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LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE


Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento si verificano delle inovazioni econimiche, che gli storici chiamano seconda rivoluzione industriale. Il processo di affermazione della società industriale conobbe, a partire dagli anni settanta dell’Ottocento, non solo un’accelerazione poderosa, ma anche una trasformazione qualitativa. 

L’ultimo trentennio dell’Ottocento fu una fase di grande innovazione tecnologica. La meccanica vide un incessante perfezionamento dei macchinari. Dal canto suo, il settore siderurgico conobbe la rivoluzione dell’acciaio, una lega di ferro e carbonio, era conosciuta e apprezzata da tempo per la sua robustezza. Ma il grande salto di qualità della seconda rivoluzione industriale venne dalla chimica, dall’elettricità e dal petrolio. La chimica permise la fabbricazione di nuovi materiali, come l’alluminio, e diffuse la soda, i coloranti artificiali e i concimi. 

Il petrolio, combustibile di alto rendimento e facile trasportabilità, consentì l’enorme sviluppo dei motori a combustione interna: iniziava così l’era dell’automobile, che sostituì la ferrovia quale bene strategico della civiltà industriale. Si diffuse l’impiego dell’acido solforico per la preparazione di concimi ed esplosivi. 

Nel settore agricolo, grazie allo sviluppo dei trasporti, i mercati mondiali furono inondati dai cereali prodotti da Stati Uniti, Canada, Argentina, Australia. Poiché il loro prezzo era inferiore a quello europeo, si verificò una tendenza al ribasso dei prezzi agricoli in Europa. I produttori europei reagirono a queste difficoltà in due modi: da un lato chiedendo e ottenendo dai governi l’adozione di politiche protezionistiche (dazi sulle importazioni); dall’altro con investimenti per innalzare la produttività delle aziende agricole (meccanizzazioni, impego di nuovi concimi chimici). Naturalmente, solo le agricolture meglio attrezzate poterono compiere tale conversioni. 

Anche in campo industriale la crisi fu originata da sovrapproduzione. Per quanto riguarda l’offerta, ciò derivò dalla comparsa sul mercato di nuove potenze industriali, come Stati Uniti, la Germania e il Giappone, e dell’industrializzazione delle periferie europee: Austria, Russia, Italia. La massa della produzione tendeva a crescere in modo eccessivo rispetto alla domanda, che rimaneva modesta a causa del basso reddito di gran parte della popolazione. 

Nei settori che necessitavano dell’investimento di capitali molto ingenti le imprese meno dotate di capitali non sopravissero. Alcune fallirono, altre su fussero e altre furono assorbite da aziende maggiori. Tutto ciò contrastava con la teoria della libera concorrenza e favoriva la nascita di monopoli. Si verifica una situazione di monopolio quando c’è solo un venditore a fronte molti compratori. 

Prima della rivoluzione industriale la maggior parte della popolazione era addetta all’agricoltura e a vivere nelle campagne. Con la nascita e lo sviluppo delle fabbriche molti si spostarono andando a vivere nelle città. Inizialmente le condizioni igieniche lasciavano molto a desiderare. Il sistema delle fognature fu costruito, nelle grandi città europee, solo nel corso dell’Ottocento.

Si affermarono i primi trasporti pubblici, per collegare i quartieri delle grandi città: dapprima i tram trinati dai cavalli, poi quelli elettrici e, sul finire del secolo, le ferrovie metropolitane. Il trasferimento di grandi masse nelle nuove città dell’età industriali, produsse una profonda trasformazione anche sul piano dei rapporti sociali. 

Se osserviamo i loro abitanti dal punto di vista dell’occupazione, dl reddito e della loro collocazione nella scala sociale, vediamo che le città presentavano un quadro molto più articolato del passato. Un tempo, infatti nelle città vivevano prevalentemente nobili e uomini di Chiesa, ricchi borghesi, domestici e poveri, più una minoranza di artigiani e operai. 

L’industria degli svaghi e dei divertimenti diventava sempre più ricca e piena di novità con il circo, l’operetta, il cinema: la più recente forma di intrattenimento inventata nel 1895 dai fratelli Lumière in Francia. Nei paesi più progrediti bnacquero i moderni sistemi di istruzione pubblica.

Con l’avvento della società industriale di massa mutarono in modo profondo anche le istituzioni e la concessione stessa della vita politica. Le masse, infatti, entrarono sulla scena della storia non più in forma episodica, come era stato nella Rivoluzione francese e nei moti ottocenteschi, ma in modo stabile e duraturo. 

Strumento di questa trasformazione fu il suffraggio universale maschile. Come organizzare la vita politica della nuova società industriale di massa? Strumento organizzativo e politico di questa trasformazione fu il partito di massa.

I primi a creare partiti secondo questo modello furono i socialisti. L’industrializzazione acrescendo la file della classe operaia e, soprattutto, concentrando grandi quantità di lavoratori in fabbriche, favorirono la nascita di organizzazioni di massa del movimento operaio: i sindacati, che organizzavano rivendicazioni e scioperi anche di milioni di lavoratori, e i partiti, in cui il movimento socialista vide uno strumento capace di dare ai lavoratori l’unità e la forza per incidere sulla vita politica nazionale, ottenendo miglioramenti e riforme. 

Sulla strada si mossero anche i cattolici. Leone XIII, papa dal 1878 al 1903, aveva compreso che la chiesa non poteva rimanere estranea ai problemi sociali posti dall’industrializzazione.

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L’ITALIA DAL 1861 AL 1914

Nei primi quindici anni successivi all’unità, dal 1861 al 1876, l’Italia fu guidata da un raggruppamento politico, la cosiddetta Destra storica, che era espressione dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata del Centro-Nord del paese. Furono questi uomini (a cominciare da Bettino Ricasoli, capo del governo dopo l’improvvisa morte di Cavour, 6 giugno 1861) ad affrontare l’insieme di problemi che la vita del nuovo stato italiano presentava. 

Il primo di tali problemi era il compimento dell’unità, cui mancavano ancora il Veneto, dominio austriaco, e Roma, soggetta al potere temporale del papa, che aveva rifiutat di riconoscere il nuovo stato. 

E se l’annessione del Veneto fu ottenuta abbastanza facilmente, grazie all’ellenza con la Prussica nella guerra contro l’Austria del 1866, assai più spinosa era la questione romana, perché agire con la forza avrebbe significato mettersi in urto con Napoleone III, tradizionale difensore del papato. Solo dopo la caduta dell’imperatore francese il governo italiano si decise all’azione: il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma, che fu annessa allo stato italiano. 

Un secondo ordine di problemi riguardava l’aspetto istituzionale e amministrativo: quali istituzioni avrebbe avuto il nuovo stato unitario? L’alternativa che si pose alla classe dirigente fu quella fra accentramento e federalismo. Fu seguita la prima via.

Il governo della Destra realizzò in primo luogo l’unificazione monetaria e finanziaria, trasformando la lira piemontese nella moneta nazionale. Poi sviluppò una robusta politica di investimenti pubblici, soprattutto nel settore ferroviario, ottenendo risultati di rilievo. Questa politica fu resa possibile in parte ricorrendo a prestiti esteri, ma soprattutto grazie a un pesante inasprimento del prelievo fiscale.

La Destra non seguì certo una politica favorevole alle popolazioni meridionali. Sono queste le condizioni sociali in cui si colloca il grave fenomeno del brigantaggio, che insanguinò il Mezzogiorno sino al 1865. le bande dei cosiddetti briganti prendevano di mira i politici locali, assaltando le loro fattorie, devastanzo e uccidendo; incediavano gli archivi comunali per distruggere i documenti fiscali e di leva. La risposta del governo fu la repressione militare.

Il ceto politico della Destra omogeneo, ma espressione di una base sociale estremente esigua. Le legge elettorale sarda, adottata anche in Italia, prevedeva un suffraggio molto ristretto in base al censo: solo l’1.9 per cento degli italiani aveva diritto di voto. Anche in Italia si pose l’esigenza di un ampliamento del diritto di voto: ed era questo il primo punto del programma elettorale che la Sinistra presentò nel 1875. 

Gli alti erano il decentramento amministrativo, l’istruzione obbligatoria, una maggiore giustizia fiscale. Su questo programma la Sinistra vinse le elezioni del 1876 e andò alla guida del paese. 

Nel raggruppamento politico denominato Sinistra confluivano in realtà uomini di diversa provenienza e orientamento: vi erano liberali riformatori, come il nuovo capo del Governo Agostino Depretis; rappresentati della borghesia settentrionale, terrieri meridionali; vi erano ex garibaldini e mazziniani, come Francesco Crispi.

Tra le riforme effettuate dalla sinistra una volta salita al potere ricordiamo:

scuola elementare obbligatoria (rif. Coppino);

soppressione tassa sul macinato;

abolizione corso forzoso;

riforma elettorale: votavano gli uomini con più di 21 anni con il biennio elementare o paganti almeno un’imposta annua di 19.80 lire;

prime riforme sul lavoro: infortuni, sciopero, lavoro minorile e orari.

Nel gennaio del 1878 era morto Emanuele II e gli era succeduto il figlio Umberto I (1878-1900). Gli ambiziosi programmi del governo cozzarono contro una situazione internazionale sfavorevole e, per quanto durante l’età di Depetris (1876-87) si registrasse un inizio di industrializzazione, lo sviluppo economico generale dell’Italia fu inferiore alle speranze e coincise con la grave crisi agricola degli anni Ottanta. 

Inoltre, per assicurarsi di volta in volta una maggioranza in parlamento, egli accentuò il cosiddetto trasformismo, contribuendo a rendere ancora più incerta la linea di demarcazione tra destra e sinistra e tra i vari gruppi basati su antagonismi regionali e clientelari. 

Per adeguare la politica estera italiana a quelle delle potenze europee venne iniziata un’azione coloniale. Sotto la pressione inglese, nel 1882 l’Italia acquista la baia di Assab e comincia la sua avventura coloniale (in contrapposizione ai principi risorgimentali). 

Nel 1885, dopo la forzata rinuncia della Tunisia, si indirizzò verso la conquista dell’Eritrea. La mancanza di riguardi della Francia verso gli interessi mediterranei dell’Italia provocò un deterioramento nei rapporti italo-francesi, favorendo l’orientamento della diplomazia italiana verso Berlino e Vienna, così da portare nel 1882 alla stipulazione della Triplice Alleanza. 

Questo indirizzo politico ebbe il suo più intransigente sostenitore in Francesco Crispi. Dopo aver abbandonato la sinistra, egli era entrato nel gioco del trasformismo che nel 1887 gli consentì di succedere a Depretis. 

Crispi accentuò il protezionismo economico in chiave essenzialmente antifrancese, provocando una guerra doganale e che ebbe effetti disastrosi sulla produzione agricola, soprattutto meridionale. Egli cercò inoltre di instaurare un regiome forte non privo di apertura riformatrici, ma soprattutto teso alla ricerca di una nuova grandezza coloniale che avrebbe definitivamente travolto nel disastro di Adua (marzo 1896). 

La notizia della disfata di Adua giunse in un’Italia in preda al timore di una rivoluzione sociale, sollevato dal dilagare degli scioperi agrari e dall’occupazione violenta delle terre culminata nelle imponenti rivolte siciliani dei fasci. 

Vi fu un tentativo di reazione autoritaria che vide la militarizzazione dei pubblici dipedenti, la chiusura delle principali università, lo scioglimento delle principali università, lo scioglimento di associazioni operaie e filantropiche, la soppressione di vari giornali, l’arresto e la condanna di tutti i leaders di sinistra. 

Al di là della fallimentare impresa coloniale, il governo di Francesco Crispi indirizzò il sistema politico italiano in direzione di un rafforzamento dello stato e di un marcato autoritarismo. 

Crspi realizzò importanti riforme (miglioramento dell’efficienza della burocrazia; ampliamento del diritto di voto nelle elezioni locali; eleggibilità dei sindaci; riforma della sanità e della pubblica assistenza).

Fra il 1896 e il 1908 l’economia italiana conobbe una fase di crescita e di profonde trasformazioni: è in quell’epoca che si situa il decollo industriale italiano. Grazie alla protezione doganale il settore tessile, l’industria saccarifera, l’industria siderurgica e l’industria idroelettrica conobbero una forte crescita. 

L’industria meccanica crebbe, specie nella produzione di materiale ferroviario, turbine e caldaie, utensili di precisione, macchine da cucire, macchine per scrivere e, soprattutto, automobili: nel 1899 nacque la FIAT, Fabbrica italiana automobili Torino. Il decollo industriale di fine Ottocento avviò la trasformazione in società industriale in grado di competere sui mercati internazionali. 

Tuttavia questo sviluppo fu caratterizzato sin dall’inizio da pesanti squilibri: il protezionismo ebbe l’effetto di approfondire il divario fra la produttività dell’agricoltura settentrionale, già sviluppata e capace di rinnovarsi tecnicamente, e quella meridionale, che al riparo della tariffa doganale potè sopravvivere senza rinnovarsi.

Giolitti, ministro dell’interno nel 1901-03 e poi presidente del consiglio, con brevi interruzioni, sino al 1914, mirò a unire sviluppo economico e libertà politica. Modificando un atteggiamento repressivo abituale sin dall’unità, lo statista piemontese mantenne il governo in posizione di neutralità. 

L’altro polo della strategia giolittiana era rappresentato dalle riforme sociali ed economiche, quali tutela del lavoro di donne e fanciulli, miglioramenti dell’assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà del riposo settimanale e la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita (1912) attraverso l’istituzione di un apposito ente, l’Ina (Istituzio Nazionale Assicurazioni).

Il primo atto della storia coloniale italiana fu l'acquisto della baia di Assab nel mar Rosso, nel 1869. Peraltro si capì ben presto che gli interessi economici erano ben limitati. Nel 1885 seguì la facile occupazione di Massaua andata a buon fine più per la rinuncia a difendersi decisa dai capi abissini impegnati nel contrasto con i sudanesi che minacciavano di occupare la parte settentrionale dell'Etiopia, che per il puro merito dell'azione orchestrata da Roma.

La conquista della Libia (1911-12) comportò spese ingentissime, provocò oltre 3000 caduti e costrinse l’Italia a fronteggiare l’endemica guerriglia islamica. La Libia non aveva al momento grande rilievo economico, né come fonte di materie prime, né come occasione di impiego per i lavoratori italiani. 

Nel luglio del 1912 la marina italiana occupava, dopo quattro secoli, Rodi e le isole del Dodecaneso appartenenti alla Turchia. Quest’azione era il risultato indiretto dell’intervento in Libia per cui Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio dei Ministri del Governo Italiano aveva intessuto una abile ragnatela diplomatica. 

Egli infatti prese accordi con la Francia, concordando anche un'eventuale espansione francese nel Marocco in cambio del consenso ad una eventuale penetrazione italiana in Tripolitana e Cirenaica, territori ormai solo debolmente controllati dalla Turchia. Nel 1913 si tennero le prime elezioni a suffragio maschile della storia italiana.

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