Tornati a navigare nel mare della più stucchevole retorica patriottica (che ritrova nell'epica risorgimentale il pozzo senza fondo del luogo comune nazionale), fatichiamo a immaginare una narrazione diversa di quella lunga e tormentata vicenda.
Ad esempio la lunga e sanguinosa stagione di guerra aperta che il
neonato Regno d'Italia affrontò per eliminare la massiccia
insorgenza contadina, che si profilò nell'Italia
centro-meridionale già all'indomani dell'impresa garibaldina (e
del relativo «soccorso» piemontese, che si risolse nella
repentina unificazione della penisola sotto l'egida dei Savoia).
Liquidato tradizionalmente sotto il segno della
«residualità», della «Vandea» nostrana
contro il moderno ed europeo Piemonte cavouriano, oppure inquadrato in
un registro «ingenuo» e folclorico, il brigantaggio non fu
nulla di tutto questo. O almeno, fu fenomeno più complesso e
poliverso della sua ideologica riduzione in emergenza di «ordine
pubblico», quale quella rudemente promossa, e tragicamente
attuata, dalle classi dirigenti unitarie.
In realtà, esso fu vera e propria guerra sociale di classe
«differita», un'esplosione di dissenso politico e militare
che, oltre l'ovvia e spesso solo oggettiva, esposizione alla
«copertura» politica del legittimismo borbonico, espresse
in vari gradi la rabbia del proletariato agricolo meridionale contro il
segno di classe dell'unificazione, presto disvelatosi dopo gli
entusiasmi dello sbarco siciliano (e dopo Bronte, dove Bixio
massacrò per conto dei ceti proprietari «malvaggi» e
«affricani»).
Ne è consapevole lo studioso abruzzese Pasquale Di Prospero che
in Dove osarono i briganti. Le vicende di Colaiuda, Viola, Zeppetella e
di altri ribelli in Abruzzo e nel Lazio (controcorrente, pp. 271, ? 16)
denuncia un «approccio delle autorità del tempo davvero
inadeguato a governare una legittima insorgenza nei confronti di un
cambiamento di regime politico, accompagnato da una colpevole
sottovalutazione del disagio dei contadini, i quali avevano assistito a
grandi imbrogli e usurpazioni da parte dei `galantuomini', dei liberali
che si erano voracemente sostituiti agli ultimi baroni».
Esplosa nell'ottobre del 1860, la guerriglia contadina veniva
alimentata dagli sbandati del vecchio esercito borbonico, da
«contadini reazionari compromessi, renitenti alla leva e
addirittura disertori dell'esercito regio», non senza un cospicuo
contributo femminile.
E se si vedeva subito implementata dalla corona napoletana, alla
ricerca di una rivincita promossa dall'Internazionale
lealista-legittimista, rivelava in realtà uno spontaneismo
atavico e cruento, espressione deformata di un'antica insofferenza di
classe agli abusi delle classi possidenti, alla quale si sommarono le
novità introdotte dalla nuova compagine statuale, come la
coscrizione obbligatoria.
Dava così parecchio filo da torcere al nuovo esercito italiano,
ben al di là della proclamazione delle Corti marziali, della
feroce legge Pica dell'agosto 1863 e si estendendeva, nelle sue ultime
propaggini, fino alla fine degli anni `70, mobilitando ingenti forze
«antiguerriglia».
Della «vampata brigantesca» lo stesso Parlamento Regio
registrava nel 1863 come «cause predisponenti», oltre il
diffuso e significativo «collateralismo» del milieu
contadino, la «complicità fisiologica» e il consenso
delle popolazioni rurali. Ma non mancavano le elaborazioni ispirate a
un repertorio «darwiniano» funzionalizzato
all'eternizzazione delle gerarchie sociali, che sanzionavano una
proclività d'«indole al brigantaggio».
Stremata dalla repressione e priva sostanzialmente di
«progetto», l'insorgenza brigantesca scemava fino a
esaurirsi. Non a caso, nota Di Prospero, finito il brigantaggio,
cominciava l'emigrazione transoceanica.
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