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Fonte:
https://www.srmezzogiorno.it/

Dall’Unità al secondo dopoguerra


Con la conclusione delle campagne garibaldine e il “plebiscito” del 21 ottobre del 1860, le regioni meridionali entrarono a far parte di quello che sarebbe diventato il Regno d’Italia. Da questo momento cominciò per il Mezzogiorno una nuova vita politica, sociale ed economica, dipendente da un centro posto fuori dal suo territorio, ma parte integrante di uno Stato unitario, riconosciuto nel consesso diplomatico internazionale e sorretto da moderni ordinamenti liberali.


È opinione oramai consolidata tra gli storici che il 1861 non significò affatto per l’Italia l’omogeneizzazione in tutti i rami della sua vita associata, e ciò era vero, in specie, sotto il profilo economico.


Altrettanto consolidata è l’idea che l’unità abbia accentuato il gap di partenza tra il Nord e il Sud del Paese, individuabile nella diversa dotazione di materie prime e di infrastrutture; nella dissimile fisionomia dei sistemi doganali e fiscali; nella diversa configurazione dei sistemi bancari; nel differente grado di inserimento delle due aree nel sistema degli scambi internazionali; nel diverso livello di istruzione e di cultura imprenditoriale.


Per quanto riguarda i settori produttivi, nell’agricoltura del Nord, sebbene non si fosse verificata una vera e propria rivoluzione agronomica, i rapporti e le tecniche di produzione avevano cominciato, già dagli anni Trenta, ad assumere sembianze capitalistiche, mentre al Meridione continuava a prevalere la proprietà latifondista e perduravano rapporti semifeudali e tecniche di produzione arcaiche.


Anche nel settore manifatturiero e in quello commerciale, al Sud si registrava un’allarmante carenza di iniziative imprenditoriali, anche se le più recenti ricerche sono impegnate a dimostrare che l’attrezzatura industriale del Mezzogiorno non era così debole come troppo spesso (e troppo frettolosamente) si è voluto far credere; che il suo divario nei confronti del Nord non era ancora un fenomeno irreversibile e che, pertanto, le sue potenzialità produttive sarebbero state ampiamente scoraggiate dalle scelte di politica economica dei primi governi della Destra ed in particolare dal liberismo doganale.


A ben vedere, però, la politica libero-scambista, più che agevolare la penetrazione delle imprese del Nord nel mercato meridionale, avrebbe esposto l’intera economia nazionale alla concorrenza estera: l’adozione di questo punto di vista ci porta ad abbandonare il cliché di un Mezzogiorno immolato sull’altare dello sviluppo industriale del settentrione e ad individuare le cause strutturali del sottosviluppo nella scarsa produttività del suo settore primario.


La diversa impostazione della politica economica dei singoli Stati pre-unitari si rifletteva nella difformità dei rispettivi sistemi impositivi e nella differente entità del debito pubblico.


Il nuovo “soggetto politico” nato dal processo risorgimentale dovette pertanto accollarsi il debito pregresso di tutti gli Stati regionali, per cui iniziò la propria vita finanziaria con un stock di debito pari a circa il 40 per cento del PIL. Questo deficit fu ben presto aggravato dalla negativa congiuntura internazionale e da un movimento speculativo di “aggiotaggio” sui titoli del debito pubblico italiano, che innescò a catena un processo di sfiducia dei risparmiatori nella solvibilità dello Stato italiano e delle sue banche di emissione.


Con il decreto Scialoja del 1° maggio del 1866, il governo si vide così costretto a decretare il corso forzoso della cartamoneta e ad introdurre altre pesanti misure fiscali, tra le quali la vituperata tassa sul macinato.


In definitiva, le scelte di politica economica della Destra storica, l’incapacità dell’ambiente locale di generare iniziative imprenditoriali autonome, la prevalenza nel sistema industriale di piccole imprese a base familiare, la ristrettezza del mercato interno, la mancanza di istituti di credito e di moderne infrastrutture e, infine, l’elevato tasso di analfabetismo e l’arretratezza del sistema di pubblica educazione, avrebbero precluso per molto tempo al Mezzogiorno ogni possibilità di miglioramento della produttività agricola, di espansione delle attività commerciali, di crescita industriale, di instaurazione – in una parola – di rapporti di produzione capitalistici.


Quando, tra il 1878 e il 1887, con l’avvento al potere della Sinistra depretisiana, fu finalmente introdotto il tanto invocato regime protezionistico e furono gradualmente revocate le misure di finanza straordinaria, gli imprenditori e gli economisti dovettero rendersi conto che questi provvedimenti da soli non sarebbero bastati a risollevare le sorti economiche del Sud, se ad essi non si fosse associata una nuova politica di interventi, in grado di rimuovere le diseconomie esterne, i vincoli e le strozzature che rendevano quest’area poco ricettiva agli investimenti privati.


Le tariffe protezionistiche provocarono, inoltre, immediate ritorsioni da parte dei partners europei, ed in particolare della Francia, che scatenò nei confronti dell’Italia una vera e propria “guerra commerciale”, che avrebbe gettato in una crisi irreversibile l’agricoltura del Mezzogiorno, soprattutto nei suoi comparti  più moderni ed export oriented, costringendo la classe contadina ad alimentare imponenti flussi migratori.


Per porre un freno a questa situazione di disagio, che si perpetuò sino alla fine del secolo, in età giolittiana vennero varate una serie di “leggi speciali”, contenenti provvidenze per singole regioni meridionali, in materia sia industriale sia agricola. In questo contesto, particolare rilievo ebbe la legge speciale per Napoli del 1904, con la quale si creò – con la nascita degli impianti dell’ILVA di Bagnoli - la prima area industriale del Mezzogiorno, fondata su una moderna siderurgia a ciclo integrale.


In campo agrario vennero disposte misure di alleggerimento degli oneri fiscali gravanti sulla piccola proprietà; vennero istituite forme speciali di credito agrario; furono promosse riforme in materia di contratti agrari. Per quanto animati da sinceri propositi riformistici, gli interventi del periodo giolittiano non riuscirono a risollevare il Sud dalle ataviche condizioni di arretratezza: per l’agricoltura, infatti, non vennero avviate le più urgenti opere di trasformazione fondiaria, mentre per l’industria non si posero le premesse di un meccanismo autonomo di crescita, in grado di autoalimentarsi e di coinvolgere attivamente la piccola e media imprenditoria locale.


Nel periodo tra le due guerre, l’esistenza stessa di una “questione meridionale” venne negata dal fascismo. Tuttavia, presero corpo nel “ventennio” alcune significative novità, in virtù della localizzazione nel Mezzogiorno di importanti produzioni meccaniche e siderurgiche dell’IRI. Pur con tutti i limiti di queste iniziative – che si risolsero in un potenziamento dello stabilimento siderurgico di Bagnoli e dei cantieri navali di Castellammare, nella creazione di un Centro aeronautico a Pomigliano d’Arco e di un complesso chimico a Crotone - si affermarono durante il fascismo alcuni principi chiave della moderna teoria dello sviluppo economico: in primo luogo la necessità dell’esercizio diretto di attività industriali da parte dello Stato, in funzione espansiva e non solo di risanamento; in secondo luogo, il riconoscimento che il processo di sviluppo di un’area arretrata dovesse far leva soprattutto sull’impianto di industrie di beni strumentali e non soltanto su semplici industrie di beni di consumo.


A fronte di questi interventi in campo industriale restava in vita una discutibile e asfittica politica agraria, che, continuando a fondarsi sulla cerealicoltura, accentuò la situazione di disagio dei contadini meridionali. Le due direttrici della politica agraria fascista – sintetizzabili nella “sbracciantizzazione” e nella “ruralizzazione” - consentirono infatti al regime mussoliniano di raggiungere, contemporaneamente, obiettivi di natura politica ed economica, ma non promossero affatto uno sviluppo capitalistico del settore agricolo.


Alla fine del secondo conflitto mondiale diversi indicatori macroeconomici testimoniavano che la struttura socio-economica del Mezzogiorno continuava a presentare molte caratteristiche tipiche delle aree “marginali” di un paese industrializzato.


Il settore primario, infatti, contribuiva più di ogni altro alla formazione del PIL di quest’area, mentre l’apporto in termini di reddito dei diversi comparti industriali era nettamente inferiore alla media nazionale. Anche nella fase della ricostruzione, quando perfino le possibilità di ripresa e di riconversione del sistema industriale delle regioni settentrionali sembravano scarse, l’idea di sviluppare nel Mezzogiorno un comparto industriale moderno, che gradualmente assorbisse l’eccesso di manodopera contadina, veniva considerata con grande scetticismo da quasi tutti i settori della classe politica e della società civile.


Tuttavia, era ormai nell’industria - più che nell’agricoltura - che si coglievano i segni del ritardo del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia, giacché continuava a prevalere al Sud una struttura prevalentemente artigianale e continuavano ad avere un peso predominante i comparti più tradizionali e legati all’agricoltura, ovvero l’alimentare e il tessile.


Orientata in prevalenza verso un mercato locale, difesa dalla concorrenza delle imprese del Nord grazie alla “diseconomia esterna” di una rete di trasporti inefficiente, caratterizzata da una netta prevalenza di settori tradizionali e di piccole dimensioni, l’industria meridionale necessitava, più di ogni altro settore, di una politica di intervento attivo da parte dello Stato.


Negli anni Cinquanta, invece, sarebbe prevalsa la scelta “agriculturista”, o al massimo di promozione delle infrastrutture, che avrebbe relegato il Sud in una situazione di dipendenza quasi coloniale nei confronti delle aree più industrializzate del paese.


Viceversa, un’azione mirante a superare gli squilibri tra il Mezzogiorno ed il resto d’Italia avrebbe dovuto affrontare congiuntamente tre problematiche: quella dei ritardi strutturali dell’agricoltura, quella della trasformazione dell’industria in un settore moderno, quella dell’eccesso di popolazione, il che non avvenne in nessuna fase del periodo post-bellico.


Se, infatti, nei primi anni l’intervento del governo fu essenzialmente rivolto alla soluzione della questione agraria, con risultati nel complesso positivi in termini produttivi, gli interventi a favore dell’industria furono estremamente limitati e la stessa politica delle infrastrutture non fu articolata in modo da creare le premesse per il decollo industriale.


Infine, anche il problema della sovrappopolazione non fu affrontato in modo efficace, per cui esso avrebbe trovato una soluzione “spontanea” solo grazie all’avvio di imponenti flussi migratori.


L’unica voce che uscì dal coro, rispetto a questa impostazione ideologica e metodologica di politica economica, fu quella dei “nuovi meridionalisti”, i quali, ispirandosi alla lezione nittiana, ritenevano che per far uscire il Mezzogiorno dalle secche dell’arretratezza non si dovesse continuare a lasciare agire liberamente le forze di mercato.


Se, dunque, il “vecchio meridionalismo” di stampo liberale aveva visto nella politica dello Stato unitario una delle cause prime dell’arretratezza meridionale, il “nuovo meridionalismo” riteneva che la questione meridionale andasse risolta con la scelta di opportuni strumenti tecnici, approntati attraverso un intervento pianificato e programmato dello Stato, che puntasse direttamente all’industrializzazione, attraverso una politica volta a modificare le convenienze dei privati, rendendo profittevole la localizzazione di nuovi investimenti nel Mezzogiorno, creando e attivando i “fattori di agglomeramento” idonei a far affluire spontaneamente risparmio privato da investire nella produzione industriale.


Ruolo “salvifico” dello Stato, superamento della legislazione di emergenza, uso del “moltiplicatore” come acceleratore dello sviluppo: sono questi gli ingredienti del keynesianismo italiano degli anni ’50, che avrebbe trovato nella nuova politica meridionalistica il suo teatro d’azione e nella Cassa per il Mezzogiorno (istituita con la legge n. 646 del 10 agosto 1950) il suo principale strumento d’intervento.


Occorre dire, tuttavia, che in una prima fase l’agricoltura assorbì la quota principale di stanziamenti della Cassa, giacché questa si sarebbe assunta l’onere - previsto dalle leggi di riforma fondiaria della fine del 1950 - di approntare un programma poliennale e straordinario di opere e iniziative pubbliche a favore delle zone depresse e di dar vita ad una politica di coordinamento degli investimenti pubblici in agricoltura.


Per quanto concerne l’industria, il nuovo organismo - in aderenza ai propositi del legislatore e alle teorie del sottosviluppo allora in voga di Nurske e di Rosenstein Rodan - continuò per molto tempo a focalizzare l’attenzione sulla politica delle infrastrutture e delle opere pubbliche come campo elettivo di intervento statale.


Il Mezzogiorno fu così dotato di una più intensa ed efficiente rete di servizi di interesse generale (strade, acquedotti, ferrovie, bonifiche), primo passo di una successiva politica di sviluppo manifatturiero. La Cassa del Mezzogiorno, pertanto, finì per riflettere solo in parte la linea di pensiero dei “nuovi meridionalisti”, giacché la filosofia che sovraintendeva al suo funzionamento era chiaramente di pre-industrializzazione, mentre una politica di sviluppo industriale vero e proprio avrebbe richiesto l’individuazione di precisi obiettivi (quali, ad esempio, un dato tasso di crescita del reddito, dell’occupazione, degli investimenti), nonché di specifiche risorse, di specifici strumenti e di tempi certi per la loro di realizzazione.












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