegato mi segua».

Disposi quattro centurie sul fronte, che avanzarono furibonde sul paese, accolto da un fuoco di moschetteria ben nutrito ma poco diretto, mentre altri 200 uomini ebbero ordine di attaccare di fianco. I cavalieri lasciai a guardia sulla strada di Rionero coll'ordine di spingersi in avanti per assicurarmi in tempo da ogni arrivo di truppe; un'altra centuria la diressi sulla strada di Calitri collo stesso mandato. I rimanenti uomini agli ordini di Ninco-Nanco lasciai indietro per la riscossa.

L'attacco fu simultaneo e terribile. In eterno onore di quei valorosi cittadini caduti, posso assicurare che disputarono palmo a palmo quella loro cittadella. Perduta la prima posizione avanzata; si appostarono sulla piazza; cacciati anche di là, presero posizione sul largo della chiesa e dopo aver sparato tutte le cartucce ingaggiarono una lotta corpo a corpo coi miei. Sopraffatti dal numero, tentarono ridursi alla torre, e trovata chiusa la via, si disposero a morire, quando le donne si buttarono piangenti tra i combattenti implorando pietà e grazia pei loro padri e pei loro mariti e figli. Sulla torre sventolò bandiera bianca, così la lotta finì, ma le vie erano seminate di cadaveri ed i miei si davano al saccheggio.

L'autorità municipale sedeva in permanenza, onde, quando entrai nel palazzo del comune, trovai i consiglieri al loro posto.

Ordinai mi fossero consegnati il ruolo della guardia nazionale, i fucili e le munizioni dei militi, cassa del comune e quella della fondiaria.

Mi si rispose che facessi terminare le stragi e l'incendio, e sarei esaudito. Così fu fatto.

Ricordando quella famosa giornata io mi domando ancora dove quei poveri cittadini avevano potuto apprendere l'arte della guerra, da esplicare tanta resistenza e tener fronte, in numero di circa 300, per diverse ore a 1000 e più uomini giovani, sitibondi di piaceri e di bottino.

Quei prodi non avevano preso parte mai nè a piccole nè a grosse manovre, anzi la ferocia del governo borbonico proibiva loro di portar il fucile, e per aver il porto d'armi bisognava pagare 5 scudi.

Oh, perchè il Borbone non seppe utilizzare tanto valore e tanto eroismo così spontaneo, nei figli di questa forte regione, cosicchè il potente esercito borbonico fu messo in fuga da un pugno di giovanotti e questi furono chiamati eroi,e vili quelli? La verità di quelle facili vittorie, la causa delle fughe, il facile sbandarsi e chi nol sa!

Bisognava vedere un quartiere militare borbonico che cosa era; ed io lo vidi e lo conobbi. Ho visto quante infamie si commettevano, e la frusta, il bastone e le fucilazioni sommarie, e le punizioni tremende, di guisachè in noi soldati prevaleva il concetto: «Questo regno è tuo e de' tuoi sbirri, difendili da te e con i tuoi, non io morirò per la gloria tua e per conservare sul tuo capo la corona».

Ma qualcuno mi dirà, e con ragione, come mai tu che conoscevi le infamie del Borbone, dopo la caduta di questi, ti sei rimescolato nel fango ed hai messo tu ed i tuoi compagni alla mercè d'una causa, che aveva destato in te tanto orrore.

Non si parli di me, io allora mi ero già macchiato le mani di sangue, la mia persona era cercata, lottavo per vivere, ero il serpente ricordato dalla povera mia madre, morta pazza nel manicomio di Aversa.

Torniamo a Ruvo. Sul cader della sera lasciai nel pianto quel villaggio e feci la ritirata sulle colline delle Frunti a un miglio appena dai primi fabbricati. La notte da tutti i paesi limitrofi mi giunsero corrieri, coi quali mi si faceva conoscere lo scoraggiamento dei paesi o la partenza di dispacci per riunire forze contro di me, onde ne dedussi, che nel dì seguente non sarei stato disturbato. Fatto giorno organizzai una nuova compagnia di reclute che armai coi magnifici fucili di Ruvo; portai la cavalleria al numero di 190 coi 15 cavalli tolti ai Ruvesi; verso mezzogiorno venne il capo-banda Agostino Sacchitello con 162 uomini e 60 cavalli, tutti armati di splendidi fucili e di numerosi munizioni, cosicchè tutti uniti raggiungemmo la forza di 1541 uomini e 256 cavalli, i migliori delle Puglie.

Sul cadere del giorno 11 mi fu riferito che l'autorità governativa non se ne stava con le mani alla cintola. Il comando della forza era in Rionero, ove s'erano riuniti drappelli numerosi di vari distaccamenti. Se ben mi ricordo, vi era un battaglione di bersaglieri, uno del 62° fanteria, tre battaglioni di guardie mobili, due compagnie del 32° fanteria e molta guardia nazionale.

Il comando aveva deciso attaccarmi vigorosamente nella mia posizione tentando l'accerchiamento. Sapevano ch'io ero ferito, ma non pensavano che la tigre ferita fa tremare il cacciatore.

Sicuro di non essere molestato, verso il meriggio calai su Ruvo ove mi feci medicare la ferita, e verso sera colla fanfara in testa presa la via che conduce al fiume Ofanto, nella direzione di Calitri. Ognuno credeva che io mi avanzassi per occupare Calitri, invece a notte avanzata, cambiai inaspettatamente direzione e dopo tre ore di contromarcia mi fermai in una posizione che mi parve assai forte.

Questa posizione era costituita da una massa boscosa riparata di fronte e, lateralmente a destra, dalle ripide sponde di un torrente detto Vomina, mentre a tergo ed a sinistra si trovava una pianura estesa, che permetteva alla cavalleria di manovrare.

In questa posizione decisi aspettare le truppe, pronto a morire anzichè abbandonarla.

Allo spuntare del giorno successivo la truppa giunse a Ruvo, e, avuto notizie della mia partenza e della direzione presa, si pose all'inseguimento, sicura di sorprendermi nei boschi di Castiglione oppure in quelli di Monticchio.

Le mie spie, dopo accompagnate le truppe fino all'Ofanto, mi informarono che queste avevano riposato nella località Scona, da me lontana otto miglia di pessima via.

Per meglio raffozzarmi nella posizione presa, pensai far costruir una palafitta, di circa 400 metri di fronte, a forma di mezza luna. Spiegato sommariamente ai miei uomini lo scopo della difesa, ne ordinai la costruzione ed in un attimo duecento scuri cominciarono a tagliare arboscelli, così che in poche ore io avevo fatto costruire un forte riparo pei tiratori, i quali rimanevano coperti di fronte alle nude praterie presso cui passava la strada carrozzabile che da Melfi conduce a Napoli.

Verso le due del mezzogiorno, il Sottoprefetto Decio Lordi di Muro Lucano, avuto il cambio, lasciava la città di Melfi per prendere la sottoprefettura di Eboli. Scortato da una compagnia di guardia mobile e da una dozzina di gendarmi montati, se ne veniva a cavallo per la carrozzabile, quand'io informato del passaggio, lo feci assalire da' miei cavalieri.

Sorpresi da una brillante carica, i militari della guardia dovettero cedere le armi senza poter combattere, mentre il fortunato Decio si salvò a stento con due gendarmi, mercè la velocità della sua cavalcatura. In quel conflitto caddero morti tre militi e sei furono feriti.

Comandava la scorta un giovane luogotenente di San Fele e fu mercè sua se la guardia nazionale superstite, in mezzo a tanto desiderio, nei miei, di uccidere, potè tornar sana e salva in paese. Il padre di quel luogotenente aveva altra volta beneficiato mio padre, onde salvai la vita a lui ed a' suoi.

Prima che si accomiatasse pregai l'ufficiale di riverirmi il comandante piemontese posto alle mie calcagna, e di avvertirlo che lo avrei atteso alla macchia di Toppacivita, di dove non mi sarei mosso per un po' di tempo.

Ritornato in paese l'ufficiale narrò l'avventura occorsale poichè subito dopo ricevetti una lettera, concepita presso a poco in questi termini:

Rionero in Vulture, 13 agosto 1861 «Sig. Carmine Donatelli Crocco.

Rendo grazie della libertà accordata ai miei dipendenti caduti nelle vostre mani. Una seconda volta nell'interesse del paese, di tante famiglie e nell'interesse vostro, io vi invito a deporre le armi e vi assicuro che non sarete fucilati e la causa vostra sarà rimessa alla clemenza sovrana. Dimani non verremo pel lasciarvi tempo a riflettere. Se nonostante questa mia insisterete a mostrare ribelle alla legge, sarò costretto, mio malgrado, darvi la caccia per avervi o vivo o morto.

P. C.»

Ecco la mia risposta:

«Signori a tutti ossequi

Non posso assolutamente aderire alla vostra domanda perchè S. M. Vittorio Emanuele ha rigettato l'istanza dell'avvocato signor Francesco Guarini e rigetterà ancora ogni altra, anche appoggiata da V. S. E siccome non voglio servire da trastullo a chi assisterebbe alla mia fucilazione, così sono pronto a vendere a caro prezzo la vita.

Sovvengavi che nel posto che io occupo ora, nel 1808 fu trucidato un intero reggimento di Re Giocchino Murat.

Carmine Crocco»

Fedele alla parola data il Comandante piemontese stette 24 ore inoperoso nella speranza che io mutassi consiglio; questo tempo fu per me preziosissimo poichè ebbi mezzo di rafforzarmi nel mio piccolo campo trincerato.

Vedevo con piacere con quanto ardore i miei pastorelli lavoravano; essi avevano compreso di quanta utilità potesse tornar loro quella specie di siepe, fatta di pali, fascine, terra e sassi; e misurandone l'altezza, la resistenza, facevano pronostici sull'imminente combattimento. Il Coppa, più feroce tra tutti, aveva giurato di ubriacarsi di sangue, come gli era successo a Caiazzo, altri men feroci facevano tra loro promesse brutali, e tutti erano animati da un vivissimo desiderio di lottare.

In me prevaleva la certezza della vittoria e la tranquillità spontanea della mia persona, la nessuna preoccupazione per l'attacco avevano vinti i più timidi, di guisachè in tutti più che speranza era viva la sicurezza di un prossimo trionfo.

Non dovete però credere che i miei fossero tutti pastorelli.

Avevo un piccolo esercito con quadri completi, un capitano, un luogotenente, un medico, sergenti maggiori, caporali tutti appartenenti al disciolto esercito borbonico. Avevo seicento soldati di tutti i corpi, cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori, minatori, granatieri della guardia e che so io. Che importa se costoro erano pastori, contadini, cafoni? Forse che gli eserciti attuali non sono composti tutti di figli della miserabile plebe? Che se poi dovessi io sciegliere fra due reggimenti uno di studenti, l'altro di pastori o di contadini sarei sempre pei secondi, perchè avvezzi al freddo, alla fame, alle fatiche ed al camminare. Non dico che gli studenti siano vili; no, Iddio mi guardi da sì infame calunnia, ma preferisco l'uomo rozzo, il cafone, più facile ad allenarsi, più pronto ad ubbidire, meno esigente nel mangiare, e incapace di criticare gli ordini ricevuti.

Avvisato dalle spie dell'avanzata delle truppe, feci sortire dal campo i miei cavalieri, divisi in cinque plotoni che diressi in cinque diverse direzioni, col mandato preciso di esplorare lontano lontano e di riferire.

Ci dividevano dai soldati sei buone miglia di strada, ciò non pertanto, appena la truppa uscì da Porta di Napoli, noi dall'alto della posizione con buoni cannocchiali potemmo osservarla e seguirla ne' suoi movimenti.

Ai primi raggi del sole nascente luccicavano le armi e le uniformi degli ufficiali; questi erano tutti montati chi su mule, chi su cavalli; avevano la sciarpa azzurra a tracolla, la pistola al fianco e qualcuno il fucile alla spalla.

Mentre le colonne avanzavano silenziose, io pensavo a quel comandante piemontese ed a' suoi ufficiali, che avevano di noi meridionali un concetto così basso, che ci credevano tutti vili e come tali trattavano le popolazioni che davano loro ospitalità.

«Vedrete, vedrete cosa sapranno fare questi miei pastorelli», mormoravo tra me e me. «Qui tra noi non troverete il lusso di fucili rigati, ma vecchi archibugi, non sciabole affilate e accuminate, ma scuri taglienti, pistole a pietra focaia, lunghi pugnali, coltelli catalani. Senza il lusso di ricche uniformi, anzi laceri e scoperti, scalzi o con scarpe di tela, cappellaccio alla calabrese, cartuccera alla cintola, noi di pastorelli abbiamo solo le sembianze ma siamo pronti a ricevervi da pari a pari».

E con tali pensieri mi preparai alla lotta. Appostai dietro alla palafitta 800 uomini, i meglio armati ed i più risoluti; a circa 300 metri da loro, dentro il bosco, ne collocai 200 armati di fucile da caccia, colla missione di proteggere la ritirata in caso di sconfitta, mentre altri 200 collocai sul fianco al coperto per irrompere nel momento decisivo. Ogni drappello di 200 uomini era comandato da un capo, chiamato capitano, che aveva alla sua dipendenza sottocapi e sergenti maggiori. Per ogni 10 individui vi era un caporale. Gli uomini disarmati, per deficienza di fucili, ebbero l'incarico di trasportare i feriti dalla palafitta al bosco grande.

Ciò fatto mi consigliai col vecchio capitano Antonio Bosco, col luogotenente Francesco N., col sottotenente Luigi Siciliano e coi vecchi sottufficiali dell'esercito borbonico, ed all'unanimità si convenne che le nostre posizioni erano formidabili e che solo l'artiglieria avrebbe potuto farci sloggiare.

Lasciai il comando di tutti al capitano Bosco, che, dopo giuramento, nominai colonnello, e poscia postomi alla testa dei cavalieri mi avanzai contro la truppa coll'intento di attirarla gradatamente sotto il tiro dei miei compagni appostati dietro la palizzata. In caso di sconfitta la ritirata doveva farsi in direzione di Monticchio verso la chiesa di S. Michele.

Rivolto ai miei vecchi compagni di mestiere, già avvezzi alla musica del piombo, ordinai loro di montare in sella e di prepararsi al cimento.

Erano con me il feroce Ninco-Nanco, il sanguinario Giovanni Coppa, Agostino Sacchetiello, suo fratello Vito, Giuseppe Schiavone, Michele Di Biase, Tortora Donato Teschetta, Gambini, Palmieri, Cavalcante, Serravalle, Teodori, D'Amato, Caruso, Sorotonde ed altri.

Alla testa di questi rinomati briganti v'era il serpente, giusta la profezia di mia madre. Divisi in cinque squadroni avanzammo in colonna serrata fino al ponte di Atella ove sostammo sopra un poggio dominante la fiumana. Dall'alto della posizione ebbi campo di scorgere l'avanzata della truppa; la chiesa di S. Lucia era già occupata dalla fanteria mentre altre truppe avevano oltrepassato il cam-posanto.

Come di uso primo a comparire fu il battaglione di bersaglieri, che con mirabile ardire passò a guado il torrente ed avanzatosi presso di noi cominciò ad aprire un fuoco vivissimo, dopo il quale a baionetta in canna, ed al grido di «Savoia» mosse all'attacco.

Noi certamente non restammo colle mani alla cintola. Dodici carabine a revolver, giunte la sera da Napoli assieme a sessanta revolver di fabbrica inglese, dovevano essere sperimentate, e furono le prime a vuotare i loro globi di rotazione contro i bersaglieri.

Vidi con i propri occhi cadere fulminato un caporale, un altro soldato rovesciarsi al suolo mortalmente ferito, il cavallo del maggiore colpito al petto cadde per non più rialzarsi; ma i bersaglieri da veri indemoniati avanzavano sempre, così fu necessario lasciar la posizione e ritirarci in una bella pianura.

Approfittando di un momentaneo slegamento, prodottosi nel battaglione che ci aveva attaccati, quando i soldati erano giunti sulla collina da noi occupata e poscia abbandonata, ordinai ai cavalieri di fare fronte indietro in battaglia e muovere alla carica.

Il nostro movimento rapidissimo sorprese i bersaglieri che avanzavano stanchi alla spicciolata e produsse gran disordine nella colonna, e sarebbe toccata mala sorte se l'apparire di un battaglione del 62° fanteria non avesse frenato il nostro ardimento, costringendoci a fuggire. Dopo un miglio di galoppo guadagnammo la masseria Mezzanotte.

Le truppe avevano dato il segnale alt ed il battaglione del 62°, che ci aveva inseguiti, ebbe ordine di ritirarsi e si andò a riunire colle altre truppe nel piano detto Cartolico.

Approfittai di quella tregua momentanea per visitare i miei uomini, i bersaglieri ci avevano ucciso un compagno e ne avevano feriti sei; dei cavalli, sedici erano stati feriti alcuni di daga e altri da colpi di fucili; spedii i feriti al mio piccolo campo trincerato, poscia ci rassettammo alla meglio, stringemmo le cinghie ai cavalli, e, distesi in cordone, ci ponemmo in osservazione.

Un battaglione di guardia nazionale avanzò di fronte e giunto a portata di tiro aprì il fuoco; noi rispondemmo tosto ed ai primi colpi cadde, come seppi di poi, il figlio di mio zio, Michele Crocco, esattore della fondiaria. La lotta era ingaggiata arditamente da ambo le parti, piovevano le palle ch'era un piacere a vederle smuovere il suolo asciutto, quando due compagnie strisciando al suolo giunsero non viste sulla nostra destra e ci attaccarono alla baionetta.

Quell'urto inaspettato scompigliò i miei cavalieri che a tutta corsa si ritirarono inseguiti dalla truppa.

Ma essendo i soldati a piedi e noi a cavallo tornò facile porci fuori tiro, poscia, utilizzando diverse capanne di pastori, ci ponemmo in agguato.

La truppa avanzando sempre celermente guadagnò in breve la distanza che ci separava, ed avuto sentore della nostra presenza dietro le capanne, cominciò a sparar colpi, dopo i quali al grido di «Savoia» venne all'assalto.

Ma l'astuzia e l'arte dell'inganno prevalse al valore. Una metà di noi finse ritirarsi e venne inseguita; l'altra metà girando da sinistra a destra, con rapido movimento piombò sul fianco della colonna e, rotto il centro, costrinse la coda a ritirarsi, mentre la testa veniva caricata dai miei, ritornati improvvisamente all'assalto.

Riavutisi dall'inaspettato tranello, la colonna si riordinò quando noi eravamo già lontani. In questo scontro ebbi il cavallo ferito da un colpo di baionetta. Certo Vito..., della città di Avigliano, provincia di Potenza, dopo di aver combattuto contro di noi da vero leone, vistosi accerchiato, fe' atto di consegnare il fucile, e mentre un mio compagno gli si avvicinava per ricevere l'arma, egli con rapido movimento gl'immerse la baionetta nel fianco; a tal vista io, che mi trovavo vicino, gli feci fuoco a bruciapelo. Colpito in pieno petto ebbe campo di volgersi contro di me e lanciarmi un tremendo colpo di baionetta, che per caso colpì in mia vece il cavallo. Poco dopo quel valoroso spirò.

Scopo mio era di attrarre gradatamente la truppa sotto il tiro dei miei compagni appostati alla palafitta, onde la ritirata e le fughe avevano una direzione costante. Il battaglione di guardia nazionale che ci aveva sempre inseguiti con ammirevole lena, andò a dar di cozzo contro i compagni appostati e venne accolto da una terribile scarica. In breve la strada fu coperta di cadaveri e feriti; i soldati non potendo muovere all'assalto, essendo impossibile superare le ripide sponde del torrentaccio, oltre il quale i miei erano in posizione, fu giuoco-forza rispondere col fuoco al fuoco nostro. Ed infatti durò per un po' di tempo l'azione, poi i cittadini armati si ritirarono dirigendosi verso le truppe retrostanti che venivano avanzando sulla nostra destra.

Io coi miei stanchi compagni, con 19 prigionieri, entrammo nella piccola fortezza ove trovai tutto nel massimo ordine. Gli amici invidiavano la sorte a noi toccata e si lamentavano di quella loro lunga attesa, contraria alle abitudini loro. Tranquillizzai tutti assicurandoli che fra non molto sarebbe venuta anche per essi l'occasione di muover le mani. «Non dubitate dissi loro, poichè fra poco sarete più fortunati di noi. Guardate come il Comandante nemico se ne viene a noi cheto, cheto, come il romita che recita il rosario. Chi sa cosa rumina pel capo quel vecchio avanzo di Crimea. Sapete cosa mi fa tremare? È il sangue freddo, è la flemma di quell'uomo. Oh come lo vorrei vincere, non tanto pel piacere di far scorrere dell'altro sangue, quando per dimostrare e fargli toccar con mano come nelle provincie del nostro disgraziato paese, vi sono uomini che valgono tanto per quanto valgono gli altri uomini della terra; per insegnare a cote-sta gentaglia piemontese, che con motti arguti ci chiamano: «testoni, codardi, cafoni, rozzi, ignoranti e bigotti», come anche noi abbiamo del fegato e del cuore!».

Ciò detto volli render conto della situazione e soggiunsi: «Abbiamo avuti due morti, un prigioniero, sette feriti e ventun cavalli messi fuori di combattimento. A nostra volta abbiamo sequestrati venti soldati, settantacinque fucili e parecchie munizioni, i morti di truppa se li conteranno loro. Cosa faremo dei prigionieri? Se attaccati saremo costretti a fuggire, chi è vivo ha per dovere, prima della fuga, uccidere quanti più ne può, almeno i morti non parleranno; all'opposto se non saremo oltre molestati, domanderò il cambio di essi coll'uni-co nostro.

«Voi Giovanni, Giuseppe e Agostino Schiavone montate tosto a cavallo, andate da Beppe Ninco-Nanco, fate riunire il personale, lasciate solo venti persone colà imboscate agli ordini di Andreotto e coll'incarico di custodire la posizione da quel lato. Il resto del personale trarrete con voi occupando la collina della Caprareccia di Mezzanotte.

«Colà giunti farete uscire una pattuglia di venti persone coll'ordine di perlustrare le colline di Cartoffo, la strada ed il vallone della masseria. Qualora il Comandante piemontese mandasse da voi uno de' suoi battaglioni, è vostro compito non impegnarvi a fondo, anzi dovrete, con fuoco in ritirata, attrarlo sotto il tiro dei nostri. I cavalieri si spingeranno verso la bicocca cercando di tener occupato il battaglione di bersaglieri. Al resto penserò io».

Nel mentre io facevo ai compagni un tal ragionamento, la truppa evidentemente stanca, era stata messa in riposo. Gli ufficiali riuniti a gran rapporto, con le carte topografiche alla mano, udimmo il segnale dell'attenti, e, formata in colonna, la truppa avanzò verso di noi.

«Eccoli! esclamai io, eccoli che si avanzano contro la nostra posizione coll'in-tento di fucilarci tutti quanti, coraggio adunque fratelli, facciamo loro vedere che noi pastorelli sappiamo riceverli bene e siamo pronti a scannarli, come sappiamo scannare i capretti. Coraggio adunque io sono con voi; se dovessimo sloggiare da qui, sarò sempre io l'ultimo ad uscire».

L'attacco fu iniziato da un battaglione di guardia mobile rinforzato da un battaglione di guardia nazionale. Dopo un fuoco nutritissimo la guardia mobile mosse all'assalto, accolta da un fuoco micidiale, fatto dai miei uomini appostati alla palafitta.

Sconcertato da una resistenza non prevista quel battaglione si arrestò, e, scosso dalle numerose perdite, volse le spalle.

Ma a rinforzo immediato giunse il bravo battaglione del 62° fanteria; questo battaglione composto in maggior parte di piemontesi, soldati vecchi avvezzi alla guerra, non fece come i nostri mobilitati, avanzò con ordine perfetto combattendo con un sangue freddo che mi faceva paura. Impavido attaccò di fronte e giunto a metà della salita i soldati presero la posizione di a-terra, iniziando contro di noi un tiro lento ma preciso, nell'intento di stancarci col fuoco, obbligarci ci dar fondo alle munizioni e poscia assalirci con le baionette in canna.

Chiamai in rinforzo i 200 uomini di riserva, che portai sulla linea di fuoco coll'ordine di risparmiare possibilmente le munizioni.

Il battaglione di guardia mobile, forte dell'esempio del 62° si riordinò anch'esso e con rapido cambiamento di fronte si portò all'attacco della mia ala sinistra, mentre quasi contemporaneamente il 62° al Grido di «Savoia» si gettò sulla palafitta.

Quel che successe più non ricordo; un frastuono terribile, urli, bestemmie misti a lamenti di feriti, nubi di fumo alte si elevavano in alto e coprivano per lo spazio di centinaia di metri, non lasciando distinguere quel che avveniva.

Un capitano e dodici soldati penetrati arditamente nell'interno della palafitta erano caduti in mano dei nostri, mentre tutto all'ingiro si continuava a far fuoco.

Finalmente la tromba del comando suonò ritirata, e fu per noi il miracolo della salvezza, poichè un minuto ancora ed i miei allarmati da quell'attacco così accanito, sarebbero di certo fuggiti, anzi molti si erano di già ritirati e ritornarono solo, avvisati della vittoria delle nostre grida di gioia.

Erano le 12,00 e da circa 8 ore noi resistevamo all'attacco triplicato della truppa sotto i raggi del sol leone. Se la disparità marcatissima del numero così grande di noi in confronto dei meschini battaglioni che ci assalivano, non ci avesse resi forti e temerari, forse quel giorno avrebbe segnato lo sterminio della mia banda. E nonostante tanta disparità di forze, ci sarebbe toccata rovina completa egualmente, se il Comandante piemontese, non avesse commesso lo sbaglio di non far concorrere all'assalto i bersaglieri, lasciandoli inoperosi in riserva a sorvegliare i miei cavalieri. Contribuì eziandìo alla nostra salvezza la mancanza di cavalleria nella truppa; un plotone di arditi cavalieri avrebbe influito colle sue precise informazioni a far si che non si venisse a dar di cozzo contro una posizione rafforzata e così ben difesa.

Conveniva a me far vedere agli ufficiali ed alla truppa che la lotta sostenuta non ci aveva moralmente e materialmente allarmati, per cui ordinai al comandante i miei cavalieri di passare tosto la fiumana e portarsi in avanti a minaccia, spingendoci a masseria Occhio di Lupo.

Il Comandante piemontese, malgrado il caldo soffocante, la visibile stanchezza dei suoi e l'ora già avanzata, decise un ultimo attacco, ed a tal fine tolse i bersaglieri dalla riserva, che sostituì con 500 uomini di guardia nazionale. Di ciò si avvide il feroce Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco, il cui solo nome metteva terrore nelle popolazioni. Da uomo scaltro, ben conoscendo che quei militi erano armati di fucili da caccia privi di baionette, e che la massa era composta in genere di padri di famiglia, e di non pochi borbonici arrabbiati, divenuti liberali loro malgrado, Ninco-Nanco decise tosto di attaccarli coi suoi uomini a cavallo. Detto fatto, per un tratturo coperto si avvicinò inosservato e poscia a galoppo sfrenato caricò furiosamente.

Sorpresi da tanta audacia i militi si sbandarono ed in loro soccorso dovette accorrere la truppa regolare, mentre Ninco-Nanco coi suoi, con abile dietro fronte si pose in salvo.

Quest'attacco inaspettato convinse il Comandante piemontese a lasciarci tranquilli per quella giornata almeno, ed infatti la truppa rientrò in paese.

Col mio binocolo ebbi mezzo di osservare la truppa che si ritirava e distinsi pure i miei, caduti prigionieri, che legati e scortati dai bersaglieri erano al centro della colonna. Senza por tempo in mezzo scrissi questa lettera:

Masseria Signorelli, li 14 agosto 1861

«Signor Maggiore,

Mandami qua un capitano della truppa attiva e l'avvocato D. Emanuele Brienza, coi quali debbo conferire sulla sorte dei tuoi uomini caduti in mio potere.

Vostro devotissimo Carmine Donatelli Crocco»

Un paio d'ore dopo giunse a me un sergente per conoscere meglio cosa volessi colla mia lettera.

Risposi che avevo con me cinquanta soldati compreso un capitano, e che dodici dei miei compagni erano caduti nelle mani della truppa; se il comandante faceva fucilare i miei uomini, io a mia volta avrei fatto scannare i suoi soldati, incominciando dal capitano, e che ero disposto a lasciarli tutti liberi purchè venisse fatto altrettanto per i miei.

La notizia che il capitano era vivo, ebbe per effetto l'immediato ritorno dei miei a cui risposi mettendo in libertà tutti i soldati caduti nelle mie mani.

La giornata del 14 agosto 1861 se fu fatale per noi lo fu maggiormente per la truppa e più specialmente per la guardia nazionale. Nei vari paesi del circondario di Melfi molte famiglie vestirono a lutto, e nel lontano Piemonte altre famiglie piansero un loro caro da noi trucidato; e chi sa che ancor oggi vi sia qualche vecchierella che dica ai nipotini: «tuo nonno e tuo zio, fu ucciso dai briganti, vittima onorata del dovere compiuto; ma Iddio giusto ha sterminato tutti i vili assassini e chi non è morto fucilato è morto in galera».

Iddio non ha voluto ch'io morissi e dopo 30 anni, nel ricordare quel sangue fatto spargere, sento in me il più profondo tra i dolori, che tormentano questa misera esistenza.

Il corpo brigantesco la sera del 14 agosto 1861 essendo stanco e finito prese riposo sulla posizione non perduta di Toppacivita.

Lettore, mentre la mia banda sfinita dalla stanchezza riposa sul luogo dell'avuta vittoria, io voglio parlarti di un nostro bivacco.

I briganti, quando non sono minacciati da vicino dalla truppa, dormono normalmente all'ombra di fronzute quercie, sdraiati a terra alla rinfusa; per guanciale hanno un sasso od una zolla, per coperta il cappotto od il mantello; i fucili sono appoggiati alle piante colle cartucciere spese ai calci. Sul fronte, ai lati, a tergo, tutto all'ingiro della posizione, vedette avanzate vegliano attente, mentre le spie segrete stanno presso le truppe. I capi riposano in luogo appartato sotto capanne costruite con fronde d'alberi con terra e paglia sopra giacigli abbastanza soffici, accompagnati talvolta dalle loro amanti. A rinforzo delle vedette appostate su cocuzzolo di un monte, sulla cima di un albero, sull'alto di qualche diroccato castello, vi sono i cani, feroci mastini che fiutano la preda a distanza maggiore che l'occhio non giunge. I cavalli pascolano liberi nel folto del bosco riuniti a decine con cavezza e filetto.

I feriti, gli ammalati del giorno, sono ricoverati nell'interno del bosco con abbondante paglia e qualche rara coperta. Sono curati con affetto, la pratica supplisce la scienza e l'arte: le ferite sono lavate con acqua ed aceto, i farmaci normalmente usati sono: patate, filacce, fascie, bianco d'uovo, olio di olivo sbattuto e foglie d'erba chiamata stampa cavallo.

Può apparire ridicolo che la patata sia medicina utile, ma è proprio utilissima, almeno per noi briganti era riconosciuta tale. Le patate ben pestate danno un unguento latteo, che ha la potenza di trarre a sè il sangue guasto, la velenazio-ne della polvere; esso ingranella la carne filacciosa, fa sparire il gonfiore e restringe lo squarcio. Per le ferite di punta e di taglio si usava olio sbattuto e foglie di pelosella, che si trovava abbondante nei luoghi aridi e montuosi.

Pel rancio la banda è ripartita in gruppi ognuno dei quali è presieduto da un caporanciere; sul pendio meno ripido della posizione in luogo possibilmente coperto, perchè il fumo non ci tradisca, si accendono i fuochi; poco lontano i cucinieri sono intenti a scannare capretti, scuoiare maiali, spennare polli e tacchini, e mentre altri tagliano legna per avere brace abbondante, la carne è pronta per essere arrostita.

I viveri vengono requisiti nelle ricche masserie e spesso nei villaggi con arma alla mano; durante la notte si circondano le case e mentre alcuni tengono sequestrati i contadini, altri svaligiano le stalle, i pollai e le cantine. I denari per la paga vengono forniti dai signori reazionari e liberali, i primi con elargizione spontanee e secondi forzatamente con minaccia in caso di rifiuto, di taglio di piante, incendii, devastazioni ed altri simili danni.

II 15 agosto 1861, giorno dell'Assunzione, per festeggiare la vittoria avuta contro il presidio di Rionero, volli che ornassero il nostro desco duecento pecore, un migliaio di polli, due botti di vino, il tutto tolto, in massima parte, dalla masseria dei capitano Giannini di S. Fele.

Per la paga, i capi hanno una percentuale sulle taglie e sui ricatti, i gregari un tanto al giorno, gli avventizi cinque scudi per cadauno all'atto che sono licenziati.

Ed ora che ho divagato abbastanza con descrizioni noiose e superflue, torno alle mie gesta, agli atti briganteschi da me compiuti dall'agosto 1861 al cader dell'anno stesso.

Dalla forte posizione di Toppacivita, dopo gli scontri avuti, io non mi ero mosso, anzi avevo ordinato di meglio rafforzare quella palizzata-ricovero, per essere in grado di resistere a nuovi attacchi, mentre numerosi zappatori erano intenti ad abbattere i pali telegrafici e tagliare i fili per interrompere le comunicazioni.

Il Comandante delle forze piemontesi residenti in Rionero misurata la forza della mia banda in confronto dei suoi magri battaglioni, non seppe far altro che chiedere rinforzi, ed in attesa del loro arrivo ci lasciò tranquilli.

Le campagne, non a torto terrorizzate dalle carneficine della mia banda, erano spopolate, le strade erano deserte, vuote le masserie campestri. Rigorosi bandi militari, imponevano a tutti i cittadini, pena la fucilazione, di non uscir dai paesi dopo l'Ave Maria della sera, di guisachè regnava ovunque uno squallore profondo, un senso di tristezza e di desolazione.

Tale condizione eccezionale di cose nuoceva indirettamente alla mia banda, perchè veniva a mancare, come si suol dire, la merce al mercato, per cui decisi abbandonare la macchia di Toppacivita e di trovar mezzo all'esistenza, piombando inaspettato sui piccoli paesetti sguarniti di milizie cittadine e di truppe regolari.

Occupai Rapone constringendo le popolazioni a versare forti contributi in denaro ed alimenti, taglieggiai i signori di San Fele imponendo ricatti e gravezze, e dopo di aver gravato di taglie diverse persone di Atella, colla banda ridotta a mille uomini circa, entrai nella boscaglia di Lagopesole.



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CAPITOLO V

CON BORJÈS


Vivevo aggredendo, taglieggiando, uccidendo di tanto in tanto, quando da un pastore di Tricarico ricevetti un biglietto del brigante Serravalle in cui mi si chiedeva appuntamento nella masseria Carriera.

Fu qui, nell'ottobre del 1861, ch'io conobbi il Borjès generale spagnolo venuto per ordine di Francesco II a tentare di sollevare i popoli delle Due Sicilie.

Quell'uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l'ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell'animo mio una forte antipatia poichè compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante la mia banda, per indossare quello di sottoposto.

Egli, un povero illuso venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un'armata, aveva creduto trovar ovunque popoli insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda, l'ottimo elemento che la costruiva, le buone armi e gli eccellenti cavalli.

L'esperienza, maestra della vita, mi consigliava a non far appoggio sull'aiuto dei reazionari, se non volevo ripetere un'altra fuga come quella di Melfi; però era d'incitamento per noi, a non rifiutare il chiesto aiuto, il pensiero che guidati da un esperto uomo di guerra, avremmo potuto aver ragione sulla forza, conquistare paesi e città, ove non sarebbe stato difficile arricchire col saccheggio e coi ricatti.

Il Serravalle insisteva perchè la domanda del Borjès venisse accolta incondizionatamente, ma tanto io quanto i miei eravamo titubanti, anzi propensi a rifiutare, male assoggettandoci a discipline militari abituati a vita libera, e quello che più importava al libero ladroneggio.

Dopo lunghe trattative e convenzioni verbali sull'uso della forza, sull'ordinamento del comando, sulla mercede giornaliera, mi unii colla banda al generale spagnuolo, e con lui iniziai nuove gesta brigantesche, sotto la tutela però di movimento politico.

Quale sia stato l'itinerario stabilito dal Borjès nel suo piano d'invasione della Basilicata, ora io non rammento con esattezza, egli aveva precisato essere sua intenzione assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo, arruolare reclute, armi e cavalli e poscia gettarsi sulla città capoluogo di provincia, ove comitati segreti lavoravano a preparare armi ed armati pronti ad insorgere quando noi avremmo attaccato.

Da Lagopesole, di boscaglia in boscaglia con marce lunghe e forzate eseguite quasi sempre di notte per strade mulattiere e sentieri quasi impraticabili, noi raggiungemmo alle sponde del Basento, raccogliendo per via numerose reclute.

Primo paese di attacco fu Trivigno. Il 2 novembre dal bivacco del bosco di Brindisi della Montagna avanzammo pel bosco di Trivigno e la sera del 3 sull'imbrunire discendemmo sul paese prendendo posizione di attacco, ammassati al coperto da un'antica chiesetta in rovina, e propriamente nel punto detto Calvario, che dista dal paese a circa 200 metri.

La guardia nazionale, un centinaio di militi, avuta notizia del nostro avanzare, era corsa arditamente alle armi e, non consapevole delle nostre forze, avanzò fuori paese per affrontarci.

Accolti a fucilate da' miei, i militi presero posizione rispondendo tosto al nostro fuoco, ma per il loro scarso numero e per la disagevole condizione loro di fronte ai nostri appiattamenti, dovettero in breve ritirarsi.

Rientrati in paese, si asseragliarono nelle prime case in modo da poterci battere al momento del nostro ingresso e con un nutrito fuoco fatto dalle finestre e dai tetti, obbligarci alla ritirata.

Ma io non ero tanto ingenuo da farmi cogliere al laccio; ordinai ad una centuria d'avanzare sulla strada al coperto, sostando a conveniente distanza per aprire un vivo fuoco, mentre diversi plotoni per direzioni opposte dovevano tentare l'entrata in paese per prendere alle spalle i difensori.

Durò per tre ore la lotta veramente accanita, poi i gagliardi difensori ridotti a mal partito dalla deficienza di munizioni, abbandonarono ogni pensiero di difesa, lasciando il paese in nostra balia.

Quello che successe di poi lo seppero i disgraziati cittadini, i miei compagni anelanti di sangue e più ancora di bottino, appena penetrati in paese cominciarono a scassinare porte per rubare tutto ciò che a loro capitava di meglio nelle case. Chi resisteva, chi rifiutava di consegnare il denaro od i gioielli, era scannato senza pietà. Così fu ucciso Michele Petrone e poscia la sua consorte che si rifiutarono di consegnare le nascoste piastre al Ninco-Nanco. Un vecchio ottantenne certo Sassano, trovato a letto perchè infermo fu bruciato vivo dopo averlo arrotolato nelle materasse unte di petrolio. Il notaio Guarino, uomo facoltoso e colto, era stato preso in ostaggio sperando ricavarne un grosso riscatto; ma mentre lo si accompagnava per le vie, venne da uno sconosciuto ucciso con due schioppettate.

Questo assassinio che fu addossato a me, seppe di poi ch'era stato compiuto per opera di un suo compaesano unitosi in città alla nostra banda, che vendicava con quelle fucilate molte angherie ricevute.

Il paese fu posto a ferro e fuoco; vidi coi miei propri occhi cader rovinato il palazzo di certo Maggio, ricco proprietario dei luogo; vennero distrutte dall'incendio le abitazioni dei fratelli Brindisi, quella del Sassano e venti altri che ora non ricordo.

Fui alloggiato in casa del Sindaco nel miglior palazzo rimasto incolume fra tanta distruzione e di là ho potuto assistere a numerosi atti di barbarie compiuti da' miei masnadieri ebbri di furore e di sangue. Per conto mio limitai l'impresa a raccogliere ducati, imponendo taglie ai più facoltosi sotto pena d'incendio e di morte.

Le stragi e le carneficine di Trivigno segnano una triste pagina nella storia della mia vita; Borjès, non ingiustamente ne attribuì la colpa a me solo, egli però allora non comprese che se le stragi ed il saccheggio fossero state risparmiare, sarebbe mancato a lui in seguito tutto intero l'appoggio della mia banda.

I miei uomini erano stanchi per le lunghe marce eseguite, stanchi di un'inerzia e di un rigorismo contrario alle loro abitudini di vita sciolta; passando rispettosi presso centri abitati avevano mal rassegnati, visto sfumare le speranze di ricco bottino, di desiati piaceri, compenso meritato alle lunghe fatiche, ond'io a stento ero riuscito a trattenerli dal compiere atti di ribellione; se avessi cercato risparmiare Trivigno, la mia masnada, già malcontenta, si sarebbe forse ribellata anche contro di me.

II giorno 5 novembre la mia banda occupò senza colpo ferire il piccolo villaggio di Calciano sulla destra del fiume Basento ove si moltiplicarono gli atti brutali senza riguardo a persone e cose.

M'imbatto sulla pubblica via in una donna barbaramente trucidata e vedo tutto all'intorno innalzarsi un denso fumo, sono i miserabili casolari di quei coloni posti a fuoco dopo il saccheggio. Il paese è povero, ciò tanto impongo qualche piccola taglia e raccolgo denari.

Da Calciano la colonna marciò su Garaguso altro piccolo gruppo di case sulla sinistra dei torrente Salandrella. A mezza via fummo ricevuti dal parroco, che ci benedì implorando pietà e protezione pe' suoi fedeli. Il paese è risparmiato, succedono piccoli disordini causa l'efferatezza di qualcuno de' miei, ma poca cosa però di fronte alle stragi di Trivigno ed alle distruzioni di Calciano.

Il mattino dopo l'occupazione di Garaguso si attacca Salandra.

Il paese è asseragliato; la guardia mobile e la guardia nazionale forti di 200 fucili hanno occupato il castello feudale e dall'alto della piccola rocca fanno una resistenza validissima. Abbiamo dalla nostra qualche morto e diversi feriti, tra i quali il mio servo, persona fidatissima; ma il popolino è ostile ai signori e dall'interno del chiuso paese mormora e minaccia. Ci viene aperto il passaggio e noi avanziamo in città distruggendo e devastando. I difensori del castello sono nostri prigionieri, qualcuno è malmenato, qualche altro ucciso, i più sono salvi. Il saccheggio e l'incendio durano tutta la notte; i morti sono parecchi, qualcuno è trovato carbonizzato tra le fumanti macerie.

Lasciata Salandra avanzammo su Craco ove incontrammo a mezza via una processione di donne e fanciulli con a capo il curato colla croce.

Venivano a chiedere clemenza per il loro paese e clemenza fu accordata, poichè non si verificarono che piccoli disordini difficili da evitarsi con tanta gente e più specialmente con gente di tal natura. Da Craco dopo di aver guadato il fiume Agri arrivammo ad Aliano.

Questo paese di circa 4 mila abitanti al mio giungere era quasi disabitato, poichè i signori ed i borghesi erano fuggiti tutti verso Corleto, Perticara e Stigliano, lasciando in paese la sola plebaglia. Fui accolto abbastanza bene da quella misera gente; mi collocai nel palazzo d'un signore, fuggito colla famiglia a Montalbano Jonico, ove venni trattato da vero sovrano dal fattore e dai suoi. E già cominciavo a credermi padrone, e dicevo tra me e me che dopo tutto mi sarei accontentato di quel piccolo ducato, purchè mi si lasciasse in pace, signore e padrone di riscuotere i frutti delle mie terre, quando a disturbare le mie fantasticherie pensò il sottoprefetto di Matera, che invidioso della mia felicità aveva raccolto 1200 uomini fra un battaglione di fanteria, di bersaglieri e guardia nazionale, ed in due colonne, per strade convergenti, li aveva indirizzati contro di m../../immagini/generale_crocco.jpge.

Era di mattino ed io facevo colazione, quando entrò da me il capitano di guardia e con tono scherzevole mi disse: «signor duca di Aliano, abbiamo alla nostra portata una discreta forza; essa è partita da Stigliano ed è diretta contro di noi; i nostri informatori che l'hanno accompagnata, riferiscono che da Matera sono partiti oltre 1200 uomini in due colonne comandati da un maggiore. I soldati che vengono da Stigliano (3 compagnie del 62° fanteria ed un battaglione di guardia mobile) a detta delle spie nostre è truppa molto stanca per la lunga marcia da Matera a qui».

Ordinai al capitano di raccogliere tutta la banda e d'aspettarmi all'uscita del paese; salutai la serva, una simpatica brunetta molto cortese, salutai il fattore e lo pregai di ringraziare a nome mio il lontano padrone, raccolsi le mie armi e con vivo rincrescimento lasciai la mia piccola reggia.

Frattanto la truppa era scesa nella pianura della Taverna dell'Acinello e si disponeva a passare il torrente Sauro miserissimo di acque. Chiesto parere ai capi fu unanime il consiglio di attaccare la truppa al fiume, mentre i cavalieri con largo movimento di fianco dovevano al momento opportuno piombare addosso alla guardia mobile.

Dato gli ordini necessari e prese le disposizioni opportune, scendemmo di corsa al piano camminando al coperto per sentieri costeggiati da fitte siepi; giunti presso il letto del torrente sostammo aprendo tosto il fuoco.

La truppa aveva occupata una forte posizione costituita da un piccolo poggio boschivo quasi a ridosso del torrente, presso il molino Acinello; essa, appostata dietro i fitti pioppi, faceva un fuoco indiavolato contro di noi e già parecchi della banda erano caduti uccisi. La prevalenza nostra numerica marcatissi-ma teneva a stento fronte all'ardire di quei dannati piemontesi, che agli ordini di un valoroso capitano alternavano il fuoco con continui attacchi. Avendo io scorto i miei cavalieri che stavano per avvolgere la posizione, decisi di avanzare attaccando.

Non ne ebbi il tempo, poichè per tema di essere accerchiate, le due compagnie del 62° fanteria, che più ci minacciavano da vicino, si ritirarono combattendo e presero posizione ai piedi di una collina.

Nel mentre i miei, dopo un nutritissimo fuoco, avanzavano a sbalzi di corsa, avvertii Ninco-Nanco, che comandava i cavalieri, di portarsi al coperto, sul margine del bosco, per poter piombare sul fianco delle truppe, in caso di attacco alla baionetta.

Lo spavento massimo degli uomini della mia masnada, e quello che nei combattenti incuteva in me una forte preoccupazione per l'esito della lotta, erano gli attacchi alla baionetta. Quella lotta corpo a corpo contro gente che non misurava pericolo, che avanzava intrepido sotto il nostro tiro, colle baionette in canna, al grido di «Savoia», faceva scorrere nelle vene un brivido di freddo anche ai più forti, già temprati a dure prove.

La milizia mobile spostandosi a destra verso Stigliano, offrì per un momento il fianco a facile bersaglio dei cavalieri; ne colse a tempo il destro l'astuto Ninco-Nanco e coi suoi 100 uomini piombò all'improvviso sulla colonna provocando dapprima confusione e poscia spavento che originò una fuga disordinata.

La vittoria era sicura per noi, tanto più che la milizia mobile fuggendo aveva trascinati seco non pochi sbandati delle compagnie del 62° fanteria. Conveniva far pagare a caro prezzo l'audacia dei componenti quelle due magre compagnie, che osavano tener testa a oltre mille di noi, ed a tal fine disposi perchè fosse preclusa ogni via di ritirata.

Il capitano comandante, credo si chiamasse Pellizza, animava i suoi bravi piemontesi colle parole e coll'esempio, e, armato di fucile come un soldato semplice, continuava a far fuoco contro di noi, senza curarsi del nostro accerchiamento. Mentre durava viva la lotta, uno dei miei, strisciando carponi al suolo riuscì ad avanzarsi sin presso la posizione nemica, e con un aggiustato tiro colpì alla fronte il valoroso ufficiale, che cadde morto sul colpo.

A tal vista i pochi superstiti spararono le ultime cartucce e poscia, quando si videro minacciati da ogni lato, si raccolsero e con un disperato assalto si aprirono la via tra i miei, riuscendo a porsi in salvo, non inseguiti, per la via di Stigliano.

Il trionfo era completo per noi, che restammo padroni del campo e dei non pochi fucili dei morti, e di quelli buttati via dai militi della sbandata guardia mobile. Quando giunsi presso il morto capitano, trovai che gli avevano già staccato la testa dal busto. I miei ne incolparono un soldato ungherese caduto prigioniero, e ne attribuirono la causa alla speranza di aver salva la vita compiendo un atto da vero brigante; forse la testa del valoroso capitano Pellizza fu staccata da' miei compagni di mestiere, per farne omaggio all'uccisore; sta in fatto che per impedire ulteriore scempio sul corpo di un eroe morto lontano dal suo paese, ed a servizio del suo Re, Borjès impose e riuscì ad ottenere che quel cadavere e gli oggetti trovatigli indosso venissero consegnati al vicino convento di Stigliano, perché l'Autorità Prefettizia ne disponesse come meglio credeva.

I cittadini di Stigliano erano preparati ad accogliere l'Esercito come salvatore del loro paese; ne attendevano il ritorno alle porte per accompagnarlo trionfante in città, quando i primi militi della guardia mobile giunsero apportatori dell'avvenuta sconfitta.

La notizia, che noi in numero di quasi duemila armati, eravamo vittoriosi oltre Taverna Capo Rotondo, tolse a quei miseri, ogni desiderio di festa, ogni pensiero di lotta, e mentre la truppa continuava la ritirata su S. Mauro Forte, essi, fatto in fretta e furia un fascio del loro meglio di casa (denari, gioielli, vestiti) colle mogli, coi figli, per la rotabile che conduce a S. Mauro s'incamminarono sotto la protezione della truppa.

Questa massa abbastanza considerevole di persone (in Stigliano erano rimasti i poverelli) camminava a piedi del polveroso stradone e formava direi quasi l'avanguardia, poichè dietro venivano i militi della guardia mobile ed in ultimo i superstiti delle compagnie del 62°' fanteria, come a protezione estrema contro l'audacia brigantesca.

Certo che il nome mio doveva essere ben noto in quei paesi e più che il nome le mie gesta, quale generale d'una banda di duemila armati con 300 cavalieri, per incutere tanto spavento nelle popolazioni. Concorrevano ad aumentare la paura le esagerate asserzioni di atti ferocissimi da noi compiuti. Non nego che il Coppa, il Ninco-Nanco, il Caruso stesso, abbiano qualche volta commesso atti feroci sui feriti, e qualche altra fatto scempio dei cadaveri dei caduti, ma nego che da me non sia mai dato ricovero ad alcuno, e che vigesse in conseguenza l'ordine di uccidere borghesi, ufficiali, soldati che cadevano nelle mie mani.

Padrone di un paese imponevo ai ricchi onerose taglie indispensabili pel vettovagliamento dei miei uomini, nè pretendevo di più; non avevo per altro tanta autorità sui numerosissimi compagni da imporre ad ognuno il rispetto della proprietà e della famiglia, onde più d'una volta è successo che i signori dopo di aver dato a me la metà dei loro averi, dovettero dare l'altra metà ai sottocapi, e vedersi per di più violate le donne senza poter reagire pena la vita.

Questa era quindi la causa vera per cui noi eravamo temuti quali flagelli di Dio, e fu la ragione unica che indusse i signori di Stigliano a cercare la salvezza loro nella fuga. Camminavano, come già dissi, tutte quelle persone sulla strada che da Stigliano conduce a S. Mauro, protetti dalle truppe, quando ad un tratto s'incontrarono inaspettatamente con 100 de' miei cavalieri che rientravano in paese dopo un lungo servizio di esplorazione.

Questo distaccamento aveva avuto l'ordine di eseguire un largo movimento sulla sinistra del Gorgoglione per piombare all'improvviso a tergo della posizione occupata dalle truppe, e per assicurarmi che l'altra colonna, partita da Matera e segnalata da alcuni giorni a Tricarico, non fosse giunta a portata tale da poter muovere in rinforzo immediato delle truppe da me sconfitte.

L'incontro quindi fu del tutto fortuito; i miei vedendo quella gente in fuga cominciarono a far bottino, ma quando si accorsero della presenza della truppa fuggirono a rotta di collo rientrando al luogo del nostro bivacco.

Caruso, che aveva il comando di quel distaccamento, mi raccontò la commovente scena di quello scontro impreveduto. All'apparire dei primi cavalieri della banda, tutte quelle persone, che spaventate fuggivano per porsi in salvo da un pericolo imminente, si credettero perdute, per cui emettendo grida e lamenti, rincularono sulla guardia mobile. E poichè la strada non era spaziosa ed in quel punto correva a mezza costa, così buona parte di persone precipitò in un sottostante burrone, mentre altre fuggivano, gridando, per l'aperta campagna. E tra quelle tremila persone scorgevi la balia con al seno il signorino poppante, seguita dalla signora paurosa, convulsa per la sorte del suo piccolo nato, e più oltre servi fedeli trascinare a stento vecchi padroni resi incapaci a camminare dall'emozione e più ancora dalla paura. Qualche famiglia s'era fatta accerchiare dai propri guardiani armati sino ai denti, e sotto la protezione di questa gente fidata aspettava trepidante la fine del dramma, sicura che i suoi difensori si sarebbero fatti trucidare prima di cedere. Non mancavano neppure i signori rimasti soli a difendere sè stessi, causa non ultima le iniquità commesse verso il popolo, abusi vergognosi, avarizia, prepotenze, violenze d'ogni specie, sempre impunite, sem../../immagini/generale_crocco.jpgpre tollerate. Ancor oggi si dice che la reazione fu il frutto dell'ignoranza, ciò sarà vero, anzi è verissimo, ma, a promuovere la reazione vi concorsero pure questi arrabbiati signorotti di provincia, i quali con sfacciata millanteria dicevano: «È venuto il tempo nostro». Ed i poveri oltraggiati risposero: «È venuto pure il nostro tempo», e così in molti paesi si ebbero uccisioni, assassinii, depradazio-ni; i frutti della guerra civile.

Fui ricevuto in Stigliano dal prete, un grasso parroco, vestito per le grandi occasioni, che mi venne incontro ed offrendomi il Crocifisso a baciare invocò la pietà e la misericordia pei suoi fedeli rimasti in paese. Prevaleva in me e nei componenti la mia banda un sentimento di religione che ci faceva timorosi di fronte a Dio; ognuno di noi aveva appeso al collo il sacro abitino coll'immagine della Madonna, ch'egli invocava a salvezza della vita ne' conflitti, onde la preghiera del prete e la vista del Crocefisso, esercitarono su me e sulla mia banda un forte ascendente.

A dimostrare quanto avesse agito sull'animo mio la parola grave dei sacerdote, sta il fatto che ordinai fossero immediatamente liberati i soldati prigionieri dando loro due ore di tempo per allontanarsi dal paese. Imposi ai miei con insolita insistenza, il massimo rispetto per le persone, minacciando punizioni severe a chi disubbidiva, e così, rassicurato il clero, mi disposi ad entrare in paese. Avevo avuto, l'invito di occupare il palazzo dal principe Colonna, e mi dirigevo all'alloggio indicatomi, quando il prete invocò la mia clemenza verso una quarantina di detenuti rinchiusi nel carcere mandamentale. Ordinai tosto si spalancassero le prigioni e si desse senz'altro libertà a tutti, qualunque fosse il delitto o la colpa commessa.

La mia banda ebbe pure essa alloggi sontuosi, poichè essendo vuoti tutti i palazzi dei signori, ivi accasermarono le centurie.

Giunto al palazzo Colonna, una casa veramente Reale (nei tempi del vassallaggio la famiglia Colonna dominava per tutto il contado), venni ricevuto come si suol ricevere un pezzo grosso. Ed in quel momento rappresentavo qualche cosa di grosso ancor io, poichè dopo tutto a questo mondo per non restar piccoli bisogna aver virtù di far macellar uomini.

Napoleone I era figlio di un povero cancelliere, eppure macellando milioni di uomini, compreso mio zio Martino, arrivò ad essere un grand'uomo, ma finalmente, per aver voluto troppo, perdè tutto, e, come me, finì la vita prigioniero, lui a S. Elena, guardato a vista dai soldati inglesi, io nel bagno di S. Stefano, sotto la rigida sorveglianza delle sentinelle dell'esercito italiano.

E pensare che io mi sarei accontentato della signoria di quel paesetto di Aliano, e devo invece morire nel bagno penale! Ma pazienza, morrò benedicendo, ringraziando la clemenza di S. M. Vittorio Emanuele, il quale firmò la grazia che commutava la pena della morte in quella dei lavori forzati. Ringrazio, non perchè ho potuto vivere di più, ma per avere liberato i miei parenti dall'obbrobrio di sentirsi dire: «Siete nipoti dell'impiccato».

Nella mia abitazione reale, io, abituato alla rozza vita dei campi, non mi trovai a disagio, e seppi tosto adattarmi alle esigenze della vita signorile. La sera in quella sala da pranzo, dove chi sa quanti baroni, conti, duchi, marchesi e forse qualche Re, avevano cenato, colà cenai anch'io. La mensa era sontuosa, la servitù galante; ebbi il primo posto, quindi per ordine sedettero a tavola circa trenta persone. La gente di servizio in completa toeletta di gran gala, dipendeva da' miei cenni. L'andirivieni di piatti uno più finissimo dell'altro durava da circa mezz'ora, ed

Io non avevo assaggiato cibo di sorta, mentre i miei ufficiali in men che non si dica divorando fecero onore alla mensa imbandita non per noi di certo, ma pel decapitato capitano e pel suo seguito. Poco dopo il mio servo fedele (Dio l'abbia in pace poichè più tardi morì per me), mi portò del pane, un po' di caciocavallo, due mele, delle noci e cinque ova sode, e questo fu il pranzo mio perquella faticosa giornata.

La sera prima in quella medesima sala da pranzo era stata tenuta una lunga conferenza sul conto nostro tra il capitano ucciso ed il fior fiore dell'aristocrazia del paese. Ed a tavola si era brindato alla mia cattura ed a quella di Borjès; però

Il capitano Pellizza (da quando mi fu riferito) la sera antecedente alla sua morteera di umore tetro e pare abbia presagito la sua fine, poichè ebbe a ripetere a più riprese: «Non mi avranno mai vivo nelle loro mani, saprò morire come si conviene».

Al mattino, impressionato forse dal meschino contingente di soldati ai suoi ordini, coi quali doveva tener fronte a forze dieci volte superiori, il prode capitano, dopo aver misurata tutta la grave responsabilità che su lui cadeva, si era fatto triste e pensieroso, e coi compagni, pur fingendo celiare, parlava loro di morte sicura. Forse nell'animo di quel valoroso coll'avvicinarsi del momento critico, veniva meno, quella speranza ch'egli aveva nutrito di aver un appoggio sicuro nella guardia mobile. Forse un interno presentimento lo faceva avvertito che nell'ora estrema, sarebbe rimasto solo coi suoi piemontesi a combattere venti contro uno; stà però la frase «addio» in risposta «al rivederci» de' suoi padroni di casa.

Finito il pranzo ognuno se ne andò pei fatti suoi ed io fui accompagnato nella mia camera da letto.

Quella notte non potei chiudere occhio, passeggiai, pensai, ripensai, ma la mia coscienza mi rimordeva, vedevo innanzi a me il capitano ucciso, i soldati massacrati, mutilati; sentivo risuonare all'orecchio il lamento dei moribondi contro i quali i miei compagni avevano inveito egualmente per rendere più cruda la morte; ad uno ad uno mi si presentavano innanzi, quale terribile fantasma, i mille caduti nei passati scontri, e dalle vuote occhiaie uscivano scintille di fuoco, mentre mormoravano sommessi mille imprecazioni al mio indirizzo.

Agitato, eccessivamente nervoso, mi alzai a sedere sul letto. La mia testa pareva un vulcano; avevo la gola arsa, i polsi battevano forte forte, pareva che il cuore dovesse uscire dal petto.

Ma un pensiero venne tosto a sollevare l'abbattuto mio spirito ed a tranquillizzare la coscienza; mia madre!

«E la tua povera madre morta nell'ospedale dei pazzi, chi la piange? E la tua mendicità chi la considera? dicevo fra me e me; della tua schiavitù chi n'ebbe pietà? Forse quel signorotto che ti accettò al suo servizio per darti due franchi al mese ed un tozzo di pane nero per satollarti?! Era forse una carità servire notte e giorno esposto alle intemperie, al gelo, alla pioggia, al crudo inverno, ed agli schiaffi dei crudeli castaldi? Carità sarebbe stata se tu avessi ricevuto tanto pane quanto il padrone tuo ne dava ad uno dei suoi trenta cani di lusso; se avessero speso per te, pel tuo benessere fisico e morale, la millesima parte di quello che si spendeva per mantenere bestie di lusso. Ma invece tu eri sfruttato, ed il frutto dei tuo lavoro serviva alle gozzoviglie dei tuoi padroni. Se ti avessero lasciato continuare la scuola dello zio Martino, non avresti più tardi preso il feroce tipo

del selvaggio e forse saresti stato sempre un buon padre, un onesto cittadino ma...».

Ero immerso in questi ed altri pensieri, quando la tromba brigantesca squillò i segnali della diana.

Mi alzai di buon umore; mezz'ora dopo il capitano di servizio mi informò che tutto procedeva regolarmente. Borjès aveva ordinato che la cavalleria all'alba perlustrasse il terreno all'ingiro per un percorso di sei miglia almeno, raccogliendo notizie sopra ogni cosa di anormale che si presentasse alla vista sua, e ne riferisse immediatamente.

Rimasto solo nel mio palazzo principesco incominciai a percorrere le splendide sale fermandomi nella galleria cosidetta dei quadri. Osservando qua e là attrasse la mia attenzione uno splendido quadro rappresentante il principio di una battaglia.

Gli arcieri scaramucciavano, i frombolieri lanciavano sassi, i pedoni con lancia e picca in resta e i cavalieri a lancia calata erano pronti al cimento.

Fra tutti spiccava la figura nobile di un cavaliere, ritratto a dimensioni più grandi degli altri che combattevano. Egli inforcava un cavallo coperto di ferro come coperto di ferro era il suo corpo dalla corazza lucente; teneva nella destra, in atto di comando, un enorme spadone; era grave nell'aspetto, aveva l'occhio fisso dove la battaglia incominciava.

Non so con quanta realtà, ma sta di fatto che m'immaginai dovesse quel cavaliere rappresentare qualche persona della famiglia Colonna di Stigliano, onde rivolsi a lui la parola, come se parlassi ad essere animato, e così dissi:

«Signore, il tuo portamento mi dice che abituato all'arte della guerra sei valoroso e non paventi la morte. Saresti a caso più valoroso di me? Scommetto che se ieri eri in Stigliano saresti fuggito come tutti gli altri, non ostante l'enorme spadone che tieni nella destra. Vuoi tu essere più valoroso del capitano Pellizza che morì gridando «Viva il Re»? Ebbene vuoi sapere chi fece cadere quell'eroe? un ragazzo di sedici anni che approfittando della sua sveltezza, scivolando di cespuglio in cespuglio cauto ed inosservato giunse a trenta metri da lui, e gli piantò nel cuore una palla di mezz'oncia.

«I tuoi virtuosi antenati, al par di te cavalieri, combattendo t'hanno trasmesso in eredità la virtù di saper condurre gli uomini al macello, e tu ora coltivi quelle virtù; sei principe, gran signore, ti hanno dipinto su questa tela per memorare la tua schiatta, che vuoi di più?

«Ma per me povero figlio della miseria, chi sarà quel pittore che dipingerà la mia entrata in Stigliano? Nessuno, e chi vuoi che abbia cura di un ladrone plebeo? Oh allora sarebbe bella e finita!

«Si finiamola, non pensiamo all'infamia del mondo, poichè è appunto, per l'infamia di D. Vincenzo C... che io turberò finchè posso le case di voi signori prepotenti e nobili».

A Stigliano ci fermammo due giorni, il 10 e l’11 novembre. I signori erano fuggiti tutti perciò decidemmo continuare la nostra avanzata tanto più che Borjès aveva vivo desiderio di giungere presto su Potenza.

Ed eccoci sul misero villaggio di Cirigliano dove in mancanza di meglio troviamo pochi fucili per armare le nuove reclute, buoni maiali ed ottimo vino per le nostre mense. Dopo il rancio è fatta la paga alla masnada e subito dopo si parte per Gorgoglione che viene occupato senza colpo ferire.

Le spie ci avvertono che per la valle dell'Agri una forte colonna di soldati avanza verso di noi. Lo scacco di Stigliano aveva fortemente impressionato non solo le popolazioni ma eziandìo il Governo. Prefetti, sottoprefetti, commissari regi invocavano dal ministero pronti e numerosi rinforzi di truppa per tener fronte a tanta invasione, mentre i liberali più arditi e valorosi incorando i timidi ed i paurosi andavano raccogliendo per i piccoli paesi e per i centri maggiori le milizie nazionali.

Da S. Arcangelo, da Montemurro per tutta la valle dell'Agri i militi cittadini s'erano riuniti ed avevano combinato colle truppe regolari un movimento avvolgente, fiduciosi di arrivarci addosso all'improvviso non lasciandoci via di scampo.

Si tiene consiglio tra i capi e prevale l'idea di evitare lo scontro guadagnando la boscaglia della montagna.

Pratici del luogo ed abituati alla vita della macchia, non ci tornò difficile sfuggire al piano di guerra del comandante le truppe e mentre si credeva di sorprenderci in baldoria a Guardia Perticara, noi il 13 eravamo ad Accettura, Oliveto e Garaguso, pernottando in quest'ultimo paese.

Il 14 la nostra colonna pernottò a Grassano e resistette ad un attacco, datoci dalle truppe regolari. Dopo una viva schioppettata tra i nostri avamposti e la colonna che c'inseguiva, sul cader della sera la truppa, poca forza, rimase in posizione, e noi, prima dell'alba lungo il letto d'un torrentuccio asciutto, arrivammo non inseguiti a S. Chirico che fu occupato senza colpo ferire.

Attacchiamo Vaglio paese a sei miglia da Potenza che resiste con ammirabile valore al nostro attacco. La minaccia di distruzione, se non si arrende, non fa che accrescere nei cittadini l'ardore della difesa; i nostri parlamentari sono accolti a fucilate; abbiamo diversi morti. Divisi in quattro colonne attacchiamo contemporaneamente da quattro parti, ed occupiamo il paese mentre nel convento, fortemente occupato, si continua a resistere. I nostri, inferociti dall'inaspettata difesa, uccidono quanti incontrano per via, uomini e donne, e danno fuoco al convento.

Il paese è posto a saccheggio, chi più può più ruba. Lasciamo il convento in fiamme. Giorno 16 novembre. Siamo nella vallata di Potenza chiamati a liberare i carcerati politici ivi rinchiusi.

Siamo in sicuro che al nostro approssimarsi si avrà un'insurrezione generale.

In tutti vi è forte speranza di ricco bottino e di molti piaceri.

Presiede il comitato segreto reazionario il signor..... un ex capopopolo del 1860, liberale dalla sola fascia tricolore, che non avendo potuto arricchire nella rivoluzione, perchè il triumvirato Albini, Boldoni, Mignogna aveva provveduto lui a tutto, cambiò bandiera e si fece borbonico, come era prima del 1860. Ma pur troppo codesto camaleonte politico, ancora una volta mutò colore, avvertì il Comandante la piazza, indicò il luogo ove eran deposte le armi, ch'egli aveva poco prima segretamente ricevute, intascò i ducati del Borbone, e si vantò di poi di aver salvata la Basilicata. Perchè non potessero smascherarlo, fece trucidare sulla piazza S. Gerardo di Potenza (novembre 1861) cinque persone, quelle stesse che da lui avevano ricevuto ordine di conservare le anni spedite da Napoli.

Con mio dolore dovetti abbandonare l'impresa di soggiogare Potenza e tornarmene con la coda fra le gambe come cane scornato.

Ripieghiamo su Pietragalla ove arriviamo sull'imbrunire e siamo accolti a fucilate. La guardia mobile si chiude nel castello ducale e resiste per tutto il giorno successivo a nostri vigorosi attacchi. Abbiamo numerosi feriti e qualche morto ma siamo compensati da un ricco bottino. Il paese è in fiamme; arrivano in rinforzo dei cittadini le milizie di Acerenza e quelle di Forenza e siamo costretti ad abbandonare l'impresa.

Comincia il freddo intenso, le pioggie insistenti cagionano molte malattie, i miei sono mal ridotti e quel che è peggio mal disposti a proseguire nell'impresa. Borjès corre pericolo d'esser ucciso dai suoi masnadieri.

Ad Avigliano troviamo la popolazione in armi e siamo respinti. La dissoluzione si fa strada tra noi, il comandante francese vuole imporsi su Borjès, la guerra civile è imminente tra la banda.

22 novembre. Ci gettiamo su Bella piccolo paese non molto distante da Ruvo del Monte.

Partii di notte in testa ai miei compagni, e giunsi allo spuntar del sole alle porte del paese, ove feci sostare la mia banda. Come per Ruvo inviai al Sindaco una missiva intimando il pagamento d'una taglia ed il vettovagliamento per i miei uomini e cavalli.

Mi si rispose col suono delle campane, segnale di allarme e di difesa a tutt'oltranza.

Accettai la sfida e dopo nove ore di combattimento ferocissimo riuscii a costringere i cittadini armati a ridursi nel castello feudale, che non fu possibile conquistare. Padrone del paese, metà in fiamme, requisii buoi, capre e tutto quello che mi fu possibile ritirandomi poscia sui monti non molestato.

Lasciamo i monti e ci avviciniamo a Muro Lucano che da informazioni dei confidenti sappiamo ben difesa. Al francese manca il cuore di attaccare per paura di un rovescio; scendiamo lungo il Platano e arriviamo a Balvano accolti a festa da quei popolani, che ci offrono ogni ben di Dio.

Da Balvano ci gettiamo su Ricigliano ove siamo accolti a suon di musica e coi preti in commissione di ricevimento.

Il paese è saccheggiato, i signori spaventati offrono ospitalità e sono svaligiati, chi si lamenta è ucciso.

Cade la prima neve sui monti, l'inverno è alle porte, tra noi le diserzioni si succedono in massa, la banda è evidentemente stanca e desidera tornare al suo antico mestiere non volendo più saperne di brigantaggio politico. Ritorniamo in Basilicata ed attacchiamo Pescopagano che dopo aspro combattimento occupiamo in parte saccheggiando, distruggendo, incendiando. Le spie ci avvisano che numerose colonne di truppe regolari si avvicinano a noi, abbandoniamo il paese, inseguiti dai militi cittadini che avevano resistito nel rafforzato palazzo baronale.

Per sfuggire l'accerchiamento ci diamo ai monti dividendoci in gruppi; punto di riunione Castello di sopra nella foresta di Monticchio.

Borjès è liquidato definitivamente, se ne parte co' suoi spagnuoli e con pochissimi fedeli; in tutto una trentina. La sua partenza non ci commuove anzi l'abbiamo voluta stanchi del suo comando.

Mi libero di molto elemento superfluo, dando loro appuntamento alla vegnente primavera.



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CAPITOLO VI

ATTACCHI ISOLATI


Ritorno alla macchia di Toppacivita, campo di mia vittoria. Ma oh caso strano, essa era sparita! non restava che la terra smossa.

Il generale Della Chiesa con tre battaglioni di bersaglieri e con artiglieria e cavalleria era giunto in Rionero. Alla macchia di Toppacivita, durante la mia assenza, s'era annidiata una banda di ottanta briganti capitanata da un certo Pio Masiello; costui aveva mantenuta la posizione ed il terrore nel distretto stante la deficienza di soldati. Il generale colla sua forza attaccò la posizione iniziando il tiro colle artiglierie; allo scoppio delle granate i briganti se la dettero a gambe, chi non fu ucciso, cadde poi prigioniero e la banda fu distrutta. Il generale avendo riconosciuto che quella posizione nelle mani dei briganti arditi e numerosi, era un forte pericolo per Rionero e paesi vicini, ne decretò la distruzione. Con pubblico bando diè libertà ai contadini di recarsi liberamente a far legna in quella macchia e così in men che non si dica la boscaglia del signor Filippo Decillo di San Fele divenne un bel campo raso.

Bisognava cercare altro quartiere che non fosse quello di Toppacivita.

L'inverno s'avanzava a gran passi, noi eravamo in tutti 2180 uomini e 340 cavalli. Ci dividemmo in sei frazioni principali, e costituii un'altra ventina di piccole bande dai 12 ai 20 uomini; questi avevano ognuno il proprio capo, potevano bivaccare a loro bell'agio, lavorare per conto proprio per buscarsi il pane ed in caso d'inseguimento dovevano rientrare alla banda principale dalla quale erano usciti.

Io presi quartiere nei boschi di Castiglione, Sassano, Pesco di Razza e Pietra Palumba, questa vasta estensione di boschi erano proprietà del Comune di Calitri, Carbonara, Aquilonia e di Monteverde, tutti paesi senza truppa, presidiati dalla debolissima guardia nazionale.

La 2a banda prese posto sulla destra del fiume Ofanto nell'interno del bosco di Monticchio, sotto la dipendenza della città di Melfi ove vi erano tre compagnie di guardia nazionale, bastanti appena al servizio della città e delle carceri.

La 3a banda prese quartiere nel bosco di Monticchio ma non sopra il fiume suindicato bensì sopra la fiumana di, Atella, ed aveva questo paese, senza forza, a due miglia.

La 4a banda occupò il bosco di Boceto, la 5a quello di S. Cataldo e la 6a la boscaglia di Lagopesole.

Tutte queste bande erano, così ben scaglionate che in poche ore si potevano riunire; in pochi giorni costruirono ciascuna capanne, blinde, stalle, baracche, cucine da mietitori e requisirono caldaie, barili, secchie.

Per vivere, requisizione forzata di buoi, capre, pecore, visita alle cantine delle masserie limitrofe per provvedere il vino e per acqua quella dei pozzi e l'altra che ci veniva dal cielo; chi pagava era il piombo.

Eravamo in dicembre e cominciammo a scannare i maiali, fin allora assai grassi per aver pascolato nei boschi ove abbondava la ghianda. Il quartiere generale era il mio, 480 persone, 40 cavalli ed oltre 100 cani d'ogni razza grossi e quasi feroci.

Dai primi di dicembre 1861 al 5 maggio 1862 non vi fu cosa che meriti di essere riferita, giacchè non fummo affatto molestati. Città e paesetti per ordine del governo fecero il cosiddetto stato d'assedio, proibendo al popolo di sortir fuori sotto pena di morte a chi disubbidiva. Così passammo l'inverno senza essere disturbati e fu veramente una fortuna, poichè quell'anno vi fu un'invernata terribile, che non si ricordava l'eguale. Era caduta tanta neve che non si poteva camminare; ciò fece dire ai giornali che il brigantaggio era distrutto e morto di fame, mentre noi briganti eravamo sani e forti come tanti tori, senza le corna però.

Col finire dell'inverno dovendo le terre essere lavorate, fu giocoforza permettere ai contadini il ritorno ai loro campi; ma ordini severissimi proibivano a chiunque di portare pane e viveri più del necessario al proprio sostentamento. Si credeva con ciò farci arrendere per fame e non si sapeva, o meglio si fingeva non sapere, che i signori per avere da noi meno male, avevano posto a nostra disposizione le ricche masserie colla condizione «mangiate, bevete ma non distruggete».

Se qualcheduno si mostrò restio nel venirci in aiuto, pagò a caro prezzo quel suo rifiuto e vi vide distrutti interi campi di grano, e armenti di pecore. Col ritorno dei contadini la campagna riprese il suo aspetto normale, noi ritornammo, come pel passato a ricevere confidenze ed informazioni. Non mancarono tra tanti contadini, le spie dei governo ma queste portavano scritto in fronte la parola infame Ce ne capitarono parecchie tra i piedi, ed ebbero la mercede dovuta alla loro professione un solo colpo ben mirato.

Sul finire di marzo 1862 il distretto di S. Angelo dei Lombardi e quello di Melfi fecero d'accordo unione delle forze per darci la caccia. Avvertiti dai confidenti ci preparammo a difesa occupando il più fitto dei boschi.

Fummo attaccati in vivo fuoco dalle truppe e dalle guardie nazionali senza risultati, poichè favoriti dalla conoscenza dei luoghi, sfuggimmo agli assalti pericolosi, vendicandoci nelle pattuglie isolate smarritesi per mille sentieri di quelle folte ed immense boscaglie.

La caccia ai briganti, specie nel Melfese, fu dapprima fiacca e debole, causa la deficienza di truppe regolari, e ciò fu incitamento al moltiplicarsi dell'orda brigantesca. Piccole vittorie nostre negli scontri contro le truppe, il grande appoggio, materiale e morale ricevuto dai reazionari e dal clero, ci entusiasmarono facilmente, onde spesse volte ebbri di sangue e di ferocia, dopo inaudite barbarie, ci credemmo sul serio padroni dei luoghi e del momento.

Quando però l'impero della legge cominciò a prevalere nelle campagne e nei paesi, e le popolazioni compresero la necessità di accettare le leggi del nuovo governo, e ne toccarono con mano i benefici, allora la lotta contro di noi si fece viva, insistente e più tardi accanita. Sfruttati i paesi posti alle falde del Vulture, resa insidiata e mal sicura la nostra presenza a Monticchio e boscaglie limitrofe, nel maggio 1862, organizzati in piccole bande lasciammo le nostre residenze abituali.

Divisi in diverse bande noi avevamo del pari divise le zone nel limite delle quali le bande stesse dovevano operare senza che una intralciasse l'opera dell'altra. Talvolta si fissava qual punto di riunione un paese di lontana provincia di Bari, Campobasso, Lecce, Foggia, Avellino e che so io, e le masnade taglieggiando, aggredendo, imponendo taglie e ricatti percorrevano diverso itinerario, riunendosi in giorno determinato nel luogo prestabilito, per compiere tutti uniti un ideato progetto.

Però coll'aumentare delle forze regolari e coll'ordinarsi delle guardie nazionali, si dovette limitare l'azione nostra restringendola a più modeste proporzioni; non più attacchi di paesi fatti a viva forza, non più larghi avvolgimenti di centri importanti utilizzando numeroso stuolo di cavalieri, ma aggressioni di viandanti, assalti di corriere postali, occupazione di piccolissimi villaggi, di masserie isolate, deludendo con astuzia e con rapide fughe gli scontri colle truppe, salvo a provocarli quando l'enorme disparità delle forze ci faceva sicuri d'una facile vittoria.

Attacchi parziali n'ebbi a centinaia, non mi ricordo le date ed i luoghi con precisione, poichè in quei giorni non prendevo appunti, nè mai potevo supporre che dopo 40 anni, dall'oscura carcere ove sconto la pena dei lavori forzati in perpetuo, avrei un giorno scritta l'istoria della mia vita brigantesca.

Espongo, perciò, senz'ordine cronologico, quanto mi si affaccia alla memoria lasciando da parte il futile ed il superfluo. Mi ero unito a Caruso al bosco della Grotta non molto lontano dal paese di Serracapriola, quando fummo sorpresi al bivacco da un battaglione del 36° fanteria ed a stento dopo aspro combattere potemmo salvarci nell'interno della boscaglia, lasciando morti parecchi dei nostri e quel che più monta le nostre mule cariche delle fatte requisizioni.

Mentre mi ritiravo per l'alto Molise ebbi notizia che un distaccamento di cavalleggeri Lucca occupava una masseria isolata; per vendicare lo scacco avuto ed il perduto bottino decisi circondare di nottetempo la masseria e coi cavalli della truppa supplire le mule lasciate al bosco la Croce.

Disposto all'ingiro i miei gregari ordino di circuire la masseria col mandato di attaccare all'alba. Ed all'apparire del giorno non appena escono i primi soldati per attendere alla pulizia personale partono dai miei i primi colpi, indizio dell'attacco.

Sicuro della sorpresa comando di restringere l'accerchiamento, ma trovo una difesa inaspettata; dalle numerose finestre quei prodi ci scaricano addosso le loro carabine e rispondono con dileggio alle mie intimazioni di resa.

Per risparmiare i miei, dopo un fuoco di fucileria, durato per molto tempo, ordino di incendiare la masseria utilizzando l'abbondante paglia ivi ammucchiata e le numerose fascine di rami d'ulivo.

Ma il fuoco, il fumo asfissiante non spaventano quei pochi soldati che continuano a sparare contro di noi, mentre la tromba dall'alto della specola, suona incessantemente la carica.

Il frastruono dei colpi, i segnali di tromba, il fumo, le fiamme danno l'allarme, qualche spia è corsa al paese di Rotello ad avvertire la truppa, e, quando già stavamo per cogliere il frutto delle nostre fatiche, siamo assaliti al grido di «Savoia» da una compagnia del 61° fanteria e costretti alla fuga per avere salva la vita lasciando sul posto diversi morti ed una decina tra feriti e prigionieri.

Un giorno, verso la metà dell'ottobre 1861, a capo della mia banda sostenni un fiero combattimento nei pressi della masseria Gaudiano in territorio di Lavello, contro il 3° squadrone dei lancieri Milano, due compagnie del 62° fanteria ed una compagnia di guardia mobile.

Eravamo a bivacco nel bosco in attesa dell'alba per tentare un'aggressione contro la corriera postale, che portava all'esattoria provinciale una grossa somma di denaro. Si sapeva che la corriera doveva essere scortata da un buon nerbo di cavalleria, ma l'ingordizia del ricco bottino ci aveva resi baldanzosi e temerari da non misurare il pericolo di cozzare contro numerosa forza armata.

Avevo ai miei ordini oltre centocinquanta gregari, dei quali più della metà erano a cavallo; la conoscenza profonda e particolare della località, le informazioni precise delle nostre spie, facilitavano il compito nostro.

L'assalto alla corriera fu rapido e risoluto, ma di un tratto ci trovammo circondati da uno squadrone di cavalleria, mentre sbucavano dai campi attigui la fanteria e la milizia mobile colle baionette in canna a passo di corsa.

Alla vista di tanta forza, ordinai di prendere posizione sull'alto del ciglio della strada, al sicuro della cavalleria, e con un nutrito fuoco in ritirata poi, internarmi nel più fitto del bosco. Quell'attacco fu per noi un disastro, poichè lasciammo sul terreno oltre quaranta persone tra morti e feriti.

Caddero pure prigionieri otto o dieci dei nostri, che vennero immediatamente passati per le armi, e tra questi la moglie del mio amico Teschetta, che seguiva la banda vestita da uomo.

Ricordo la triste fine del mio fido compagno il fratello di Volonino, ucciso da un prode bersagliere dell'11° battaglione.

Ero di ritorno da un'esplorazione eseguita verso il paese di Candela, quando mi venne segnalato l'approssimarsi di un distaccamento di bersaglieri rinforzato da un plotone di ussari. Ordinai la ritirata e di galoppo guadagnai la sponda opposta dell'Ofanto, internandomi tosto nel fitto del bosco. Una pattuglia fiancheggiante, comandata dal Volonino, sorpresa all'improvviso non ebbe tempo di salvarsi utilizzando il guado da noi conosciuto, e per non cadere nelle mani della truppa affrontò la corrente in un punto pericoloso. A tal vista gli ussari che inseguivano si arrestarono sparando addosso ai miei le loro pistole; disgraziatamente il cavallo del Volonino guadagnata la corrente avvicinandosi alla sponda cominciò ad affondare nel fango. Ratto come uno scoiattolo un bersagliere si spogliò nudo e col fucile impugnato affrontò, malgrado il rigore dei freddo, le acque dell'infido fiume, raggiunse il brigante, lo uccise con un tremendo colpo di baionetta al petto, e ritornò all'opposta riva trascinando cavallo e cavaliere. Ho percorso colla mia banda le deliziose pianure di Foggia, la terra di Bari, la marina di Basilicata, mi sono spinto fin sotto a Lecce, a Ginosa, Castellaneta, compiendo ovunque depredazioni e ricatti, talvolta sfuggendo le truppe, tal'al-tra attaccando all'improvviso, spesso coll'agguato e coll'insidia. Ferito quattro volte, ho visto cadere ad uno ad uno i miei più fidi, ebbi dolorosi abbandoni da compagni già carissimi, che preferirono la vita sicura dell'ergastolo che la morte sul campo o la fucilazione alla schiena e da ultimo fui tradito da quel Caino fratricida di Giuseppe Caruso, ma, non accelleriamo gli avvenimenti, parlerò di ciò a tempo opportuno.

Nel giugno o nel luglio del 1862 una parte della mia banda, oltre 100 cavalieri agli ordini di Donato Tortora, aveva avuto incarico di aggredire la corriera postale che da S. Fele per Atella conduceva a Rionero. Informazioni segrete ci avevano fatto conoscere come in quel giorno viaggiasse un impiegato dell'ufficio dei registro di Melfi con una considerevole somma di denaro, frutto di esazioni fatte in diversi paesi.

Sapevamo che normalmente quella corriera era scortata da pochi uomini di fanteria, ma nella supposizione che in quel giorno sarebbe stata aumentata la scorta, volli che Tortora movesse all'impresa con buon nerbo di miei per non tornarsene colle pive nel sacco.

Appostati lungo il letto del torrente Levata, al coperto dalle ripidissime sponde, stavano i miei pronti a sbucare fuori sulla strada, nei pressi di Ponte Vecchio, non appena la corriera fosse ivi segnalata, sicuri di mettere in fuga quel caporale e pochi soldati che servivano di scorta alla carrozza.

Ed infatti non appena giunse la corriera al punto indicato i miei uccidono con un colpo di fucile il vetturale ed accerchiata la carrozza si danno attorno per raccogliere il denaro che si sapeva ivi depositato.

Camminava la scorta alquanto distante ed era in quel giorno costituita da una quarantina di soldati del 62° fanteria comandati da un sergente. Il colpo di fucile, che dall'alto dell'imperiale aveva fatto ruzzolare a terra il vetturino ferito mortalmente alla faccia, destò l'allarme nel piccolo distaccamento, che di corsa colle baionette in canna si slanciò all'assalto.

Accolto a fucilate dai miei, il distaccamento si arrestò e rispose coi fuoco, poscia accortosi che si cercava di avvolgerlo, il sergente ordinò di abbandonare la strada e si recò in posizione su d'una piccola altura presso la rotabile nella regione Gaudo, di dove cominciò a tempestarci con un vivissimo fuoco.

Durò per più ore la lotta ed ogni qualvolta i miei in numero compatto cercavano caricare quel nucleo di valorosi erano accolti al grido di «Savoia» e caricati a loro volta colle baionette.

Dopo due ore, Tortora non essendo riuscito a mettere in fuga la truppa, nel timore di rinforzi che potevano giungere dalla vicina Rionero, volse le spalle e rientrò al bivacco avendo lasciato sul luogo dello scontro una ventina di briganti tra morti e feriti gravemente.

Sul finire dei 1862 unitamente alla banda di Caruso nel bosco la Grotta nel Molise sostenni l'attacco di una compagnia del 36° fanteria rinforzata da 100 uomini di guardia nazionale.

Informati dell'avanzarsi della colonna, con simulata fuga di pochi dei nostri, attirammo la truppa in un terreno fangoso e disagevole dove a stento si riusciva a camminare. Quando la compagnia si fu internata in quella specie di pantano noi, sbucammo all'improvviso divisi in squadre e di galoppo ci gettammo sui soldati che risposero al nostro fuoco sparando contro di noi circondati e massacrati, senza che se ne salvasse uno solo.

Il tenente, preso vivo, fu legato ad un albero e passato per le armi; il capitano, che seppi di poi chiamarsi Rota, ferito al braccio da un colpo di fucile, ebbe il coraggio di spararsi alla tempia un colpo di rivoltella.

Padroni del campo spogliammo e depredammo i cadaveri, i più tristi, sollecitati dal Caruso, compirono atti osceni deturpando i poveri morti; dopo di aver raccolto i nostri compagni caduti e dato loro sepoltura sul posto, ci ritirammo nel fitto della boscaglia a dividere lo scarso bottino. Più tardi giunsero numerosi rinforzi, e noi a tempo avvertiti ci disponemmo a ritirarci, decisi di cambiar sede in cerca di altre avventure.

Ricordo come se fosse ora il terribile scontro avvenuto nei pressi di Rapolla in una nebbiosa giornata del mese di novembre, con uno squadrone di cavalleggeri Saluzzo.

Dall'alto di S. Paolo ove la banda era a bivacco fummo avvertiti che la cavalleria da Barile giunta a Rapolla, mirava guadare la Melfia, raggiungere regione Spineventola, e di là muovere all'assalto coll'accerchiamento.

Protetti da una nebbia abbastanza fitta, forti del numero e della facile sorpresa, noi decidemmo l'assalto al momento del guado.

E l'urto fu terribile e sanguinoso e dopo aspra lotta fummo posti in fuga lasciando nel letto del torrente buon numero di morti e non pochi prigionieri.

Quella sconfitta gridava vendetta all'addolorato mio spirito, e vendetta completa e terribile ottenemmo nel marzo 1863 contro lo stesso squadrone.

Venti soldati guidati dal tenente Bianchi partiti da Venosa in servizio di pattuglia erano giunti presso Melfi e lasciata la via principale si erano internati per un sentiero del bosco costeggiante le sponde d'un fosso assai profondo.

Le nostre spie ci avevano avvertito della partenza da Venosa di codesto minuscolo plotone e noi dall'alto dei nostri nascondigli ne avevamo seguito quasi a passo a passo le mosse, attendendo il momento opportuno per attaccarlo.

Appostati nel fitto della macchia, protetti dalle nodose piante e dai folti roveti, ad un dato punto, quando i soldati tranquillamente camminando per uno si avanzavano lenti ed inermi, ad un segnale convenuto partì una tremenda fucilata.

Colti all'improvviso, a breve distanza caddero oltre metà, e prima che avessero tempo di porsi sulle difese, una seconda salve di fucile risuonò atrocemente per il bosco, facendo cadere al suolo i superstiti. Chi non mori di fucile fu scannato di coltello o di pugnale. Il tenente ancor vivo ed il sergente ebbero, per opera del Teodoro, staccata la testa dal busto e queste vennero inchiodate ad un albero colla scritta «Vendicati i caduti di Rapolla».

Il Tortora ed il Teodoro compirono in quel giorno atti di feroce barbarie verso i soldati caduti, nè io potetti imporre la mia volontà di non far scempio dei cadaveri, inquantochè, leggermente offeso da uno scoppio di canna di fucile, dovetti starmene nell'interno del bosco e medicare la piccola ma dolorosissima ferita.

E poichè ho ricordato gli scontri avuti colla cavalleria non posso passare sotto silenzio la miseranda fine di un altro plotone di cavalleggeri al comando del tenente Borromeo.

Eravamo in luglio; in una serata soffocante dopo un sole canicolare, fummo informati dell'avvicinarsi in Melfi di un plotone di cavalleria; venne deciso l'agguato: Tortora, Caruso, Teodoro colle rispettive bande, ebbero l'incarico di preparare il tranello, e, scelto per appiattamento una fitta siepe, che fiancheggiava la strada, ivi appostarono i loro uomini, mentre una ventina di altri a cavallo si erano rinchiusi in un cortile di una casa colonica.

Quando la truppa, inconscia dell'insidia, sfilando di passo per la strada polverosa giunse all'altezza dell'appostamento, i briganti aprirono il fuoco e con replicate scariche rovesciarono al suolo gli arditi cavalieri, mentre gli altri briganti a cavallo, usciti a loro volta dal nascondiglio, finirono col pugnale e colle pistole quelli che erano semplicemente feriti. Il tenente rimasto vivo per miracolo dove' la sua salvezza alla velocità del suo superbo cavallo. Inseguito a gran carriera sino sotto le mura di Venosa, egli potè a stento salvarsi dall'accanito inseguimento di Teodoro, e dai cento colpi sparatigli alle spalle.

Duolmi l'essere incapace di scrivere dettagliatamente tutti gli episodi della mia vita brigantesca negli anni 1862, '63 e '64. Ricordo che le nostre bande erano il terrore e la disperazione delle Puglie, della Basilicata e della Campania. Colà cavalleria, fanteria, bersaglieri, guardie mobili ungheresi sguinzagliati contro di noi non riuscirono a domarci. Quante chiamate non ebbi io da Generali, Prefetti, gran signori per indurmi alla resa, ma lo spavento della galera in vita ben più terribile della morte combattendo, ebbe ognora il sopravvento.

Al bosco di Lagopesole ebbero il coraggio di presentarsi a noi disarmati un capitano del 13° fanteria, il delegato di Avigliano ed un sergente per indurci alla resa con promessa di aver salva la vita. Rifiutai ordinando a Ninco-Nanco di accompagnare incolumi fuori del bosco quei valorosi parlamentari.

Seppi di poi che Ninco-Nanco, lontano da me, aveva di sua mano trucidato quei tre valorosi ordinando ai suoi di tenermi celato il delitto.

Una sola volta mi venne in mente di presentarmi alla forza per por fine alla mia vita brigantesca, e senza por tempo in mezzo, accompagnato dal Tortora e dal Ninco-Nanco, avanzai inerme su Rionero. Alla persona inviatami dal Comandante la piazza per discutere le condizioni della resa, feci noto le mie pretese chiedendo un salvacondotto e una tregua.

Ma prima ancora che giungesse la risposta avevo cambiato pensiero, ed ero ritornato alle mie armi ed alle mie sicure boscaglie di Monticchio, più animoso di prima di vendere la vita e la libertà a caro prezzo.

A molti potrà apparire strano come la mia banda, così numerosa e formidabile, abbia potuto spadroneggiare dal 1861 al 1864 e che non ostante l'accanito inseguimento della truppa, abbia io potuto attraversare incolume il territorio che separa la Basilicata da Roma.

Alla nostra salvezza contribuirono in massima parte i signori col loro potente ausilio, od almeno col loro silenzio. Io stesso che scrivo, nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso persone da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto. Non fui mai tradito; molte di queste persone non mi tradirono per paura benchè io non li minacciassi, ma altre molte mi diedero ricovero per interesse ed altri ancora per cupidigia.

Sono ancora creditore di parecchie migliaia di ducati dati in prestito ad un reverendissimo sacerdote, che si salvò di poi a Napoli quando gliene chiesi la restituzione.

Altro fattore che contribuì moltissimo in nostro favore fu lo spionaggio. I nostri confidenti erano contemporaneamente informatori del governo e stipendiati quindi dallo Stato, di guisachè eravamo quasi sempre informati delle mosse della truppa; e più di una volta, per far acquistare merito e prestigio ai confidenti (contemporaneamente nostri e del governo) mandammo noi stessi informazioni esattissime ai Comandi Zona, sul luogo del nostro bivacco. E quando la truppa giungeva sul luogo per darci la caccia noi, che avevamo avuto tempo di misurare la forza, l'attaccavamo oppure la sfuggivamo a tempo, secondo la convenienza.

Non pochi confidenti facevano parte della guardia nazionale e per mezzo loro si ebbero talvolta informazioni precise sul luogo ove erano depositate le armi, sul punto in cui stazionavano normalmente le pattuglie notturne, di guisachè avanzavamo spesso a colpo sicuro.

La grande conoscenza che noi avevamo del paese, il terreno eminentemente boschivo, teatro delle nostre gesta, l'acquistata abitudine ad una vita da selvaggio, costretti talvolta a mendicare il pane della giornata, obbligati ad errare di serra in serra fra cespugli spinosi, per fossi profondi, una sobrietà a tutta prova, furono fattori potentissimi che contribuirono a renderci forti e temuti.

Per effetto del numero abbastanza grande dei componenti le bande e più ancora la efferatezza di molti di noi, spesso trovammo ostilità in quella plebe, dalla quale noi tutti eravamo usciti; ma in generale essa fu spesso di potente ausilio in tutte le nostre imprese. Cotesto aiuto, quasi sempre spontaneo, era conseguenza dell'odio innato del popolo nostro contro i regi funzionari e contro i Piemontesi, causa non ultima gli effetti della legge Pica, ed il modo sprezzante col quale gli ufficiali usavano trattare le popolazioni, facendo d'ogni erba un fascio.

Prima del 1861, quando nel trono di Napoli regnava Franceschiello, molto dell'elemento che costituiva la mia banda, proveniva dalle angherie sbirresche degli sgherri di Del Carretto, da persone che non avevano voluto piegare la fronte dinanzi a soprusi inauditi, che non vollero vendere l'onore delle loro mogli o delle giovane figlie a signorotti prepotenti, e si videro perciò perseguitati, posti all'indice quali malviventi, vagabondi, persone facili a delinquere.

Dopo il governo di Vittorio Emanuele concorsero invece ad aumentare le nostre file i molti perseguitati dall'elemento cosiddetto controreazionario, che con spadroneggiante spavalderia, sotto l'usbergo della legge, commetteva infamie di certo non inferiori a quelle dei briganti, e con vendette basse e vigliacche denunziava padroni e servi alla polizia per sbarazzarsi di nemici personali.

Tra le bizze degli uni e degli altri, chi se ne avvantaggiava eravamo noi che reclutavamo nel nostro seno persone che esercitavano influenza sui non abbienti.

Fra le varie bande che infestarono la Basilicata, posso affermare senza tema di essere smentito, che la mia era la più ordinata e la meglio organizzata. Coppa, Ninco-Nanco, Caruso, Tortora, Serravalle e molti altri che ebbero il comando di bande, furono tutti miei dipendenti, ed ebbero in seguito sempre un sentimento di rispetto per il loro generale.

I miei gregari mi amavano e mi ubbidivano senza bisogno di mezzi coercitivi, qualche severo esempio dovuto dare per disciplinare le orde, mi fu strappato direi quasi a forza dalla necessità dal momento, ma fui sempre con tutti affabile ed amico, anzichè superiore. Ogni mio desiderio era ordine per i miei gregari ed in qualche operazione azzardata, nella quale dovevano concorrere pochi briganti, era per me doloroso il dover sempre respingere la spontanea cooperazione di volenteroso che spontaneamente si offrivano per compagni nell'impresa.

Ebbi chiamate da Generali e da Prefetti ove mi si promise non dico la libertà, perchè mentirei, ma assicurazione della vita, qualora mi fossi presentato; mi mostrai sempre sordo ad ogni invito, convinto che sarei stato rinchiuso in perpetuo, essendo io il capitano generale di tutti i briganti della Basilicata. Molti miei gregari allettati dalla speranza di una lieve condanna, senza rendermi avvertito, si presentarono in Rionero al generale Fontana e si ebbero condanne non gravi, in confronto ai compiuti delitti. Costoro furono sempre da me detestati e citati di codardia all'ordine dei giorno.



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CAPITOLO VII

LA FUGA E LA PRIGIONIA


Fra i codardi che ci abbandonarono per presentarsi alle Autorità, il più vile fu certamente Giuseppe Caruso. Questo scellerato Caino, dopo di aver consumato il fratricidio si presentava, con altri suoi perfidi compagni, e dopo pochi mesi veniva liberato dal Governo. Quindi alla testa della truppa incominciò la caccia dei suoi compagni, e in pochi mesi rese al governo quel servizio che non ebbe mai dal poderoso esercito.

Caruso il vile assassino di Pio Masiello, contribuì all'uccisione dell'unico fratello suo, e quel sangue grida ancor oggi vendetta contro di lui, ora libero ed impiegato regio, dopo di aver sulla coscienza 124 omicidi, fatti nel corso di quattro anni di sua carriera brigantesca.

Ma doveva essere così; le sante parole del parroco Leonardo Cecere dovevano avverarsi «i tristi uccidono i tristi» però quel vile mercenario, quell'anima venduta, non ebbe il piacere di vedermi preso per opera sua, e deve all'infamia della Curia Romana, la fortuna di aver potuto assistere, da libero cittadino, alla mia condanna capitale.

Iddio è giusto, ed io nell'altro mondo farò di lui, quello che fece Ugolino dell'arcivescovo Ruggeri.

Caruso divenuto il consigliere del generale Pallavicini spiegò come doveva essere fatta la guerra brigantesca; egli conoscitore intimo dei nostri più reconditi ricoveri, delle abitudini nostre, dei confidenti, dei manutengoli, postosi a capo della truppa contribuì alla nostra dissoluzione.

Fu per suo consiglio che si istituirono i cosiddetti posti militari collocati agli sbocchi e nelle vie tra un bosco all'altro, e che fummo di poi attaccati ne' nostri sicuri nascondigli dalle truppe poste a' suoi ordini.

Ma la sua sagacia, la sua fine astuzia, il livore del nero animo suo, non ebbero frutto contro di me, ch'io potei sempre sfuggire al suo accanito inseguimento.

Un giorno circuisce la grotta ove sono ricoverato, e non ricorda l'ingenuo che quella grotta ha due uscite e mentre mi vuole morto di fame, sente che io sono già al sicuro sulla vetta del monte che porta l'esecrato suo nome.

Avvilito, derelitto, m'insegue coi suoi a monte Caruso ove ci attacca col fuoco fucili rigati, e quando certo di avermi ucciso, vuol portare in trionfo il mio cadavere, si accorge, ma tardi, che il morto non sono io, ma il mio servo vestito dei miei panni da generale. E così di seguito gli sfuggo all'Ofanto quand'egli serve di guida a migliaia di soldati, e giunto salvo nel bosco di Sassano, mentre egli intontito da tanto mio ardire e fortuna non sa capacitarsi che io non sia caduto in suo potere.

Siamo alla fine di giugno 1864, riuniti in dodici fidi amiconi contempliamo mesti e rattristati il cadavere del nostro fiero compagno d'armi Pio Masiello. Egli giace esamine sul ciglio di un fosso; ha l'occhio spento, le labbra livide, i denti stretti e le mani rattrizzate.

Il suo petto è squarciato da diverse profonde ferite di pugnale. Ai piedi suoi sta il suo fucile scarico. Caruso trionfa.

Ninco-Nanco, Masiello, Rocco Serra, Grippo, La Rocca sono morti, altri son prigionieri, che ci rimane se non morte o galera!

La mia legione di valorosi e temerari compagni si era assottigliata enormemente.

Dei duemila uomini già un dì miei dipendenti, nell'anno 1864 eravamo ridotti a cento e sedici tutti feriti da due sino a cinque volte. Dei rimanenti per compiere la cifra, ottantasei caduti vivi nelle mani della forza, sedici fucilati, cento e venti presentati spontanei, gli altri morti tutti colle armi alla mano.

Mi accorsi, con vivo cordoglio, come la mia stella fosse vicina al tramonto; l'ombra minacciosa del Caino Caruso cominciava ad impensierirmi; il Melfese già teatro della lotta e forte baluardo all'accanito inseguimento, era divenuto luogo insicuro per me; vedevo in ogni persona, fra gli stessi compagni di mestiere, un traditore, un vile capace di vendere la mia persona per aver mitigata la sua pena; aggiungasi a tutto ciò le energiche disposizioni date dal generale Pallavicini per accellerare la nostra cattura, e non sarà difficile farsi un'idea del mio stato d'animo in quei giorni.

Scampato miracolosamente a Monte Caruso ed all'Ofanto dopo di aver perduto i migliori fratelli, riunii i più fidi al bosco di Sassano per combinare sul da farsi. Furono vari e disperati i pareri, e tra i tanti, prevalente per numero, quello di riunirsi compatti contro Caruso per vendicare il nostro compagno Masiello.

Di parer contrario, per la difficoltà di stare raccolti in forte massa, senza incappare continuamente nella forza, feci nota la irremovibile decisione presa di ritirarmi in Roma lasciando ognuno libero di sè.

La sera del 28 luglio 1864 dodici uomini montati sopra superbi cavalli pugliesi, nei pressi del comune di Monteverde, provincia di Avellino, sfidando per l'ultima volta la truppa del R. Esercito italiano, poi per la strada nazionale calmi ed orgogliosi passano rasente le mura della città di Lacedonia giungendo verso sera in vista d'Ariano di Puglia. Camminano quegl'intrepidi cavalieri per città e villaggi percorrendo tratturi nascosti, il fitto dei boschi, lungo il letto di fiume, superano ostacoli seri, affrontano gravi pericoli, risoluti di giungere sul suolo pontificio.

Sciagurati dove andate? A chi prestate fiducia? Qual pensiero vi guida? Tornate nelle vostre selve, alle macchie vostre, ite lungi dai principi dei sacerdoti imperocchè dessi sono più vili e traditori degli antichi giudei!

Dei dodici cavalieri sette caddero malati per via e assaggiarono il piombo dei governo, io ed altri quattro scendemmo a Roma.

Da uno dei sette colli spedii ad un diplomatico una raccomandatizia avuta da un signorone meridionale, che non nomino per non offendere la sua memoria.

Quegli mi rispose dandomi consiglio di presentarmi al governatore del Papa Re, cosa che io feci tosto.

Che fece il gran Pio IX? ci seppellì alle carceri nuove di Roma, poscia ci trasferì alle carceri di San Michele a Ripa sempre chiusi in cella di rigore.

Alle tante e reiterate mie suppliche per essere consegnato al governo d'Italia, non fu risposto mai. Chiesi di avere un po' di denaro del mio (sequestratomi all'atto dell'arresto) per supplire al magro vitto, n'ebbi in risposta dall'esecrato monsignore Randi Lorenzo, governatore di Roma, «e quando sarai libero come farai a vivere se ora consumi i tuoi denari?».

Il Santo Padre ricevendo nel suo regno la mia persona doveva dire: «Tu hai toccato le mie vesti, hai baciato la mia pantofola ti siano rimessi i tuoi peccati»; quindi doveva scrivere così a S. M. Vittorio Emanuele Re d'Italia: «Carissimo figlio. Si è costituito a me un gran peccatore, Carmine Donatelli Crocco. Io come padre dei figli cristiani gli ho perdonato i suoi peccati affinchè non vada all'inferno per l'eternità, tu, figlio mio, come Re cristiano, puniscilo ma lascialo in vita affinchè nella carcere abbia mezzo di ravvivare il suo senso morale e chieda a Dio il perdono dei male fatto su questa terra, e così colla mia e tua virtù lo manderemo pentito al giudizio finale».

Ciò non fece, quindi ho il diritto di maledire la sua memoria, il suo triregno e la sua scellerata curia. Voi nobili figli d'Italia, avete conosciuto ed amato il Re Vittorio Emanuele della Casa Sabauda. Vi basta l'animo di credere che dopo la raccomandazione del Papa, mi avrebbe fatto giustiziare egualmente?

Dopo 31 mesi di carcere duro nutrito con una libbra di pane al giorno ed una zuppa di legumi, fui mandato in Francia.

Pio IX per non dar dispiacere al ex Re, che io avevo servito, e che mi aveva suggerito di presentarmi a Roma traendo ragione ch'io ero suddito del Re Gioacchino Murat, mi fece rilasciare dall'ambasciata francese un passaporto per l'Algeria e mi spedì sul territorio francese.

In Francia fui arrestato e per tre mesi godetti le delizie del carcere straniero tormentato da insetti comuni, e da un digiuno forzato. Dopo l'andirivieni di note diplomatiche tra le Corti di Roma, Firenze, Parigi, sul diritto della mia persona, Napoleone III, salvando capra e cavoli, da Marsiglia mi ritornò a Roma a disposizione del Pontefice. Dopo poco tempo venni mandato alle carceri di Paliano, ove fui caricato di catene e chiuso nella torre di quella Rocca, per dar principio al secondo digiuno, che durò fino al settembre dei 1870.

Sapete perchè non fui consegnato al governo italiano? Perchè consegnando me dovevano consegnare la somma di lire 19.800 che io avevo indosso all'atto dell'arresto, e questa somma che non fu data a me come non fu data al governo, come di dritto, finì nelle tasche di qualche monsignore ladrone.

Finalmente verso la fine di settembre 1870 giunse a Paliano un battaglione del R. Esercito italiano. Alcuni ufficiali memori delle mie gesta, altri che mi avevano combattuto nel 1861-62, vennero a visitarne nella cella di rigore, e forse mercè loro mi si tolsero le catene ed ebbi il permesso di prendere aria.

Il generale Lanzavecchia mi fece togliere dalla cella di rigore passandomi in altra cella spaziosa e piena di luce ove ebbi consegnato un letto da infermeria, vitto da ammalato, ma abbondante, e di allora in poi fui trattato con mille riguardi, che la bontà umana suole somministrare a quei sciagurati che sono alla vigilia d'una pena capitale.

Fu in quei giorni ch'io piangevo sempre; piangevo non per paura della morte, unico rimedio al mio soffrire, ma bensì per gratitudine e piango ancora adesso che scrivo, per le tante misericordie avute da coloro che io uccidevo come nemici.

Restai a Paliano sino al giorno 23 giugno 1871; la sera di questo giorno arrivai a Caserta. Quivi una folla di curiosi aspettava alla stazione per ammirare il famoso generale dei briganti; nella prigione, in attesa di proseguir il viaggio, ebbi l'alto onore di ricevere le visite di molti signori, mossi dalla curiosità di conoscere di persona, questa belva feroce che si chiamava Crocco.

Da Caserta passai ad Avellino sempre scortato dalla benemerita e trattato cristianamente dai bravi carabinieri. Nelle carceri di Avellino stetti rinchiuso tredici mesi ove subii continui interrogatori con un giudice istruttore che mi sembrava il messia della giurisprudenza.

Ogni giorno passavamo in rassegna due o tre voluminosi processi, esaminando ad una ad una le imputazioni, verificando le date, i luoghi e le persone.

Con mio rammarico lasciai la carcere di Avellino ed il 27 luglio 1872, scortato da un maresciallo e da quattro carabinieri, arrivai a Potenza. Quivi non trovai curiosi, ma bensì minacciosi figli di quella plebaglia che io avevo comandato.

La notizia del mio arrivo aveva attirato sulle vie i sedicimila abitanti della città, mancava S. Gerardo eppoi c'erano tutti. A maggior soddisfazione di quei cittadini, già da me malmenati, giunti a Porta S. Lucia mi fecero discendere dalla carrozza ed a piedi, percorrendo la strada Pretoriana, fui condotto alla caserma dei carabinieri reali e di là alle carceri giudiziarie in attesa del mio processo. Finalmente il 14 agosto 1872, giorno da me poco desiato, si aprirono le sale della corte di assise, ed i giurati che furono chiamati a giudicare questo gran reo, che ora rassegnato ed umile scrive la sua storia.

Il pubblico numerosissimo è trattenuto a stento dai carabinieri e da un picchetto di soldati; tutti sono curiosi di vedere in viso il famoso generale della reazione delle orde brigantesche del Melfese; ognuno vuoi sentire la lettura del lungo atto di accusa, l'enumerazione delle centinaia d'imputazioni poste a suo carico, le testimonianze che aggraveranno i reati consumati, le discolpe dell'imputato, la terribile requisitoria del Pubblico Ministero, le blande difese degli avvocati, l'imparziale riassunto dei Presidente ed infine il verdetto dei giurati.



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CAPITOLO VIII

CONCLUSIONE


Se il lettore, mosso dalla curiosità di approfondire queste mie pagine, volesse levarsi il piacere di leggere le varie parti del mio voluminoso processo, ne avrebbe per un mese, a giudicare dalla mole di volumi di atti, che giacevano accatastati sul tavolo del Presidente nel giorno del mio processo.

«La Corte!» grida ad alta voce l'usciere, ed in mezzo ad un sepolcrale silenzio i giudici vanno a sedersi al loro posto.

«Voi Carmine Donatelli Crocco, figlio del fu Francesco e della fu Maria Gerardo di Santo Mauro, nato nella città di Rionero in Vulture, circondario di Melfi, provincia di Basilicata, siete imputato di 75 omicidi, dei quali 62 consumati e 13 mancati, e di un milione e duecentomila lire di guasti, danno, incendio ecc.».

Il processo mio si svolse come si svolgono tutti i processi di questo mondo ed io non ricordo i minuti particolari, nè ricordandoli, vorrei ora esporli, esistendo tutt'ora nell'archivio provinciale di Potenza la minuta ed esatta esposizione di tutto ciò che si disse e si lesse in quel giorno.

I giurati non ebbero pietà di me, come io non l'aveva avuta del mio simile, la legge ebbe il suo corso e l'uomo che aveva destato tanto terrore nella Basilicata, che aveva fatto spargere tanto sangue, portato il lutto in tante famiglie, chiuse il corso delle sue brigantesche gesta, dopo essersi presentato salvo ed incolume sul territorio pontificio:

E teatro per tutta la natura Ognuno rappresenta la sua scena, Napoleone con la sua bravura Nell'isola morì di Sant'Elena Così Crocco già umile pastore Dai briganti promosso generale Dopo lotte di sangue e di terrore Sconta in galera lo già fatto male.

Per assicurare il lettore che malgrado la strombazzata mia ferocia, io mi mostrai generoso e buono con chi non aveva mai fatto del male, vi prego di interrogare il signor Pasquale Saraceno, uno dei più ricchi proprietari di Atella, onesto, liberale e capitano nella guardia nazionale.

Ricordo, come se fosse ora la franca e leale sua dichiarazione fatta al mio processo, essendo egli stato citato quale testimone a carico.

Caduto nelle mani di una pattuglia dei miei guidati dal feroce Ninco-Nanco, il povero signor Saraceno fu condotto innanzi a me, perchè stabilissi prima la somma del suo promesso riscatto, ed a denaro ricevuto ordinassi il genere di supplizio per lui spettante, quale capitano della guardia nazionale.

Prima ancora ch'egli invocasse pietà per la sua persona, quando mi venne presentato, io mi dolsi della sua cattura ed imprecai contro la sua dabbenaggine che lo aveva spinto a recarsi per strade pericolose.

Pensai a sua madre, alla sua signora, ricordai ch'egli in altri tempi si era mostrato meco umano, e giurai tra me e me di liberarlo subito ad ogni costo.

Ho dovuto lottare contro la testardaggine di Ninco-Nanco e la ferocia dei Coppa, e poichè il signor Saraceno non aveva seco denaro, per ottenere la sua libertà, ho dovuto rendermi di persona mallevadore, che se egli non spediva 400 ducati, avrei io stesso pagato del mio, dandone 200 al Coppa e 200 a Ninco-Nanco. Ed ebbi il piacere di veder libero il signor Saraceno, anzi mi ricordo che per maggior garanzia, lo accompagnai io sin presso Atella.

Comprendo da me stesso, che molti leggendo questa rozza narrazione saranno presi, e non a torto, da un senso di ribrezzo e di nausea; ma poichè è scritto che la misericordia di Dio è infinita, io mi auguro che anche quella degli uomini sia tale, e che un sincero pentimento e 40 anni di ergastolo, possano redimere l'uomo di fronte al giudizio del suo simile e il peccatore innanzi al giudizio di Dio.

Riguardo poi a dare alla stampa questa mia autobiografia, Ella non va soggetta a veruna critica, avendo nelle sue mani l'originale scritto di mio proprio pugno; quindi faccia una savia prefazione... io la sciolgo da ogni vincolo di riguardi verso di me. Nè io posso andare sotto censura, poichè i fatti da me scritti sono riportati negli atti giudiziari, chi si crede fraudato ricorra a sue spese ai processi e sarà persuaso se io mento per millanteria, ch'anzi per vergogna mi mantengo spesso in un prudente riserbo.

Quello che mi sta a cuore il far conoscere, si è che io agii sotto l'impulso d'una forza maggiore, e che se gli uomini non mi avessero bersagliato sarei non dico un personaggio, ma un onesto pastore o contadino, un po' vivo e pronto di mano, magari un po' prepotente ma onesto.

Ripeto che tutto quanto ho scritto è l'espressione della verità pura e semplice.

La storia della mia povera madre Ella può chiarirla nel manicomio di Aversa dove la poveretta finì miseramente i suoi giorni; per quella della mia famiglia può scrivere a Rionero ove si troveranno non pochi superstiti che ricorderanno mio padre, D. Vincenzo C., mia sorella Rosina, la mezzana Rosa, D. Peppino C. da me ucciso.

Relativamente ai fatti del brigantaggio, io non ho esagerato mai, del resto rovistando negli archivi dei comuni da me devastati si troverà scritto di me più di quanto io abbia ora detto scrivendo.

Lo scontro di Toppacivita da me minutamente e diffusamente descritto, siccome quello meglio ricordato per la vittoria avuta, potrà essere confermato dal proprietario stesso del bosco, il signor Filippo Decillo di San Fele, che mi auguro sia ancora al mondo, per quanto nulla abbia mai avuto a che fare con lui.

Nel fatto d'armi al Molino dell'Aciniello presso Stigliano, pure da me ricordato con minuti particolari, Ella potrà scrivere al signor Michele Del Monte od ai suoi eredi, in caso di morte, ed avrà a chiare note quanto colà successe il giorno 19 novembre 1861.

Per tutto il periodo in cui agii di conserva con Borjès, vi devono esistere memorie storiche perchè lo spagnuolo prendeva continuamente appunti che spediva al suo comandante in Ispagna.

Col diminuire dei brigantaggio cessarono le grandi imprese, dal 1862 al 1864 non ricordo i mille episodi della mia vita brigantesca, per cui mi sono limitato a citarne saltuariamente qualcuno, i più importanti e caratteristici; gli altri molti saranno certamente stati ricordati da qualche scritto di quei tempi, o meglio risulteranno dai rapporti ufficiali che i Comandanti e le Zone militari avviavano al Ministero della guerra.

Le mie famose escursioni per la Capitanata, pel Barese, pel Leccese, nell'alto Molise, ecc., hanno lasciato ricordi atroci, onde non vi sarà paese che non ricordi maledicendo le devastazioni del rinomato capobanda Crocco.

La prego perciò illustrissimo signor di non mettere da parte questo mio scartafaccio; esso ben corretto, da colui che ha il dono della scienza e delle lettere, diverrà se non dilettevole, di certo interessante e meritevole di esser letto. Mi siano perdonate le parole improprie e sconvenienti, le prime sono da attribuirsi alla mia scarsa cultura, le seconde al mio sentito dolore, e prego correggere in modo ch'esse non offendono la dignità della stampa.

Non è desiderio di trasmettere ai posteri il ricordo delle fatte uccisioni che mi spinge a pregarla di stampare questo mio scritto. Noi oggi leggiamo gli scritti di secoli remoti e dalla narrazione dei fatti avvenuti si traggono ammaestramenti avvenire; chi nol sa che fra mille anni questi miei scarabocchi possano servire a qualche cosa, che ora noi neppure pensiamo. Che sorga qualcuno, fra tanto crescente progresso intellettuale, che comprenda quello che io cercavo, e facendo la storia del duemila e duecento circa uomini scannati per uno solo, trovi un efficace rimedio che valga a rigenerare il genere umano. Nè credo che in questo manoscritto difetti un tema che possa dar soggetto a scrivere molte cose.

Quel povero monco che dopo aver servito il paese combattendo a Iena, a Vienna, alla Beresina, torna in patria senza una gamba ed è costretto a guardar pecore e mangiar ghiande per vivere, e ciò non pertanto raccontando ai giovani la sua storia, raccomanda d'essere onesti sempre e di accontentarsi del poco ben guadagnato e ripudiar il molto di provenienza equivoca, è tema che offre vasto campo a serie meditazioni coi giorni che corrono.

Nè credo sia da trascurarsi il pensiero gentile in briganti feroci di dare al rogo il corpo dell'assassinato Pio Masiello e spargerne al vento le ceneri, perchè possano gridare vendetta contro il fratricida Caruso.

Ed infine, mi pare soggetto utile l'esempio di Francesco Attanasio sei volte omicida, che ruba per lasciar soldi alla chiesa ed ai poveri, mentre lascia impunemente condannare innocenti incolpati dei reati ch'egli commise.

Io non ho mai potuto comprendere come sia composto il consorzio sociale; so che il disonesto nessuno lo può vedere, tutti lo fuggono, la legge non lo capisce e poi si chiama scellerato colui che lo assassina    e non si vuole affatto comprendere come non tutti gli uomini siano degni di vivere.








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