Eleaml


Fonte:
https://www.liberalsocialisti.org

Gaetano Salvemini, La mia autobiografia politica (1955)

DALLA PREFAZIONE
DI
GAETANO SALVEMINI
Molfetta (Bari), 1873 – Sorrento (Napoli ), 1957
AL VOLUME
’SCRITTI SULLA QUESTIONE MERIDIONALE’
MAGGIO 1955


Chi leggerà gli scritti che l'editore Einaudi rievoca qui dall'oblìo tenga presente che il primo di essi, quello intitolato “Un Comune dell'Italia meridionale”, fu pensato negli ultimi mesi del 1896, da un giovane di ventitré anni, che nei due anni precedenti aveva divorato il ‘Manifesto dei comunisti’ e gli scritti di Marx sulle lotte di classe in Francia nel 1848, sul colpo di stato del 1851 e sulla "Comune," aveva scoperto il suo vangelo nel ‘Materialismo storico’ di Antonio Labriola, e aspettava con impazienza ogni due settimane la ‘Critica Sociale’ di Turati. Tempo, felice, quando la società comunista si preparava automaticamente nel grembo della società capitalista, grazie alla concentrazione delle ricchezze ed alla crescita politica del proletariato industriale; e chi diffondeva il vangelo della nuova civiltà si trovava nel filone centrale della storia umana, come i cristiani delle prime generazioni erano certi di arrivare a breve scadenza al regno di Dio.


I piccoli proprietari e gli artigiani di Molfetta erano destinati a sparire nella concentrazione delle ricchezze. I pescatori non erano proletari industriali. C'erano nuclei di proletariato industriale, oltre che artigiani e giornalieri salariati da artigiani. Ottimo materiale, ma scarsi di numero specialmente i primi; la nuova società non poteva essere partorita da quel "proletariato." Per fortuna c'erano in Molfetta, come in tutta l'Italia meridionale, i giornalieri agricoli, proletari autentici. Non erano raccolti nelle fabbriche, ma vivevano in grossi accentramenti urbani, i quali compivano per essi la funzione che le fabbriche avevano per il proletariato industriale. Nel proletariato agricolo il partito socialista, "solido, pieno di entusiasmo, padrone dell'avvenire," avrebbe trovato la leva per sollevare il mondo.

C'era in Molfetta una vecchia Società operaia di mutuo soccorso, alla quale chiunque poteva essere iscritto, senza distinzione di partito o di mestiere, e che assicurava ai soci l'assistenza medica e i medicinali gratuiti e una pensione per la vecchiaia, ed era ben amministrata. Ma non aveva come simbolo il sol dell'avvenire, e perciò non valeva il conto di parlarne. I Figli del mare erano una cooperativa di scaricatori, che possedeva zattere per trasportare le merci dalla riva ai bastimenti e dai bastimenti alla riva perché il basso fondale rendeva impossibile ai bastimenti di accostarsi alla banchina (quando fu completato il porto, quel servizio non fu più necessario, e la cooperativa si sciolse). Nel 1896 funzionava bene. Ma quei proletari non erano "coscienti," motivo per cui non era il caso di prenderli in conto. Quanto a un'associazione dei "Lavoratori del mare," erano piccoli pescatori o commercianti di pesce. Potevano essere ignorati o quasi.


Se quel mio lavoretto non contenesse che quelli ed altri semplicismi data 1896, lo ometterei: peccata juventutis meae ne memineris, Domine. Ho resistito a siffatta tentazione:

1) perché sarebbe stato non leale sottrarre al lettore quanto può mettermi sotto la luce autentica di allora;

2) perché quello scritto giovanile dimostra un tratto del mio spirito che non si attenuerà mai: la repugnanza per le astrazioni e il rispetto per la realtà concreta, anche se difforme da preconcetti ed aspettazioni sicure.


II marxismo è una droga meravigliosa: prima sveglia gli animi dormienti, e poi li rimbecillisce nella ripetizione di formule che spiegano tutto e non dicono nulla. Quello scrittorello del 1896 dimostra, credo, che quel ragazzo era stato sì svegliato dal marxismo, ma non rimbecillito. La osservazione che la borgata meridionale accentra i lavoratori agricoli analogamente a quanto fa la fabbrica per gli operai industriali, era tutt'altro che stupida. La piccola proprietà era sì destinata a scomparire, e lui stesso era un piccolo proprietario scomparso, contento di aver contribuito marxisticamente alla concentrazione delle ricchezze. Ma stava il fatto che, mentre nel 1880 il paese contava 2640 proprietari, nel 1896 ne contava 2669: la piccola proprietà dunque non spariva. Messo innanzi a quel fatto, il giovane "socializzatore dei mezzi di produzione e di scambio" affermava che il partito socialista non doveva né salvare dalla rovina i proprietari antichi né favorire l'aumento dei proprietari nuovi. Marxismo ortodosso 1896. Ma il fatto che la piccola proprietà non spariva era là, e lui lo vedeva. Il dogma della concentrazione delle ricchezze era ferito a morte.


È interessante notare la discussione sulla piccola proprietà avvenuta nel 1896 fra Cànepa e Bissolati, a cui il mio scritto alludeva. Cànepa viveva in Liguria, dove la proprietà frazionatissima, e tenuta ad alberi e fiori, era intensamente redditizia, e non poteva essere che piccola proprietà. Invece Bissolati viveva nella bassa Lombardia, dove l'agricoltura era altamente industrializzata, e la piccola proprietà, ai margini delle grandi affittanze, presentava una situazione ideale per il marxismo socializzatore. Io sarei dovuto essere d'accordo con Cànepa: invece ero d'accordo con Bissolati.


Il giovane che nel 1896 descriveva la struttura economica, sociale e politica del paese nativo fu colpito da un altro fatto, che non rientrava nello schema marxista della lotta di classe fra capitalismo e proletariato industriale. Nel suo ambiente, c'era poco capitalismo e poco proletariato industriale, ma c'erano lotte politiche ed amministrative assai vivaci, alle quali non partecipavano quei giornalieri agricoli che costituivano il proletariato autentico locale. Come spiegare quelle lotte?


Guardandosi intorno, il giovane trovò la risposta. Una unica classe sociale, la piccola borghesia professionista e impiegatizia, essendo troppo più numerosa di quanto la scarsa ricchezza locale potesse sostenere, si divideva in "partiti" per la conquista del magro bilancio comunale e dei favori amministrativi. Non erano lotte di classe: erano lotte interne tra fazioni della stessa classe. "Queste lotte intestine," scrisse, "sono a torto trascurate dai nostri sociologi; a volte hanno grande importanza." È una idea, che occuperà il primo piano nel pensiero degli anni venturi.


Dal primo al secondo degli scritti raccolti in questo libro, il lettore è trasportato dall'Italia meridionale a Torino; ma, in verità, rimane sempre nell'Italia meridionale. Il giovane socialista è stato indignato dagli interventi arbitrari della prefettura nell'amministrazione del suo municipio, ed ha capito che cosa vogliano dire le parole "autonomia comunale."


Naturalmente, l'autonomia comunale deve sposarsi al suffragio universale, dogma universale del proletariato organizzato e cosciente. Con quelle due armi — autonomia comunale e suffragio universale — il proletariato ridurrà all'impotenza politica "la borghesia," e procederà alla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Le idee delle autonomie locali e del suffragio universale non cadranno mai da quella testa piuttosto ostinata.


Fra il secondo e il terzo scritto sta il maggio 1898: tumulti annonari in tutta Italia; stato d'assedio, il secondo in quattro anni; i soldati concentrati su Milano dicono di essere stati mandati "a difendere i signori"; a Milano è preso a cannonate un convento, innanzi al quale si affolla la poveraglia aspettando il giornaliero piatto di minestra; re Umberto, che non ha un'intelligenza superiore a quella di un caporal maggiore, premia clamorosamente quella repressione; Anna Kuliscioff e Filippo Turati, la mamma e il papà della “Critica Sociale”, e un'altra dozzina di deputati e giornalisti sono arrestati, processati, e condannati a pene stupidamente feroci per delitti che non hanno commesso.


Il giovane socialista diventò allora repubblicano. Non repubblicano per modo di dire, come saranno i socialisti riformisti italiani, e come sarà lui stesso, dopo che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, cercherà di farsi ignorare, rintanandosi nel suo guscio. Ma repubblicano militante.


Ero non solo socialista e repubblicano ma anche federalista. Nell'inverno del 1898-99, mentre insegnavo storia al liceo di Lodi, scoprii nella biblioteca comunale gli scrittori politici lombardi del Settecento e dell'Ottocento, e Carlo Cattaneo, che sopra tutti com'aquila vola. Anche oggi, mezzo secolo e più dopo di allora, ritorno con gioia e nostalgia a quel tempo come al più bello della mia vita. Con quanta intensità il mio cervello lavorava allora! Aqua, nix, grando, spiritus procellarum. Oh, la gioia e l'ebbrezza di quella gioventù!


Diventai, dunque, federalista. Che cosa era il mio federalismo? Era quello di Cattaneo. L'unità nazionale fuori discussione. Ma esercito a reclutamento regionale, e non nazionale; autonomie regionali e comunali; finanza, scuole, igiene, strade, porti, tutte le materie che non fossero politica estera e sue immediate dipendenze, divietate al Governo centrale della repubblica federale e affidate agli Enti autonomi locali.


Nella federazione repubblicana saranno risoluti tutti i problemi: anche quelli dell'Italia meridionale. Risoluti da chi? È quel che si domandava quel neofita del federalismo nella rivista repubblicana di Milano ‘Educazione politica’. E la risposta era alla mano: dal proletariato e dal partito socialista. Anche il partito repubblicano e il partito radicale erano ammessi a cooperare col partito socialista, perché quello era il tempo delle alleanze fra i "partiti popolari" contro la reazione monarchica. Ma il motore centrale della nuova storia stava in quel partito che inquadrava e guidava il proletariato.

La dottrina federalista metteva a base della organizzazione amministrativa i comuni autonomi, e le "regioni" come nodi intermedi fra i comuni e il Governo federale. Ma la "regione" e le sue funzioni erano rimaste indefinite per tutto il quarantennio precedente nel pensiero di chi si diceva scontento dell'accentramento burocratico; e tali dovevano continuare a rimanere in tutto il mezzo secolo successivo; e tali dovevano entrare nella Costituzione della presente Repubblica italiana in regioni, ma lasciò che finanche i segretari comunali continuassero ad essere nominati dal Governo centrale, e non dai Consigli comunali, come erano nel regime prefascista. E questo fu il federalismo di quella che sarebbe dovuta essere la rivoluzione post-fascista.


Se io cerco oggi di rappresentarmi quale idea mi facessi della "regione" fra il 1899 e il 1902, credo di poter affermare che per l'Italia meridionale non pensavo a quel regno di Napoli o a quel regno di Sicilia, che esistevano al tempo borbonico. E non erano neanche quelli, che negli annuari di statistica erano chiamati "compartimenti." Se si fosse trattato, per esempio, di quel compartimento, a cui gli annuari davano il nome di "Puglia," quel giovane non si sarebbe mai sognato di associare sotto un'unica amministrazione regionale la provincia dì Foggia (regione "Capitanata"), la provincia di Bari (regione "Terra di Bari") e la provincia di Lecce (regione "Terra d'Otranto"): obbligare un cittadino di Foggia o di Otranto ad andare a Bari a trattare col governo regionale un affare che lo interessasse, sarebbe parso il massimo degli assurdi. Ma non c'era altro al di là di questa vaga idea negativa. I costituenti del 1946-47 non ebbero della "regione" un'idea più chiara che quel giovane, mezzo secolo prima, ma attaccarono alla cieca la Capitanata con la Terra di Bari, e le tre province calabresi in una "regione," Calabria, che non aveva né nella storia amministrativa nessun precedente, né trovava nella geografia nessuna giustificazione, e tutte le province siciliane in un'unica regione, di cui quelle orientali non sentono nessun bisogno.


Se la regione non era definita, l'autonomia comunale era ben definita, ed era domandata come libertà necessaria immediata e primo gradino verso quel federalismo "regionale" che rimaneva nel vago. L'autonomia comunale era la rivendicazione, su cui i "partiti popolari" avrebbero dovuto immediatamente concentrare le loro forze.


La questione meridionale era adesso esaminata nell'insieme. E ritornavano a campeggiarvi la piccola borghesia intellettuale, alla quale il giovane non poteva pensare senza disprezzo, e il proletariato agricolo, il quale, quando fosse diventato padrone degli Enti locali per mezzo del suffragio universale, e non fosse stato impastoiato dall'accentramento amministrativo, avrebbe trovato la strada per portarsi al livello del proletariato settentrionale.


Allora mi era del tutto ignoto il pensiero di Giustino Fortunato. Questo può parere incredibile. Ma occorre tener presente che Fortunato raccolse i suoi scritti sul Mezzogiorno e lo Stato italiano non prima del 1910. In tutto il trentennio precedente stampò i suoi discorsi parlamentari e i suoi studi in poche copie, che distribuiva gratuitamente, da gran signore, fra gli amici. Io conobbi personalmente Giustino Fortunato non prima del 1909; e solo nel 1910 mi si rivelò in tutta la sua originalità e genialità il pensiero di quell'uomo singolare. Lo avessi conosciuto dieci anni prima, quanta maggiore ricchezza di informazioni e quanto minore ottimismo mi avrebbero accompagnato nel trattare una materia, che era da lui ben più profondamente conosciuta che da me. Non mi sarei limitato, per esempio, nel 1897 a scrivere che l'Italia meridionale non era tutta paese di latifondi, ma una fascia costiera di piccole proprietà intensamente coltivate faceva eccezione a quella regola: avrei saputo e detto che il latifondo copriva soltanto la Sicilia centrale e occidentale e parte della Calabria; oltre alle zone a piccola proprietà intensamente coltivata e a latifondo sfruttato da una agricoltura miserabile, la regola era una piccola proprietà non meno mal coltivata e non meno miserabile che il latifondo, e questo problema era ancora più difficile a risolvere che quello del latifondo, e formava i quattro quinti della questione meridionale.


Lessi, anzi divorai, il libro di Nitti, ‘Nord e Sud’, uscito nel 1900. Quel libro fece assai per diffondere in Italia la persuasione che una "questione meridionale" esisteva e doveva essere affrontata. Questo merito di Nitti sarebbe iniquo ignorare o attenuare. Io mi occupai di quel libro a lungo sulla ‘Critica Sociale’. Nitti era persuaso che "lo Stato" si sarebbe consolidato portando a vita migliore l'Italia meridionale, e perciò aspettava la soluzione del problema da uno "Stato" diventato saggio, cioè da quella certa cosa "lo Stato, " che o era un flatus vocis o era quella stessa borghesia, la quale dava il personale al Parlamento e all'amministrazione, cioè era la vera e propria responsabile della politica dimostrata funesta da Nitti! Io che della borghesia non sapevo che farmene — e anche oggi non saprei che farmene per l'Italia meridionale — aspettavo la salvezza dal proletariato settentrionale che avrebbe dato al proletariato meridionale un regime federale, dal quale sarebbe stata esclusa una borghesia indegna di governare. Il proletariato era la nuova forza motrice della storia e da quella mi aspettavo la soluzione di tutte le questioni, quindi anche della questione meridionale. Ecco spiegato il mio scritto del 1902, nel quale opponevo all'unitarismo amministrativo di Nitti il federalismo di Cattaneo.


Il quale federalismo arrivava alle più estreme conseguenze nello scritto sull'Amministrazione municipale di Napoli (quello che porta il n. 8 di questa raccolta). Bisognava dare l'autonomia amministrativa, non solo alla città di Napoli, ma, nella stessa città di Napoli, ai diversi quartieri. Il proletariato doveva essere liberato dalle catene dell'accentramento, non solo nazionale, ma anche municipale; e allora si sarebbe risanata quella che godeva fama di essere la peggio amministrata fra le maggiori città italiane.


Nitti continuò ad aspettare la soluzione della questione meridionale da un rinsavimento della borghesia, e nella Costituzione del 1946-47 combattè risolutamente la istituzione delle regioni, nelle quali temeva un pericolo all'unità nazionale. Alla mia volta, io vidi a poco a poco svanire in me la fiducia che il proletariato settentrionale mettesse in pericolo i vantaggi che dallo sfruttamento economico del Mezzogiorno ricavavano tutte le classi sociali, compreso il proletariato, dell'Italia settentrionale.

Tutti gli scritti raccolti in questo libro, dopo quei primi del 1896-1902, documentano la via lungo la quale tutte le mie speranze andavano sfiorendo. Strada lunga assai: durai a percorrerla ben venti anni. La prefazione con cui accompagnai nel 1922 la raccolta intitolata ‘Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano’, e pubblicata dal Cappelli di Bologna, riassunse le mie esperienze di quel ventennio.


La prima delusione la ebbi sul problema delle autonomie comunali. A cominciare dal 1901 il ministero Zanardelli-Giolitti e poi il ministero Giolitti, con l'appoggio dei deputati radicali, repubblicani e socialisti, inaugurarono, nel Nord, un metodo di governo più rispettoso delle libertà politiche. Il Governo centrale non mise più, nel Nord, bastoni fra le ruote alle Amministrazioni comunali, specialmente quando si trattava di grandi città: Milano, Parma, Torino, Genova, Bologna, Venezia, Firenze erano di fatto autonome. A che scopo allora perdere il tempo a domandare le autonomie? Quanto ai comuni minori del Nord e a quelli del Sud, perché perdere il tempo con tali ultime ruote del carro?


Cominciò il Consiglio comunale di Milano, per accordo fra i "partiti popolari," a parlare non più di una Lega per le autonomie, ma di un'Associazione fra i Comuni italiani (cfr. n. 9 di questa raccolta). E la confraternita si mise a discettare su le riforme amministrative più desiderabili in Milano e luoghi consimili.


Lo scandalo era grave per quel giovane meridionale, che vedeva quel che succedeva nei suoi paesi delle autonomie comunali, mentre a Milano i radicali, repubblicani e socialisti si baloccavano coll'Associazione fra i Comuni italiani.

Quel che succedeva lo descrisse nella ‘Critica Sociale’ del 16 dicembre 1902 e si può leggere nel n. 12 degli scritti raccolti in questo volume. E raccoglierò i documenti di quel decennio in un libro su ‘Le elezioni giolittiane nell'Italia meridionale’, che spero succeda senza grande ritardo a questa raccolta.


Nel 1902 pensavo che spettasse al "proletariato" di metter fine a quella vergogna. Ma il proletariato del Sud non aveva voto. Avrebbe dovuto soccorrerlo per la conquista del voto il proletariato del Nord, cioè il partito socialista del Nord. Quasi tutti gli scritti dal 1902 al 1911 furono una invocazione a quel soccorso.

A me pareva di essere in buona posizione per far comprendere il dovere di quel soccorso. Nelle lotte fra riformisti e rivoluzionari (o sindacalisti), in cui i socialisti italiani sperperavano fiato a non finire, ero un riformista per la pelle, e mi tenevo in disparte dai socialisti meridionali, il cui rivoluzionarismo e sindacalismo vacuo mi faceva ridere quando non mi indignava. Il suffragio universale era una "riforma" domandata in quegli anni clamorosamente dai socialisti belgi e austriaci. Non sarebbe costato un soldo al ministro del Tesoro in Italia. Non avrebbe dovuto affrontare che la resistenza dei partiti conservatori e pseudodemocratici. Mi sarei contentato, se si fosse cominciato dal suffragio universale amministrativo.

Riconobbi esplicitamente, dal 1902 al 1904, che i deputati socialisti del Nord erano giustificati a sostenere la politica di Giolitti, anche se noi nel Sud ne sentivamo crescere il peso. Era necessario che si consolidasse nel Nord quel regime di maggiori libertà sindacali e politiche, che nel precedente decennio erano rimaste in forse o erano state addirittura soppresse. Le organizzazioni socialiste settentrionali, quando si fossero assestate nel nuovo regime di libertà, avrebbero provveduto a soccorrere noi di laggiù, per averci con sé in conquiste necessarie a tutti. In questo mi dividevo nettamente dai socialisti meridionali, che non ammettevano "ministerialismo" per nessun motivo, né allora, né poi, né mai.


Con mia meraviglia incontrai prima la indifferenza, poi la ostilità sorda di quasi tutti i socialisti settentrionali. Per debito di giustizia debbo eccettuare prima di tutti Oddino Morgari, uomo di grande cuore, che veniva spesso nell'Italia meridionale e vedeva coi suoi occhi quel che vi avveniva, e poi G. E. Modigliani, che si fece avanti nella vita nazionale verso il 1910, generoso quanto Morgari. Bissolati era per tre quarti favorevole alla mia tesi, perché aveva in me, direi, fiducia, e per un quarto incerto, dato che l'Italia meridionale gli era ignota. Turati era per un quarto indifferente, e per metà contrario, perché il Mezzogiorno d'Italia lo infastidiva: se lui e la "signora Anna" non avessero avuto affetto personale per me, la ‘Critica Sociale’ non avrebbe pubblicato nessuna di quelle che Turati credeva mie fissazioni. Tutti gli altri personaggi di alto fasto erano più o meno francamente ostili: si erano concimato il loro collegio col corpo elettorale limitato dalla legge del 1894, e vedevano nel suffragio universale un salto nel buio disturbatore e pericoloso.

Gli scritti raccolti in questo libro fanno vedere gli argomenti con cui i più cercavano di scansare quel problema, e quelli con cui io li incalzavo nelle vie e viottoli attraverso cui cercavano di evadere.


Una esperienza mi riuscì più penosa di qualunque altra. Eravamo nel 1910. Il Parlamento doveva discutere la legge cosiddetta Daneo-Credaro, che — si diceva — mirava a combattere l'analfabetismo, specialmente nell'Italia meridionale. Mi frequentava Giuseppe Donati, studente universitario a Firenze e democratico-cristiano fervente, sebbene Pio X avesse sbandato la democrazia cristiana; giovane di bellissima intelligenza e di fervido carattere. Io ponevo in lui molta affettuosa fiducia, e lui la meritava (morì in Francia di tubercolosi, cioè di fame, otto anni dopo esservisi rifugiato per non essere ammazzato dai fascisti in Italia). Gli detti da studiare quali effetti avrebbe avuto quella legge nell'Italia meridionale. Donati studiò la materia con intelligenza e tenacia mirabili. E mi portò le conclusioni, perfettamente documentate, del suo studio. La legge combatteva non l'analfabetismo, ma la fame dei maestri; e quello certo era bene. Ma metteva a carico del Governo centrale gli aumenti di stipendio ai vecchi maestri e gli stipendi interi dei nuovi: ora siccome il maggior numero di maestri si trovava nell'Italia settentrionale, ne conseguiva che i pastori della Sardegna, i zolfatari della Sicilia e i braccianti delle Puglie, che avevano maestri in scarsa quantità o non ne avevano affatto, avrebbero pagato gli aumenti e i nuovi stipendi dei maestri che lavoravano nelle scuole dell'Italia settentrionale; bene inteso che, anche qui, le città, meglio attrezzate, inghiottivano bocconi pili abbondanti che i Comuni rurali meno ricchi di scuole. La legge, inoltre, aumentava i sussidi governativi per la costruzione dei nuovi edifici scolastici, ma lasciava sempre a carico dei. Comuni una parte della spesa: ora, i Comuni più poveri — cioè quasi tutti quelli dell'Italia meridionale, e parecchi dell'Italia settentrionale — non possedevano i mezzi per le costruzioni che erano favorite dai sussidi governativi; in conseguenza, i Comuni più benestanti dell'Italia settentrionale avrebbero inghiottito i fondi che si voleva far credere sarebbero serviti a costruire scuole contro l'analfabetismo in tutta l'Italia: una nuova iniquità si accumulava sulle antiche.

Quando ebbi preso in esame e controllato i dati raccolti da Donati, andai a Milano a spiegare che bisognava riformare la legge, se si voleva combattere seriamente l'analfabetismo nell'Italia meridionale. Fiasco su tutta la linea! Mi stavano ad ascoltare dissimulando per cortesia fino a che punto li seccavo, e non assumevano impegni di verun genere. In una riunione all'Umanitaria, alla quale intervenne anche il direttore generale dell'Istruzione elementare, Camillo Corradini, cercai di far capire ragione: ben presto mi resi conto che nessuno badava a me, e non feci più perdere tempo a nessuno. La legge Daneo-Credaro rappresentava un vantaggio notevole per i maestri elementari che stavano nei collegi del Nord. Perché dovevano i socialisti del Nord interessarsi di stipendi ed edifici scolastici del Sud, cioè fuori del Nord?

Quand'ecco nel 1911 il suffragio universale lo offrì Giolitti, dal quale nessuno se lo sarebbe aspettato. Io definii quella sorpresa come un pranzo offertoci alle otto di mattina. Come comprendemmo in seguito, Giolitti volle con quella concessione assicurarsi l'appoggio dei socialisti riformisti nella imminente conquista della Libia; a tenere in riga, poi, l'Italia meridionale, anche col suffragio universale, ci avrebbe pensato lui, con quei metodi il cui successo era, per esperienza, sicuro. Riuscì con Bissolati: ed io mi illudo che la mia lunga campagna per il suffragio universale non sia stata del tutto estranea alla decisione presa in quella occasione da Bissolati.

Giolitti non riuscì con Turati, nel cui spirito il pacifismo assoluto (tradizionale fra i socialisti) prevaleva su ogni altra considerazione, e il suffragio universale gli diceva poco o niente.


Da ora in poi, non avevo più bisogno di domandare ai socialisti del Nord che conquistassero quanto ci era caduto sulla testa come un bolide dal cielo. In questa nuova fase della vita nazionale, i socialisti meridionali dovevano far tutto da sé e non impetrare nessuna elemosina di benevolenza dai socialisti settentrionali. D'altra parte, io avevo perduto ogni speranza di interessare i socialisti del Nord a nessun problema di giustizia che interessasse le classi lavoratrici meridionali.


Mi allontanai perciò dal partito socialista senza strombazzare che me ne andavo via: il fatto non aveva importanza da essere annunziato sui tetti. Ma nel 1914, quando un gruppo di socialisti torinesi mi domandò privatamente se avrei accettato una candidatura alla Camera in un collegio di Torino per affermare la solidarietà degli operai del Nord coi contadini del Sud, dissi loro che non avevo più nessun legame col partito socialista, e la loro idea cadde senz'altro, come era naturale.


A quest'episodio torinese accenna Gramsci in uno scritto del 1926, che credo meriti di essere ricordato come campione del modo con cui talvolta si scrive la storia. Ecco le parole di Gramsci:


“Quando, nel 1914, rimase vacante il IV collegio della città [Torino] e fu posta la questione del nuovo candidato, un gruppo della sezione socialista, del quale facevano parte i futuri redattori dell' Ordine Nuovo, ventilò il progetto di presentare come candidato Gaetano Salvemini. Il Salvemini era allora l'esponente più avanzato in senso radicale della massa contadina del Mezzogiorno. Egli era fuori del partito socialista, anzi conduceva contro il partito socialista una campagna vivacissima e pericolosissima, perché le sue affermazioni e le sue accuse, nella massa lavoratrice meridionale, diventavano causa di odio non solo contro i Turati, i Treves, i D'Aragona, ma contro il proletariato industriale. (Molte delle pallottole che le guardie regie scaricarono nel 1920, '21, '22, contro gli operai, erano fuse nello stesso piombo che servì a stampare gli articoli di Salvemini.) Tuttavia questo gruppo torinese voleva fare un'affermazione sul nome di Salvemini, nel senso che al Salvemini stesso fu esposto dal compagno Ottavio Pastore, recatosi a Firenze per avere il consenso alla candidatura: "Gli operai torinesi vogliono eleggere un deputato per i contadini pugliesi. Gli operai di Torino sanno che, nelle elezioni generali del 1913, i contadini di Moffetta e di Bitonto erano, nella loro stragrande maggioranza, favorevoli al Salvemini; le pressioni amministrative del Governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia hanno impedito ai contadini pugliesi di esprimersi. Gli operai di Torino non domandano impegni di sorta al Salvemini, né di partito, né di programma, né di disciplina al gruppo parlamentare; una volta eletto, il Salvemini si richiamerà ai contadini pugliesi, non agli operai di Torino, i quali faranno la propaganda elettorale secondo i loro principi e non saranno per nulla impegnati dall'attività politica del Salvemini." Il Salvemini non volle accettare la candidatura, quantunque fosse rimasto scosso e persino commosso dalla proposta (in quel tempo non si parlava ancora di "perfìdia" comunista, e i costumi erano onesti e lieti); egli propose Mussolini come candidato e si impegnò di venire a Torino a sostenere il partito socialista nella campagna elettorale. Tenne infatti due comizi grandiosi alla Camera del Lavoro e in Piazza Statuto, tra la massa che vedeva e applaudiva in lui il rappresentante dei contadini meridionali oppressi e sfruttati in forme ancora più odiose e bestiali che il proletariato settentrionale. L'indirizzo, potenzialmente contenuto in questo episodio che non ebbe sviluppi maggiori per la volontà del Salvemini, fu ripreso e applicato dai comunisti nel periodo del dopoguerra.”(A.Gramsci, La questione meridionale, Ed.Rinascita, Roma, 1951, pp.14-16)


In questo racconto è perfettamente vero il particolare che io rimasi commosso (senza "persino") da quella offerta, ed è vero eziandio che andai a Torino per la campagna elettorale: immaginarsi se mi sarei lasciati sfuggire quella occasione per "far propaganda" proprio lì sulla questione meridionale e sulla politica di Giolitti nell'Italia meridionale! Ma è difficile che nel 1914 i socialisti torinesi pensassero a me come loro candidati in Torino, se la mia campagna contro il loro partito era pericolosissima, e se le mie affermazioni e le mie accuse diventavano causa di odio nella massa lavoratrice meridionale contro il proletariato industriale. Quanto alle pallottole contro gli operai che sarebbero state fuse nel '19, 2 . '21 collo stesso piombo che aveva servito dieci anni prima a stampare miei articoli, queste furono prevedute da Gramsci non prima del 1926.


Non essendo sicuro della mia memoria nel 1954 più che non potere essere sicuro Gramsci della sua nel 1926, ho pregato Angelo Tasca, il quale nel 1914 era fra i dirigenti del movimento socialista a Torino, di darmi la sua versione di quel fatto; e lui me l'ha fornita in una lettera del 29 dicembre 1954 che conferma pienamente i ricordi miei:


“Non ho letto il volumetto che raccoglie gli scritti di Gramsci su La questione meridionale, ma conosco il passo che Lei cita, e che si trova in un manoscritto del 1926, dove è rievocato, in modo molto infedele, l'episodio elettorale della primavera del 1914. Il gruppo di socialisti, e specie di giovani, che si ritrovarono poi all' Ordine Nuovo erano negli anni che hanno preceduto la prima guerra mondiale lettori ferventi dell'Unità fiorentina. È questo settimanale che ha fissato le loro idee sulla questione meridionale. L'episodio torinese non si sarebbe prodotto senza le campagne dell'Unità, e va posto nel quadro di quelle campagne e delle loro ripercussioni in seno al partito socialista, specie nei suoi elementi giovani, che desideravano, approfittando del Suo insegnamento, rinnovare gli obiettivi e la tattica. Quando si trattò nel 1914 di cercare un candidato per il IV collegio di Torino, alcuni tra noi pensarono a Lei: la lotta sarà stata impostata così sul tema dell'alleanza tra gli operai industriali del Nord e i contadini del Sud, solidali in un'unica lotta antiprotezionista. La formula di Gramsci delle pallottole delle guardie regie fuse col piombo dei Suoi articoli, e dell'odio che quegli articoli avrebbero suscitato contro la massa lavoratrice nel suo insieme, è una punta polemica, che non aveva alcun fondamento, nel 1926, né nel 1914. Se Lei avesse presentato una tesi puramente e ottusamente "meridionalista," a nessuno di noi sarebbe venuto in mente di presentarLa come candidato in un collegio operaio del Nord. Noi eravamo d'accordo con Lei nel combattere sia il caro-grano che il caro-ferro, giudicando che la politica di protezionismo industriale del Nord costituiva un grave ostacolo per lo sviluppo economico del Sud, avevamo preso posizione contro l'accordo tra industriali e dirigenti riformisti dei sindacati del Nord su una politica economica che condannava il Sud all'arretratezza, e nessuno pensava di implicare in una stessa condanna "la massa lavoratrice nel suo insieme." La Sua candidatura è nata, praticamente, da un colloquio fra me ed Ottavio Pastore, allora segretario della sezione socialista di Torino, di cui ho serbato vivo ricordo e che avemmo al caffè della Casa del Popolo di Corso Siccardi. Io Le scrissi allora personalmente, ed Ottavio Pastore si recò non a Firenze per incotrarLa, ma alla Spezia, dove egli conosceva un Suo amico e collaboratore dell'Unità (Ubaldo Formentini) per pregarlo d'intervenire presso di Lei, e spiegarLe le ragioni per cui volevamo sostenere la Sua candidatura a Torino. Lei ci fece rispondere di non essere più iscritto al partito socialista, e che quindi non poteva essere il candidato all'elezione di Torino, malgrado il seducente vessillo che noi volevamo affidarLe. La lotta per far accettare alla sezione locale la Sua candidatura era già difficile in sé, anche se Lei fosse stato tesserato, ma il fatto su cui Lei aveva richiamato la nostra attenzione rendeva impossibile non solo di guadagnarla, ma anche di tentarla; la barriera statutaria ci avrebbe fermati al primo passo. Non rinunciammo subito all'idea; facemmo qualche sondaggio e ci convincemmo che bisognava rinunziarvi: del resto la corrente favorevole ad una candidatura operaia s'ingrossava di giorno in giorno, e contro di essa si urtò anche la candidatura di Mussolini, che fu messa in minoranza negli scrutini preliminari. A questa candidatura Lei è stato completamente estraneo. Lei accettò invece di tenere un comizio a Torino, in favore della candidatura operaia, a campagna elettorale aperta.”


Chi legga gli scritti qui raccolti può giudicare se essi diffondevano odio contro il proletariato del Nord e se preparavano il piombo per le pallottole del 1919-22. Mi si permetta di aggiungere che, se ogni idea di mia candidatura sfumò al primo annunzio che io non ero più tesserato, quella idea sarebbe naufragata egualmente, se ci fossimo inoltrati a discutere sulla libertà d'azione, che, secondo Gramsci, i socialisti di Torino mi avrebbero lasciata. Io non ero niente affatto "l'esponente più avanzato in senso radicale" né della massa dei contadini meridionali, né di nessun'altra massa.


Ero un libero tiratore, che ci teneva a dirsi socialista riformista, gradualista, dissidente dai riformisti ufficiali, tutto quello che si vuole, meno che "avanzato in senso radicale": mi divideva dagli altri riformisti la loro indifferenza per le sorti dei contadini meridionali, ma non avevo niente assolutamente in comune coi socialisti cosiddetti "rivoluzionari" tanto del Nord quanto del Sud. E Torino era nel 1914 uno dei centri più attivi del socialismo rivoluzionario più intransigente, in attesa di diventare la Mecca del comunismo.


Per definire meglio l'orientamento di quel pensiero, a cui bene o male rimasi sempre fedele, aggiungerò che nel 1912, quando la maggioranza del partito socialista, guidata da Mussolini, condannò l'ala riformista capitanata da Turati, nel Congresso di Reggio Emilia, ed espulse dal partito Bissolati e i suoi seguaci, la maggioranza rivoluzionaria vincitrice nel congresso andava in cerca per l’ Avanti! di un direttore, che prendesse il posto di Claudio Treves. Siccome io ero oramai in aperto dissidio coi riformisti alla Turati, i vincitori mandarono Costantino Lazzari ad offrirmi la direzione dell’Avanti! Tanto confuse e incoerenti erano le loro idee su quel che dovevano e non dovevano volere. Io non sarei diventato a nessun patto direttore di nessun quotidiano, perché quello non era stato mai il mio mestiere, e mi ci ritenevo assolutamente disadatto. Ma non ci fu bisogno neanche di toccar tasto. Mi bastò dire a Lazzari che io non solo ero un riformista, ma un riformista di destra e avevo criticato Turati perché non lo ritenevo abbastanza riformista, e non perché io fossi rivoluzionario: con questo solo argomento tagliai la testa al toro.


Abbandonai, ho detto, il partito socialista, ma non abbandonai il "proletariato," cioè i contadini meridionali.


Senonché questo proletariato aveva nel 1912 cessato di essere l'astrazione marxista, o piuttosto pseudomarxista, del 1896-1902. Lo vedevo ora qual era: una moltitudine di giornalieri agricoli, piccoli fittaiuoli, piccoli proprietari, operai e artigiani, pescatori. Costituivano la grande maggioranza della popolazione; ma erano polvere incoerente, e mancava un tessuto connettivo che la tenesse insieme.

Ecco un comizio in piazza. Non è stato difficile raccogliere mille persone, uomini e donne. Se parlate con un buon senso delle questioni concrete che li interessano nella vita di ogni giorno, vi capiscono perfettamente: le donne prima e meglio degli uomini. Il protezionismo granario, il protezionismo zuccheriero, la tassa sui fabbricati, i danni dell'analfabetismo e i rimedi, i problemi dell'emigrazione, la difficoltà di esportare i prodotti agricoli nell'Europa centrale, tutto, tutto, capivano. Ma io ero solo o quasi solo in mezzo a loro. Finito il "parlamento" (come dicevano con termine che io conosco dai documenti medievali), ognuno se ne andava per conto suo, e non ne rimaneva niente. Quella moltitudine non era divisa in squadre, tenute insieme da caporali e sergenti; non aveva ufficiali inferiori, che tenessero insieme i capisquadra.


Concentravo il mio lavoro su due città — Molfetta e Bitonto — perché sarebbe stato assurdo disperdere le mie forze più vastamente. E in quelle due città avevo stati maggiori di uomini degni di fiducia per intelligenza e carattere, e da essi non fui mai deluso. Ma neanche essi avevano sotto di sé gerarchie, che li associassero alle moltitudini. Questa mancanza era meno sentita in Molfetta, dove esisteva una tradizione più antica di attività politiche, ed erano state fatte prove di mutuo soccorso, o cooperative, o Leghe fra i contadini, ed era andata sorgendo una importante cooperativa fra i pescatori, a capo della quale stava un ragioniere intelligente, e ricco di senso pratico. Ma a Bitonto si era agli inizi; e i miei giovani amici — generosi uomini e rimastimi sempre fedeli attraverso ogni vicissitudine — dovevano muoversi in un ambiente di borghesia, della quale credo non ce ne fosse una più marcia in tutta l'Italia meridionale.

In Giovinazzo e Bisceglie, vicinissime sul mare a Molfetta, la situazione era a mezza strada fra Molfetta e Bitonto. In Terlizzi, entro terra, a eguale distanza, da Bitonto e da Molfetta, non conoscevamo neanche un'anima. Le moltitudini potevano, ora, col suffragio universale, riportare vittorie elettorali politiche o amministrative. Ma non davano possibili consiglieri comunali. Era difficile anche ricavarne gli scrutatori per le sezioni elettorali. Finanche i pochi membri delle commissioni comunali per la nomina degli scrutatori erano difficili a mettere insieme.


Quella polvere di uomini e di donne aveva bisogno di "guide" per un lavoro permanente costruttivo. Queste guide non potevano essere date che dalla classe degli intellettuali, o da quei proletari, che per dedicarsi ad un lavoro di concetto, cioè ad un impiego politico, dovevano cessare di essere lavoratori manuali per diventare anch'essi intellettuali. Ma nell'Italia meridionale gl'intellettuali erano quello che io sapevo che fossero...

Certo, condanne in blocco sarebbero state inique. Non mancavano giovani che si offrivano di secondarci. Ma erano pochi. E fino a quando sarebbe durato quel buon volere giovanile? Il bisogno non avrebbe indotto anche loro a saltare dall'altra parte della trincea? E allora dove sarebbero andate a finire le quote, che essi riscuotevano dalla povera gente per la lega di resistenza, per la cooperativa, per la sezione politica? Anche parecchi dei loro padri, nel passato, avevano cominciato con buona volontà, e poi erano finiti, come tutti gli altri, giocando la sera a tressette nel "circolo dei civili," e succhiando durante la giornata il sangue della povera gente. Come affidare quella povera gente a possibili succhiasangue?


Una sera, che in una campagna del mio migliore amico conversavamo in crocchio sotto il cielo stellato, nella dolce frescura succeduta a una giornata di estate, un contadino mi disse: "Tu non ci hai mai ingannati." Quelle parole, pronunciate nella oscurità, mi si infissero nell'anima, e non l'hanno abbandonata più. Potevo io raccomandare alla povera gente, che confidava in me, come "guide," uomini, di cui temevo assai che potessero ingannarla?

Una volta confidai le mie inquietudini a quell'amico, al quale ho or ora accennato e che aveva della vita locale lunga esperienza, e l'aveva attraversata rimanendo puro e generoso. Gli domandai se mi era lecito continuare a sommuovere quel terreno, senza aver sottomano gli strumenti per consolidarlo in forma nuova, dopo averlo sommosso. Lui mi disse: "Se non ci fossi tu, che fai del tuo meglio per non ingannarli, verrebbe altri che li ingannerebbe di proposito. Non pretendere una perfezione che non esiste neanche altrove. Tu ti sei dedicato a un lavoro lungo che non finirà con te. Altri continueranno la tua opera. Fa' del tuo meglio. Altro non puoi fare." Quelle parole non mi rallegrarono.


Alle elezioni del 1913 — non più che un incidente, nella politica elettorale giolittiana — dedicherò una parte di quel volume, che, come ho detto, dovrebbe succedere a questo, e che spero riesca un contributo utile alla storia costituzionale italiana."


La prima guerra mondiale interruppe per quattro anni e mezzo ogni lavoro nella politica interna. Ma fece fiorire in me una speranza inaspettata. Ecco un popolo — dicevo fra me e me — sradicato, per la prima volta nella storia, tutto insieme, dalla sua vita tradizionale, e rimescolato per anni col resto del popolo italiano in una vita di pericolo e di sofferenza. Dal 1860 in poi, l'esercito aveva afferrato molti di quegli. uomini, e li aveva messi a contatto con compagni di altre parti d'Italia, e in altre parti d'Italia, di cui altrimenti non avrebbero avuto nessuna idea; qualcosa era rimasto di queste esperienze nei loro spiriti, almeno per qualche tempo. Ma esse erano state di breve durata, per i soli mesi del servizio militare, e non per tutti i giovani. Poi, riassorbiti dagli ambienti locali, erano ritornati, su per giù, gli uomini di sempre. Questa volta la loro assenza era durata quattro anni, durante i quali si erano vista molte volte la morte innanzi agli occhi, e per salvare la vita avevano dovuto tenersi bene stretti ai loro compagni, sotto i loro caporali, i loro sergenti, i loro ufficiali inferiori; molti avevano fatte le esperienze di comandare dopo le esperienze di obbedire. I caporali, i sergenti, i tenenti della guerra sarebbero i caporali, i sergenti, i tenenti della pace. La guerra doveva avere prodotto le "guide" per quel popolo così difficile a tenere insieme. Fra i reduci avremmo trovato il personale intermediario che ci mancava. Misi anch'io nel movimento dei "combattenti" speranze, che dovevano purtroppo rivelarsi infondate.


Non che la guerra non abbia sconvolto da cima a fondo, al Nord e al Sud, le moltitudini, e data la spinta a giganteschi movimenti collettivi, dai quali sarebbe stato possibile ricavare una rinnovazione completa della vita italiana. Ma, nel Nord, i socialisti riformisti avevano perduto ogni autorità, e i socialisti rivoluzionari non avevano idea di fare altra rivoluzione che di parole. Quanto al Sud, vi si fecero avanti molti buoni caporali e sergenti.


Ma gli ufficiali? Ne vennero anch'essi. Due di essi furono eletti deputati in provincia di Bari insieme a me nella lista dei "combattenti." Ma uno era un medico bestione, che sospetto abbia comprato i caporioni della organizzazione provinciale combattenti per essere messo nella lista dei candidati; e durante la campagna elettorale sguinzagliò i suoi agenti a togliermi i voti di preferenza col farmi accusare sotto voce di essere un "bolscevico"; quando venne il fascismo diventò fascista e fu nominato senatore, pagando chissà quanto a chi teneva le chiavi del cuor di Federico. E l'altro — un giovane avvocato, tutt'altro che stupido, il quale aveva davanti a sé uno splendido avvenire professionale e politico, solo che si fosse mantenuto galantuomo — costui, pochi mesi dopo di essere stato eletto, fu travolto in uno scandalo clamoroso, come complice di un briccone che vendeva cacio pecorino sul mercato nero. Lo invitai a dimettersi da deputato per difendersi dall'accusa. Lui aveva altro per il capo. Lo buttai a mare nella Camera, augurando che il processo fosse rapido e la giustizia esemplare. Ma, se nessuno pensò a mettere in forse la mia rettitudine personale, più d'uno fu della opinione che avrei potuto scegliere con maggiore oculatezza i miei compagni di lista. Non li avevo scelti io. Io stesso era stato scelto, perché il mio nome accreditava la lista, e perché si faceva assegnamento sulla mia attività nella campagna elettorale. Quella piccola borghesia intellettuale meridionale, che io avevo sempre disprezzata, si prese un'allegra vendetta su di me con quei due miei colleghi di lista!


Non tutte le mie aspettazioni, però, furono tradite. Nella "propaganda" degli anni precedenti la guerra, io avevo sempre denunciato la miseria intellettuale e morale e politica dei più fra i deputati meridionali, che facevano consistere il loro ufficio nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori, e per essi una croce di cavaliere aveva più importanza che un trattato di commercio o un progetto di legge per le pensioni alla vecchiaia, o la imposta sui fabbricati, che era pagata dai contadini meridionali, e non dai settentrionali, o la tassa sulla miseria, che era pagata dai contadini meridionali che emigravano in America, e non dai settentrionali che andavano a cercar lavoro nell'Europa centrale. Durante la campagna elettorale del 1919, ritornai a battere su quel chiodo.


“Voi credete che i deputati — dicevo, e spero che non dispiacerà questo specimen della eloquenza politica necessaria in quegli ambienti — voi siete avvezzi a pensare che i deputati debbano essere gli sbrigafaccende degli elettori. Se dovete portare un paio di scarpe a casa, e incontrate per la strada il vostro deputato, gli dite: ' Ecco queste scarpe, portatele da mia moglie.' Se avete una botte di vino, e non sapete come venderla, scrivete a Roma al vostro deputato perché ve la venda. Io vi avverto che di siffatte faccende non mi occuperò mai. Se mi eleggete deputato, vi sarò grato della vostra fiducia, e cercherò di difendere meglio che potrò i vostri diritti. Ma non mi occuperò né di scarpe, né di botti di vino. Se volete non un deputato, ma uno sbrigafaccende, votate per un altro.”


Ebbene, in quei mesi che fui deputato, dalla fine del 1919 al principio del '21, non ricevetti dalla provincia di Bari una lettera, dico una sola lettera, che mi chiedesse una raccomandazione o un favore. Scrivo questo con gioia orgogliosa e commossa. Quella povera gente farà miracoli il giorno in cui troverà guide che ne siano degne.


Un'altra esperienza mi riuscì penosissima quanto quella del cacio pecorino, ma per altre ragioni.

Un giorno venne a Roma da un comune della provincia una commissione di muratori ex combattenti, che avevano votato per me. Erano organizzati in cooperativa per i lavori pubblici. Ma non potevano ottenere nessun lavoro perché il deputato governativo del loro paese, che non poteva aspettarsi il loro voto, proteggeva un'altra cooperativa, e il prefetto faceva altrettanto, e questa cooperativa lavorava, mentre i miei elettori rimanevano disoccupati. C'era un lotto di lavori disponibile. I miei elettori lo desideravano per sé. Avrei dovuto accompagnarli al ministero dei Lavori pubblici per far prendere in considerazione benevola il loro giusto desiderio.

Spiegai che non potevo: il ministro non avrebbe accolto la loro domanda, se non gli avessi fatto capire che mi sarei sentito obbligato, verso di lui e verso il Ministero di cui faceva parte, ad una riconoscenza, che avrebbe dovuto manifestarsi negli appelli nominali, o almeno nelle votazioni segrete; questo era l'ambiente; io non intendevo piegarmici. Piuttosto mi sarei immediatamente dimesso da deputato. Quei poveri diavoli se ne andarono disperati. Ma io rimasi più disperato di loro.

Essi domandavano non un favore illecito, ma giustizia. In un'amministrazione, nella quale il favoritismo era legge, il deputato diventava per necessità strumento di favori, anche giusti. Ma questi non potevano essere gratuiti. Lui doveva promettere i suoi servizi ai ministri se questi dovevano dar via libera alle faccende degli elettori. Rifiutando il mio appoggio a quella povera gente, che domandava solo di lavorare, non ero io diventato complice di quel deputato, che proteggeva disonestamente l'altra cooperativa di lavoro? D'altra parte, l'Italia era governata da una burocrazia mastodontica, pigra ed inefficiente, la quale attirava a Roma milioni di pratiche, e le pratiche cosi accumulate erano lasciate a dormire, mentre l'impiegato "competente" sospendeva il cappello all'attaccapanni nella sui stanza per far credere che era uscito per un "bisogno urgente" e se ne andava per i fatti suoi, senza pensare ad altro. Con un regime di questo genere, non era uno fra i doveri del deputato quello di "risvegliare" le pratiche degli elettori? Ma potevo io cambiare linea di condotta?


Quella crisi di coscienza mi riuscì estremamente penosa. Dovevo io ripresentarmi candidato per la Camera? Ero io fatto per quell'ufficio?

Altre considerazioni mi conducevano a quella domanda. Oltre a fare il deputato, dovevo insegnare all'Università di Firenze, e non volevo perdere nessuna lezione, e facevo continuamente la spola fra Roma e Firenze dormendo spesso in treno. Quando poi veniva un po' di vacanze o dalla Camera o dalla scuola, dovevo andare nella provincia di Bari per dare qualche aiuto a chi lavorava laggiù. E per giunta avevo sulle spalle un. settimanale, L'Unità. Come abbia resistito a tanto lavoro, non so.


Nell'autunno del 1920 decisi che non potevo continuare. Composi nel sepolcro L'Unità alla fine dell'anno. E nel gennaio, durante una malattia penosissima, decisi di rinunciare alla Camera. Cosi sarei rimasto insegnante niente altro che insegnante, dedicando alla politica meridionale i margini del mio tempo, come avevo sempre fatto.


Poiché ho parlato del mio rifiuto di accompagnare e raccomandare quella la cooperativa al Ministero, aggiungerò che io misi piede una sola volta nella prefettura di Bari. Invece non passava giorno che il quotidiano governativo di Bari non facesse sapere che il deputato "socialista rivoluzionario" della provincia era stato dal prefetto con la commissione di una cooperativa, o con una commissione di disoccupati, o con una commissione di impiegati, o con una commissione di spazzini, o con una commissione di insegnanti elementari, e via via. Lui era un eroico rivoluzionario e io un vile riformista.

Or ecco come fu che andai in prefettura quella sola volta. Nel comune della provincia a cui apparteneva la cooperativa, di cui parlai poco fa, erano state indette le elezioni amministrative. Il partito del deputato "governativo" — il protettore dell'altra cooperativa — prevedeva la sconfitta, dato che i lavoratori stavano in grandissima maggioranza coi combattenti. Il deputato ebbe allora un'idea brillante: fece annunziare che sarebbe riuscito a fare rinviare le elezioni. Questo fatto avrebbe dimostrato clamorosamente che lui era onnipotente, cosi da poter ottenere dal prefetto un provvedimento del tutto illegale, come il rinvio di elezioni già indette, senza nessun motivo di alcun genere, salvo la volontà del deputato "governativo." Se questo trucco fosse riuscito, sarebbe stato chiaro che il deputato dei combattenti — cioè a dire io — non contava un corno, e gli elettori si sarebbero scoraggiati e sbandati, vedendo che contro forza la ragion non vale. Che cosa potevo fare io? Andai in prefettura, e dissi al prefetto che, se lui rinviava le elezioni, io avrei fatto metter fuoco dai contadini alla casa del deputato e a quelle di tutti i "galantuomini" che formavano il suo partito. Come avrei fatto a far bruciare quelle case, dove avrei trovato la benzina per una operazione così vasta, in coscienza non sapevo. Facevo del bluff. Ma il prefetto, che probabilmente non aveva voglia di violare la legge per contentare il deputato governativo, fece vista di credere alla mia ferocia incendiatrice. Può anche darsi, però, che ci abbia creduto. Comunque lasciò le elezioni amministrative al giorno per cui erano state fissate. E i combattenti sconfissero i "galantuomini" e conquistarono il municipio.


I fascisti resero impossibile dal 1921 al 1943 ogni specie di organizzazione e di educazione politica fra le moltitudini, tanto nel Sud quanto nel Nord.


Nel 1945, non appena superata la crisi del secondo dopoguerra, il filo spezzato si è riallacciato, e la pioggia dei piccoli borghesi intellettuali sulle organizzazioni contadinesche meridionali, si è riprodotta, anzi è diventata intensissima.

Uomini che hanno conoscenza immediata di laggiù, e ai quali dò fede, mi assicurano che la pratica del suffragio universale e delle amministrazioni locali comincia a produrvi qualche frutto. In parecchi luoghi i contadini vanno buttando fuori dalle loro organizzazioni sindacali e politiche gli avvocati e simili insetti, che vi si erano annidati durante il parapiglia del secondo dopoguerra.


II fenomeno è limitato ai comuni minori, e si capisce perché: i problemi di un piccolo comune possono essere compresi, con un minimo di buon senso e di buona fede, anche da uomini e donne di cultura assai limitata. Ma, via via che il comune diventa pili popoloso, i problemi crescono in numero, proporzioni e complessità, e il contadino non sa da parte rifarsi. Ne consegue che nelle città lo sfruttamento delle organizzazioni è oggi, come quarantenni or sono, nelle mani della stessa gente, quale che sia il suo colore politico. Comunque, in tutto il Mezzogiorno caporali e sergenti e anche ufficiali vanno emergendo dalla massa indifferenziata, per quanto in numero ancora esiguo.


Gli ufficiali del partito comunista sono educati in scuole apposite: fatto nuovo e destinato, probabilmente, a un grande sviluppo in tutti i partiti. Ma purtroppo lo stato maggiore comunista, nella illusione di affrettare palingenesi universale, senza lasciarsi frastornare da scrupoli morali, educa i suoi ufficiali e sottufficiali ad una spregiudicatezza, che nell'Italia meridionale non avrebbe bisogno di essere incoraggiata. Facendo di tutt'erba un fascio, sperano provocare in Italia, in caso di guerra, un collasso interno e un movimento di partigiani sulle retrovie dell'esercito occidentale.

Siccome tutto è possibile, non è detto che questo piano non riesca.


Ma la esperienza dimostra che oggi, in Europa, nessun regime comunista può sorgere e mantenersi in un paese dove un esercito russo non sia intervenuto o non sia già alle porte. Un movimento di partigiani comunisti che non fosse seguito da una occupazione russa (più o meno mascherala) lascerebbe dietro a sé nell'Italia un caos spaventevole di rivolte rurali e d repressioni feroci protette da chi domina il mare: un confuso terrorismo di tutti contro tutti, sul quale dovremmo fino da ora mettere il motto Finis Italiae.

Non essendo nato bevitore di sangue, penso che una occupazione straniera sarebbe preferibile a un caos sanguinario di quel genere. E non avendo nessuna certezza di nessun paradiso che si possa raggiungere attraverso nessun spargimento di sangue (anche se inevitabile per altre ragioni) non posso ignorare il fatto che un esercito "liberatore" è sempre un esercito "conquistatore."

Gl'italiani, dopo essere stati "liberati" dai francesi alla fine del secolo decimottavo, sono stati "liberati" dagli anglo-americani-neozelandesi-canadesi-polacchi-marocchini a mezzo il secolo ventesimo. Dato che questa seconda "liberazione" liberò l'Italia dai tedeschi e dai fascisti, e dato che, tutto compreso, in essa hanno avuto parte larghissima gli americani, che sono abituati a lasciar cadere sotto la tavola ossa non del tutto spolpate e abbondanti pezzi di pane, possiamo dire che anche in questo lo stellone non sia venuto del tutto meno al suo ufficio tradizionale. C’è da temere assai che non avverrebbe altrettanto, se una liberazione-conquista fosse dovuta a un esercito di russi, i quali non sembrano cosi ben pasciuti e vestiti come gli americani. Questa è la ragione per cui, dopo aver fatto l'augurio che né gl'italiani del Nord, né duelli del Sud abbiano più bisogno di liberatori, faccio l'augurio che, caso mai, i liberatori vengano dall’Ovest, anzi che dall'Est.


Certamente, lo stato maggiore comunista meridionale è oggi superiore per intelligenza e serietà a quelli che furono laggiù nei primi venti anni di questo secolo i loro predecessori. Per citare un solo esempio, una rivista come Cronache meridionali non sarebbe stata pensabile prima del 1920. Ma sta il fatto che i comunisti cercano ovunque i punti d'appoggio per sollevare il più esteso malcontento possibile, e non per proporre rimedi che attenuino il disagio. E in quel lavoro per reclutar comunque malcontenti promettono tutto a tutti, anche se quel che fanno sperare agli uni fa a pugni con quello che fanno sperare agli altri. E, quando vengono a quei problemi di giustizia distributiva fra italiani del Nord e italiani del Sud, che possono disturbare i beati possidenti dell'Italia settentrionale, i comunisti scantonano: non vogliono turbare quegli operai del Nord che hanno interessi comuni col capitalismo parassitario, di cui gli zulù del Mezzogiorno fanno le spese.


E allora? E allora lasciando l'avvenire dove sta, cioè sulle ginocchia di Giove, ognuno di noi faccia il fuoco che può, con quelle legna di cui dispone.

Se la spregiudicatezza dei comunisti ci ripugna, non possiamo chiudere gli occhi innanzi al fatto che nel movimento comunista, e del Nord e del Sud, militano molti giovani e molte ragazze con un disinteresse e uno spirito di sacrificio degni dell'ammirazione più profonda. Anche sulla fine del secolo passato altri giovani e altre ragazze servirono l'ideale socialista con altrettanta sincerità e abnegazione, credendo anch'essi di lavorare per un rinnovamento totale e immediato della società umana. Questa loro illusione venne meno, via facendo, ma i migliori non passarono nel campo nemico: rimasero fedeli all'ispirazione morale della loro gioventù, e continuarono a servirla come meglio credevano e potevano. Perché non le formule astratte erano il movente delle loro opere, ma quel desiderio di giustizia che era allora avviluppato nelle formule del marxismo, come è avviluppato oggi nelle formule del leninismo-stalinismo. I giovani e le ragazze, che servono oggi il loro ideale in queste nuove formule, sono assai più numerosi di allora; e più le ragazze che i giovani; quelle di sessant'anni or sono potrei contarle su le dita di una sola mano.


Non è assurdo pensare che questa bella gioventù, col passare degli anni, non vedendo arrivare l'ora del nuovo regno di Dio, riconosca di essersi messa per una via senza uscita, e, lungi dal prendere la via opposta, ritorni al socialismo tradizionale. E vi ritorni con quel senso delle realtà, che essi vanno acquistando nella pratica minuta del comunismo. Quella pratica mancò sempre ai socialisti — e riformisti e massimalisti — e quella mancanza spiega in costoro le sconfitte di ieri, e la inettitudine di oggi, e la probabile totale scomparsa in un prossimo domani.


Dalla speranza che quella gioventù ritrovi la via, che sola può condurre, non al paradiso una volta per sempre, ma ad un avvenire migliore dell'oggi, bisogna dedurre la sola condotta che sia lecita a chi non "fa politica" per guadagnarvi su personalmente:

1) dire sempre a quella gioventù la verità, spiegandole che cammina su falsa strada, senza passargliene una sola;

2) non partecipare a nessuna "apertura" né verso il partito comunista, né verso alcun compagno di viaggio o idiota utile del comunismo;

3) non fare nulla che possa favorire una vittoria elettorale comunista, precipitando quella crisi, in fondo alla quale non si troverebbe che la fine dell'Italia;

ma 4) non associarsi a nessun gruppo politico, il quale, col pretesto della lotta contro il comunismo abbia venduto l'anima al clericalismo fascista monarchico;

5) tenersi sempre su quel terreno del socialismo gradualista, ma energico a volere quel che deve volere, che è il solo su cui possono ritrovarsi coloro, che vogliono liberarsi dalle pastoie comuniste; 6) pur marciando sempre divisi dai comunisti, resistere ad ogni tentativo che altri faccia per mettere fuori legge il partito comunista, cioè per impedire ogni evoluzione della migliore gioventù comunista verso una politica di buon senso;

e 7) prendere colpi e da destra e da sinistra, ma non cedere mai né a destra né a sinistra.


Se qualcuno di quei giovani o di quelle ragazze, nel cui ritorno al disprezzato socialismo umanitario s gradualista, io metto ogni speranza, leggerà questi scritti, io vorrei si rendesse conto che, se il federalismo assoluto del 1898-1902 ha dato luogo, negli scritti del 1945 e 1946, ad un federalismo rettificato, ciò è avvenuto in base alle esperienze fatte nell'Italia meridionale fino al 1922, e fuori d'Italia nel trentennio successivo. Neanche negli Stati Uniti, che Cattaneo tenne a modello, la flotta e l'esercito sono divisi fra i quarantotto stati della Federazione, o in Inghilterra fra le regioni (che li sono chiamate "nazioni") col reclutamento regionale. In un paese come l'Italia, non conviene rinunziare a quel tanto di educazione politica che si può ottenere in un esercito a reclutamento nazionale — finché un esercito deve esserci, e pare che passerà molto tempo prima che ne possiamo fare a meno, in Italia come altrove.


Venendo all'amministrazione civile, la soppressione dei prefetti fu proposta da Luigi Einaudi nel 1944, tenendo sottocchio l'Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti, nella cui fauna politica l'animale prefetto è sconosciuto. (Lo scritto si può leggere nella raccolta recentemente curata da Ernesto Rossi: Luigi Einaudi, Il buon governo, Laterza, Bari 1954, pp. 51 sgg.) L'idea di Einaudi era anche mia mezzo secolo fa. Ma in mezzo secolo un uomo non vive solamente: impara anche. L'idea di abolire senz'altro i prefetti sarebbe applicabile oggi, nella stessa Italia settentrionale e centrale? Si potrebbe qui fare del tutto a meno di un funzionario designato dal Governo centrale per dirigere la polizia e mantenere l'ordine? Sostituiremo ai carabinieri le guardie municipali? Creeremo milizie provinciali o regionali? E, quando una provincia o regione andasse soggetta a seri turbamenti o ne fosse minacciata, chi mobiliterebbe le forze di polizia e anche l'esercito, se non ci fosse a darne l'ordine un funzionario civile, che rappresentasse il Governo civile centrale? Il comandante della divisione o del corpo d'armata? Sarebbe peggio che andar di notte.


Mentre non so vedere un'Italia in cui il Governo centrale manchi di funzionari, i quali alla periferia comandino la polizia e mantengano l'ordine, vedo invece che un regime di autonomie amministrative nei comuni e nelle province dell'Italia settentrionale e centrale è indubbiamente possibile.

Solamente, anche qui non è detto che tutti i comuni siano specchi di buona amministrazione. Sui comuni minori e specialmente sui rurali, una certa sorveglianza può essere necessaria; e anche dove una sorveglianza si può risparmiare, una qualche opera di consiglio sui miglioramenti da apportare nei metodi amministrativi sarà sempre desiderabile: non si può pretendere che i sindaci e i segretari dei comuni piccoli si tengano informati sui risultati a cui via via giungono nei loro studi i tecnici dell'amministrazione. In Inghilterra il Home Office compie questa necessaria e benefica opera di consiglio, senza avere il diritto di imporre la sua volontà con lo scioglimento alle Amministrazioni locali riluttanti.


Insomma, un funzionario delegato dal Governo centrale a sorvegliare e consigliare le Amministrazioni locali minorenni (oltre che a comandare le forze di polizia e mantenere l'ordine e ristabilirlo in caso di bisogno) mi sembra necessario anche nel Nord e nel Centro d'Italia. Si potrebbero raggruppare più province sotto lo stesso prefetto, dato che i poteri di costui su le amministrazioni locali verrebbero assai ridotti in un regime di autonomie. E, beninteso, anche ai comuni minorenni il prefetto dovrebbe dare consigli e non ordini, né scioglierne le Amministrazioni ad arbitrio. Il prefetto, che accertasse reati, dovrebbe denunciarli alla magistratura ordinaria, e solo quando questa ne ammettesse la necessità, un'Amministrazione locale potrebbe essere sciolta ed affidata "pro tempore" ad un curatore designato dalla stessa magistratura. Qualora invece fossero accertate insipienza o trascuratezza senza dolo, il prefetto dovrebbe informarne pubblicamente la cittadinanza interessata; e, se questa volesse continuare a tenersi Amministrazioni inette, padronissima di farne le spese, finché attraverso l'esperienza non avesse acquistato il senso comune.


Questi stessi principi dovrebbero essere applicati nell'Italia meridionale. Ma qui sarebbe necessario l'intervento dei prefetti in molti più casi che nell'Italia settentrionale e centrale. Un autonomismo completo, quale si ha in Svizzera, in Inghilterra, e negli Stati Uniti, significherebbe nell'Italia meridionale abbandonare le Amministrazioni locali al malfare sfrenato della piccola borghesia intellettuale. Col tempo, via via, l'esercizio del diritto elettorale e la pratica dell'amministrazione consentirà alle classi contadine — sia pure attraverso molti errori — di elaborare gerarchie intellettualmente e moralmente capaci. Questo sarebbe lavoro lento — assai lento — e sarebbe ritardato dal malaffare delle amministrazioni borghesi. Ma Roma non fu fatta in un giorno.


Per le scuole secondarie, sarei molto meno propenso che non sessanta anni or sono all'idea di abbandonarle agli Enti locali. La esperienza dimostra che le scuole governative — anche se non sono mai state una meraviglia di buon andamento — hanno sempre funzionato, in tutta l'Italia e specialmente nell'Italia meridionale, meglio — o meno peggio — che le scuole amministrate dagli Enti locali — salvo che nelle grandi città del Nord. Quanto alle scuole private, meglio non parlarne. Le stesse tenute da ordini religiosi, che una volta erano degne di rispetto, almeno per l'insegnamento del latino, oggi sono diventate quasi tutte un'ignominia, come le scuole private laiche. Abbandonerei le scuole secondarie ai soli grandi comuni del Nord e del Centro, meno forse Roma, che è Mezzogiorno autentico, anzi peggiorato.

Quanto alle scuole elementari, mi sembra, oggi come ieri, che si dovrebbero restituire a quei soli comuni in cui l'analfabetismo sia inferiore al dieci per cento; nei comuni che direi minorenni, nei quali l'analfabetismo è superiore a quel limite, l'amministrazione ne dovrebbe essere affidata a provveditori governativi, fino a quando l'analfabetismo non fosse ridotto a quel livello. Beninteso, il provveditore dovrebbe sostituire le Amministrazioni locali solo dopo che la magistratura ordinaria abbia riconosciuto la necessità di siffatto provvedimento.


Se si ritiene che la magistratura ordinaria non debba essere aggravata con un lavoro che finora non le competeva, si possono istituire nuove sezioni nel Consiglio di Stato, a cui sarebbero demandate le materie riguardanti le amministrazioni locali.

Si intende che insieme con le funzioni, che dovrebbero essere trasferite dal Governo centrale agli Enti locali, dovrebbero essere trasferite anche quelle fonti tributarie, che oggi sono usurpate dal Governo centrale. Gli scritti nn. 56-67, posteriori al 1945, raccolti in questo volume, daranno, spero, qualche campione, per quanto rudimentale, delle idee che mi sono state suggerite dalla osservazione di quanto avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti.


Insomma, federalismo con le cautele necessarie ad evitare due pericoli (meno gravi nel Nord e più gravi nel Sud):

1) che il malcostume amministrativo locale sia aggravato dalla cessazione di ogni sorveglianza;

2) che questa sorveglianza serva ad accumulare la corruttela centrale sulla corruttela locale.


Con cautele di questo genere, si dovrebbe decentrare anche l'amministrazione nella città di Napoli. Mi si informa che i comunisti hanno già diviso quella città in sezioni, ad ognuna delle quali è addetto un comitato locale: hanno capito che per arrivare agli ultimi capillari di una così grossa popolazione, e farne una forza attiva in politica, è necessari: avvicinarle più che sia possibile l'amministrazione degli interessi immediati.


A questo punto qualcuno mi dirà: "Non sei, dunque, tu quel desso, che, fra il 1900 e la prima guerra mondiale, fece una campagna cosi ostinata (e solitaria) per il suffragio universale? Non era quella campagna basata sulla aspettazione che le popolazioni meridionali avrebbero trovato, attraverso l'uso del suffragio universale, la via per risollevarsi dalla loro depressione? Hai messo dell'acqua nel vino del suffragio universale?"

Son io quel desso, e nel suffragio universale non ho messo nessun 'acqua. E continuo a ritenere che il suffragio è la sola arma politica, da cui il contadiname possa ricavare vantaggi, via via che imparerà a farne uso. Anche cosi come è oggi, quella massa anonima ed imponente, per il solo fatto che può votare, esercita una pressione di paura sui politicanti di tutti i partiti. Né democristiani di destra e di sinistra, né comunisti, né socialisti, né liberali di destra o di sinistra, parlerebbero tanto di questione fondiaria e di questione agraria, se il contadiname meridionale non possedesse il diritto di voto. Solamente il processo sarà molto più lungo che non credessi una volta. La macchina sociale, ha scritto Cattaneo, è lenta a muoversi, e non si muove senza gran rumore, e molte volte fa un gran rumore e non si muove affatto.


In tutti gli scritti qui raccolti, l'aiuto degli Italiani del Nord è invocato perché diano una mano a chi si trova laggiù a combattere con difficoltà che al Nord sono sconosciute.

Quando Umberto Zanotti-Bianco, un piemontese-inglese, e i suoi amici settentrionali fondarono la Società del Mezzogiorno sotto il patrocinio di Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti, dopo il terremoto calabro-siculo del 1908, mi si aprì il cuore alla speranza. Ma, per quanto quella Società abbia fatto miracoli coi pochi mezzi di cui disponeva, e abbia ripreso il lavoro dopo la tempesta fascista, la sua opera è stata, ed è, una goccia nel deserto. Ed è rimasta senza imitatori. Gli apostoli sono sempre stati scarsi a questo mondo, e non si può fare su di essi un assegnamento continuativo.


L'esperienza prefascista e postfascista ha dimostrato che i settentrionali hanno troppi problemi sulle braccia a casa loro per potersi occupare di quanto avviene in casa altrui, quando non profittano consapevolmente dell'avvilimento altrui.


Con tutto questo, io non so abbandonare ogni speranza.

Ho osservato sempre che in quelle città meridionali, nelle cui scuole secondarie ha insegnato, magari cinquant'anni or sono, un uomo di vero valore intellettuale e morale, sono sempre rimasti alcuni discepoli, che non hanno finito con andare a giocare la sera a tressette nel circolo dei "galantuomini," non hanno preso parte a nessun carnevale elettorale, sono venuti all'aperto, facendo il loro dovere di cittadini e... sono stati schiacciati.

Sarebbe possibile moltiplicare nell'Italia meridionale gli insegnanti-uomini? Non si tratterebbe di aspettare risultati immediati, ma lasciare che la loro opera — seme sotto la neve — fruttifichi col tempo: mettiamo fra una generazione. Non sarebbero prodotte da essi col tempo — mettiamo fra una generazione — in numero sufficiente "guide" che si metterebbero a capo delle moltitudini lavoratrici contro una borghesia marcia che deve sparire? In quali partiti quelle "guide" militerebbero, non importa. Quello che importa è che esse aiuterebbero quella popolazione a diventare popolo.


A costo di far ridere tutto il mondo alle mie spalle, suppongo che un gruppo di cittadini settentrionali si metta a predicare che i primi vincitori dei concorsi nazionali per le scuole secondarie dovrebbero essere mandati a coprire le cattedre che via via rimanessero libere nelle scuole meridionali per i primi cinque anni della loro carriera, pagati con stipendio doppio per indennità di disagiata residenza, e ogni anno dovrebbe essere contato loro come due nel computo della pensione; dopo quei cinque anni, avrebbero il diritto di essere trasferiti in sedi da loro scelte, quando non preferissero rimanere laggiù. Se quel gruppo di italiani del Nord, a furia di battere e ribattere su questo chiodo, arrivasse a persuadere un numero sufficiente di italiani, e imponesse al Governo — chiunque esso fosse — quel provvedimento scolastico, venti anni di siffatto regime non rinnoverebbero le classi dirigenti dell'Italia meridionale?


Questo non risolverebbe su due piedi la questione meridionale. Ma in vent'anni aiuterebbe a risolvere una delle questioni meridionali, la più essenziale di tutte: la preparazione di una classe dirigente meno sciagurata. Non affermo che dovremmo domandare quel provvedimento scolastico e starcene poi con le mani in mano ad aspettare che produca i suoi effetti fra una generazione. No davvero.


Continuiamo pure, ognuno per conto proprio, ad agitare i problemi dal cui viluppo è formata la questione meridionale; continuiamo pure, ognuno per conto proprio, a seguire quelle vie e quei metodi che crediamo migliori; ma mettiamoci d'accordo almeno su questo che, dopo tutto, né ha nulla di rivoluzionario, né impedirebbe nessuna rivoluzione, se questa fosse realmente possibile.


Maggio 1955






Torna su





Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del web@master.