La Deputazione di Storia Patria per la Lucania, interpellata in merito dalla prefettura di Potenza (secondo quanto prescrive la legge), aveva espresso a suo tempo un secco parere negativo alla richiesta del Comune di Latronico di intitolare una strada ai briganti lucani.
Il nostro ragionamento era stato molto semplice, e direi persino ovvio:
valeva la pena onorare in tal modo – ed in maniera ufficiale e
non transitoria – un metodo di lotta sociale e politica basato
sulla violenza, sull’omicidio e su ogni altra efferatezza?
Poteva trovar spazio, nel mondo a noi contemporaneo e con tutto quello
che stava e sta succedendo dopo il tragico 11 settembre, un qualsiasi
atto che suggerisse, e con chiara ed inevitabile indicazione politica,
una vera e propria legittimazione dell’uso della violenza
sanguinaria per la soluzione dei problemi anche gravi di natura sociale
e di convivenza civile, nei rapporti interni come nei rapporti
internazionali?
Oggi, in sostanza, la violenza può ancora ( e così a cuor
leggero) essere annoverata tra gli strumenti propri dell’azione
politica?
Il prefetto di Potenza, d’altra parte, ha motivato il rigetto della proposta in maniera ineccepibile.
Egli ha fermamente escluso che un’amministrazione comunale,
cioè un’istituzione pubblica che deriva la propria
autorità dalla legge e da elezioni libere e democratiche, e che,
in quanto tale, si qualifica nei confronti dei cittadini come
depositaria e garante della legalità, potesse compiere un atto
che quanto meno suggerisse o addirittura enfatizzasse un giudizio
ambiguo su persone che avevano certamente operato in stato di
illegalità e che, attraverso l’uso e l’abuso della
violenza, avevano mostrato di attestarsi su una posizione ostile ed
estranea non solo alla legge, ma anche ai valori essenziali di
libertà e di democrazia.
Anche di questo si tratta: cioè di verificare se tutto
ciò oggi ha ancora validità e significato; ed a che punto
siamo con quel che un tempo si definiva tout court lo spirito pubblico.
O ce ne siamo dimenticati?
Per quanto riguarda lo specifico, resta solo da aggiungere che la
storiografia più recente, una volta cadute le paratìe
ideologiche e gli stereotipi, ci ha indotti a rivedere molte
valutazioni forse troppo frettolosamente elaborate.
Soprattutto non regge più la lettura per così dire
politica del fenomeno: il carattere filoborbonico del brigantaggio
risulta quasi svanire come il portato d’altri tempi; persino
l’applicazione dello schema classista oggi appare impropria e
ciò distingue nettamente il brigantaggio dal movimento contadino
(che fu ed è – non lo si dimentichi – un movimento
pacifico, che, semmai, la violenza la subì piuttosto che
perpetrarla).
Più si leggono i documenti – spesso citati ma non studiati
– e più ci si accorge di trovarsi di fronte ad un fenomeno
complesso, in cui non solo la delinquenza comune era più
presente ed inquinante di quanto non apparisse fino a poco tempo fa, ma
anche che spesso i briganti isolati o a piccoli gruppi erano assoldati
dai notabili del paese per piccole o grandi vendette municipali e
paesane, attorno a piccoli o grandi interessi legati alla
proprietà, all’esercizio del misero potere locale, alle
meschine faide interfamiliari, e così via: in questo caso, sia
detto per inciso, il manutengolismo appare rovesciato, nel senso che
erano i briganti i veri manutengoli dei borghesi ispiratori dei fatti
criminali e delle prepotenze.
Né mancarono casi di feroce cannibalismo, come quello ben noto
ed a suo tempo descritto dal purtroppo dimenticato Antonio Lucarelli,
che narrò delle donne brigantesse inzuppare il pane (e
mangiarlo) nel sangue uscito dalla testa spaccata di alcune guardie
nazionali aggredite selvaggiamente e lasciate moribonde sul selciato di
un cospicuo comune pugliese.
Il brigantaggio fu questo e molto altro ancora…
Ma come, con buona pace dei letterati mediocri e di tutti i nostalgici
laudatores temporis acti, è cambiata la storiografia del
brigantaggio, così bisogna anche dire che è cambiata la
storiografia dell’Italia liberale.
Già il Cavour, che certo non era stato molto tenero con le
province meridionali, in punto di morte aveva scongiurato i suoi
successori a non usare la forza e lo stato d’assedio nei
confronti di queste popolazioni: “Datemi dieci anni di governo
liberale, e vi porterò il Sud al livello delle altre province
del Regno” aveva allora esclamato, nella convinzione che la
pratica della libertà, sul piano economico non meno che su
quello politico, fosse il modo migliore per aver ragione dei mali
endemici della società meridionale e per superare la pesante
eredità degli ultimi Borbone di Napoli.
Ma a non lasciare eredi politici era stato proprio quel grande
statista: la tanto decantata Destra storica, infatti, pur richiamandosi
a parole al suo insegnamento ed alle sue indicazioni, operò nel
Sud acuendo le lacerazioni esistenti e preesistenti: la repressione al
brigantaggio fu durissima, ed anzi tutto quel fenomeno fu
strumentalizzato anche in Parlamento a fini di parte dalla maggioranza
governativa.
Illustri parlamentari meridionali di ogni tendenza, quali in primo
luogo Francesco De Sanctis, e poi anche pugliesi e lucani di primo
piano, quali i moderatissimi Giuseppe Massari di Bari, Carlo De Cesare
di Spinazzola e Giacomo Racioppi di Moliterno, restarono isolati ed
inascoltati perché il governo aveva già deciso
irrazionalmente la grande repressione armata e l’applicazione
ferrea dello stato d’assedio.
La divisione tra Nord e Sud del paese, cioè la “questione
meridionale” politicamente intesa, nacque allora, e ne furono
pronubi solerti, con pari dignità e pari responsabilità,
il brigantaggio da una parte e la maggioranza governativa
dall’altra, perché entrambi operarono, ciascuno dalla
propria parte, per isolare il Mezzogiorno dal resto della
società nazionale; e fu la loro, come sappiamo, una battaglia
vinta, che ha segnato irrimediabilmente tutta la storia del Regno
d’Italia.
Per questi motivi, tra l’altro, non si può convenire con
chi vorrebbe attribuire all’irrompere dei cattolici e dei
comunisti nell’agone politico-culturale italiano la causa della
divisione e della polemica antirisorgimentale: l’Italia era
divisa già da prima.
Lo stesso Benedetto Croce aveva parlato di un’unità
nazionale “stentata”, perché le classi dirigenti non
erano riuscite a gestire unitariamente il processo postrisorgimentale;
ed a suo giudizio erano caduti nel vuoto anche quei timidi tentativi
che dal seno stesso del liberalesimo italiano erano talora sorti per
fornire il nostro paese di una compagine politica, di un
“partito”, in cui potessero riconoscersi tutti i liberali
italiani. “I liberali sanno, ma non sanno fare” amava
ripetere sconsolato don Benedetto, forse annoiato dalla saccenteria di
molti ministri, parecchi dei quali erano anche suoi amici e suoi
estimatori…
Del resto, la cultura politica meridionale, anche non necessariamente
di sinistra, ha espresso giudizi severi sulle classi dirigenti del
tempo: Giustino Fortunato ha parole di fuoco contro la borghesia sua
conterranea; Francesco Saverio Nitti diceva che la borghesia “ama
l’Italia come i vermi amano il formaggio”, e per questo
chiedeva una politica degli alti salari che gli industriali –
anche i più illuminati e i più favorevoli alle riforme
– si guardarono bene dall’adottare.
Questi meridionalisti non furono isolati; ad essi si richiamarono in
molti e della loro opinione tennero conto le correnti democratiche e di
sinistra del nostro paese.
A questo filone del meridionalismo fece poi concreto riferimento Piero
Gobetti, che nel fascismo lottò non tanto e non solo il suo
capo, quanto quella parte vasta della società nazionale che
aveva finito con il riconoscersi in quei metodi ed in quel costume
politico, ai quali egli volle significativamente contrapporre
“l’altra Italia”, in un progetto di risanamento e di
rinascita di lunga durata che avrebbe dovuto contare
sull’alleanza e sul protagonismo di nuovi soggetti politici,
esplicitamente da lui individuati negli operai torinesi e nei contadini
meridionali.
Gli esempi potrebbero continuare; ma qui mi preme sottolineare il fatto
che la discussione sul Risorgimento e sui suoi esiti, portata avanti in
maniera accesa con risultati talora di forte contrapposizione, è
stata a suo modo liberatoria e decisamente produttiva, perché
è approdata alla fine ad una sintesi che oggi rende obsolete
tutte le vecchie polemiche.
Autore di questa sintesi fu – come è noto – un
grande storico, Rosario Romeo, che, discutendo dell’opera di
modernizzazione portata avanti dall’Italia liberale, non ne
disconosceva i meriti, ma prendeva atto che solo una parte della
società italiana se ne era avvantaggiata, mentre intere
popolazioni ne erano restate pressoché escluse.
L’avvio del nuovo risorgimento può prendere le mosse dalla
consapevolezza di questo più recente bisogno di ricomposizione
unitaria; il Mezzogiorno sta forse già facendo la sua parte, e
meglio riuscirà nel suo intento se rinuncerà a rievocare
malamente il passato.
Jacques Le Goff ci ricordava tempo fa che compito dello storico è liberare l’uomo dal proprio passato.
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