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Fonte:
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La lotta dell'opposizione massonico-sicilianista al brigantaggio
durante i governi della destra storica

di Salvatore Vaiana

Tutto e nulla era cambiato con l'unità della Nazione e i briganti tornarono a riorganizzarsi in agguerrite bande armate. Ancora una volta queste "nacquero da un comune bisogno: la protesta brutale e selvaggia della miseria" e il clero "non indugiava a incitare al brigantaggio anche dal pergamo39" .


Capostipite e vero cavallo di razza del grande brigantaggio post-unitario è ormai unanimemente considerato Angelo Pugliese, detto don Peppino il Lombardo, di origine calabrese e siciliano di adozione. Il suo erede fu Alberto Riggio, che operò nel territorio di Girgenti.


Uscito di scena, il bastone di comando passò al suo aiutante in campo Vincenzo Capraro di Sciacca. La mattina del 28 settembre 1875, Capraro rimase ucciso in un sanguinoso conflitto con gli agenti di P.S. e i Militi a cavallo.


La guida della superstite e rinnovata banda Capraro passò a Gaudenzio Plaja. Ma l'autorità del nuovo capobanda non fu riconosciuta dal suo socio Domenico Sajeva di Favara, che decise di formare un suo gruppo composto da otto elementi.


La banda Sajeva pare fosse ben tollerata nel territorio di Favara: "I loro reati - dichiarò il colonnello comandante della zona militare di Girgenti - li consumano nei comuni di Grotte, di Racalmuto e Canicattì, sino a Licata e Girgenti, ma quei di Favara non li toccano, o se toccano qualcuno di Favara é per fare vendetta per conto di Tizio e Sempronio40" .


La nuova promessa del brigantaggio siciliano poteva avvalersi di prestigiose quanto insospettabili coperture e di "siti" e "ville" signorili che, in quasi 2 anni (ottobre 1875 - giugno 1876), gli permisero di portare a termine una sequenza impressionante di delitti.


Secondo lo storico Salvatore Bosco, "l'amicizia di signori facoltosi ed influenti" di Favara (il barone Antonio Mendola e il sacerdote Cibella) e di Agrigento (il marchese Salvatore Specchi e il Barone Celauro) consentiva al Sajeva di trovare "un sicuro asilo ove nascondere la propria banda, le armi e le cose rubate41.


Questo brigantaggio così coperto, organizzato, diffuso e violento, che come araba fenice rinasce continuamente dalle sue stesse ceneri, suscita degli interrogativi: quale realtà sociale ed economica lo produceva?


Quali soluzioni adottarono il governo, l'opposizione e le classi sociali interessate alla sua sconfitta? Tennero conto le forze politiche e sociali della lezione della storia?


Delle risposte si possono trovare ripercorrendo gli anni turbolenti della Sicilia nell'età della Destra storica.


Nei primi tre lustri unitari, l'area agrigentina dello zolfo - secondo le inchieste di Franchetti e Sonnino, del Parlamento e del prefetto Giorgio Tamajo - era una realtà sociale di miseria, ignoranza e violenza: il tasso d'analfabetismo era altissimo (dagli iscritti nella lista di leva della classe 1860 risulta che Favara aveva 133 analfabeti su 172, Aragona 137 su 161, a Racalmuto 124 su 142, a Canicattì 183 su 222). Fanciulli e giovani lavoravano nelle miniere in condizioni sub umane (a Favara 75 su 184 iscritti alla leva esercitavano il mestiere di zolfataro, ad Aragona 64 su 175, a Racalmuto 152 su 90, a Canicattì 11 su 282). Le miniere erano "covi di delitto, e spesso ricettacolo alla gente della più triste specie42" .


I minatori, nei periodi di crisi delle zolfare, trovavano un'alternativa nell'attività criminale organizzandosi in bande di briganti: "tanti che non lavorano - dichiarò un proprietario alla Commissione d'Inchiesta - si mettono assieme in quattro, cinque giornalieri: di estate fanno furti di campagna, e d'inverno vanno ad assassinare43.


In questa realtà socioeconomica la diffusione del brigantaggio fu tale da diventare una quotidiana urgenza non solo per i magistrati e le forze di polizia, istituzionalmente addetti alla sua repressione, ma anche per i rappresentanti degli enti locali (i prefetti, emanazione del potere statuale centralista, e i sindaci, cui erano delegate funzioni di ordine pubblico) e per il ceto politico.


La questione dell'ordine pubblico fu affrontata in particolare dagli esponenti politici più rappresentativi della provincia: Vincenzo Macaluso44 e Salvatore Gangitano (Canicattì), Saverio Friscia (Sciacca), Luigi La Porta45 (Girgenti), Antonio Riggio (Cattolica Eraclea), Giusepe Cafisi (Favara), Gabriele Colonna Romano duca di Cesarò (Aragona), Domenico Riolo (Naro), Gaspare Matrona (Racalmuto). Si trattava di un ceto politico, impregnato d'ideologia sicilianista46 e in cui "prevalevano gli elementi massonici", che si era formato in parte nei decenni della cospirazione risorgimentale47 .


Buona parte di questi politici - come vedremo più avanti - pur invocando una legislazione statale volta allo sviluppo economico della Sicilia, subordinarono la questione sociale alla soluzione del problema dell'ordine pubblico.


La loro idea di sviluppo consisteva essenzialmente in una generica dichiarazione di progresso volto alla difesa degli interessi del ceto proprietario cui appartenevano e di cui erano espressione elettorale e politica.


Solo una piccola parte di loro si pose la questione sociale, ma in termini meramente mutualistici. Agli inizi degli anni settanta, a Canicattì il repubblicano Macaluso, il liberale Gangitano e l'internazionalista Nicola Narbone (con obiettivi evidentemente diversi) avviarono i primi tentativi, mal riusciti, di organizzazione proletaria di mutuo soccorso48 .


Qualche anno prima, una parte dei democratici, fra cui il Narbone, aveva aderito al movimento internazionalista anarchico e posto per la prima volta con Friscia e Riggio la questione dell'emancipazione delle classi subalterne in termini politici.


Delineati, nei tratti essenziali, il fenomeno, la realtà socioeconomica che lo aveva determinato e le forze interessate a risolverlo, si tratta ora di conoscere come queste forze si mossero per affrontarlo fin dai giorni delle grandi speranze della dittatura garibaldina.


Caduta la monarchia borbonica, i primi atti di Garibaldi furono l'abolizione della Gendarmeria a cavallo e l'istituzione (con decreto dittatoriale) dei Militi a cavallo cui fu affidata la repressione della criminalità.


Alla fine del 1861, la situazione dell'ordine pubblico si presentava apparentemente calma, in realtà uno stato di profondo malessere sociale serpeggiava specialmente nell'area dello zolfo, la più difficile e delicata di tutta la provincia.


Ottimista era invece la relazione del Governatore della Provincia di Girgenti, inviata il 21 settembre al Luogotenente del Re49 . In effetti, dallo "Stato dei reati" del 1861 in provincia di Girgenti, si evince una situazione di relativo ordine sociale: Canicattì, Grotte e Favara nessun reato e "spirito pubblico tranquillo", Racalmuto due reati e spirito pubblico tranquillo50 .


Fin dai primi anni post-unitari l'area attorno a Canicattì era infestata di briganti dediti alla grassazione e al sequestro di persona. Racconta Angelo La Vecchia che, a causa della coscrizione obbligatoria, "molti bravi giovani, i figli delle famiglie più povere, coloro che non potevano essere nascosti e protetti nei campi dei proprietari o nel feudo della Mafia, diventavano briganti51!" .


Attorno al 1863, fra questi si distingueva il temibile Giuseppe Tulumello di Racalmuto, dedito principalmente alle rapine. Di fronte a questa situazione d'insicurezza sociale lo Stato reagì adottando la soluzione militare.


Il 17 aprile 1863, l'onorevole La Porta presentò un'accorata interpellanza parlamentare al ministro dell'Interno sullo stato della sicurezza della provincia. Egli riteneva che la sicurezza pubblica si dovesse riordinare e ricostituire "con un personale il quale abbia l'energia necessaria ed il prestigio indispensabile per l'esercizio di quella missione che è la più sacra per la vita e la proprietà dei cittadini".


L'onorevole non precisa chi doveva essere questo prestigioso personale, ma riguardo "all'amministrazione delle provincie" auspica che "siano chiamati uomini i quali conoscano le condizioni di quel paese e sappiano apprezzare i difetti e i grandi pregi di quelle popolazioni52" . Se ne potrebbe dedurre che l'ordine pubblico in Sicilia dovesse essere affidato ai siciliani stessi, e cioè all'aristocrazia e alla borghesia, le uniche in grado di gestirlo e le uniche ad essere gravemente danneggiate dal diffuso brigantaggio, denunciato peraltro dagli stessi elettori di La Porta.


Intanto, in seguito alla applicazione della legge piemontese sulla coscrizione obbligatoria alla Sicilia, i renitenti alla leva che andavano ad ingrossare le bande di briganti erano tantissimi, cosicché il 25 aprile del 1863 iniziarono le azioni militari contro briganti e renitenti, condotte dal Generale Govone.


Il 5 novembre, si conclusero le manovre militari e, a dicembre, il generale relazionò in Parlamento sulla missione militare dichiarando che "la Sicilia non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà".


Per tale operato ed idee il Govone fu promosso luogotenente generale. Era il colmo e l'opposizione democratica, di fronte ad una così palese offesa all'onore della Sicilia, reagì duramente.


Il primo a protestare dimettendosi da deputato fu Giuseppe Garibaldi, Gran Maestro del Supremo Consiglio del Grande Oriente di Palermo, seguito da uno stuolo di deputati massonico-democratici. Ma la repressione militare di Govone non riuscì ad estirpare il brigantaggio, che era di continuo alimentato dal persistente malessere socioeconomico.


Di fronte all'escalation criminale l'opposizione liberale e democratica si servì di diversi giornali, il "Precursore" (Palermo), "L'Operajo" (Agrigento), il "Progresso effettivo" (Favara), come strumenti di denuncia e di lotta al brigantaggio e al governo, ritenuto responsabile del disordine pubblico.


Finanziata dal marchese on. Giuseppe Cafisi, il 7 settembre 1867 iniziò a Favara la pubblicazione del "Progresso Effettivo", una gazzetta ebdomadaria di ispirazione liberale e monarchica.


Fin dagli esordi il giornale si preoccupò di rompere l'isolamento prima locale e poi regionale e nazionale attraverso una fitta rete di corrispondenze con Canicattì, Racalmuto, Grotte, Naro, Castrofilippo, Ravanusa, Girgenti, Catania, Firenze.


Sulla questione scottante dell'"eterno brigantaggio" e dell'ordine pubblico i redattori denunciavano: "La sicurtà (del galantuomo) sparita, qui nel Mezzogiorno: malsicure le campagne, perigliose le strade, accessibili gli abitanti e le città all'assassino, malgrado il lusso d'infiniti guardiani e processanti".


Sulle responsabilità e le soluzioni si asseriva: "Non accusiamo soltanto le povere plebi; accusiamo un po' tutti, e pensiamo tutti i rimedi".


La sua cronaca settimanale è piena zeppa di atti criminali: omicidi, grassazioni, assalti a mano armata, scontri a fuoco con le forze dell'ordine, abigeati, ecc. Già il primo numero riporta una serie di recenti delitti contro le persone e le cose fra cui quello "commesso in Canicattì a danno del barone Agostino Lalomia, a cui fu involato un ricco servizio di argento, penetrando i ladri dall'ultimo piano del palagio ed aprendosi un varco alla tettoia; due altri assassinii consumati nel cuore del Comune nel breve periodo di cinque giorni; per cui un povero contadino ed un infelice operaio Scrimali e Fama cadevan freddati da parecchi colpi di fucile e crivellati dal pugnale con tale ferocia da far rabbrividire.


Eppure Canicattì piuttosto ha goduto di una certa tranquillità: i malfattori pareano avviliti e l'Autorità balda e fidente; ma deh! mutarono le sorti53..." . Ma la soluzione, coerentemente con la storia passata e con le recenti posizioni del barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro e dell'avvocato Macaluso, degli onorevoli La Porta e Cafisi, veniva affidata più che alle istituzioni dello Stato, per la sfiducia che si nutriva nelle forze dell'ordine e nella magistratura, alla autodifesa armata attraverso polizie private.


Il Chiaramonte Bordonaro, che a Canicattì aveva notevoli interessi poiché nel 1819 la sua famiglia aveva ereditato dai Bonanno la baronia di Canicattì (e con essa la lotta al brigantaggio), della sua scorta armata non ne faceva mistero, lo scrisse, infatti, in una sua lettera di protesta indirizzata al ministro Lanza: "Un anno fa bastava per garantirsi personalmente, la scorta di pochi armati, mentre oggi occorrono intere bande di bravi ad uso medioevo; che prima si ricattava ed or si ricatta e si uccide; che in altri tempi il delitto cercò favore nelle tenebre ed oggi sfida impunemente la luce del sole. Onde si ribadisce sempre più la convinzione che ogni cittadino debba provvedere da sé alla personale sicurezza, come al bando d'ogni civiltà54" .


Gli fece eco il Progresso Effettivo: "Avete tolto le armi alle persone dipendenti dal signor Dulcetta, onesto e cospicuo proprietario di Favara, che colle sue grandi coltivazioni dà pane a migliaia di operai. E giusto ier l'altro furongli rubate tre mule, e la guida inerme, datasi alla fuga, poté per miracolo salvar la vita dalle schioppettate! Lasciate per Dio! che si possa almeno difendere da se stesso il cittadino, se, malgrado la corrisponsione delle imposte, non può sperare nella difesa sociale [...]. E' troppo chiara la recrudescenza dell'inquietezza pubblica in Favara e nel d'intorno55" .


Qualche anno dopo, intorno al 1870, a Favara i fratelli Calogero e Giuseppe Sanfilippo Rinelli, due piccoli proprietari disturbati dalle scorrerie dei briganti, "formarono quella specie di mafia" chiamata Cavalleria56 , che alcuni anni dopo confluirà nella prima organizzazione mafiosa a carattere provinciale dell'agrigentino, i cui centri nevralgici erano Favara, Agrigento e Canicattì57.


Un altro caso emblematico è quello dei fratelli Matrona di Racalmuto, i quali credettero opportuno curare anche loro il male con il metodo omeopatico del similia similibus curantur. Poiché da tempo il territorio di Racalmuto era infestato dalla presenza di briganti, il 4 dicembre 1873 le vittime, l'avvocato Gaspare Matrona, sindaco del Comune, e i suoi fratelli, utilizzando persone al loro servizio e attribuendosi arbitrariamente funzioni di pubblica sicurezza, ripulirono il territorio dai briganti e per ciò ricevettero delle medaglie d'oro dalla Giunta locale.


Anche un'alta autorità dei RR.CC., il colonnello comandante della zona militare di Girgenti, ne tessé sfrontatamente le lodi: "Racalmuto era un paese tristissimo dove tutti i giorni succedevano reati di sangue, furti e grassazioni.


Questi cinque fratelli [Matrona] si sono messi d'accordo e hanno detto - non vogliamo più questi delitti -; montavano a cavallo armati fino ai denti, ed in pochissimo tempo hanno reso quel paese il modello non solo della Sicilia ma anche del continente.


Sulla strada per andare a Canicattì o a Caltanissetta troveranno un bel palazzo dove ci sono scuole, locale per carabinieri, telegrafo, teatro; insomma hanno fatto di quel paese qualche cosa di buono58" . In tempi relativamente recenti è stato Leonardo Sciascia a tessere gli elogi ai Matrona, alimentando così un mito che ancora resiste fra i racalmutesi.


L'elogio andava in particolare a Gaspare Matrona, sindaco di un "comune amministrato con tanta dedizione, coraggio e generosità che il colonnello propone a modello non solo della Sicilia ma dell'Italia intera. E si capisce che nel giro di mezzo secolo i Matrona furono poveri, sicché fu facile ai loro avversari batterli: col conseguente effetto di un ritorno del malandrinaggio, della mafia, delle usurpazioni e prevaricazioni59.


D'altra parte, come denunciava La Porta, lo Stato, eccetto qualche raro successo come l'arresto, nel 1869, del capo banda Riggio, non riusciva a garantire neppure una parvenza di legalità (è l'anno in cui a Canicattì tre banditi uccidevano per derubarlo il padre francescano Serafino La Vecchia), e per riportarla proporrà nel 1874 non la presenza e l'affermazione delle leggi dello Stato, bensì il rafforzamento degli "zelanti" militi a cavallo e la loro guida da parte dell'aristocrazia fondiaria.


Era la linea politica del "far da sé" di un coerente sicilianista. Su quest'ibrido corpo di polizia (legale sulla carta, ma nei fatti malavitoso) si era soffermato, con opinioni diverse da La Porta e senza gli "enigmi" che assillavano Viollet Le Duc, l'avvocato Macaluso. Fin dal 1861, l'avvocato aveva denunciato i tanti errori e le incomprensioni del giovane Governo italiano nei confronti della Sicilia e su quella linea condurrà diverse battaglie politiche60 .


Egli, nella lotta al brigantaggio siciliano, si avvalse della notevole esperienza accumulata nel 1967, quando, in qualità di sottoprefetto di Lagonegro, "in testa alla guardia Nazionale e alla truppa regolare, eseguiva delle perlustrazioni, sormontando valli e monti a piedi per essere di eccitamento agli altri, premuroso com'era della distruzione del brigantaggio.


Tutto ciò in un mese61. Deludente fu, invece, l'impegno del governo nell'estirpazione del brigantaggio siciliano, anche per l'inquinamento delle forze preposte a combatterlo: e Macaluso non mancò di denunciare inefficienza e compromissioni.


Il 28 novembre 1869, in un lungo e appassionato appello agli elettori di Canicattì, egli denunciò ancora il Governo, ritenuto responsabile primo dei mali che affliggevano la Sicilia: "La Sicilia non ha più nome.


Ogni ladrone vi dice la sua, ma non si astiene dal rubarla. Vengono nudi e pezzenti e ripartono colle azioni sulla banca camorristica – Ecco i detrattori della Sicilia62. Sul Giornale "La Pietra" del 10 maggio 1871 parlò addirittura di "Mafia ufficiale", del Governo che "mantiene e protegge quella aborrita istituzione dei Militi a cavallo", della "autorità pubblica che "scende a patti e non isdegna associarsi con i grassatori, coi ladri, cogli assassini63.


In un suo scritto del 1872 Macaluso si soffermava ampiamente sulla pericolosità dei militi a cavallo, sui loro protettori e sulle relative colpe del Governo: "I militi a cavallo, impasto di ergastolani e di assassini in trionfo, non daranno che furti in permanenza; e tutto il sistema governativo, modellato in Sicilia sul tipo dei militi a cavallo, non sarà che quel che si manifesta da per tutto, causa permanente di proditorii a danno dell'onesto cittadino e della società intiera!


Se è così la faccenda pubblica, come non può mettersi in forse chi non vede ove stia e donde provenga la vera causa del permanente sociale disordine?


E chi non si persuade ch'è matematicamente impossibile sperar mai sicurezza e tranquillità in Sicilia?


Io scrivo in una provincia, ove non evvi cittadino che non sappia il suo doloroso racconto di fatti avvenuti sotto i propri occhi! Io scrivo in mezzo ad un popolo che ha visto cadere sotto il pugnale dell'assassino impunito i più probi ed esemplari cittadini! Ci accusino nel continente di esagerati o di barbari; ma sillaba di Dio giammai non si cancella!


La mafia è padrona da per tutto del campo in Sicilia, e lo stesso governo, se non per complicità per codardia, ne subisce le sue leggi di sangue. Per opera della mafia abbiamo il furto in trionfo; per opera della mafia abbiamo la fustigazione e la tortura in trionfo! [...] Perché i militi a cavallo trovano più difensori fra le persone che circondano il ministro dell'interno64?" .


Ed ancora, due anni dopo, in una lettera insisteva sull'argomento: "I più famigerati assassini e traditori, furono reclutati nell'ormai famoso Corpo dei Militi a cavallo, ironicamente inteso dei "briganti purificati", che la Sicilia subisce e gli italiani sono violentati a nutrire sul lauto banchetto del bilancio dello Stato65.


In questa paradossale realtà, secondo i proprietari non restavano che due soluzioni alternative: o avere assegnata la direzione dei militi o continuare sulla strada dell'autodifesa illegale. Con tutti i rischi che questa seconda strada poteva comportare. Le risposte antitetiche del Governo e della opposizione massonico-sicilianista alla insostenibilità dell'ordine pubblico sarebbero arrivate da lì a poco.


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Note:

39 - S. Lo Presti, Briganti in Sicilia, GELKA, Palermo 1996, p. 43.
40 - Archivio Centrale di Stato (ACS), L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia 1875-1876, a cura di S. Carbone e R. Grispo, Cappelli editore, p. 576.
41 - S. Bosco, op. cit., p. 60.
42 - Cfr. V. Savorini, Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo e degli agricoltori della provincia di Girgenti, Girgenti, Stamperia provinciale-commerciale, 1881.
43 - (ACS), L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia 1875-1876, op. cit., p. 645.
44 - Vincenzo Macaluso fu uno dei primi affiliati alla ricostituita massoneria siciliana post-unitaria; a Firenze aveva fondato "la loggia massonica Rosolino Pilo, della quale fu venerabile"; nell'ordine gerarchico dei gradi massonici fu "Gran Isp Gen Gran 33 "; inoltre a Roma ricoprì l'incarico di "Delegato Straordinario nella valle del Tevere", cfr. P. Scrimali, Vincenzo Macaluso, Stab. Tip. De Pasquale, Licata, 1910 (BCC).
45 - Cfr. G. Portalone Gentile, Un democratico siciliano: Luigi La Porta, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Caltanissetta, 1980. L'autrice ritiene "probabile che [La Porta] fosse entrato presto all'interno dell'organizzazione massonica".
46 - Sul sicilianismo cfr. G. Giarrizzo, Vicende del sicilianismo, in "Tuttitalia: Sicilia", 1962; G. C. Marino, L'ideologia sicilianista, 1971; N. Dalla Chiesa, Il potere mafioso, 1976; S. Vaiana, Sicilianismo e mafiosità, in "Nonsoloagricoltura", a. 1° n. 2°, giugno 1999, pp. 17-20.
47 - G. Portalone, P. La Lomia, la sua famiglia, la sua città e l'ambiente agrigentino, in AA.VV., Giocchino La Lomia. Atti del convegno (Canicattì, 2-4 febbraio 1995), a cura di C. Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1995, p. 34. Quella dell'agrigentino era una massoneria pluralista (vi aderivano liberali, repubblicani, democratici e internazionalisti) che trovava momenti di salda unità in battaglie come quella sull'ordine pubblico. Alcuni, come i "fratelli" Macaluso, La Porta e Friscia, costituivano l'anello di congiunzione delle logge provinciali con i vertici del Grande Oriente d'Italia.
48 - S. Vaiana, Le prime società operaie a Canicattì e dintorni, in "Nonsoloagricoltura", a. I, n° 1, marzo 1999 (BCC).
49 - Archivio di Stato di Palermo (ASP), Gabinetto-Prefettura, b. 1, A Sua Eccellenza il Luogotenente Generale del Re nelle Provincie Siciliane, Girgenti, 21 settembre 1861.
50 - ASP, Ibidem, Stato dei reati e avvenimenti che hanno avuto luogo nelle Comuni della Provincia dall'1° al 15 dicembre 1861.
51 - A. La Vecchia, Canicattì, storia tradizioni e varia umanità, ed. Meta, Canicattì, 1995, p. 82.
52 - Atti parlamentari, 17 aprile 1863, cit. in G. Portalone Gentile, La Sicilia post-unitaria nel dibattito parlamentare, 1/Studi storici, Istituto siciliano di studi politici ed economici, Palermo, p. 120.
53 - "Il Progresso Effettivo", Favara, 7 settembre 1867.
54 - G. Chiaramonte Bordonaro, Lettera al ministro Lanza, cit. in V. Macaluso, Agli Onorevoli Deputati al Parlamento, Girgenti, 1874 (BCC).
55 - "Il Progresso Effettivo", Favara, 21 settembre 1867.
56 - S. Bosco, op. cit., p. 52.
57 - F. Lestingi, La Fratellanza nella provincia di Girgenti, in "Archivio di Psichiatria, Scienze penali e Antropologia criminale, 1884; T. V. Colacino, La Fratellanza. Associazione di malfattori, in "Rivista di Discipline carcerarie in relazione con l'Antropologia, col Diritto Penale, con la Statistica", 1885.
58 - A.C.S., L'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876) , op. cit., p. 580.
59 - N. Tinebra Martorana, Racalmuto. Memorie e tradizioni, Assessorato ai Beni culturali del Comune di Racalmuto, 1982, pp.12-13.
60 - Cfr. V. Macaluso, Rimostranze al Governo di Vincenzo Macaluso, Girgenti, 1861 (BCC).
61 - P. Scrimali, op. cit., p. 11.
62 - V. Macaluso, Cittadini elettori del Collegio di Canicattì, Girgenti Tip. Luigi Carini, 1869, p. 3 (BCC).
63 - V. Macaluso, in "La Pietra - Giornale per tutti", Tip. Faziola e C., Firenze, 10 Maggio 1871.
64 - V. Macaluso, Un primo saggio di esemplare punizione ovvero la destituzione del segretario signor Pietro Cupani per l'avv. Vincenzo Macaluso, Girgenti, Tip. G. Fasulo e C. Pancucci, 1872, pp. IX-X (BCC).
65 - V. Macaluso, Agli onorevoli deputati al parlamento italiano, Girgenti, 1874 (BCC); A.S.P., G.P., b. 31, f. "Proclami rivoluzionari". 








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