A margine del convegno sul tema del Brigantaggio post-unitario, tenutosi a Torino il giorno 8 aprile u.s., abbiamo realizzato l’intervista a Lorenzo Del Boca, autore dei libri "Maledetti Savoia", recentemente ristampato in edizione economica (sesta ristampa, lire 14.000, Casa Ed. PIEMME), e "Il dito dell’anarchico", edito anche da PIEMME esattamente un anno fa.
D.- Dott. Del Boca, per quanto riguarda il convegno, il suo intervento è stato molto appassionato. Io però avrei preferito che un intervento come il suo fosse stato fatto anche da qualcun altro dei presenti. Lei che cosa pensa del fatto che vi è piú sensibilità in un piemontese su un tema che dovrebbe essere piú sentito da un meridionale?
R.- Guarda, quando io ho pubblicato questo libro, un collega, credo
calabrese, che era venuto alla mia presentazione tre o quattro anni fa,
mi ha detto cosí: "sai perché questo libro l’hai scritto
tu e non io? Perché tu sei piemontese ed io sono calabrese".
Questa è la dichiarazione di un complesso di inferiorità
che talvolta il meridionale ha nel rivendicare i propri diritti. Questa
cosa non la dice solo questo mio collega, la dice anche Leonardo
Sciascia, il quale in una sua novella, nel mettere a confronto i
racconti filopiemontesi di Bronte, "giustificazionisti" diciamo
cosí, e i due o tre racconti, che invece denunciavano una
violenza di base della ideologia del risorgimento nei riguardi di
coloro che furono massacrati e ai quali si era fatto credere che si
doveva fare davvero una rivoluzione culturale, lui commenta dicendo che
i "giustificazionismi" sono fatti proprio da quelli che avrebbero tutto
l’interesse a fare dichiarazioni diverse. Questo passaggio tu lo puoi
trovare anche sul libro Maledetti Savoia, che lo cita esplicitamente.
Bisogna guardare nell’indice dove si parla della storia di Bronte,
credo che sia anche un po’ questo, cioè una sorta di vergogna,
davvero cornuto e mazziato, per cui, anche di fronte ad una denuncia
esplicita che io faccio, mi trovo di fronte a delle persone
meravigliate che dicono: ma è vero quello che si sta dicendo? Ma
perché, dico, a voi non vi sembra logico? Sí, ci sembra
logico. Però, si può dire?
D.- Meglio far finta di niente insomma.
R.- Tante volte uno fa finta di niente e dice "mettiamoci una pietra
sopra". Io tra l’altro queste cose non è che le racconto per
provocare chissà quali reazioni di altro segno per ridividere
l’Italia, cioè per dire che deve nascere una Lega Sud. Niente
affatto, io voglio solo dire esattamente quale è la vera storia
dei fatti. Noi dobbiamo diventare cittadini d’Europa, cittadini del
mondo anzi, però secondo me non si può diventare
cittadini di nulla se non si è cittadini in casa propria, nel
proprio comune, nel proprio quartiere, con le proprie tradizioni. Uno
deve vantarsi delle tradizioni del proprio paese. Uno che si sposa a
Strasburgo, a Bruxelles, a Copenhagen, si deve sposare con le
tradizioni di casa sua, che deve conoscere e apprezzare.
D.- Un’altra cosa, una provocazione
questa qui. Lei ricorda perfettamente l’intervento del prof. De
Francesco: è possibile ancora oggi, soprattutto per un preside
di facoltà, sostenere le tesi che lui ha sostenuto, cioè
praticamente che i Briganti avessero, diciamo cosí, una sorta di
ideologia politica? Io personalmente sostengo che loro erano stati
toccati sui punti vitali, sull’economia già precaria; questo
fatto è ancora possibile sostenerlo come ha fatto De Francesco?
R.- Lui ha sostenuto la tesi che dici tu, ma siccome non c’era neanche
il tempo forse di approfondire, ha lasciato intendere che il
Brigantaggio non era tanto un Brigantaggio del Sud, dei fratelli
liberati, diciamo, contro i presunti fratelli liberatori, ma era una
faida.
D.- Ha parlato di guerra civile lui.
R.- Ma all’interno dello stesso Sud, perché fu una guerra
civile. Fu come in Vietnam, allo stesso modo dei vietcong che si
opposero agli americani perché questi erano gli invasori per
conto di qualcuno.
D.- Lui non ha messo la premessa
dell’invasione
R.- E infatti perché lui sosteneva che era una guerra civile, ma
solo all’interno del Sud. Cioè che le case filoborboniche,
colonizzate dalle case filopiemontesi che avevano dato origine al
conflitto, iniziarono ad attaccare le casate meridionali che si erano
schierate coi piemontesi. È anche possibile. Questo
perché c’è una percentuale di persone che hanno la
vocazione di leccare il culo e questi leccaculo la gente del Sud non li
ha sopportati. E questi qui facevano la guerra ai piemontesi, ai
bersaglieri, ai carabinieri, ai manutengoli di tutti costoro e a quelli
del Sud che avevano "tradito" accettando l’invasore. Proprio come i
vietcong che sparavano agli americani, ma pure alle loro spie. Quindi
può darsi ci siano state in alcuni comuni delle battaglie di
famiglie o di gruppi di famiglie contro altri gruppi di famiglie. Lui
ha citato la famiglia Lomonaco, ma, se questi qui erano filopiemontesi
da cent’anni prima, è certo che si sono esposti alla
rappresaglia dei filoborbonici. Poi il problema è che i
filoborbonici erano stati depredati di tutto e cercavano di
ripristinare un minimo di legalità. Nelle file dei briganti sono
confluiti prima di tutto i filogaribaldini, cioè quelli che ci
hanno creduto davvero alla rivoluzione in camicia rossa, poi quando si
sono accorti che le promesse di Garibaldi erano rimaste promesse e che
tutto il loro desiderio romantico di entrare nel nuovo, di rifare le
cose daccapo, di avere anche una distribuzione sociale di qualche
proprietà, non a caso entravano nelle città e bruciavano
il catasto. Vedi a Bronte. A Bronte si sono sollevati e che cosa fanno?
vanno ad ammazzare il sovrintendente degli inglesi, i quali erano i
padroni di tutto. Ma se dobbiamo ridistribuire un minimo di terra, a
chi gliela dobbiamo levare se non a chi ce l‘ha?.
D.- In estrema sintesi che idea ha lei del brigantaggio, ma proprio un
flash.
R.- Il brigantaggio è veramente sociale. Si tratta di gente che
è stata costretta a rubare per sopravvivere. I briganti sono
stati chiamati ladri, perché in effetti rubavano, però si
pretendeva anche che fossero impiccati, ma questi han resistito.
Insomma i piemontesi hanno portato una "libertà" sulle
baionette, mentre i duosiciliani hanno resistito a un atteggiamento di
sopraffazione.
D.- Una legittima difesa, diciamo.
R.- Una legittima difesa. Se tu guardi in Maledetti Savoia c’è
una relazione (pag. 150, ndr) che fa il conte Alessandro Bianco de
Jurioz, che tratta della introduzione della legge di successione che
nelle Due Sicilie prima non esisteva e fa l’esempio dei finanzieri,
che, appena un padre muore, vanno nella casa con il feretro ancora
caldo, fanno il conto delle proprietà, decidono loro quanto vale
la casa, il porcile, la mucca ecc. ecc., e stabiliscono qual’è
la tassa di successione. Finisce che la tassa di successione viene
pagata col maiale e la mucca che vengono portati via. E de Jurioz dice
che questo avviene mentre la vedova è ancora lí che
piange, con i bambini ancora piccolini. Ad essi resta sí la
casa, la porcilaia, però non hanno piú gli animali. E
come camperanno questi qui? E come possono pensare che lo Stato, che si
è presentato con l’aria arcigna di quello che gli porta via
tutto, sia uno Stato del quale devono avere fiducia? La famosa
eticità dello Stato, la fiducia nello Stato, è una parola
vuota di senso, anzi del tutto irrisoria per delle persone che dallo
Stato hanno ricevuto soltanto degli svantaggi. Quella relazione fu
fatta purtroppo nel 1876. Troppo tardi.
D.- Lei ha fatto una bella citazione
parlando di Galante Garrone, dicendo appunto della congruenza tra i
fatti e le idee. Esiste secondo lei nella storia del risorgimento un
esempio che si possa portare appunto per questa incongruenza,
cioè che i fatti quando non combaciano con le idee è
meglio dimenticarseli?
R.- La storia del risorgimento è una storia che si è
cercato di nascondere il piú possibile. Molte cose non si
capisce perché le abbiano nascoste. Come l’incontro di Teano che
non è mai avvenuto a Teano. Oppure alcune retoriche come il re
"galantuomo" che in realtà era un signore che aveva bombardato
tutto. E anche dei campi di concentramento dei soldati borbonici.
Sembra che sia un tabú parlare dei campi di concentramento che
erano stati costituiti a decine intorno a Torino e Milano. Certamente
perché contraddice in modo evidente ed esplicito il fatto che si
diceva che era una guerra di liberazione ed una guerra di indipendenza
e non, invece, come fu, una guerra di conquista.
D.- Secondo lei perché continua
ancora oggi questo sudario che è stato steso su queste
verità. Perché fa paura?
R.- Perché gli storici, i giornalisti e gli scrittori del Sud
che hanno scritto, hanno scritto su case editrici che stentavano a
pubblicare poche decine di copie, per cui questi argomenti non si
conoscono. Quelli del Nord, poi, sono andati avanti secondo tradizione,
recitando a memoria. Professori che imparavano da altri professori che:
"i Savoia conoscono la via dell’esilio non quella del disonore", "Qui
siamo nati e ci resteremo", "Non siamo indifferenti al grido di dolore"
ecc. ecc., e hanno continuato a recitare cosí perché era
la cosa piú facile, diciamo per la pigrizia del Nord e per la
mancanza di incisività del Sud. Sulle antologie delle scuole
elementari, medie e superiori ci sono le pagine dei famosi
risorgimentali, Abba, la White, l’altro, quello della Spigolatrice di
Sapri, ecc., che dal punto di vista letterario non dicono assolutamente
nulla. Sono delle pagine storiche, come, che so, l’Anabasi di Senofonte
o il De Bello Gallico di Giulio Cesare. Anzi l’Anabasi e il De Bello
Gallico hanno già anche un elemento letterario, ma questi qui
dal punto di vista letterario non valgono assolutamente nulla, che cosa
ci fanno in una antologia della letteratura italiana? A parte questo
interrogativo, come mai non c’è don Buttà, il quale ha
scritto il controcanto Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta, scrivendo le
stesse cose sugli stessi argomenti, gli stessi episodi, ma visti
dall’altra parte. Tu lo sai che questo libro non si trova nemmeno nella
Biblioteca del Risorgimento di Torino, ed io non sono ancora riuscito a
vederlo. Ne ho letto solo dei pezzi citati qui e là, ma ti
sembra una roba giusta ed equa, ti pare normale che di Mario, di Abba,
io me li debba trovare sulle antologie delle elementari, per cui
già da quando avevo sette anni ero costretto a leggere una
pagina di Abba sui garibaldini e ora, che so che c’è un libro
diverso, non riesco a trovarlo?
D.- Non le sembra che questa cosa
invece non è accaduta per la mitizzata rivoluzione partenopea,
che in realtà invece è celebratissima pur non avendo
avuto un significato, cioè un significato l’ha avuto nel senso
che ci sono stati molti morti lí, però da parte giacobina
questo aspetto è taciuto.
R.- Io mi accontenterei che a distanza di centoquarant’anni da alcuni
fatti uno possa darne l’interpretazione che vuole. Io ti dico che
l’impresa dei mille ha un cantore certamente di parte, perché
indossava la camicia rossa ed è questo signore qui. Poi
c’è un altro cantore, che è certamente di parte
perché indossava la camicia nera, ed è quest’altro qua.
Tu metti a confronto e vedi. Se della battaglia del Volturno danno
descrizioni simili, almeno questo l’abbiamo accertato, questo episodio
è vero. Sulle cose che invece dicono molto diverse, lo storico
deve andare a cercare altri documenti, altre risultanze, per vedere se
ha ragione Abba, se ha ragione Mario, se ha ragione don Buttà o
se non ha ragione nessuno di questi tre. Ma il fatto che venga negata
fisicamente l’esistenza di una pubblicazione vuol dire negare la
storia, quindi rinunciare a priori a cercare quel minimo di
verità. Giustamente allora in una storia ideologica, per la
quale quel che conta sono le idee iniziali, se qualche fatto disturba
questa idea e nascondiamo il fatto, non si racconta la storia. Noi
riusciamo a costruire la storia d’Italia andando a leggerci gli storici
inglesi, gli storici austriaci, le biblioteche austriache, i centri di
documentazione austriaci. La storia del Vittorio Emanuele II che va
lí e dice "I Savoia conoscono la via dell’esilio, non quella del
disonore", dopo la fine della prima guerra di indipendenza, è
totalmente inventata. I quaranta ufficiali che erano lí con
Radetzsky, che raccontano tutti i quaranta piú o meno la stessa
cosa, danno una descrizione di tutt’altro genere. Quando sono
cominciati ad uscire questi diari, lo storico italiano avrebbe dovuto
almeno dire che, a proposito della frase "I Savoia conoscono la via
dell’esilio, non quella del disonore", visto che gli austriaci, che
erano là la raccontano diversamente, era necessario sentire
anche quest’altra campana per averne un’idea piú precisa.
D.- A proposito di questa cosa qui, le
faccio un’ultima domanda: se è vero che il passato è
fondamentale per poter mettere le basi per un futuro accettabile, che
cosa possiamo ricavare noi dalla lezione del risorgimento, soprattutto
come si può inquadrare la questione meridionale se è vero
che essa è riconducibile a quei fatti e rimane ancora come
questione irrisolta.
R.- La questione meridionale nasce col risorgimento ed è
questione irrisolta, perché il Nord è sceso al Sud ed ha
rubato tutto quello che era possibile rubare. Siamo nelle condizioni di
un signore che ha una borsa di soldi in mano, che mentre sta per andare
ad aprire un suo negozio, viene aggredito da un rapinatore che lo
picchia, lo spoglia, gli porta via tutto quanto e lo lascia lí
mezzo morto. Questa è la situazione del Nord col Sud. Poi
passano gli amici del rapinatore e vedono questo qui per terra,
stracciato, lacero che chiede aiuto e dicono: "ma terrone di merda,
brutto, sporco, buttato per terra cosí, non hai dignità".
E questo qui si è fatto venire un complesso
d’inferiorità, perché, cornuto e mazziato, aveva i
quattrini per andare a fare una cosa, glieli hanno portati via e adesso
ha vergogna a rivendicare quello che era legittimamente suo. Questa
è la lezione che il meridionale deve imparare, cioè
buttare via le paure, non per una rivincita, ma per conoscere
psicologicamente cosa è successo davvero.
D.- In ogni caso si può
ricondurre la questione meridionale a quei fatti, diciamo che
l’unità alla fine è stato il motivo scatenante della
questione meridionale.
R.- La questione meridionale non esisteva, l’hanno provocata. Quando si
parla delle industrie e soprattutto delle ferrovie, si dice nella
storia ufficiale, quella ideologica dei fatti, che se i fatti non
coincidono con le idee peggio per i fatti. Si dice che il re Borbone
aveva fatto la prima ferrovia italiana, ma che era una specie di luna
park suo personale. Che aveva fatto la linea Napoli-Portici per andare
da reggia a reggia, mentre invece gli altri Stati, in particolare il
Piemonte, avevano tentato di mettere in piedi una rete ferroviaria che
fosse efficiente per gli scambi, il commercio, per superare i dazi, le
dogane, per mettere in collegamento il regno di Sardegna, cioè
Piemonte e Liguria soprattutto, con il resto dell’Europa. Questo sempre
è stato scritto, io questo sempre ho recepito, in realtà
non è vero niente, perché il Piemonte aveva sicuramente
delle strade ferrate, ma ne aveva ben di piú il Regno di Napoli,
al punto tale che Garibaldi dalla Calabria, arriva a Napoli in TRENO.
Il che significa che la ferrovia che portava in Europa era la ferrovia
partenopea, non la ferrovia piemontese. Però dopo un anno questa
ferrovia non c’era fisicamente piú, perché avevano
portato via le traversine, i bulloni, i binari, le locomotive. Insomma
avevano portato tutto quanto al Nord, trapiantando quella ferrovia dal
Sud al Nord in modo tale da poter dire che il Nord aveva le ferrovie e
il Sud no. Perché vien fuori questa cosa? Vien fuori
perché, lo trovi scritto sul mio libro, Garibaldi, quando arriva
a Napoli da Salerno, e viene omaggiato dalla folla, arriva in treno, e
nessuno direbbe che è arrivato in treno se non ci fosse stato un
cronista il quale fa una piccola annotazione che però è
rivelatrice: perché dice che Garibaldi invece di scendere dalla
parte del vagone verso la stazione, dove c’era la gente che lo
acclamava, avendo un bisogno urgente da espletare, scende dall’altra
parte del treno dove è nascosto agli occhi della gente
perché c’è il treno di mezzo e fa, quel che dice il
cronista, un atto piccolo, e dopo, continua il cronista, "e finalmente
tranquillizzato e sorridente torna poi ad attraversare il treno e
scende dall’altra parte ponendosi all’abbraccio della folla ecc. ecc.".
Questo significa che lui era arrivato a Salerno in treno e poi da
Salerno a Napoli ha proseguito in treno. Un anno dopo quella ferrovia
non c’era piú e l’hanno ricostruita dopo 50 anni mettendo binari
nuovi. Per costruire questi binari e per costruire le locomotive
c’erano le acciaierie di Napoli, le quali furono chiuse perché
bisognava favorire lo sviluppo delle acciaierie Ansaldo di Genova. Il
che significa che la questione meridionale in quel momento non esisteva
proprio, perché il Sud aveva industrie, manifatture, tessuti e
ferrovie. Certo che se gli altri arrivano al Sud, prendono le industrie
e le portano al Nord o le chiudono per favorire le industrie del Nord,
queste, avendo cosí un monopolio di mercato sia al Nord che al
Sud, possono prosperare senza neanche il problema della concorrenza del
Sud perché gli hanno chiuso le botteghe. Sicuro che a quel punto
nasce la questione meridionale. La questione meridionale ce la stiamo
trascinando da centoquarant’anni come se fosse colpa del Sud. In
realtà è colpa del Nord.
D.- Ancora una cosa: quel famoso
riferimento all’inno musicato da Verdi e scritto da Cuciniello, a cui
faceva cenno Paolo di Salerno, lei può dirci qualcosa in
proposito, a lei risulta che all’epoca Verdi avesse l’intenzione di
accreditare, se si vuol usare questo termine, Ferdinando per svolgere
l’operazione dell’unità? Le risulta questa cosa qui?
R.- No, no, infatti voglio parlarne tranquillamente con Salerno,
perché voglio approfondire questa cosa. Salerno, poi, ha detto
due cose, uno che il tricolore non nacque in Piemonte, ma nacque nel
Regno delle Due Sicilie. Il primo tricolore fu il tricolore del Re
Franceschiello e le bandiere tricolori sono conservate negli scantinati
del Palazzo Reale. Naturalmente non le tirano fuori perché
sennò risulta che il tricolore, non nacque a Torino, ma a
Napoli. Secondo, c’è questo inno che Verdi musica per una specie
di inno alla patria del Meridione, fatto che dimostra che uno dei
patròn dell’unità d’Italia, "Viva Verdi", Vittorio
Emanuele II re d’Italia, in realtà non era cosí ostile al
regno del Sud al punto tale che pensava a una federazione, a una
confederazione di Stati. Cosa che per la verità era l’idea
piú significativa che avevano gli intellettuali e i politici
piú acuti e piú attenti. In quel periodo lí,
nessuno pensava all’unificazione come annessione.
D.-…certo, lo stesso Cattaneo,
insomma, per dirne una.
R.- Sí, sí, Cattaneo, però non solo, anche il
partito dei neoguelfi, quello di Gioberti, pensava a una confederazione
con a capo il papa o comunque con un riferimento al papa. Pensava
insomma ad una unione di Stati che mantenessero le loro
specificità e che poi in qualche modo collaborassero fra loro.
Tieni presente che in quel periodo lo Stato piemontese era il
piú arretrato, sul piano culturale, sul piano democratico, sul
piano delle libertà, sul piano delle censure. Erano gli altri
che erano piú avanzati, anche le famose prigioni borboniche
tremende denunciate da lord Gladstone, in un intervento al parlamento
inglese che fece scalpore, erano poi delle prigioni nelle quali il
Gladstone andava lí, bussava, gli aprivano la porta e chiedeva:
"voglio parlare con Poerio".
D.- Sí, certo, lo dimostra il
caso di Settembrini, che lí dentro ci ha studiato per anni.
R.- "Settembrini o Poerio, sí, terza cella a sinistra", come in
un albergo, "al primo piano stanza n. 18". Lui se ne saliva su, andava
lí e chiacchierava amabilmente per delle ore. Poi certo la
prigione è una prigione. Poi anche le case peraltro allora non
dovevano essere un granché, non c’era il riscaldamento, non
c’era l’acqua corrente, capisci, mentre invece lo stesso Silvio
Pellico, che denuncia le nefandezze dello Spielberg, dove ci è
stato fisicamente, è venuto fuori con le sue gambe, ha scritto
un libro dove parla del carceriere che era brutale, del carceriere che
invece era piú bravo, cosa che avviene in qualunque carcere,
però se ne era venuto fuori. Diari di carceri piemontesi non se
ne sono visti, perché lí era brutale davvero.
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