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Fonte:
https://www.libera.it/

Lezione inaugurale del corso “Storia della criminalità organizzata”

di Enzo Ciconte
Roma, 5 novembre 2004

La storia della criminalità organizzata è storia di vari soggetti criminali che, in diverse epoche storiche e per molteplici ragioni, hanno deciso di fuoriuscire dalla legalità e di commettere dei crimini in forma organizzata ed associata.

Tra le ragioni più frequenti della scelta criminale c’era il fatto che solo così si riteneva possibile accumulare ricchezze e modificare il proprio status sociale.

Quando parliamo di criminalità organizzata dobbiamo avere la consapevolezza che affrontiamo un concetto molto vasto, che comprende varie forme delinquenziali associative.

Non dobbiamo quindi pensare che criminalità organizzata significhi esclusivamente riferirsi alle organizzazioni criminali che in Italia definiamo comunemente con il termine mafia, vale a dire: cosa nostra siciliana, la camorra campana, la ‘ndrangheta calabrese e la sacra corona unita pugliese.

Tuttavia, pur tenendo conto di un quadro più generale, l’oggetto di studio di questo corso saranno proprio queste specifiche forme e strutture criminali tipicamente italiane, sia per la loro importanza storica sia per la loro lunga durata nel tempo.

Gli storici e gli studiosi che si sono cimentati sull’argomento sono stati dapprima affascinati dall’origine del nome, in particolare di quello della mafia e della camorra.

Molti volumi e innumerevoli teorie interpretative danno conto di una lunga ricerca e di un notevole impegno intellettuale in questa direzione.

Successivamente il centro dei loro interessi sembrò essere quello relativo al periodo storico entro il quale collocare la data di nascita di queste strutture organizzate, e su tale argomento si manifestarono opinioni diverse:

Tutti quanti, però, sono concordi nell’indicare gli anni dell’unificazione italiana come quelli fondamentali per la percezione, anche a livello istituzionale, del nuovo fenomeno che sarà chiamato mafia in Sicilia, camorra in Campania, picciotteria e poi ‘ndrangheta in Calabria; e sono concordi nell’indicare le carceri come l’università dei mafiosi, una vera e propria scuola di specializzazione.

Prenderemo in esame oltre un secolo e mezzo, un periodo lungo, denso di mutamenti profondi dentro le stesse organizzazioni mafiose.

La più forte, inizialmente, era la camorra; poi, a partire dall’Unità d’Italia si cominciò ad affermare cosa nostra, infine durante l’ultimo decennio è emersa con prepotenza la ‘ndrangheta che è l’organizzazione con le maggiori ramificazioni in tutta Italia e in vari paesi stranieri, oggi la ‘ndrangheta è la regina del traffico di stupefacenti avendo quasi il monopolio del traffico di eroina e di cocaina.

Com’è noto, il termine camorra è conosciuto – ed usato –  sin dagli dell’ottocento, mentre quello di mafia fa la sua comparsa nei documenti ufficiali nell’aprile del 1865 in un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualtiero che definì la mafia, già allora, “associazione malandrinesca”; si noti bene il termine: associazione.

E’ cosa saggia iniziare il nostro corso e il nostro racconto storico da questo periodo, anche se non mancheranno i doverosi riferimenti

  • Il duca Gabriele Colonna di Cesarò, a metà degli anni settanta dell’Ottocento, davanti alla Commissione d’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, disse:
  • “tutti i baroni, tutti i proprietari tanto delle città come dell’interno hanno sempre avuto una forza che stava attorno a loro e della quale essi si sono sempre serviti per farsi giustizia da sé senza ricorrere al Governo e della quale forza si sono serviti ogni qualvolta si è dato il segnale della rivoluzione”.

Questa prassi ha avuto una notevole importanza storica nel generare l’idea che fosse meglio utilizzare una propria polizia privata piuttosto che fare ricorso allo Stato.

Qui sta una delle ragioni più profonde del formarsi di nuclei mafiosi che si rendono via via indipendenti ed autonomi costituendo proprie bande armate la cui caratteristica, rispetto al passato, è quella di non essere più al servizio di alcun barone o proprietario terriero.

Tutto ciò avveniva mentre lo Stato moderno nasceva sul presupposto che toccasse proprio allo Stato – e solo allo Stato –

Perché questa diversità di opinioni tra gli studiosi sulle origini del fenomeno?

La diversità nasce dal fatto che queste organizzazioni, essendo segrete, non hanno lasciato

Per un lungo periodo storico – durato molti decenni e arrivato fino alla fine degli anni ottanta del Novecento – molti studiosi hanno addirittura ritenuto che la mafia non fosse un’organizzazione, ma un comportamento o un costume, un modo d’essere o uno stato d’animo.

Intellettuali di vaglia come Capuana o Pitrè, statisti come Vittorio Emanuele Orlando, hanno fatto circolare questa impostazione che, a partire dal secondo dopoguerra, è stata seguita da autorevoli sociologi stranieri ed italiani i quali l’hanno accolta acriticamente.

E invece è storicamente accertata l’esistenza, almeno a partire dall’unità d’Italia, di varie organizzazioni mafiose rigidamente strutturate e compartimentate, con particolari funzioni assegnate ai singoli componenti i quali erano ammessi con veri e propri rituali di ingresso che prevedevano giuramenti e rispetto delle regole.

La ritualità e la simbologia insieme con l’uso frequente dei tatuaggi, hanno esercitato un notevole fascino sui giovani, perché, dopo la cerimonia di iniziazione, conferivano ai nuovi arrivati prestigio, rispetto, autorità, considerazione e promozione sociale; fascino che ha avuto una lunga durata.

Serafino Castagna, un giovane che diventò ‘ndranghetista nei primi anni cinquanta del secolo scorso, dopo il giuramento di fronte ai mafiosi che era stato fatto, come si diceva allora, a ‘cerchio formato’, cioè con i mafiosi disposti a cerchio al centro del quale c’era il neofita, disse: “Mi sentii caldo di commozione quando capii di essere diventato membro della società”; la società a cui si riferiva era la società mafiosa.

Il termine società per indicare quella mafiosa compare già nei primi due decenni dell’Ottocento a Napoli quando vennero fissate le norme del frieno, cioè dello statuto, della Bella Società Riformata.

Anche le leggende – i Beati Paoli o i tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso, Carcagnosso – hanno una loro parte non secondaria nell’immaginario collettivo dei giovani dei primordi delle associazioni mafiose.

Oggi possiamo essere sorpresi e perfino rimanere increduli di fronte ai racconti dei giovani di quell’epoca, ma allora giuramento e rituali erano una cosa maledettamente seria e sicuramente hanno contribuito a circondare la mafia di un alone di mistero e di fascino, esercitando una indiscutibile e lunga attrattiva.

Essere chiamato uomo d’onore era un vanto, costituiva un titolo di merito, conferiva prestigio.

C’era posto per le donne in una società di uomini d’onore? Per quanto i mafiosi abbiano cercato di negarlo, la donna era presente in tutte e tre le maggiori organizzazioni mafiose.

Il maschilismo esasperato dei mafiosi li ha portati a negare il ruolo avuto dalle donne nella costruzione delle strutture mafiose.

Per un altro periodo storico, altrettanto lungo, si è addirittura negata l’esistenza della mafia – sostenendo anche che parlare di mafia significava offendere la Sicilia –  sicché diventava davvero difficile studiare una cosa che non esisteva.

“La maffia? Non l’ho mai sentita nominare”, sosteneva nel novembre del 1901 un rampollo della famiglia Florio proprietaria, fra l’altro, del giornale ‘L’Ora’.

Questa affermazione risuonò davanti al Tribunale di Bologna dove era stato spostato per legittima suspicione il processo contro il deputato Raffaele Palizzolo accusato di essere il mandante dell’assassinio, avvenuto il 1° febbraio 1893, di Emanuele Notarbartolo che era stato sindaco di Palermo e direttore del Banco di Sicilia.

E per chiarire meglio il suo pensiero, Florio aggiunse a verbale: “E’ incredibile come si calunnia la Sicilia”.

C’è stato un ‘sicilianismo’ esasperato. Bisogna rileggere quel periodo per vedere quante munizioni sono state fornite a un razzismo antimeridionale.

Negare l’esistenza della mafia o considerarla uno stato d’animo o un modo d’essere è stato un tragico abbaglio ed un errore drammatico perché tutto ciò ha funzionato come uno schermo protettivo della stessa mafia.

Altre volte – tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta – si è cercato di minimizzare la presenza e l’importanza della mafia.

Dai verbali della seduta del Senato in data 26 giugno 1949 possiamo leggere: “Se passa una ragazza formosa un siciliano vi dirà che è una ragazza mafiosa, se un ragazzo è precoce vi dirà che è mafioso. Si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli colleghi, mi pare che si esageri”.

A pronunciare quelle parole fu il ministro degli Interni dell’epoca Mario Scelba.

A metà degli anni cinquanta, il magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, teorico dei maxi processi in epoca fascista, arriva ad esaltare la mafia d’ordine e a rivolgere a Genco Russo, successore del celebre capomafia siciliano Calogero Vizzini, l’auspicio che il successore di Vizzini possa guidare la mafia “sulla via del rispetto delle leggi dello Stato e del miglioramento sociale”.

Lo storico ha sempre avuto il problema dei documenti essendo i documenti gli strumenti fondamentali, indispensabili, per il suo lavoro.

Questione che diventava più problematica di fronte alle teorizzazioni della scuola lombrosiana, così chiamata dal nome del suo maggiore esponente Cesare Lombroso, il quale pensava di individuare l’uomo delinquente attraverso la misurazione del cranio, oppure facendo ricorso alla razza, al clima, al consumo del vino.

Il prefetto di Catanzaro nel 1884 scrisse che fra le cause della delinquenza organizzata c’erano “l’alta temperatura atmosferica e l’abuso delle bevande alcoliche (che) sono stimolo e spinta, trattandosi di popolazioni di passioni subitanee come sono quelle del Mezzogiorno, a trascendere ad eccessi”.

Con questo bagaglio ideologico e con questo armamentario culturale si pensava allora di combattere delinquenti e mafiosi che, invece di scomparire, aumentarono.

Il problema dei documenti per uno storico esiste, non c’è alcun dubbio.

Lo si vide quando, a partire dagli anni ottanta, la storiografia cominciò a fare ricerche d’archivio utilizzando le carte giudiziarie, in particolare sentenze, dibattimenti processuali, informative della polizia giudiziaria.

L’utilizzazione di questi documenti ha migliorato la conoscenza e l’interpretazione del fenomeno.

Eppure, per lo studio delle moderne associazioni criminali occorrerà sapere analizzare un documento inusuale, ma  prezioso: il silenzio o, meglio ancora, i silenzi.

Sembra un paradosso, ma non lo è: il silenzio è un originale documento storico; bisogna saperlo ascoltare perché  ci può dire molte cose.

C’è una parola che più di ogni altra è significativa, e questa parola è omertà che è sinonimo di silenzio.

Non c’è un solo silenzio, ci sono vari tipi di silenzio.

  • è, indubbiamente, il silenzio più eloquente perché dietro di esso si esprime una cultura, si intravede una visione del mondo e della vita, si manifesta un concentrato di valori:
  • Si può dire che con questo particolare silenzio si illumina la mafia nella sua essenza più profonda e più duratura con la incredibile capacità di attraversare i secoli sopravvivendo a diverse epoche storiche e a diversi – persino contrapposti – regimi politici: borbonico, liberale, fascista, per finire al sessantennio repubblicano e democratico che abbiamo alle nostre spalle.
  • lo storico può ricavare la convinzione che quel silenzio sia la prova migliore che la persona chiamata a rendere testimonianza agisca in un contesto nel quale la sua libertà e la sua sicurezza personale non sono assicurate;
  • può fondatamente argomentare che la mafia riesce ad interferire nell’amministrazione della giustizia ostacolandone il funzionamento e arrivando a realizzare l’occultamento della verità giudiziaria.

Quel silenzio, dunque, ci parla di un clima di condizionamento e di terrore che si vive nel processo e nel luogo dove i fatti si svolgono.

Giudice e storico possono così pervenire a giudizi persino opposti pur trattandosi dello stesso imputato e delle medesime circostanze perché i criteri di valutazione sono diversi dal momento che lo storico può utilizzare per le sue conclusioni anche altri elementi che il giudice non può utilizzare se non fanno parte dei documenti processuali.

Le sentenze dei tribunali possono fornire una documentazione essenziale ai fini del lavoro dello storico, ma per il formarsi del giudizio storico occorrono altri documenti che non si rintracciano nei falconi giudiziari.

Se dovessimo basarci solo sulle pronunce giudiziarie dovremmo ricavarne la conclusione che la mafia non sia esistita almeno per molti decenni perché numerosissimi imputati venivano sistematicamente assolti per insufficienza di prova.

Ciò porta ad una conclusione che vale sempre, sia per il percorso storico di queste organizzazioni sia per l’attualità: un conto è il giudizio dei tribunali, un altro conto è quello degli storici.

Assolti in nome del popolo italiano il giorno dopo l’assoluzione venivano uccisi in nome del popolo mafioso.

Sono due momenti distinti e separati, ed è bene continuare a mantenerli distinti e separati.

La mafia ha questo di particolare: è un potere che si radica sul territorio e tende a controllarlo in forma monopolistica.

Usa la violenza ed arriva ad eliminare i nemici di una cosca avversa, oppure i propri avversari interni e, quando lo reputa necessario, anche chi la contrasta dall’esterno.

Qualcuno ha definito la mafia come un antistato.

Un fatto è certo: essa è inconciliabile con uno Stato democratico perché è un’organizzazione che

Semmai, più che antistato, essa ha vestito i panni di uno stato nello Stato scimmiottando prerogative e funzioni statuali.

Non è stato sempre così, perché le mafie variamente denominate hanno avuto una loro evoluzione che andrà raccontata e spiegata.

Una delle caratteristiche delle organizzazioni mafiose è quella di aver saputo miscelare sapientemente violenza e consenso, omicidi e capacità di conciliazione, agguati e trattative.

Un’altra caratteristica importante è quella di avere una faccia rivolta verso il basso e una rivolta verso l’alto, una rivolta verso i ceti subalterni una verso i ceti dominanti; per questo motivo è stata, a seconda dei casi e delle convenienze,

Per lungo tempo si è pensato, sbagliando, che la mafia fosse solo un problema criminale e delinquenziale da affrontare con le armi classiche della repressione poliziesca e giudiziaria.

Presenze mafiose, più o meno consistenti e strutturate, sono visibili in momenti di trapasso da un regime ad un altro o in momenti di svolta storica.

Il già citato prefetto Gualtiero scrisse che “i liberali nel 1848, i Borbone nella Restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”.

Si potrebbe precisare: non tutti allo stesso modo e per le medesime finalità. Tuttavia non si può chiedere ad un prefetto di distinguere e di precisare come, invece, può fare uno storico.

Il caso più significativo, e forse più noto, è quello successo nell’estate del 1860 quando, al momento dell’arrivo di Garibaldi a Napoli, il ministro della polizia borbonica Liborio Romano cooptò la camorra nella Guardia cittadina con il compito specifico di assicurare l’ordine.

Nelle sue memorie politiche raccontò come avesse pensato di “prevenire la triste opera dei camorristi offendo ai più influenti loro capi un mezzo per riabilitarsi”.

Liborio Romano convocò a casa sua “il più rinomato” fra i camorristi e gli disse che era sua “intenzione tirare un velo sul loro passato e chiamare i migliori fra essi a far parte della novella forza di polizia”.

E’ una magistrale descrizione dell’uso della malavita organizzata come instrumentum regni: qui sta una delle ragioni del suo successo e della sua lunga sopravvivenza storica attraverso vari regimi.

Quando crollò il fascismo la mafia – che non era sparita come avevano pensato, illudendosi, i gerarchi del regime dopo l’azione del prefetto Mori – rialzò la testa e ricominciò la sua ascesa nella società favorita

Nel suo percorso storico le mafie hanno incontrato la politica e le istituzioni; anzi, per essere più precisi, pezzi della politica e delle istituzioni, settori particolari, non entità astratte, ma uomini in carne ed ossa che con le mafie sono entrate in relazioni di varia natura a cominciare dall’uso strumentale della sua forza in determinati tornanti storici e, soprattutto, in tempi a noi più vicini, con la richiesta di voti nel corso delle competizioni elettorali.

La legge sullo scioglimento dei consigli comunali per inquinamento mafioso mostra da un lato il grado di penetrazione dell’influenza mafiosa sui comuni – celebre il caso del sindaco di Palermo Vito Ciancimino il cui consiglio comunale non fu sciolto perché mancava ancora la legge – dall’altro lato la capacità dello Stato di approntare misure adeguate alla bisogna.

E’ accaduto in determinati momenti che uomini della politica o dello Stato abbiano utilizzato mafiosi o, viceversa, che mafiosi abbiano utilizzato uomini della politica e dello Stato.

Questa è una delle caratteristiche delle organizzazioni mafiose che sono tali proprio per la capacità di tenere queste relazioni non solo con ambienti e uomini politici ma anche economici e finanziari.

E’, però, storicamente infondata l’idea che la politica, tutta la politica, abbia trattato o abbia avuto rapporti con la mafia perché c’è anche – ed è particolarmente rilevante – la storia di conflitti finiti drammaticamente nel sangue; basta scorrere l’elenco delle vittime di mafia per rintracciare i nomi di uomini politici e delle istituzioni.

Tra le vittime si possono ricordare qui almeno quelle più significative

Sono tutti omicidi che avvengono quando a capo di Cosa Nostra arrivano i corleonesi di Totò Riina, i viddani come li definisce con disprezzo uno dei più famosi collaboratori di giustizia, Tommaso Buscetta.

Riina arriva al potere dentro Cosa Nostra dopo aver eliminato Stefano Bontate e Tano Badalamenti, il primo ucciso e il secondo ‘posato’, cioè messo da parte, espulso, entrambi esponenti di una mafia che – pur commettendo tanti omicidi – era più interessata agli affari e al potere locale, e non era minimamente intenzionata a confliggere  con lo Stato.

Il governo mafioso di Cosa Nostra da parte di Totò Riina è costellato da una serie impressionante di omicidi eccellenti culminati con le tragiche stragi di Capaci e di via D’Amelio  del 1992.

Se guardiamo alla storia della mafia siciliana dalle origini ai nostri giorni, è forse possibile considerare la gestione di Totò Riina come un’anomalia perché l’essenza della mafia non è il conflitto armato con lo Stato, ma la mediazione, l’accordo, la trattativa, la “coabitazione” per usare un termine utilizzato dalla Commissione parlamentare antimafia.

Dagli anni sessanta del Novecento le organizzazioni mafiose hanno avuto un notevole sviluppo muovendosi in due direzioni:

L’espansione in territori diversi da quelli tradizionali, l’internazionalizzazione e l’inserimento in nuovi mercati criminali, primi fra tutti quello della droga, ha consentito dunque alle organizzazioni mafiose un’enorme accumulazione di capitali illeciti e criminali che le hanno reso ricche e potenti. Le mafie, dunque, non si possono considerare soltanto organizzazioni militari, ma vere e proprie imprese criminali.

Tutto ciò ha garantito un’enorme accumulazione di denaro che ha reso ricche e potenti le varie strutture mafiose.

Gli ultimi decenni che abbiamo alle spalle hanno registrato il periodo di più intenso sviluppo delle organizzazioni criminali e nel contempo hanno messo in luce la capacità dello Stato di rispondere agli attacchi che sono stati numerosi, frequenti e devastanti come ha dimostrato la lunga stagione culminata con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, cui sono seguite quelle di Roma, di Milano e Firenze dell’anno successivo.

Il semplice elenco, seppure parziale, di alcune delle leggi approvate dal Parlamento e degli strumenti approntati danno un’idea delle cose fatte:

Leggi: legge Rognoni – La Torre, sequestri di persona, beni confiscati, collaboratori di giustizia, 41 bis ordinamento penitenziario.

Strumenti: DNA, DDA, DIA.

La lunga durata delle organizzazioni mafiose si spiega con la capacità di radicarsi sul territorio e di sviluppare originali strutture che sono diverse per ogni singola organizzazione.

Cosa Nostra con la commissione provinciale – la cupola per usare un termine più noto – ha avuto la capacità di controllare e di dirigere le diverse famiglie sparse sul territorio.

La ‘ndrangheta la cui struttura di base è la ‘ndrina, o cosca, che poggia sulla famiglia naturale del capobastone, sui parenti diretti – anche se non bisogna mai pensare che tutti i parenti diretti di uno ‘ndranghetista siano a loro volta ‘ndranghetisti – dalle origini fino a qualche anno fa non ha avuto una unica struttura di comando, ma ha fondato il controllo del territorio sulla forza della ‘ndrina locale.

La diversa struttura locale ha avuto esiti diversi in determinati momenti, soprattutto quando è emerso e si è sviluppato il fenomeno dei collaboratori di giustizia.

Cosa nostra è stata squassata dalle dichiarazioni dei collaboratori e la stessa cosa è toccata alla camorra e alla sacra corona unita, mentre la ’ndrangheta è rimasta pressoché immune data la sua struttura familiare che ha preservato le ‘ndrine; ed infatti nessun capo della ‘ndrangheta ha collaborato con la giustizia.

Per concludere voglio solo ricordare che in Italia dal 1962 esiste una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia.

Quando nacque era limitata alla sola Sicilia, poi anch’essa si è trasformata fino ad interessarsi non solo dell’Italia ma anche delle connessioni delle mafie italiane con quelle straniere operanti sul territorio internazionale dall’Europa agli Stati Uniti.

L’archivio dell’Antimafia – dalla prima a quella attuale – è un preziosissimo giacimento di materiale documentario che serve sicuramente a illuminare i momenti salienti degli ultimi decenni.



La lezione inaugurale del corso di Roma Tre venerdì 5 novembre

UNIVERSITA' DEGLI STUDI ROMA TRE

Lezione inaugurale
Storia della criminalità organizzata a Roma Tre
Primo corso sulla mafia istituito da un Ateneo italiano


Venerdì 5 novembre 2004 – ore 10
Aula Magna del Rettorato – Via Ostiense 159, Roma

Interverranno oltre al Rettore Guido Fabiani:
Virginio Rognoni, Pierluigi Vigna, Roberto Centaro, Giuseppe Lumia, Piero Grasso, Enzo Ciconte, Salvatore Mazzamuto

La Facoltà di Giurisprudenza (Cattedre di Diritto Penale - Proff. Fiorella e Trapani) e la Scuola Dottorale Internazionale di Diritto ed Economia 'Tullio Ascarelli' di Roma Tre inaugurano quest’anno un Corso seminariale sulla Storia della Criminalità organizzata - il primo ad essere istituito da un Ateneo italiano - che analizzerà il fenomeno mafioso nei suoi molteplici aspetti. A tenere il corso sarà Enzo Ciconte, esperto di mafia calabrese e consulente della Commissione Antimafia. Il Corso è organizzato nell'ambito didattico della facoltà di Giurisprudenza.

Dal brigantaggio alla distinzione tra le principali associazioni criminali, dai grandi traffici internazionali al maxi-processo di Palermo, dalle fase stragista alla ‘calma apparente’ dell’ultimo decennio, Ciconte tenterà di rileggere in maniera originale le fasi salienti della nascita e dello sviluppo della criminalità organizzata, analizzando tanto le connessioni con il mutamento del tessuto politico e sociale quanto le risposte elaborate dall’ordinamento giuridico.

L’inaugurazione, che avrà luogo alla presenza di alcune delle massime istituzioni dello Stato e dei maggiori esperti del fenomeno mafioso, prevede al termine degli interventi un ampio dibattito con gli studenti presenti, che hanno già mostrato un notevole interesse nei confronti della proposta didattica. Oltre 350, infatti, sono gli studenti iscritti ad oggi.

Gli incontri (in numero di dieci da svolgersi a partire da venerdì 5 novembre ore 10 in Aula Magna e, a seguire, tutti i lunedì dalle 17.45 alle 19.45 in aula 2) verranno articolati in moduli di due ore.

Per info e iscrizioni: [email protected]




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