La rivoluzione del 1860 creò le basi per un Piemonte e quindi per un'Italia che si riattaccava alla situazione dell'era napoleonica. Come allora vecchi privilegi di casta e camorre municipalistiche furono sbloccati; come allora furono attaccati cattedratici di maniera, codini, o posizioni mentali secolarmente incancrenite.
Fioriva di nuovo l'albero della libertà della borghesia
giacobina e la minoranza dinamica del Terzo Stato italiano di Lombardia
come nel Regno di Napoli vi cantava intorno la Carmagnola, con discorsi
demagogici, corteggiando i potenti dell'ora e cercando di soppiantare
quanti avevano avuto sino allora il comando.
Specialmente l'Italia meridionale si distinse per scarso senso sociale,
mentre la decisione del Terzo Stato possidente dell'Italia centrale e
la forza militare seppero tener a freno le eterne fazioni di parte nei
paesi papalini.
Il piemontesismo militarista tradizionale collaborò sin da
allora con l'elemento medio intelligente e attivo, ma privo di
tradizioni appunto perché rivoluzionario, mentre il Parlamento
si popolava, come notava già il Cavour, di esponenti di un ceto
dirigente senza opinioni proprie, conservatore in fondo al cuore, ma
radicale per paura.
Quando si dice che l'unità italiana fu voluta da una minoranza,
non bisogna pensare alla minoranza degli intellettuali, dei teorici,
dei martiri, dei combattenti. Bisogna pensare invece alla minoranza che
fece la rivoluzione politica dopo avvenuta l'unità e puntando
sulla forza che quella unità aveva imposto.
In primo luogo la monarchia piemontese, legata alla tradizione storica
dello Stato assoluto ansioso di accrescere il suo prestigio, di battere
in breccia e limitare ovunque reminiscenze e privilegi feudali, di
potenziarsi all'interno per sognare grandi fortune all'estero.
L'animus espansionistico era proprio a tutte le dinastie sopravvissute
al Medioevo e che, dalla lotta contro la feudalità, avevano
acquistato la forza militare e la tradizione di fedeltà di
quella formando una nuova entità, aristocrazia-monarchia,
costituita da due elementi contrapposti eppure inscindibili fra loro.
Dalla lotta contro i privilegi del clero la monarchia aveva
altresì ereditato il principio del dominio per diritto divino.
Questa monarchia accettò tra il 1849 e 1859 l'alleanza con i
vari fermenti rivoluzionari di cui doveva pur acquistare inconfessabili
istinti.
Non potendo più prendere a pretesto la difesa dei diritti dei
troni e degli altari accettò la formula, nel contempo più
modesta e più esclusivista, che le consentiva uno Stato unitario
e centralista contro tutte le più vecchie tradizioni locali, ma
riattaccantesi invece alle tradizioni regaliste napoletane e toscane.
Quindi, rivoluzione unitaria centralistica e statolatrica che ricordava
stranamente i fasti giacobini e che giacobina divenne via via
progressivamente col tempo quando la ventata di libertà, che,
pur bisognava sfogare, si fu calmata nella demagogia da un lato, nelle
presuntuose e pur umane ostentazioni dell'intellettualismo soddisfatto
... ed in cerca di nuovi problemi dall'altro.
La libertà ed il suffragio aprirono le porte del potere e della
ricchezza alla marea degli uomini mediocri poco colti, ma pronti a trar
partito da tutte le occasioni favorevoli per migliorare le proprie
condizioni.
L'idea della sovranità popolare, espressa a mezzo dei plebisciti
e dei ludi elettorali, sbocca all'idea del governo che impersona una
volontà e un'autorità assoluta.
Non fu contraddittoria, ma assai coerente la formula: «Per grazia
di Dio e per volontà della nazione», in cui si fondevano i
residui del diritto divino ancien régime, con i residui
moderni e giacobini che avevano inventato il mito del «popolo
sovrano».
Ma non basta: il fenomeno neogiacobino, in fondo di carattere europeo e
che trionfava sotto altre vesti a Parigi come a Vienna e a Berlino,
assumeva nella penisola un rispetto speciale: lo Stato unitario
italiano era stato voluto da una esigua minoranza attiva circondata e
premuta da una. maggioranza restia ma pur disposta ad adattarsi.
Parte di questa minoranza (che si può in parte individuare nella
Destra storica) intendeva forse completare l'opera col proporre un
piano progressivo dl decentramento e di autonomie che consentisse di
continuare sulla via di un incivilimento a cui il paese era riluttante,
ma d'altra parte, inquinata anch'essa di bonapartismo reazionario,
accennava alla convenienza di un socialismo di Stato a cui la borghesia
nazionale, erede di una feudale tradizione esclusivista, non poteva
piegarsi.
L'individualismo italiano fece sì che il giacobinismo nazionale
affermasse la libertà ai potenti e negasse ai deboli il diritto
di coalizzarsi tra loro. Anche la Convenzione nazionale aveva fatto la
stessa cosa!
L'intervento piemontese nella penisola aveva rotto vecchie clientele,
spezzato talune catene di interessi, penetrando in settori semifeudali;
uomini ambiziosi, abili, pieghevoli cercarono di trar profitto dalla
situazione. In taluni settori, almeno per qualche decennio, fu concessa
maggior libertà di iniziativa; la ricchezza comune
aumentò; la proprietà potè alquanto frazionarsi e
con essa si frazionarono le clientele consentendo gruppi contrapposti
di interessi che crearono le basi locali al giuoco dei partiti
politici.
Questi concreti interessi verranno così sostituendosi alle
vecchie ideologie teoriche e in breve federalisti, mazziniani e
tradizionalisti scompaiano praticamente dal giuoco politico.
Lo Stato sorto dalla rivoluzione era una monarchia con intimi desideri
di potere assoluto, ma che invece di appoggiarsi alle forze storiche
era costretta a travolgerle in quanto le erano ostili e doveva invece
lasciarsi circuire da elementi più dinamici e rivoluzionari nel
senso che erano pronti a trar profitto individuale dalle nuove
contingenze.
La rivoluzione intima italiana comincia, si può dire, con la
proclamazione del Regno, che ha per effetto di eliminare campanilismi e
regionalismi, non forze vive, ma forze umanamente rispettabili cui non
si è in grado di sostituire che un nucleo di arrivisti che
costituiranno la borghesia della Terza Italia.
Il nuovo Stato italiano, non potendo appoggiarsi sulle classi
conservatrici, clero e patriziato, per la maggioranza avversi, doveva
sostenersi a mezzo dl abili maneggi di governo e di combinazioni
elettorali.
Si trattava di un governo senza tradizione, frutto della rivoluzione di
una minoranza che si era ammantata di ideali come quelli proposti dal
Mazzini, in ogni caso inattuabili, ma certo diametralmente opposti alla
mentalità del paese.
Scomparsi i motivi teorici propri ad un vero partito di sinistra,
rimase una massa amorfa, priva di ideali, facilmente dominata dagli
arrivisti e dagli improvvisatori.
Venne conservata la tradizione di una Destra, di nome costituita da
liberali, di fatto da conservatori, che nei momenti critici si
scinderanno in statolatri legittimisti ad ogni costo e in uomini
disposti a tollerare un modesto progressismo che esprimeranno infine le
aspirazioni di ceti medi più attivi e non ignari delle
difficoltà di superare le lotte quotidiane dell'esistenza con un
minimo di dignità personale.
La Sinistra storica, che già durante il Risorgimento aveva avuto
nelle sue file troppi faciloni avventurieri, rimase demagogica e
parolaia; entrata nelle combinazioni elettorali finì col
confondersi con la tutela di certi interessi di classe (come già
a suo tempo talune « vendite » carbonare), e non a caso in
una terra in cui è così facile la confusione tra
ideologie pubbliche e tutele di interessi privati.
L'idea autoritaria del potere, facilmente accolta in quella specie di
prefettura francese che era il Piemonte, prevalse facilmente in una
società legata a principi autoritari, e la borghesia ed i ceti
padronali trovarono nel nuovo Stato italiano un difensore ancora
più solerte delle loro private fortune, pronto ad allargare le
braccia a proteggere tutti coloro che, a furia di gomitate d'astuzie e
di violenze, potessero risalire tra i ranghi privilegiati.
«L'istinto naturale della borghesia italiana - scriveva allora
Antonio Labriola - è giacobino: essa è istintivamente
rivoluzionaria perché ha contro di sé, contro lo Stato
che è il suo luogo geometrico, il Papato con quel suo non
indifferente bagaglio di cose che solo i teorici dell'utopismo liberale
proclamano trapassato per sempre».
Quindi era instabile e inquieta ed incerta e non poteva consentire l'esistenza di un vero e proprio partito conservatore.
La « rivoluzione » giacobina italiana fu conclusa definitivamente con la caduta della Destra, il 18 marzo 1876.
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