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LE MIE LETTURE di Bartolomeo Di Monaco: Carlo Alianello: "L’eredità della Priora". Feltrinelli, 1963

"L’eredità della Priora"

di Bartolomeo Di Monaco

Siamo nella seconda metà dell’800. Gerardo Satriano ha le mani inguantate; siede al bar, si preoccupa di non aver in tasca abbastanza soldi per pagare il conto, quando lo avvicina un vecchio amico, Massimiliano (Max) Schaub, “non più un giovanotto” e “uno che sa il fatto suo.” Ce li hai i soldi per pagarmi il conto? Non devi preoccuparti di nulla, gli assicura Max, piuttosto ti piacciono le polacche? Le femmine polacche?

Comincia così questo romanzo del 1963 di uno scrittore quasi dimenticato (Roma 1901–1981), che ha dedicato molta attenzione alle problematiche del sud Italia, sia con questo libro che, ad esempio, con “L’alfiere” (1943) e “Soldati del re” (1952). L’ambientazione è a Napoli e poi, per la parte più consistente, in Basilicata, nella provincia di Potenza, e Alianello farà uso abbondante, non soltanto nei dialoghi, del dialetto napoletano e potentino che, come si vedrà, daranno un saporito profumo ed un vivace colore al suo stile.

Da poco il “Reame” delle Due Sicilie è passato sotto Casa Savoia, ma non tutti hanno accettato l’esito del plebiscito. Max tra questi. La polacca di cui ha parlato con Gerardo è Katia, “‘A iatta”, la gatta, una cospiratrice, insieme con altri, che vuole ripristinare il vecchio ordine. Nella sua casa si riuniscono alcuni congiurati, tra i quali il duca di Pepoli, don Carlo Tucco. Trascinatovi per caso, Gerardo a poco a poco viene coinvolto. Gli dirà Max: “Guagliò, qui stiamo giocando con la corda al collo. Non so se ancora te ne sei reso conto.” Dialetto e linguaggio popolare, dunque (“lo raccolse quella donna alta che le avevano ammazzato il marito.”; “Se dovesse arrivare qualcuno, i cani lo sentono da lontano e guaiolano”; “la Priora continuava a guardarlo un po’ appenata, come se volesse vedergli quello che ci ha dentro.”), contraddistinguono lo stile di Alianello, che li fonde in un modulo espressivo di grande efficacia e originalità, in cui si racchiude tanta parte della bellezza del romanzo. Originalità che resta nonostante che Gadda avesse già impresso una svolta decisiva alla libertà dello scrittore con i suoi romanzi maggiori. “La cognizione del dolore” esce, infatti, nello stesso anno de “L’eredità della Priora”, ma era già stato pubblicato in parte su “Letteratura” dal 1938 al 1941, e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” lo aveva preceduto nel 1957 (ma già apparso, sempre su “Letteratura”, nel 1946-47). I piemontesi lo cercano, Gerardo è rimasto “un borbonico sporco!” Una spiata, e manca poco che non cade nella trappola. Ci pensa il cavaliere don Michele Cataldo, che abita lo stesso pianerottolo, ad aspettarlo nascosto in strada e a dargli l’avviso. I suoi famigliari stanno bene, anche sua madre, ma lui non può tornare a casa. I piemontesi sono lì per arrestarlo. Con Katia va da Madame, la tenutaria di un bordello di lusso, anch’essa tra i simpatizzanti del vecchio regime (“madame è dei nostri: tutta per il Trono e l’Altare”), che ce l’ha con Garibaldi e i piemontesi, che si son portati al Nord tutte le ricchezze e il denaro: “Voi sapete che l’oro che noi tenevamo prima della guerra nei due Banchi, di Napoli e di Sicilia, era il doppio e più di quanto ne possedevano tutti gli altri stati d’Italia messi insieme”. Tocca a lei e alle sue allegre ragazze di farlo ritornare, quel denaro: “Qua noi sole salviamo la situazione... Se non ci fossero le cosce delle donne, povera Napoli!”

L’atmosfera che si respira è quella delle cospirazioni segrete, ma anche la mollezza di Napoli si adagia sul lettore nelle lente situazioni che si sviluppano e nei personaggi: “Nella luce, un tavolo, tre sedie e un uomo. Questi era lungo e segaligno, tutto calvo e glabro in viso, fuorché due grosse basette arricciate che gli coprivano le mascelle; dalla fronte spoglia al mento incavato, su tutta la faccia legnosa, ostentava l’espressione annoiata e sprezzante dell’uomo di mondo.”

L’uomo, che ha un monocolo all’occhio e sfoggia un abbigliamento eccentrico, è don Alfredo de Curtis, “un mammamia che veste all’inglese. Ora mammamia vuol dire un grosso camorrista.” E don Giustino Catello, “una montagna di carne”, che ha “un ditone come una salciccia” e “se la dormiva ronfando leggero leggero”, che si trova anche lui nel bordello di Madame, lo hanno illuso che, ripristinato il vecchio Reame, sarà nominato nientemeno che “ministro e segretario di stato alle finanze...”, in realtà è un “pachioco, così si chiama a Napoli il balordo che i furbi sfruttano, il quale, per l’ambizione di diventare ministro, ora si lasciava piacevolmente mungere.”

Aianello ha già messo in risalto, non solo qui, ma pure in occasioni precedenti (si veda lo stesso Max) il collegamento tra i cospiratori e gli uomini di malaffare, e soprattutto i briganti, che hanno, anch’essi, tutto l’interesse a ripristinare il vecchio mondo, dal quale avevano ricevuto benefici e dove avevano intessuto relazioni consolidate e fruttuose. I piemontesi, secondo loro, stanno impoverendo Napoli: “manco e bastimenti possono sbarcare la merce a Napoli, perché qui ci hanno messo tasse altissime e a Genova no... Nuie pavammo; curnute e mazziate.” È sempre don Alfredo che parla, e conclude: “mille volte meglio brigante!” Dirà più avanti il canonico don Vincenzo Stella: “Banditi sì, camorristi no...”

Il brigantaggio, si sa, ha proprio le sue radici, nel Sud, generate e alimentate da questo malcontento, connesso all’arrivo dei piemontesi, considerati “invasori”.

Gerardo li sente come tali e la parola brigante lo scuote e lo attrae.

Ma prima ancora che la storia prenda l’abbrivo, noi già possiamo misurare di questo autore un talento espressivo che non è facile saper rendere a questo livello. Un esempio piccolo piccolo: “La monaca si tirò appresso l’uscio e volò via, biascicando di sotto il velo, ma il mento irto di verruche e di peli bianchi si vedeva: “Nu mumendo.” Quel “si vedeva” a fine proposizione è come la firma del pittore in calce ad un suo quadro.

Oppure: “un po’ di sonno, molto sonno.” Leggete questa frase che riassume molte delle qualità particolari della scrittura di Alianello: “La stanza era accogliente: un gran fuoco rombava nella focagna e una luce incerta, riflesso candido di neve, appena appena risicava, forzando l’impannata, di fare lì dentro chiaro.”

Gerardo è inviato in missione a Potenza, rifornito di denari, con il grado di capitano dell’esercito borbonico, però lavorerà in incognito con un documento che lo qualifica come “ingegnere delle acque e delle foreste”. Ma a Potenza l’autore ci fa incontrare un nuovo personaggio, la cui vicenda si intersecherà con quella di Gerardo, un giovane di trent’anni circa, il barone Alberto Guarna, che arriva nella città anche lui per servire Francesco II. È attraverso la sua visita al convento carmelitano che noi conosciamo per la prima volta la Madre Priora: “Dietro un tavolino e su un seggiolone a braccioli, più rigida dell’alto schienale al quale non s’appoggiava, stava una vecchia suora a guardarlo fisso, con occhio benevolo. Il velo le ombreggiava il viso, ma non glielo copriva, cosicché le fattezze ci apparivano tutte e le rughe anche. Un viso, più che vecchio, antico, ma bello ancora per il caldo pallore, la finezza dei lineamenti, e un certo che di dignità riservata e signorile, d’una pace duramente conquistata forse, ma pace, d’una vita mai incisa da passioni, né sconvolta da errori.” Che è descrizione delicata e bellissima. Il suo nome è suor Agnese di Gesù, è un po’ sorda e viene assistita da madre Giovanna di Santa Teresa, di circa cinquant’anni, “ricevitrice nella comunità”. Il loro modo di parlare, così come già abbiamo visto in altri personaggi, fonde armoniosamente insieme lingua e dialetto, rimarcando una meridionalità di antiche e profonde radici. Della Priora si leggerà più avanti che era “una santa con tanti difetti.”; “na vera capa tosta...”

Come Gerardo, pure Andrea, pure la Madre Priora sono assaliti da continue riflessioni, come se parlassero, in quel momento, a voce alta con se stessi. Una sottolineatura di Alianello per offrirci più di una chiave di lettura dei suoi personaggi, quasi li volesse collocare in una zona fuori del suo dominio. Liberi e più vicini a noi piuttosto che all’autore.

Andrea introduce la devozione e il sentimento religiosi nel romanzo (lo zio-cugino don Matteo, dirà di lui: “Tutto clericume è.”), più ancora, e forse più intimi, almeno fino ad un certo punto, di quelli provati dalla Madre Priora, di cui è parente, sebbene alla lontana. La Priora, che – come più avanti farà il canonico Stella nei riguardi dell’indifferenza e del mutismo della Chiesa - non manca di lanciare frecce contro la corruzione del clero (“Sacerdoti veri ne conosco sì e no uno o due”), trova il modo di farlo restare a Potenza, non in incognito e vestito da capraio come si era malamente presentato a lei, ma con il suo titolo e nel suo vero aspetto. La scusa è che i piemontesi fra poco chiuderanno i conventi e lei, zia di Andrea, ha bisogno, ritirandosi nel suo palazzo, che “un congiunto si curi di me.” Eppoi, da poco è morto suo fratello Donato (lo troveremo verso la fine con il nome di Tommaso), che ha lasciato una appetibile eredità. Perciò è naturale che un Guarna sia venuto a Potenza per “badare ai suoi interessi”, visto che “voi siete l’unico mio parente utile”. Il fratellastro Don Matteo, ateo, liberale e frammassone, schierato dalla parte dei piemontesi, ma con una odiosa ambiguità, si staglia, infatti,  all’orizzonte come colui che lotterà fino in fondo - e lo si vedrà nel momento in cui la Madre Priora si deciderà a fare testamento (“Quella, ci fa l’ultimo scherzo”; “Io mi dovrei rassegnare?”) - per assicurarsi tale eredità, che consiste, come dice il canonico don Vincenzo Stella in “qualche masseria, molte difese per il pascolo, greggi, un po’ d’armenti, qualche vigna e qualche casale. È agiatezza, per quel poco che la campagna rende, ma ricchezza no.” In realtà, sapremo più avanti che si tratta in tutto di un valore di circa cinquecentomila ducati, “una somma grossa.”, e lo stesso don Vincenzo ammetterà: “È un’eredità considerevole in terre, fabbricati, beni mobili e immobili.”

La storia passa ininterrottamente attraverso il romanzo, con il suo bene e il suo male, ed anzi ne diviene presto protagonista, più delle vicende dei singoli personaggi, e quando al convento carmelitano si presentano le autorità per prendere possesso, per conto del Demanio, dell’edificio religioso, non possiamo trattenerci dal pensare ai corsi e ricorsi vichiani.

La coralità dell’affresco si allarga proprio nel momento in cui la Madre Priora, ritiratasi nel palazzotto avito, comincia a tessere, quasi invisibile e immota, la sua tela di padrona abituata a comandare. Sarà ricorrendo a lei che spesso i personaggi troveranno una risposta alle loro ansie, incertezze e paure.

Nella stessa casa vive anche il fratellastro don Matteo, che ha una figlia, Isabellina, che “aveva il naso piccolo, dritto, con le narici un po’ aperte, sensibili, e gli occhi cupi, fondi, che guardavano dritto, franchi, ma senza cordialità.” La Madre Priora ricorda al fratellastro la sua condizione di figlio nato dal secondo matrimonio del padre (il quale “Figuratevi che avrà lasciato al mondo cinquanta o sessanta figli, un pizzico qua, un pizzico là, per ogni casa del paese. Non qui a Potenza, al paese.”), con “la figlia di un cafone”, nonché i suoi trascorsi di liberale che avevano indotto il padre a diseredarlo e privarlo del titolo nobiliare.

Ebbene, lei può rimettere in gioco tutto, ossia fare testamento e nominare sua unica erede Isabellina, se questa si accasa. Per esempio: sposando il cugino Andrea, che è barone e può ridarle anche il titolo.

Gerardo, di cui avevamo perso le tracce, intanto è arrivato a Potenza e marcia in groppa ad un “cavallino di Puglia, dal piede agile”, in testa a “una truppa di cafoni” che provengono da Ripacandida (da cui discende il ramo baronale di Andrea) e da Avigliano, cafoni che, annota l’autore lasciando un segno degli usi e costumi del tempo, “si riconoscevano dalla differente foggia del corpetto.”

Sono i territori e i tempi che saranno esplorati più tardi da Raffaele Nigro e, così, quando leggiamo i nomi dei fiumi Bradano e Basento, riusciamo a rievocare anche le gesta narrate da questo bravo scrittore lucano.

I percorsi di Andrea e di Gerardo, dunque, sono destinati ad incontrarsi.

Ripacandida è una delle prime terre che si ribella ai piemontesi e innalza di nuovo la bandiera gigliata dei Borboni. A liberarla, come arringa alla “plebe tumultuante” Crocco, un “gigante nero”, alto, massiccio, enorme” “battendosi il petto, sotto la grande barba corvina”, è la massa “dei zappaterra”, armati di bastoni, falci, pennati, schioppi, accette: “Guagliò, mò fernisce la rivoluzione dei galantuomini e comincia quella della povera gente... Comincia qua, la rivoluzione delle pezze al culo!”

Dovunque arrivino gli zappaterra (“detti anche caini, siccome sono razza maledetta”) fanno paura; sono determinati a ripristinare il vecchio reame, convinti che i piemontesi sono venuti al Sud per impoverirli. Del resto, anche tra i liberali, i latifondisti, “i capintesta”, i “sopracciò”, ossia quelli “che tengono in mano il pane di tanta gente”, serpeggia del malumore nei confronti dei nuovi padroni, e qualcuno non è del tutto convinto di essersi schierato dalla parte migliore, dopo che per generazioni la sua famiglia era stata fedele ai Borboni.

Come all’orizzonte di Andrea spunta la figura, non ancora ben definita, di Isabellina, all’orizzonte di Gerardo appare una ragazza delineata magistralmente da Alianello, che subito ci conquista, Juzzella, Juzzella Esposito, “una bella figliola”, “bella davvero”, la quale fa la serva in casa di don Gennaro Coronato, uno dei maggiorenti più rispettati, un “sopracciò”, il quale ne dispone facendola giacere la notte con gli ospiti importanti della sua casa. È per questo motivo che la notte in cui Gerardo è ospite da don Gennaro lei bussa alla porta ed entra nella sua stanza “E senza arrossire, compostamente, cominciò a sciogliersi i legacci del corpetto.”

L’affresco che Alianello compone va sempre più somigliando a un grande mosaico le cui tessere sono rappresentate da minimi episodi come questo, quasi sussurrati; non vi si incontra mai il grido, l’asprezza dell’urlo e della disperazione, ma un disegno compiuto con lenti tratti, amati e accarezzati sempre al loro apparire, come al realizzarsi di un desiderio nascosto che prende forma, un sogno che si tramuta e si può toccare grazie alla magia della parola.

Un altro esempio, lo possiamo fare, tra i tanti: il pranzo in casa di don Pasquale Forogna, un maggiorente che ha invitato Gerardo con lo scopo di ingraziarselo, come già aveva fatto don Pasquale, visto il titolo e l’incarico con cui si è presentato a loro. I ritratti dei commensali sono di una fattura squisita e così l’atmosfera che vi regna: “finché giunsero gli antipasti e gli strascinati, ché allora cambiò scena, la cortesia fu messa da parte e la gente riprese ognuno la sua faccia ch’era stizzosa e impensierita. Occupati a mangiare, non si nascondevano più.” Più avanti troveremo un altra tavolata ben descritta, allorché i cospiratori borbonici si ritrovano, di sera, sotto la pergola in casa di Roccuzzo Sfregola per organizzare, guidati da don Ciccio Ventura (“che è come il fato, come Dio”), la resistenza ai piemontesi (“Adesso ci tocca fare come prima facevano i liberali.”) nonché punire i traditori, coloro che hanno venduto il meridione agli invasori: “di questa mala razza, fossero pure mio padre o mio figlio, non uno ha da sopravvivere.”

Si è già detto che dalla scrittura e dai vividi dialoghi è disegnata tutta la meridionalità dei personaggi e dell’ambiente. Basterebbero da soli a darci un’idea assai puntuale e precisa di com’era la vita in quegli anni di fine Ottocento, e di come lo sia ancora oggi da qualche parte. Leggete che cosa dice un servitore a Gerardo: “Gli uomini sono usciti tutti, Eccellenza; e allora chiudono dentro le femmine e gli lasciano il cane.”

Al pranzo che Gerardo ha consumato in casa di don Pasquale, “non c’erano donne a far servizio”, ma solo uomini, e anche sedute a tavola c’erano soltanto donne anziane, mentre le giovani erano tenute nascoste: “non ne avevano per casa o per prudenza, per decoro o secondo l’usanza, le avevano mandate a mangiare in cucina.”

Il lettore che ami circondarsi anche delle atmosfere che palpitano intorno ad una storia, qui trova il suo habitat più rigoglioso e fecondo, tanto da richiamare alla mente romanzi più famosi, come, ad esempio, “I Viceré” di Federico De Roberto e “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di fronte ai quali, tuttavia, la tessitura e la cura che qui vi prodiga l’autore non sono certo da meno, egualmente degne di annotazione.

Le furberie, la codardia, le paure, i voltafaccia dei “gattopardi”  di questo lembo di terra lucana, esplodono con l’arrivo dei reazionari. Il popolo assiste impotente, rassegnato dalle ragioni prevaricatrici della storia: “Per la strada la gente era poca; qualche donna sull’uscio col bambino in braccio; una frotta di monelli che correva su e giù, ma frettolosa, senza strilli, come chi si muove ad eseguire un ordine, non a giocare; uomini qua e là coi visi chiusi e con le grinte dure, che pareva bighellonassero, ma si guardavano attorno e improvvisamente sparivano nei vicoli.”

Sono pronti tuttavia ad acclamare il vincitore, come a Rapolla, dove arrivano i borbonici: “gran festa di popolo.[...] La gente urlava: ‘A morte i gatti! Morte ai liberali! Viva Francesco II!’” e ad armarsi per ingrossare le file degli insorti: “I cafoni che avevano svaligiato l’armeria della guardia nazionale, avevano tutti il loro fucile a tracolla o bilanciato su una spalla e la giberna coi fregi dei Savoia e le due lettere d’ottone G.N. che gli sbattevano sulle natiche.”

Oppure a Melfi: “Morte a Gallibardo!”

Tutta questa esultanza è comunque “l’eco d’una interminabile agonia”, giacché si sa che “il nuovo regno d’Italia fino a quel punto non aveva mosso che un minimo della sua vera forza, esercito e gendarmeria, contro la massa sbracata e stracciona dei cafoni che si facevano chiamare reazionari, patriotti o partigiani e la partita vera ancora doveva cominciare”.

A Melfi, le strade di Gerardo e di Andrea s’incontrano. Non è la prima volta che si vedono, apprendiamo. Andrea ha il grado di maggiore ed è infastidito dalla troppa confidenza che il capitano Gerardo si prende nei suoi confronti, visto che è un suo superiore.

Comincia il momento delle battaglie, dello scontro tra i piemontesi e l’esercito dei cafoni, che avviene alle porte del paese di Barile. Alianello osserva la scena dalla parte dei cafoni (gli “scutariani, che sono gli abitanti di Barile), alcuni dei quali sono asserragliati nella casa di un cacciatore, Carminuccio. Quando questi, unitosi ai borbonici, viene colpito e muore, il canto funebre (”i guatimmi”) della moglie (“quasi bella, come un’immagine antica, prima dei romani, dei greci, forse...”) si leva straziante per la casa e reca con sé l’orgoglio e la disperazione della povera gente: “Che te credive, né? Che te credive? Pò vince lu cafone, Carminuccio?”

Stancone, un cafone che ha i gradi di colonnello, spiega ad Andrea, che vorrebbe tenere a freno la truppa sguaiata dopo la momentanea vittoria sui piemontesi: “Se al cafone non gli lasci fare ammuina, stanotte, lui piglia e se ne va. Voi siete un signore e ste cose non le potete capire.. Lui, per questo... il cafone per questo combatte e magari ci lascia la pelle... per rifarsi”. Alianello è in questo modo, attraverso soprattutto i dialoghi, che ci presenta le ragioni di una ribellione del popolo meridionale al nuovo regno d’Italia.

Dopo Gerardo e Andrea, è un amico di quest’ultimo, Ugo Navarra, “primo tenente dell’esercito del Re”, ad occupare la scena. Ha l’animo del poeta, imbevuto di classici, conosce il latino e ogni tanto cita qualche autore del passato, come Orazio, nativo di quelle parti. Sono, i tre, personaggi che rappresentano altrettante sfaccettature di quella guerra che si oppone al cambiamento, e reclama il diritto a perseverare in una condizione e stratificazione sociali consolidatesi nei secoli: perfino in quei miti e in quelle superstizioni che si perdono nella notte dei tempi, come quella che coinvolge Ugo, il quale, avendo baciata la moglie di Carmelo, Maria Palumba, quando questi era disteso morto sul letto, per ciò stesso viene considerato dalla donna “Marito mi sei, perché mi hai baciato avanti all’uomo mio morto e sulla tua bocca io ho accolto il suo respiro e sulla bocca tua isso m’ha ditto addio. Poi t’ha ripurtà a me, cca, al posto suo, nel letto dell’amore, pé sempe.” Sono scandagli significativi coi quali l’autore riesce a farci entrare nello spirito di quel popolo considerato di straccioni, ma che conserva, più dei signori, il peso e l’orgoglio di una storia millenaria. Anche Ugo quindi si trascina dietro di sé una figura di donna, Maria, come già avevano fatto Gerardo con Juzzella e Andrea con Isabellina. Queste donne, soprattutto Juzzella (“teneva la testa bassa col mento sul petto e rispose sussurrando quasi, ma la voce era ferma, ostinata: ‘So’ asciuta perché non voglio essere più la serva di nisciuno.’”) e Maria (“gli cantilenava nenie di consolazione o di sortilegio perché lui s’addormisse”), incarnano più degli uomini l’anima del sud, nel suo essere, piuttosto che rassegnata, strumento del destino, e per ciò stesso mai piegata, mai vinta; orgogliosa e forte. Esse sono le più somiglianti alle descrizioni di una natura aspra, vibrante di superbia e di solitudine, con le quali Alianello non manca di punteggiare la sua storia: Juzzella ha “un corpo snello, sodo, un senso di vita e di ferinità quasi, che nessuna stanchezza era riuscita a sciogliere o a piegare.”; Maria: “Qui soltanto Maria Palumba gli piace, perché anche lei è tutta natura, più delle altre donne che ha conosciute o ha sognate, che pure sono natura, ma immiserita e frivola.” Ugo è un liberale; sta però coi borbonici perché i piemontesi gli hanno ucciso la sorella Marietta e il marito Sandrino, una coppia di giovani sposi che il maggiore generale Ferdinando Pinelli, ospite nella loro casa, ha fatto fucilare perché avevano in un cassetto “lu ritratte di Re Francisco e la riggina Sufie, ca don Sandrine e donna Marietta se li erano scurdate là dinto.”

Sono troppo più forti i piemontesi e la ribellione di Rionero, Barile, Melfi, Ripacandida, Rapolla, Lavello, Venosa, dura appena “un lungo mese”; presto i capibanda, come Stancone, vengono arrestati mentre tentano la fuga, e non oppongono resistenza: “si sono fatti mettere le manette, ché non han neppure fiatato...” Dirà più avanti Andrea alla Madre Priora: “La rivolta contadina ci può giovare, ma non potrà mai sconfiggere un esercito regolare da sola...” e ancora: “il popolo basso, se nessuno lo tocca, se ne starebbe quieto per altri cento anni.” Ma i piemontesi si muovono come vessatori (“Quasi nisciuno dei carcerati sape perché l’hanno messo in corsia.”), assetati di denaro e di sangue, rinnegatori e dissacratori di Dio, della religione degli avi, ossia (“Poi c’è stato lu fatto della religione, frati sfratati, vescovi scacciati...”), e allora il contadino, lo zappaterra, quando occorre, sa sparare e combattere anche “senza altre armi che accette e falci”. Sugli errori dei piemontesi contano, infatti, uomini come Gerardo, Andrea e Ugo. Lo spaccato delle lotte che hanno portato all’unità d’Italia viene fuori tutto intero, crudele, esasperato ed implacabile, con le prevaricazioni, le ingiustizie, la ferocia che le hanno contraddistinte, un po’ come sarà per la guerra partigiana portata alla luce, grosso modo in quegli stessi anni, da Beppe Fenoglio nel suo “Il partigiano Johnny”. Il romanzo di Alianello (che, ricordiamo, è del 1963), in realtà, pur prendendo in esame un periodo storico diverso e più lontano e che riguarda il Sud dell’Italia, ha molto in comune, nell’intenzione che vi è racchiusa, con il capolavoro di Fenoglio. Vi si trova descritta la delusione che ogni guerra, specialmente se fratricida, porta con sé, e come ne “Il partigiano Johnny” ci sono delusione e tristezza per taluni crimini partigiani, nel romanzo di Alianello esse si manifestano nei confronti del comportamento tenuto dai piemontesi: “l’Italia unita l’hanno voluta i letterati. Libertà, eguaglianza, fraternità. Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l’Africa selvaggia senza sapere niente e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti.” E ciò risveglia l’orgoglio di un popolo antico e nobile: “Noi siamo italici e voi... nu poco ‘e tutte cose... francesi, tedeschi, alpini, magari svizzeri, ma italici no. Abbiamo dormito, è ‘o vero, quanto tempo? Mille anni e più. Embè, ci siamo riposati. La fatica di Roma fu fatica nostra... e mo’ priate ‘o Pataterno che nun ce vulimmo sveglià n’ata vota.” Non v’è dubbio che Alianello partecipa e dà voce appassionata a questa fierezza meridionale, mostrando quanto la verità della storia sia sempre unicamente ed iniquamente quella dei vincitori, spesso colpevoli di: “violenze che qui da noi finora nessun soldato del Borbone aveva osato mai.” Gli stessi garibaldini sono autori di molte atrocità: “li garibbaldesi se spassavano a nce piglià alla mira, nuie senz’arme, meschini, pé se sfizià a lu bersaglio.”

Quando si arriva alla caccia ai fuggitivi da parte dei piemontesi e dei carabinieri, Alianello apre un pertugio, e come ammaliati da uno scenario che non ci aspettavamo di sorprendere, noi lo ascoltiamo raccontarci una straordinaria e tragica storia d’amore, quella tra Ugo e Maria: “Core mio... lu bosco m’ha fatto tradimento... ma tu fuie... vai, vai via...” Ugo e Maria rappresentano il profondo di quanto sta accadendo. Se si odono come in superficie i colpi delle fucilerie, gli assalti tra eserciti e bande rivali, lo strazio dei morti, noi riusciamo tuttavia ad assorbirne la tragicità scomposta, assurda, cattiva, inquieta, odiosa e vigliacca, attraverso queste due figure che sembrano così differenti l’una dall’altra, quasi contrapposte, e invece infiggono la loro natura nella stessa matrice, fatta “di occhi, di occhi fulvi, neri, verdi, che ammiccavano e dal torrente altri occhi balenavano pel cristallo liquido dell’acqua, tra i sassi, dalle rughe dello scoglio.”, che altro non sono che la quintessenza misteriosa  e imperscrutabile della vita.

A Isabellina Guarna, cugina di Andrea, tocca un ruolo di donna diversa da Juzzella e Maria. Sebbene il padre abbia perso il titolo, è pur sempre una nobile, anche se non ha tutti “i quattro quarti di nobiltà”, e, per giunta, ha studiato in Svizzera, a Ginevra. Per Alianello è giunto, dunque, il tempo di presentarci anche questo carattere della femminilità meridionale. È “saputa”, Isabellina, e mostra un distacco quasi irritato nei confronti del cugino. Sa che la Priora si è espressa per un matrimonio tra i due, che metterebbe a posto anche le questioni di eredità, che stanno tanto a cuore a don Matteo (“ch’è traditore nato, faccia di Giuda.”), padre di Isabellina e fratellastro della Priora, ma ciononostante, anzi proprio per questo, si mantiene sdegnata e altezzosa. Inizia una schermaglia tra i due giovani nella quale Alianello mostra la sua bravura nel saper cogliere gli aspetti più segreti e intimi della femminilità: “Isabellina non disse niente. Scivolò giù dal divano e se ne andò a passetti rigidi, col busto eretto, serissima in volto.”; È una bambina, pensò Andrea; che giuoca a fare la grande donna.”; “se sposerò Andrea dovrò sposare anche il suo Dio... E perché no?”

Così noi possiamo, a questo punto, fare una nuova osservazione sulla struttura del romanzo, che è questa: a differenza delle donne protagoniste, che si distinguono tutte l’una dall’altra per sfumature psicologiche, in realtà non così secondarie come parrebbe a prima vista, gli uomini come Gerardo, Andrea e Ugo, soprattutto quando si rinserrano nei loro pensieri, mostrano una uniformità quasi calligrafica, che ne giustifica, peraltro, lo schieramento dalla medesima parte, sia pure avvenuto per motivazioni diverse. Se all’esterno possono tenere comportamenti che paiono differenti, nell’intimo si somigliano come gocce d’acqua.

La storia tra Andrea e Isabellina si dipana senza la forza e l’irruenza delle altre che abbiamo conosciute. È sulla punta del fioretto che si va aprendo un varco tra i due, attraverso il quale, se passano l’ironia e l’abilità di Andrea, da esse vengono a poco a poco scalfite la presunzione e l’arroganza di Isabellina, che ritrova infine nel rapporto con Andrea una fiducia nel prossimo che l’educazione calvinista aveva resa sterile: “le venne addosso una gran voglia, fanciullesca, giuliva, d’entrare sul momento in quel regno dove Andrea vive, di cui vive...”

Su questa capacità di Alianello di tessere l’intimo femminile, leggete la descrizione, tutt’altro che oleografica, che fa della serva della Madre Priora: “s’affacciò una cafona di Avigliano, come indicava la teletta gialla, tesa da due bacchette che quella portava sulla testa. Pareva vecchia, ma forse aveva soltanto passato la gioventù, come appaiono le contadine, dopo la prima figliata, massicce e tozze, se il lavoro della zappa le squadra. Aveva un faccione rosso, bozzuto e diffidente, da can mastino.” La donna, che si chiama Apollonia, apre l’uscio ad Andrea allorché si reca a visitare la Madre Priora, che ora vive ritirata nel suo palazzotto (“Ma qui avete rifatto il convento, Madre Priora!”) da quando i piemontesi l’hanno cacciata, circa due mesi prima, dal convento. In quel faccione c’è tutto il segreto, il vissuto e l’intimo di questa donna.

Ma se ne possono indicare altre: “C’era anche un gobbo, piccolo, secco, nasuto, che pareva fatto anche lui di ragnateli come quella vecchina che li aveva accolti. Eppoi un omaccione sbracato, ridanciano, dal mostaccio cordiale e nero di barba malfatta. Il gobbo vestiva tutto di nero e da persona civile, mentre l’altro portava il farsetto, i calzoni al ginocchio e le calze bianche dei popolani.” Oppure: “Comparve la medesima donnetta che aveva un viso tondo di mela, ma di quelle non giunte a maturazione e già avvizzite, mezze verdi e mezze gialle.”, la quale ha “occhi di cane mite”.

Alianello sa che il lettore si aspetta l’evoluzione di un rapporto che già aveva intuito sin dal principio tra Gerardo e Andrea, suo superiore. Saranno amici per la pelle? Diventeranno rivali? E cosa fa? Fa incontrare le loro donne: l’aristocratica e presuntuosa Isabellina e la popolana, istintiva Juzzella. Gerardo, tornando a casa, un giorno trova Juzzella “seduta a terra, come una cagna, che strillava e singhiozzava perché voleva l’ingegnere suo...” I baroni Rovecchia, che l’avevano mantenuta in casa loro, a Melfi, sono stati arrestati dai piemontesi, e così Juzzella è fuggita andandolo a cercare, a piedi, fino a Potenza, e chiedendo di essere ospitata da lui. Ma la padrona, vedova, è gelosa e non vuole altre donne in casa sua, e allora Gerardo chiede ad Andrea di prenderla nel suo palazzo, dove vive anche Isabellina. Alianello tenta l’impresa, dunque, di un confronto al femminile assai più stimolante di quello tra gli innamorati delle due donne: “Juzzella s’era alzata e guardava quella signorina che le parve bionda, così fine, così diversa, con un sguardo lungo e dubitoso, dove non c’era ostilità, ma diffidenza sì.” Si resta stupiti dal comportamento di Isabellina, la quale, scalfita nella sua rigida personalità dall’amore per Andrea, “le infilò un braccio sotto il suo.” Nella casa, come si sa, vive anche la Madre Priora, che ne è la padrona. Tocca a lei di decidere se accogliere o meno la ragazza. E mentre sono presso la monaca, e Juzzella proclama la sua determinazione di non lasciare più Gerardo, nonostante che la sua presenza rappresenti un pericolo per lui, ricercato dai piemontesi, Isabellina “Guardava Juzzella e si riconosceva in lei: quel grido di donna ferita è anche il suo grido che finora ha tenuto nascosto e compresso.”

È, dunque, l’amore furioso, caparbio di Juzzella che entra nel sangue di Isabellina e si fa, per miracolo, tenero, tremebondo e spalanca alla superba Isabellina le porte di un mondo nuovo e radicalmente diverso da quello in cui aveva vissuto fino ad allora. Si tratta di un passaggio notevole, che si insinua, pur in mezzo al pianto e alle grida di Juzzella, dentro il silenzio che sempre accompagna il contatto tra due anime, passaggio che si ripeterà con maggior forza la notte che le due dormiranno una vicina all’altra.

Qualche debolezza romantica (che compare, in realtà, anche in altri punti del romanzo), non ne riduce peraltro la valenza, che resta superlativa.

Ma Isabellina non è Andrea. La sua apparente fermezza è in realtà insicura e fragile. A cospetto di Andrea, paga lo scotto di una educazione formatasi lontana dal mondo. Deve maturare ancora, fare molta strada.

Con tale immaturità si confronta duramente Andrea che, in questo scontro, mette in risalto una differenza, prima nascosta, tra lui e Gerardo. Quest’ultimo è deluso dall’andamento della guerra, trova che i suoi capi sono indecisi e ambigui. Non vuol restare a Potenza, diventata troppo pericolosa per lui, e desidera far ritorno a Napoli. Lo confida ad Andrea e lo prega di salutare per suo conto Juzzella, “che si trovi un bravo marito che le dia tanta felicità, con la protezione della Priora e... digli che le ho voluto bene...”  Se ne fuggirà travestito da frate, dopo che ha ucciso due carabinieri. Quell’uccisione, in realtà, lo riporterà al suo dovere di combattente.

È solo un momento di sconforto, quindi, in Gerardo, più sanguigno, più istintivo e quindi più vulnerabile, che manca in Andrea, il quale è consapevole e determinato nella sua scelta (Gerardo si sente più mercenario che idealista: “Io me ne fotto. Io nun tengo da pensà a niente. Non voglio che un’idea grande mi diventi tra le mani un fatto di sangue. Questo lo lascio ai fanatici. Io sono soldato mercenario.”). Pur essendo di estrazione nobile, Andrea non accetta che la povera gente sia vessata e fucilata perché “Non hanno voluto che il loro campo fosse devastato, le loro donne fossero violentate, i loro beni rubati in nome dello stato”. A Isabellina, che non si prova nemmeno a capirlo, lui scrive che resta a combattere “perché termini questo omicidio di tutto un popolo, uomo per uomo, minuto per minuto.”

È un passaggio che crea ora una gerarchia tra i tre uomini che abbiamo incontrato: Ugo, quindi Gerardo, quindi Andrea, che diventano come le tre facce di uno stesso protagonista.

Toccherà a Gerardo mostrarci la battaglia sul torrente Volina - descritta minutamente, e con mano sicura, da Alianello - tra i piemontesi e l’esercito degli straccioni comandati da Crocco, “alto, grande, col dorso nudo e i potenti muscoli guizzanti.”: “I piemontesi erano già arrivati alla sponda opposta del torrente. Ogni dieci passi, facevano ginocchio a terra, sparavano con calma, mirando accuratamente, poi si levavano su e ricominciavano la marcia.”; qua invece siamo nel campo dei borbonici: “Passava sul loro capo un turbine di piombo; le pallottole fischiavano finché non trovassero un bersaglio qualunque, albero, terra, carne d’uomo. Tagliavano ramoscelli, sfrondavano frasche, si configgevano nei rami più grossi che ne tremavano e restavano così vibranti per un po’ e ne veniva giù una pioggia di rametti, di foglie, di bricioli di corteccia.” 

Juzzella, l’abbiamo lasciata in casa della Priora. Viene a sapere che il suo Gerardo, che ha ucciso due carabinieri, si è rifugiato nel campo di Crocco ed ora è ricercato dai piemontesi, che vogliono fucilarlo. Per lei è l’occasione per sentirsi la donna di Gerardo, una brigantessa a fianco di un brigante: “E già si vede, con la pistola alla cintola, la carabina a tracolla, galoppare sul suo ginnetto, a fianco di Gerardo per burrati e valloni; coricarsi con lui nei cespugli, preparargli le armi e far l’amore sempre, mangiando e bevendo, al sereno sotto il cielo grande, o in fondo a una grotta o nel fitto di una foresta.”

È il momento in cui la figura di Juzzella cresce e si eleva sulle altre che abbiamo incontrate: Maria e Isabellina. Lo stacco si ha nel momento in cui fugge da quella specie di “quasi convento, un mezzo convento”, “’o cunventino”, che è diventato il palazzo della Priora. Non ha incertezze o paure, Juzzella (“impaurita e subito senza paura, disperata e con una speranza nuova nata a quel punto.”), come, tra gli uomini protagonisti, non ne ha Andrea, che sa sempre trovare, ricorrendo alla sua formazione di soldato (“Il tradimento non è il suo forte e neppure la furberia”), una risposta ai suoi dubbi, tra i quali: “che me ne faccio di me?”, e infatti, se si eccettui la sorte di Ugo e Maria, sarà il solo di cui, insieme con Isabellina, conosceremo il destino. La determinazione di Juzzella è il risultato della selvatichezza del suo amore. I suoi istinti sono legati alla terra, più di quelli di Gerardo; la sua poesia è grido e lamento insieme della natura, più che in Ugo e in Maria. Arrestata, viene presa in casa di un piemontese, il delegato don Firmino Rua, come serva, ma soprattutto per profittare della sua bellezza. A Gerardo “Sta femmena gli sta mettendo nu cuofano ‘e corna con don Firmino ‘o delegato!”, “non ne può più di stare lontana da Gerardo e di questo schifoso che se la tiene per sua puttana e lei neppure lo capisce quando parla.” Sono le tappe di un cammino acerbo, duro, ma forte e deciso: “Vuoglio í addò Gerardo mio, vuoglio Gerardo mio, Gerardo!” e ancora: “Tutto è mieglio della luntananza...”  e leggete questa confessione che fa a Isabellina: “Ah! signoria! Gerardo mi fiorisce in corpo come na rosa, a me...”

Anche se poi la vita non è d’accordo, vedrete, coi suoi propositi.

Alianello ferma la sua guerra alle porte di Potenza, quando i reazionari sono dati ormai per vincitori. Tutto è pronto per accoglierli. Ma non arrivano. Andrea li attende invano con la sua terza compagnia pronta a sostenerli. Ma quella vittoria non piaceva al brigante Carmine Donatello Crocco, ecco perché non arrivano. A lui della politica interessava poco. Interessava il suo avvenire, e se i reazionari avessero vinto, prima o poi si sarebbe fatta la secessione e il Sud si sarebbe separato dal Nord, e i borbonici di uomini come Crocco non avrebbero saputo più che farsene. “E chi sarebbe tornato a comandare? I signori, i nemici eterni, che vogliono l’ordine per godersi in pace la proprietà. E della sua rivoluzione, quella delle pezze al culo, che ne sarebbe avvenuto? Finita, morta, schiacciata dai gendarmi e dai soldati la rivoluzione dei poveri. Sarebbe ricominciata quella dei ricchi.” Perciò convince i capibanda a rinunciare alla presa di Potenza e si vende al nemico, patteggiando la prigione contro la morte.

E così, ci fa intendere Alianello, la grande storia è passata attraverso questo piccolo, sconosciuto brigante.

Sarà l’intuizione della Priora (“Era una che vedeva più lontano”) a tentare, invece, attraverso il lascito della sua eredità, di costruire un ponte per cancellare gli orrori della guerra civile e unificare tra loro vinti e vincitori.

Una considerazione particolare, infine, va fatta sui molti vocaboli insoliti, ma estremamente felici, di cui Alianello cosparge come gocce di profumo il romanzo: ammontonato, mence, interito, stramazzo (per giaciglio), ammartenati, springava, attorceva, sconocchia, tonfano (per pozza d’acqua), bruttare, pacchebotto a vapore, indolito, 

appetare, sfessata, abballinata, chiercuti, appaura, grifo, scandolezzato, per fare qualche esempio.

Un bel libro, dunque, ingiustamente dimenticato e da recuperare. E certamente, per le crude verità, scomodo a tanti.


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Ringraziare Bartolomeo Di Monaco per averci autorizzato 

a pubblicare la sua recensione al testo di Alianello.

Webm@ster - 15 gennaio 2006
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