Tratto da:
https://www.lavoce.info - 15-10-2004
di Massimo Bordignon
Notizie di stampa ci informano che il Governo è orientato a
procedere con una sospensione immediata del decreto 56/2000 e una nuova
ripartizione provvisoria dei fondi destinati alle Regioni. Tutto
ciò a causa delle “gravi carenze” mostrate dal decreto in fase
di applicazione, ma soprattutto in risposta alle forti critiche
avanzate da alcune Regioni del Centro-Sud.
È allora opportuno ritornare sulla materia, anche alla luce dei
possibili percorsi futuri della riforma costituzionale in discussione
alla Camera e in particolare dell’attuazione dell’articolo 119 della
Costituzione.
Un’idea semplice
Il decreto 56/2000 si basa su un’idea molto semplice. Lo Stato
determina un’aliquota di compartecipazione
all’Iva per le Regioni; l’evoluzione dei gettiti dei tributi propri
standardizzati delle Regioni assieme a quello del gettito dell’Iva
determina la crescita del complesso delle risorse regionali. Queste
risorse sono poi ripartite tra le Regioni in modo da 1) garantire il
finanziamento del fabbisogno sanitario di ciascuna; e 2) avvicinare la
capacità fiscale delle diverse Regioni, in modo che ognuna, ad
aliquote e basi imponibili standard, non possa avere di meno o di
più del 90 per cento della capacità fiscale media delle
Regioni.
Si osservi che l’aliquota della compartecipazione
Iva è fissata sulla base di previsioni sull’andamento della
spesa sanitaria, la principale funzione delle Regioni. In fase di
elaborazione del decreto, si era ipotizzato che la spesa sanitaria
rimanesse costante in percentuale sul Pil. Naturalmente, se il
Parlamento ritenesse invece che tale percentuale deve crescere,
ciò può essere ottenuto semplicemente incrementando la compartecipazione
all’Iva.
Inoltre, il modello è coerente con una (limitata) competizione
tra le Regioni all’interno di regole certe, non dissimile da quella di
recente auspicata dal presidente di Confindustria per il mondo delle
imprese. Le Regioni restano libere di esercitare completamente la
propria autonomia tributaria e finanziaria, con la garanzia che
comunque le distanze in termini pro capite non possono superare il 10
per cento. Una distanza che sembra compatibile con uno Stato unitario,
soprattutto se si pensa che il finanziamento di un bene di interesse
nazionale, la sanità, è comunque garantita dal fondo.
Inoltre, il modello non impedisce naturalmente che lo Stato nazionale
spenda comunque di più, per esempio in termini di
infrastrutture, ordine pubblico o incentivi alle imprese, nelle Regioni
più deboli.
Critiche ingiuste
Nell’attuazione del decreto 56/2000 si sono verificate varie
difficoltà. Ci sono stati errori politici, indotti probabilmente
dal cambiamento di Governo, e errori tecnici. Ma soprattutto il
principale problema è stato causato dal fatto che le stime del
fabbisogno sanitario elaborate dal ministero della Salute per le
Regioni del Sud sono apparse nettamente più basse rispetto a
quelle del Nord. Non so se queste stime siano giuste o sbagliate. Ma
non c’entrano nulla con il 56/2000; questo si limita a registrarle.
Tant’è che gli stessi problemi si sarebbero verificati anche se
il sistema di perequazione fosse stato diverso e basato esclusivamente
su criteri di fabbisogno. Almeno sotto questo aspetto le critiche delle
Regioni del Sud al decreto 56/2000 sono dunque mal indirizzate.
Il sistema di finanziamento previsto nel 56/2000, opportunamente
modificato per tener conto delle nuove funzioni attribuite alle Regioni
a seguito delle riforme costituzionali, è del tutto compatibile
con il sistema di federalismo fiscale ipotizzato nell’articolo 119
della Costituzione, per la semplicissima ragione che il legislatore
costituente, nello scrivere il testo, ha preso a modello il decreto. Ma
viene ora avanzata con forza un’interpretazione alternativa: dovrebbero
essere finanziate sulla base del criterio del fabbisogno non solo le
funzioni a carattere nazionale svolte dalle Regioni (oggi la
sanità, domani anche la scuola), ma tutte le funzioni.
È evidente che se passa quest’interpretazione, del modello del
56/2000 e dunque anche dell’articolo 119 della Costituzione, non ce ne
facciamo più nulla. Lo Stato, nella sua infinita saggezza,
determinerà quanto ciascuna Regione deve spendere per ciascuna
funzione e le finanzierà di conseguenza. Ma se tutto viene
determinato dallo Stato centrale sulla base del principio del
fabbisogno, che bisogno c’è di perequare ancora per la
capacità fiscale delle Regioni?
È opportuno tuttavia che si rifletta bene, anche da parte delle
Regioni del Sud, sulle conseguenze di avvalorare questa
interpretazione. Se tutta la spesa regionale è predeterminata
dallo Stato nazionale, che bisogno anche c’è di tributi propri
regionali oppure di autonomia regionale? Un bel sistema di
trasferimenti vincolati è la soluzione più ovvia. Si
tornerebbe cioè semplicemente alla finanza derivata degli anni
Ottanta, con tutti i problemi di irresponsabilità a essa
connessi.
Ma siamo proprio sicuri che è lì che vogliamo andare?
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