Uno dei ritornelli più fastidiosi che ci sentiamo ripetere ogni volta che parliamo di indipendenza padana sostiene che il Risorgimento sia stato opera di settentrionali, che l’unità ce la siamo voluta noi e che perciò ce la dobbiamo sugare fino in fondo.
E’ sicuramente vero che i personaggi più in vista, i
cosiddetti “padri della patria“, erano - ahinoi - di queste
parti: Vittorio, Cavour, Mazzini e Garibaldi erano tutti prodotti di
questa terra, un po’ scadenti ma nostrani.
E hanno anche ragione i Meridionali migliori a incazzarsi per quello
che è stato fatto, per l’occupazione militare del Sud, per
quei mille sciagurati che erano in gran parte bergamaschi e bresciani.
Hanno mille ragioni per le canagliate dei Nino Bixio e dei Cialdini,
per le porcate dei campi di sterminio come Fenestrelle, per la
distruzione della loro economia, per il doloroso corollario di
oppressione e di miseria che ha costretto in mezzo secolo
all’emigrazione un quarto della popolazione totale delle Due
Sicilie.
Ma attenzione: i nostri popoli hanno subito le stesse oppressioni, gli
stessi massacri (a Genova, a Torino, nelle Legazioni, eccetera), hanno
pagato l’unità con la stessa moneta di miseria, guerre,
pellagra ed emigrazione.
Decine di migliaia di nostri ragazzi sono stati mandati al Sud a fare
una guerra che non capivano, contro gente che non gli aveva fatto
nulla: solo oggi, dopo più di un secolo, vengono fuori le prime
dolorose verità su quel periodo di vergogna e si cominciano a
conoscere non solo i massacri e le canagliate contro i resistenti
meridionali ma anche le sofferenze dei coscritti padani, il numero
enorme delle diserzioni, dei suicidi e dei passaggi fra le file degli
aggrediti.
Il più noto esempio finora noto è quello del biellese
Carlo Antonio Gastaldi ma cominciano a venire fuori i nomi di tanti
altri che si erano ribellati all’ignobile compito cui erano
forzati.
In quella sporca guerra gran parte dei peggiori nemici dei Meridionali
era però composta da loro compatrioti: Liborio Romano (che aveva
promosso i camorristi alla funzione di poliziotti) era napoletano, il
generale Ferdinando Pinelli (massacratore di contadini inermi e
decorato di medaglia d’oro dai Savoia per questa sua
attività di macellaio) era romano,
Giuseppe Pica (l’inventore della famigerata “legge
ammazzabriganti” che aveva legalizzato lo sterminio, che
autorizzava la formazione di “polizie private“, gli
“squadriglieri” organizzati dalle peggiori consorterie
mafiose) era dell’Aquila, i peggiori aguzzini della loro gente
erano i volontari locali, come “cavalleria nazionale” del
pugliese Davide Mennuni, o la Guardia Nazionale, nella quale brillavano
fior di delinquenti come il capitano avellinese Michele Tagle che
addirittura estorceva soldi alle sue vittime.
Ma gli stessi ideologi dell’unità e del centralismo
oppressivo con cui è stata realizzata erano in larga parte
meridionali. Dietro la facciata dei più noti “padri della
patria” settentrionali (in realtà una banda di babbei
scriteriati che non sapevano bene quello che facevano, o che erano
spinti da ambizioni indecenti o da deviazioni patologiche) si muoveva
una pletora di furbi intellettuali provenienti dall’Italia
propriamente detta.
Come ha sottolineato Denis Mack Smith, lo svolgersi dei fatti storici
era stato fortemente influenzato dall’azione degli esuli
napoletani “piemontesizzati” e ormai estranei al paese, che
“alimentarono la rappresentazione negativa del Sud con le loro
continue denigrazioni durante il soggiorno a Torino“.
Si sarebbe addirittura più avanti arrivati al più bieco
razzismo di un siciliano purosangue come Alfredo Niceforo che
teorizzava la inferiorità biologica dei Meridionali.
L’aspetto più paradossale in questa fosca pagina di storia
è proprio che i teorizzatori hegeliani dello Stato etico, che ha
generato l’invasione del Sud, non erano piemontesi, bensì
meridionali:
Il gruppo dei cosiddetti “settari napoletani” che nel
Parlamento aveva propugnato il peggior centralismo era formato (oltre
che da alcuni dei personaggi già citati)
Non serve poi ricordare che il progetto oppressivo nazionale sia stato definito nei suoi più tristi dettagli dall’agrigentino Francesco Crispi, garibaldino, massone e macellaio. Il peggiore centralismo ha poi sempre trovato nei burocrati meridionali (che si sono con fulminea rapidità impossessati della macchina dello stato unitario) e nei politici meridionali i suoi più fedeli paladini: gli stessi che anche oggi sembrano essere i meno sensibili a ogni riforma.
Qualche meridionalista ha cercato nell’originaria aggressione
piemontese l’alibi per tutti i successivi decenni di sfruttamento
delle risorse settentrionali e - oggi - per la negazione delle
aspirazioni padane alla libertà. Altri vi cercano capziose
giustificazioni per atteggiamenti di vero e proprio razzismo
antipadano.
Così non fanno che rafforzare un cerchio di incomprensioni e di
ingiustizie di cui tutti siamo stati e siamo vittime. E’ molto
più costruttivo sul piano politico e apprezzabile su quello
morale l’atteggiamento dei Legittimisti meridionali che vogliono
rimediare a una follia storica che ha fatto del male a tutti.
Non serve cercare chi ha costruito il carcere, ma chi ci tiene dentro.
Non serve neanche cercare labile sollievo trasformandosi in carcerieri
e infierendo sugli altri detenuti. La catastrofe risorgimentale ha
imprigionato tutti: per abbattere le mura del carcere serve la spinta
di tutti. Poi ognuno se ne torna libero a casa propria.
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