Lucy Riall analizza le complesse vicende storiche della Sicilia negli anni che dalla “restaurazione”, attraverso l’unificazione italiana, giungono alla drammatica frattura rappresentata dalla rivolta palermitana del 1866.
Punto di partenza dell’itinerario è il 1815, momento in cui il governo borbonico di ritorno a Napoli dall’esilio, manifestò la sua intenzione di mantenere in vigore le innovazioni del “decennio francese” nel quale «gli amministratori napoleonici avevano cominciato a costruire uno Stato centralizzato e burocratico».
La politica “modernizzatrice” dei Borboni fu più decisa proprio in Sicilia dove, mirando tra l’altro a sradicare la tradizione “separatista”, incontrò «fiere opposizioni».
L’autrice punta poi l’attenzione sull’economia siciliana del primo Ottocento, che «si basava essenzialmente sulla campagna, al cui interno esistevano zone assai diversificate quanto a sistemi di coltivazione, livelli di commercializzazione, forme di proprietà terriera e struttura sociale» (p. 45); vengono evidenziati particolarmente i vari ma controversi segnali di crescita e i rapidi cambiamenti che avevano cominciato a interessare il latifondo, innescati soprattutto dall’abolizione, nel 1812, della feudalità.
Il conflitto tra fazioni all’interno delle comunità rurali viene individuato poi come momento nel quale emersero le nuove élites; «la politica dei Borboni – dunque - scatenò un processo di cambiamento politico e sociale che alla fine indebolì non solo le élites tradizionali ma anche il governo centrale » (p. 71) e che fu tra le cause della “rivoluzione” del 1859-60.
Il secondo capitolo inizia con la constatazione che «dopo la repressione delle rivolte del 1848, in Sicilia il governo borbonico non recuperò mai piena- mente la sua autorità» (p. 74).
L’aggravarsi della situazione siciliana, nel 1859, coincise con le gravi difficoltà del Regno delle Due Sicilie (diplomatiche, finanziarie e di «legittimità»); «in questa situazione di generale crisi politica e finanziaria e di crescente malcontento politico e popolare … nel marzo del 1860 a Palermo venne organizzata una cospirazione rivoluzionaria, guidata dal giovane mazziniano siciliano Francesco Riso e della quale facevano parte esponenti della nobiltà e della borghesia palermitane» (p. 79).
La rivolta travolse gli apparati del governo borbonico con gravi conseguenze: «l’attività economica e il commercio erano in ginocchio … con l’occupazione di Palermo da parte di Garibaldi le agitazioni contadine per la terra invece di diminuire, aumentarono» (p. 88).
La dittatura di Garibaldi «puntò a unire la popolazione attorno all’iniziativa nazionale», varando riforme “popolari” e avviando processi di “normalizzazione”, ma si trovò ad affrontare molti dei problemi che avevano causato il crollo del governo borbonico; della crisi della dittatura garibaldina beneficiarono i liberali piemontesi che riuscirono a sconfiggere la leadership “democratica” nella battaglia sull’annessione dell’Isola al Piemonte.
L’autrice prosegue la trattazione - in un itinerario che mette in continua relazione le evoluzioni del quadro politico nazionale e il “potere locale” - esaminando le politiche di centralizzazione operate nell’Isola durante il governo della “Destra Storica”.
Esse andarono incontro ai medesimi fallimenti delle politiche garibaldine, che divennero evidenti durante gli anni del «crollo dell’autorità», che Lucy Riall fa iniziare con il ritorno di Garibaldi in Sicilia per preparare il tentativo di conquista militare di Roma (1862) e ritiene conclusi con l’arresto dei responsabili della rivolta del settembre 1866.
Durante questo periodo, «il governo condusse in Sicilia una serie di operazioni di ordine pubblico, utilizzando metodi analoghi a quelli della cosiddetta “guerra al brigantaggio”» (p. 179).
Particolare attenzione viene dedicata, dunque, al tema della «mancanza di consenso» da parte del governo.
L’autrice conclude: È senz’altro fuorviante suggerire, come sembra aver fatto Rosario Romeo, che il fallimento della politica liberale in Sicilia non sia addebitabile a errori del governo.
Il desiderio di Cavour e dei suoi successori di avere in ogni modo la meglio sui loro oppositori politici e la paura che essi ebbero della protesta sociale e politica li orientò verso una linea di conservazione dello status quo in Sicilia.
In pratica, ciò impegnò i liberali a sostenere quei gruppi che avevano meno da guadagnare dal governo liberale, e a tenere in piedi nelle campagne siciliane un ordine sociale instabile e segnato dalla violenza.
Come indicò Gramsci, il nuovo governo si legò così a un’alleanza politica della quale non poteva che trarre scarso profitto.
Il risultato fu che nella Sicilia postunitaria il sistema burocratico piemontese, che prima del 1860 aveva tratto la sua legittimità dalla capacità di garantire l’ordine sociale, venne reso meno efficace dalla resistenza oppostagli da una popolazione animata dal risentimento (pp. 263-264).
F.D.
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