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Fonte:
Corriere del Mezzogiorno del 30/01/05

Deputazione di Storia Patria per la Lucania

I Briganti lucani e le valutazioni sul Risorgimento oggi

nota del prof. Raffaele Giura Longo

La Deputazione di Storia Patria per la Lucania, interpellata in merito dalla prefettura di Potenza (secondo quanto prescrive la legge), aveva espresso a suo tempo un secco parere negativo alla richiesta del Comune di Latronico di intitolare una strada ai briganti lucani.


Il nostro ragionamento era stato molto semplice, e direi persino ovvio: valeva la pena onorare in tal modo – ed in maniera ufficiale e non transitoria – un metodo di lotta sociale e politica basato sulla violenza, sull’omicidio e su ogni altra efferatezza?


Poteva trovar spazio, nel mondo a noi contemporaneo e con tutto quello che stava e sta succedendo dopo il tragico 11 settembre, un qualsiasi atto che suggerisse, e con chiara ed inevitabile indicazione politica, una vera e propria legittimazione dell’uso della violenza sanguinaria per la soluzione dei problemi anche gravi di natura sociale e di convivenza civile, nei rapporti interni come nei rapporti internazionali?


Oggi, in sostanza, la violenza può ancora ( e così a cuor leggero) essere annoverata tra gli strumenti propri dell’azione politica?


Il prefetto di Potenza, d’altra parte, ha motivato il rigetto della proposta in maniera ineccepibile.


Egli ha fermamente escluso che un’amministrazione comunale, cioè un’istituzione pubblica che deriva la propria autorità dalla legge e da elezioni libere e democratiche, e che, in quanto tale, si qualifica nei confronti dei cittadini come depositaria e garante della legalità, potesse compiere un atto che quanto meno suggerisse o addirittura enfatizzasse un giudizio ambiguo su persone che avevano certamente operato in stato di illegalità e che, attraverso l’uso e l’abuso della violenza, avevano mostrato di attestarsi su una posizione ostile ed estranea non solo alla legge, ma anche ai valori essenziali di libertà e di democrazia.


Anche di questo si tratta: cioè di verificare se tutto ciò oggi ha ancora validità e significato; ed a che punto siamo con quel che un tempo si definiva tout court lo spirito pubblico.


O ce ne siamo dimenticati?


Per quanto riguarda lo specifico, resta solo da aggiungere che la storiografia più recente, una volta cadute le paratìe ideologiche e gli stereotipi, ci ha indotti a rivedere molte valutazioni forse troppo frettolosamente elaborate.


Soprattutto non regge più la lettura per così dire politica del fenomeno: il carattere filoborbonico del brigantaggio risulta quasi svanire come il portato d’altri tempi; persino l’applicazione dello schema classista oggi appare impropria e ciò distingue nettamente il brigantaggio dal movimento contadino (che fu ed è – non lo si dimentichi – un movimento pacifico, che, semmai, la violenza la subì piuttosto che perpetrarla).


Più si leggono i documenti – spesso citati ma non studiati – e più ci si accorge di trovarsi di fronte ad un fenomeno complesso, in cui non solo la delinquenza comune era più presente ed inquinante di quanto non apparisse fino a poco tempo fa, ma anche che spesso i briganti isolati o a piccoli gruppi erano assoldati dai notabili del paese per piccole o grandi vendette municipali e paesane, attorno a piccoli o grandi interessi legati alla proprietà, all’esercizio del misero potere locale, alle meschine faide interfamiliari, e così via: in questo caso, sia detto per inciso, il manutengolismo appare rovesciato, nel senso che erano i briganti i veri manutengoli dei borghesi ispiratori dei fatti criminali e delle prepotenze.


Né mancarono casi di feroce cannibalismo, come quello ben noto ed a suo tempo descritto dal purtroppo dimenticato Antonio Lucarelli, che narrò delle donne brigantesse inzuppare il pane (e mangiarlo) nel sangue uscito dalla testa spaccata di alcune guardie nazionali aggredite selvaggiamente e lasciate moribonde sul selciato di un cospicuo comune pugliese.


Il brigantaggio fu questo e molto altro ancora…


Ma come, con buona pace dei letterati mediocri e di tutti i nostalgici laudatores temporis acti, è cambiata la storiografia del brigantaggio, così bisogna anche dire che è cambiata la storiografia dell’Italia liberale.


Già il Cavour, che certo non era stato molto tenero con le province meridionali, in punto di morte aveva scongiurato i suoi successori a non usare la forza e lo stato d’assedio nei confronti di queste popolazioni: “Datemi dieci anni di governo liberale, e vi porterò il Sud al livello delle altre province del Regno” aveva allora esclamato, nella convinzione che la pratica della libertà, sul piano economico non meno che su quello politico, fosse il modo migliore per aver ragione dei mali endemici della società meridionale e per superare la pesante eredità degli ultimi Borbone di Napoli.


Ma a non lasciare eredi politici era stato proprio quel grande statista: la tanto decantata Destra storica, infatti, pur richiamandosi a parole al suo insegnamento ed alle sue indicazioni, operò nel Sud acuendo le lacerazioni esistenti e preesistenti: la repressione al brigantaggio fu durissima, ed anzi tutto quel fenomeno fu strumentalizzato anche in Parlamento a fini di parte dalla maggioranza governativa.


Illustri parlamentari meridionali di ogni tendenza, quali in primo luogo Francesco De Sanctis, e poi anche pugliesi e lucani di primo piano, quali i moderatissimi Giuseppe Massari di Bari, Carlo De Cesare di Spinazzola e Giacomo Racioppi di Moliterno, restarono isolati ed inascoltati perché il governo aveva già deciso irrazionalmente la grande repressione armata e l’applicazione ferrea dello stato d’assedio.


La divisione tra Nord e Sud del paese, cioè la “questione meridionale” politicamente intesa, nacque allora, e ne furono pronubi solerti, con pari dignità e pari responsabilità, il brigantaggio da una parte e la maggioranza governativa dall’altra, perché entrambi operarono, ciascuno dalla propria parte, per isolare il Mezzogiorno dal resto della società nazionale; e fu la loro, come sappiamo, una battaglia vinta, che ha segnato irrimediabilmente tutta la storia del Regno d’Italia.


Per questi motivi, tra l’altro, non si può convenire con chi vorrebbe attribuire all’irrompere dei cattolici e dei comunisti nell’agone politico-culturale italiano la causa della divisione e della polemica antirisorgimentale: l’Italia era divisa già da prima.


Lo stesso Benedetto Croce aveva parlato di un’unità nazionale “stentata”, perché le classi dirigenti non erano riuscite a gestire unitariamente il processo postrisorgimentale; ed a suo giudizio erano caduti nel vuoto anche quei timidi tentativi che dal seno stesso del liberalesimo italiano erano talora sorti per fornire il nostro paese di una compagine politica, di un “partito”, in cui potessero riconoscersi tutti i liberali italiani. “I liberali sanno, ma non sanno fare” amava ripetere sconsolato don Benedetto, forse annoiato dalla saccenteria di molti ministri, parecchi dei quali erano anche suoi amici e suoi estimatori…


Del resto, la cultura politica meridionale, anche non necessariamente di sinistra, ha espresso giudizi severi sulle classi dirigenti del tempo: Giustino Fortunato ha parole di fuoco contro la borghesia sua conterranea; Francesco Saverio Nitti diceva che la borghesia “ama l’Italia come i vermi amano il formaggio”, e per questo chiedeva una politica degli alti salari che gli industriali – anche i più illuminati e i più favorevoli alle riforme – si guardarono bene dall’adottare.


Questi meridionalisti non furono isolati; ad essi si richiamarono in molti e della loro opinione tennero conto le correnti democratiche e di sinistra del nostro paese.


A questo filone del meridionalismo fece poi concreto riferimento Piero Gobetti, che nel fascismo lottò non tanto e non solo il suo capo, quanto quella parte vasta della società nazionale che aveva finito con il riconoscersi in quei metodi ed in quel costume politico, ai quali egli volle significativamente contrapporre “l’altra Italia”, in un progetto di risanamento e di rinascita di lunga durata che avrebbe dovuto contare sull’alleanza e sul protagonismo di nuovi soggetti politici, esplicitamente da lui individuati negli operai torinesi e nei contadini meridionali.


Gli esempi potrebbero continuare; ma qui mi preme sottolineare il fatto che la discussione sul Risorgimento e sui suoi esiti, portata avanti in maniera accesa con risultati talora di forte contrapposizione, è stata a suo modo liberatoria e decisamente produttiva, perché è approdata alla fine ad una sintesi che oggi rende obsolete tutte le vecchie polemiche.


Autore di questa sintesi fu – come è noto – un grande storico, Rosario Romeo, che, discutendo dell’opera di modernizzazione portata avanti dall’Italia liberale, non ne disconosceva i meriti, ma prendeva atto che solo una parte della società italiana se ne era avvantaggiata, mentre intere popolazioni ne erano restate pressoché escluse.


L’avvio del nuovo risorgimento può prendere le mosse dalla consapevolezza di questo più recente bisogno di ricomposizione unitaria; il Mezzogiorno sta forse già facendo la sua parte, e meglio riuscirà nel suo intento se rinuncerà a rievocare malamente il passato.


Jacques Le Goff ci ricordava tempo fa che compito dello storico è liberare l’uomo dal proprio passato.








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