Pur essendo una figura tipica dell’Italia unita, in quanto strettamente collegata con il sistema elettoral-accosciato, con l’ascarismo unitario, il galantuomo meridionale nasce prima che Garibaldi e Cavour depistino la storia del Sud. Indubbiamente nasce dalla terra. Anche la fatua gentry inglese nasce dalla terra, ma non per questo riesce a rovinare la Gran Bretagna. Il problema pertanto non sta in essa (quantomeno alle origini), ma nel modo in cui si formano le sue entrate. Nella storia del Sud, la svolta modernizzante è il frutto di due concause: da una parte, la crescita della domanda mondiale di zolfo e di olio, in connessione con l’ultima fase -una fase fortemente espansiva- della manifattura e con la prima Rivoluzione industriale; dall’altra, la fine della dominazione spagnola e l’avvento nelle terre napoletane e in Sicilia di uno stato indipendente, sia pure sotto la guida di una dinastia proveniente da fuori e pensosa di sé stessa, prima che della nazione.
Come ha insegnato Kula, anche un’economia chiusa -non più
che un’economia di villaggio- può ben convivere con il
commercio mondiale. Ora se il monopolio dello zolfo rese ben poco alla
Sicilia e il commercio lecito o illecito dei grani non vi ebbe quel
peso sociologico che la saggistica posteriore ha creduto
d’intravedere, la parte continentale del Regno ebbe consistenti
benefici dagli scambi continentali. Infatti, quando la dinastia
borbonica chiuse il suo bilancio, il paese napoletano si trovava con
l’aristocrazia debellata, con abbondante risparmio, con le
attività commerciali interne, alle quali si dedicava una
potentissima flotta di dodicimila navi piccole e grandi, ben
sviluppate. Era inoltre il beneficiario del quasi-monopolio mondiale
della produzione d’olio, una merce richiesta dai maggiori paesi
industriali come alimento, per l’illuminazione, come lubrificante
dei motori e materia di lavorazione del cotone. Non suoni strano, ma
nei fatti la rinascita commerciale aveva aiutato il baronaggio ad
affermarsi.
Il feudalesimo è una condizione giuridica, propriamente di
diritto pubblico, mentre il baronaggio del XVIII, XIX e XX secolo
è una condizione dello spirito, oltre che un modo di rapportarsi
alla società. Nonostante assuma atteggiamenti neofeudali, il
barone è giuridicamente pari a qualunque proprietario secondo il
restaurato diritto civile romano (cioè con la piena
facoltà di godere e disporre della cosa). Già nel secolo
dei lumi, l’aristocrazia napoletana è un nome senza gran
sostanza. Lo stato ha carattere patrimoniale e gli aggregati urbani
hanno egemonizzato le terre circostanti. Il circuito intercorrente tra
castello, palazzo nella capitale e sperpero delle rendite si è
fortemente indebolito e subisce la mediazione del borgo.
L’altro circuito, non meno pesante, quello delle
esternazioni, che va dal villaggio rurale alla corte spagnola, è
fortunatamente chiuso. Il lavoro evolve verso una nuova forma di
produzione e la città si va separando dalla campagna. Il
più solido momento di congiunzione resta il proprietario
inurbato -principalmente lui, il barone1, il primo proprietario del
luogo, che domina la campagna e spadroneggia in città. In
campagna, la miseria e l’ignoranza delle masse contadine gli
offrono il destro di pretendere e d’ottenere, pur senza averne
titolo, un rispetto del tipo feudale; in città, per quanto possa
essere arcaica la sua azienda agricola, il solo fatto che essa sia la
principale sede locale di produzione, porta chi la dirige in contatto
con il lavoro urbano e con i civili attivi, fino a dominare l’uno
e gli altri con autorevolezza, appunto, baronale.
Mentre la rendita feudale si decompone in forza dei processi che il
mercato innesca, è proprio la vivacità mercantile
dell’olivicoltura che rafforza la posizione aristocraticante del
nostro parvenu. Beati monoculi in terra caecorum. Il proprietario
d’oliveti non ha pari in altri settori, cosicché il grande
produttore d’olio, il barone, nella sua albagìa e nella
sua ignoranza, può credere che il flusso di benessere
proprietario che l’esportazione gli porta, quasi un grazioso dono
di Dio, non si esaurirà mai.
A questa idea contribuì sicuramente la mano leggera, in materia
fiscale, con cui i Borbone trattarono sempre i settori vocati
all’esportazione, tanto più che si potevano facilmente
rifare con il consumatore straniero, gravando l’olio d’un
dazio all’uscita. Ancor più fortemente dovette contribuire
il basso costo d’impianto. L’ulivo è una pianta
divina che non richiede cure, ma solo dei tempi d’attesa e una
certa vigilanza nei confronti dei pastori, delle greggi e delle
mandrie. Basta sistemare una piantina nel terreno perché cresca
da sola. Dove le terre sono appoderate -cioè quasi sempre- il
contadino può continuare, nell’interfilare, le sue
tradizionali coltivazioni di cereali, ortaggi, legumi.
Tuttavia non è la posizione di agricoltore il tavolo anatomico
su cui sezionare la figura baronale, ma quella sociale e politica. Il
barone è barone in quanto ha una regolare entrata in ducati, la
quale viene prevalentemente dalla produzione dell’olio. Questi
non ha una cultura sufficiente per immaginare che l’espandersi
del mercato farà crescere i suoi bisogni e che un bel giorno le
sue entrate si riveleranno insufficienti.
Quindi arriva molto tardi a reinvestire le sue consistenti rendite. Non
sente il bisogno di crescere, non ha appetiti animaleschi, ma, per
altro verso, non vuole perdere niente, così non ama dividere con
fratelli e sorelle, e finché può, si aggrappa alla legge
del maggiorasco. Ma, con il declinare del feudalesimo e delle rendite
ecclesiastiche, i fratelli minori trovano una collocazione sempre
più difficile. Nasce, così, una questione, che, se
parlassimo la lingua occitana, chiameremmo dei cadetti.
Non che qui mancasse qualcuno da sbudellare, ma i Borbone andavano
cauti con le spese di corte, e quanto ai moschettieri preferivano
importarli d’oltralpe. Così che i nostrani cadetti
restavano in casa a consumare la verginità delle serve.
Barone il fratello ricco, barone il povero fratello, o se più vi
piace, il fratello povero. I fratelli baroni si amano come tutti i
fratelli, e tranne che la terra e le rendite (che fanno la baronia), il
barone ricco darebbe tutto al barone povero. E infatti gli cede parte
della sua ignoranza, una quota della sua arroganza, e gli lascia intero
lo spirito di rivalsa. Infatti il cadetto meridionale partecipò
entusiasticamente alla rivoluzione del 1799, nella speranza che questa
moltiplicasse le terre appropriabili, togliendole agli aristocratici
più testardi, ai comuni e alla Chiesa, cosa che i Borbone mai
vollero fare.
Il galantuomo nasce nel sottoscala proprietario e baronale del paese e
della città meridionale, nella fosca alba di un giorno che per
il Sud sarà più tetro della buia notte. È un
cadetto della famiglia con scarse rendite, o è lo stesso barone
decaduto, o il figlio del massaro che ha fatto la salita finché
il padre lo ha sospinto, ma che, morto il padre, non sa salire da
sé. Non è il proprietario arricchitosi che un giorno
potrebbe diventare barone e che già si comporta quasi come se lo
fosse. No, il galantuomo con la ricchezza ha chiuso, dopo non avere mai
aperto.
Se per caso ha qualche terra, non ne ha a sufficienza per vivere da
barone. Insomma il cadetto sudico è un barone disarcionato, il
quale non incontra nella sua parabola sociale un re guerriero che lo
innalzi a cadetto di Guascogna, né una Chiesa in espansione che
ne faccia un pingue abate, né un ricco mondo mercantile che gli
prometta un altro tipo di corona.
Con i Borbone, i galantuomini sarebbero periti socialmente, come in
tutti gli stati moderni, confusi nella piccola borghesia impiegatizia,
dei commerci e dei servizi. Sopraggiunti i Savoia, i galantuomini
ebbero invece il modo di intossicare la società meridionale.
I fatti stanno a dimostrare che il vero disegno unitario non consisteva
nel dare un governo moderno al Napoletano e alla Sicilia, secondo
l’aspirazione risorgimentale, ma nel mungerne l’agricoltura
per salvare dalla bancarotta la corona sabauda, che ora ammorba con
puzzo di cadaveri e di stallatico l’intera Italia. Per qualche
spicciolo e qualche medagliere, i galantuomini si prostrarono,
offrirono il fondo del dorso, furono gli ascari della colonizzazione.
Fatta l’Italia, bisognava fare chi la mantenesse. Nel generale
lutto per il crollo del prezzo della seta, nasce la modernizzazione
nordista. I De Ferraris, sedicenti Galliera, i Bastogi, i Balduino, i
grandi profittatori e intrallazzisti della cerchia cavourriana, fondano
la patria finanza e il capitalismo italiano (padano) violentando la
vergine Italia ancor prima che fosse condotta al fonte battesimale.
Non sono dei ladri puri, tipo Grisby ma propriamente dei capitalisti
che imparano il mestiere di truffare lo stato da coloro che intorno a
Napoleone il Piccolo stanno facendo una grande cuccagna con i franchi
del contribuente transalpino. Non rubano i nostri fondatori, ma
spingono lo stato sabaudo, cavourriano e liberale a questa o quella
attività, che loro, e solo loro, avranno il privilegio
d’intermediare, lucrandoci lautamente sopra (sui titoli del
tesoro, che spesso comprano con i soldi dello stesso tesoro, arrivano a
lucrare 79 lire su 100).
Ovviamente le operazioni sono più facili nei territori a loro
noti, così che si comincia da Genova e da Torino, poi si passa a
Firenze e in appresso si scende a Roma. Nel frattempo Milano, Bologna,
Padova, Ferrara, ecc. pretendono di non restare fuori. Anche Napoli,
alcuni decenni dopo, chiede e ottiene qualche intervento lucratorio.
Anche Palermo chiede, ma per ottenere quasi niente. A Napoli manca un
capitalismo di buon appetito, sostiene la storiografia sabauda con il
plauso dei sedicenti storici gramsciani. Il fatto che vi operi persino
uno dei tre fratelli Rothschild, i veri padroni d’Europa, non
conta niente per i nostri rapsodi.
A fare il confronto con il piccolo regno sardo, quel che in
realtà manca non sono gli impianti industriali portanti della
futura nazione industriale; la cosa che a Napoli manca è lo
sfacciato intrallazzo cavourriano e postcavourriano che, a partire dal
1853 e fino a quando Giolitti non chiuderà la bocca ai
più impertinenti, con l’aiuto dei soliti prefetti e
corrompendo con la sua generosità i socialisti dell’Emilia
rossa, riempirà decine di volumi degli Atti Parlamentari.
Nonostante il passaggio epocale, il Regno borbonico vive una condizione
di tranquillità e di serena fiducia. Nel campo economico
è reputato e si ritiene una potenza di rango. Anche sul lato
industriale è limitativo metterlo a confronto con gli altri
stati della penisola. Il Regno ha un’autonomia che gli altri, a
cominciare dal Piemonte sabaudo, sono ben lontani dal possedere.
Nei settori strategici dell’industria, vale a dire la siderurgia,
la meccanica e la cantieristica, essi hanno bruciato i tempi naturali
di maturazione economica, facendo in proprio. E se cadono sotto i colpi
di Garibaldi e dei generali sabaudi, è perché non
intendono sistemare i parassiti sociali.
Possiedono le risorse per avviare l’industrializzazione privata,
dopo avere fondato quella pubblica, e pertanto non allettano
intrallazzisti. E ciò sarà fatale per il futuro del Sud,
che fino alla Cassa per il Mezzogiorno non avrà il personale
idoneo, la cultura, per partecipare in grande alle patrie dissipazioni.
Invece che grandi ladri, o dei ladri in grande del tipo Bastogi,
Balduino, Breda, SME, Fiat, il Sud avrà dei ladri di polli. Anzi
qualcosa di meno, perché i contadini dispongono, tutt’al
più, di una minestra di broccoli. Che i galantuomini non si
vergognano di arraffare.
In sostanza, il Sud contribuisce all’intrallazzo nazionale dal
lato delle uscite, ma non ricava niente dal lato delle entrate.
È terra infidelium per gli intrallazzisti toscopadani. Che il
Sud non sarebbe mai divenuto una vera parte del paese, ma un mero
mungitoio cavourriano e sabaudo, lo si era visto già prima che
cominciasse, non appena il plenipotenziario cavourrista Farini
arrivò a Palermo. A Torino le idee erano chiare.
L’assenso delle classi proprietarie sudiche ce lo procuriamo
difendendo la proprietà; quello delle classi medie, lottizzando
a buon prezzo i beni ecclesiastici, di cui per altro (noi torinesi)
incasseremo il valore; quello dei proletari, offrendo una speranza di
lottizzazione sui demaniali comunali. Ma i contadini avevano una fame
antica.
Raggirati sulla questione della terra, scatenarono il brigantaggio
politico costringendo il governo liberale a rinsaldare la sua alleanza
con i galantuomini -ironia degli aggettivi- anch’essi liberali.
Se i piemontesi fossero arrivati dall’Alaska sarebbero stati meno
stranieri a questo popolo.
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