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https://www.liberalfondazione.it/

Se Napoli tornasse una capitale liberale

di Giancarlo Laurini
Perché tutto sommato Benedetto Croce era meglio di Bassolino

Non c'è dubbio che il manifesto di Eboli di Antonio Bassolino abbia fatto notizia. Eboli è un nome magico, simbolo di un pezzo di storia meridionale e italiana. Carlo Levi ha lasciato una testimonianza non solo di antifascismo e di rifiuto di ogni forma di totalitarismo, ma anche e soprattutto di una vicenda umana e sociale vissuta in una terra allora lontana dalla civiltà e dalla cultura; dimenticata dallo Stato unitario.


Solo una trovata elettorale in concomitanza delle ultime elezioni regionali, oppure c'è anche la determinazione per una azione politica di riequilibrio Nord-Sud?


Che il manifesto, al quale fece subito da contraltare l'incontro di Teano promosso dal Polo, avesse il fiato corto apparve subito evidente a tutti, affrettato com'era nella stesura e carente nei contenuti, approssimativo nelle analisi e nella individuazione delle responsabilità delle forze sindacali, imprenditoriali e politiche (di maggioranza e di opposizione) che dal dopoguerra ad oggi hanno governato il Paese.


Un manifesto di parte ed in odor di elezioni. Però un merito gli va riconosciuto: aver richiamato, almeno per un giorno, l'attenzione sulle permanenti condizioni di grave sottosviluppo in cui versa, più di ieri, il Mezzogiorno.


La verità è che, purtroppo, nella coscienza nazionale è stata rimossa quella «cultura scomoda» dei grandi meridionalisti come Compagna, Galasso, Rossi Doria e, prima di loro, Salvemini, D'Orso, De Viti De Marco e degli altri che, dal primo governo De Gasperi, avevano dato vigore al dibattito politico sul Mezzogiorno. E così, senza trovare più coordinati, efficaci e moderni correttivi per il superamento del divario Nord-Sud, è stato cancellato l'intervento straordinario.


La questione meridionale è stata di fatto rimossa, con un evidente concorso di colpa della classe politica, di quella meridionale in particolare, che a Roma ha finito per sostenere i poteri forti ed uno sviluppo economico disarticolato che marginalizza tuttora il Sud dall'economia reale.


Con la conseguenza che lo Stato interviene ancora nel Mezzogiorno con politiche assistenziali e di tamponamento (vedi la trovata dei lavori socialmente utili) con le quali cerca di sgonfiare la collera dei disoccupati storici di ieri e di oggi.


Del manifesto di Eboli, come dell'incontro di Teano non si parla più, mentre riecheggia il solenne «giuramento» fatto ai lombardi dal presidente Formigoni, che potrebbe costituire un inquietante segnale del ritorno di egoismi regionali.


Le Regioni locomotiva dello sviluppo del Nord correranno sempre di più sui mercati europei, mentre quelle meridionali, siano esse guidate dal centrodestra o dal centrosinistra, continueranno ad avere solo comprensione e solidarietà (astratta) dal Paese e dall'Europa.


Oggi che il Novecento è diventato «il secolo scorso», possiamo ripercorrere la storia dell'azione meridionalista, identificarne le zone d'ombra e i successi davanti ad uno scenario del tutto nuovo, che vede protagonisti tre figure imponenti: il federalismo, la transizione dalla seconda alla terza Repubblica, il nuovo meridionalismo, che potrebbe anche trovare una linfa vitale nella rivisitazione del liberalismo, in una analisi attenta dell'attuale stato delle classi sociali e del pensiero politico.


Nei giorni scorsi a Roma, una mostra intitolata «Il cammino della libertà» ha riproposto un serie di riflessioni sull'età liberale, ha ricordato come il liberalismo sia stato avversato e ignorato per tutto il Novecento e ha dedicato un'intera sezione alla solitudine dei liberali nel secolo scorso, soffermandosi non a caso si sofferma su quattro grandi nomi: Luigi Einaudi, Eugenio Montale, Benedetto Croce e Luigi Sturzo.


Se Einaudi intitolò Prediche inutili una raccolta dei suo scritti, Benedetto Croce tuonava dalla sua biblioteca di via Mariano Semmola contro ogni forma di autoritarismo: «Laddove il liberalismo va incontro all'avvenire, l'autoritarismo porta impresso in ogni suo atto il carattere del transitorio e provvisorio».


Ma perché una mostra sulla storia del liberalismo all'inizio del terzo millennio?


Penso che in una fase di transizione come questa, alcuni dei principi che hanno dominato il pensiero dei secoli scorsi possano essere riproposti in una chiave di lettura moderna. Anche perché il liberalismo sta tornando ad essere una moda culturale che ha una sua ragione precisa: davanti ad un quadro di disgregazione delle idee, a sinistra come al centro, il liberalismo ripropone una sua rivisitazione perché «la religione della libertà» non conosce tramonto.


La mostra, dopo l'esposizione romana, farà tappa a Napoli nel prossimo dicembre. Davanti alla grande tradizione del pensiero liberale, Napoli infatti non è stata a guardare, dandoci non solo Vico e Benedetto Croce, ma offrendo nella sua storia millenaria esempi-simbolo di ricerca della libertà.


Dunque, Napoli città-laboratorio, Napoli città-pensiero, Napoli città universitaria che, con le sue intelligenze e le sue personalità scientifiche, ha continuato ad indicare il cammino verso ideali e verso nuove frontiere. Non so se Guido Dorso ristamperebbe oggi la sua Classe dirigente meridionale senza una serie di aggiornamenti dell'autore...


Da vent'anni, in quel Palazzo che fu di Gennaro Serra di Cassano, nel solco della scia lasciata da Croce e da Raffaele Mattioli, Gerardo Marotta, innamorato dei libri e della cultura, ha fatto nascere quel gioiello di intellettualismo europeo che è l'Istituto italiano per gli studi filosofici. In questi stessi ultimi venti anni, esponenti di prestigio della società napoletana e meridionale sono stati chiamati alla guida di grandi organizzazioni nazionali ed europee delle professioni e dell'imprenditoria.


Ed è di questi anni lo sforzo, spesso vano, ma anche con risultati talvolta incoraggianti, di costruire una classe imprenditoriale meridionale tale da portare tutto il Sud verso i traguardi cui ha il dovere di aspirare.


Allo stesso tempo e per altro aspetto, Napoli sta vivendo il «fenomeno Bassolino», che è del tutto anomalo rispetto alle altre situazioni italiane e la spiegazione è, forse, ancora una volta nella storia, che ci aiuta a capire il perché di certi fenomeni che, alla fine, appannano l'immagine stessa e i meriti che obiettivamente hanno uomini di prestigio, che pur hanno dato molto alla città, anche se a proprio modo.


Nella Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, c'è un passaggio che descrive l'arrivo a Napoli dei nuovi regnanti: lanciavano monete d'oro e d'argento e la gente accorreva e non aveva importanza se erano austriaci, francesi o spagnoli. C'erano infatti due buone ragioni per applaudire: le monete d'oro e d'argento e la possibilità di credere in un mito, di dare una sembianza fisica allo Stato.


Dopo Federico II, il senso dello Stato nelle Regioni meridionali si è affievolito; con gli Angioini, gli Aragonesi e gli spagnoli dei Vicerè è stato addirittura relegato in soffitta. Poi vennero i Borboni e lo Stato continuò ad essere lontano.


Con i Savoia, oltre che lontano, divenne un ectoplasma. L'Unità fu una vicenda di straordinario rilievo storico e politico, rilanciato dall'ampio schieramento moderato di centrodestra con il «nuovo» incontro di Teano, con una filosofia diversa e certamente molto più vicina a quella del liberalismo che vogliamo per il futuro.


Nel dopoguerra le figure che hanno avuto seguito a Napoli hanno in realtà continuato le sequenze descritte da Colletta. Ogni volta i napoletani hanno dato il loro consenso ad un personaggio che esprimeva qualcosa della «napoletanità», come direbbe Raffaele La Capria.


Una rilettura del saggio di Percy Allum ci aiuterebbe a comprendere il fenomeno Bassolino, che forse è già sulla china del giorno dopo e segnando, col contestato e contrastato passaggio alla Regione, la fase finale dei fuochi d'artificio, che hanno accompagnato il ritorno di immagine di Napoli sulla ribalta internazionale come luogo di meetings e di straordinari percorsi museali, ma con il bagaglio dei suoi grandi problemi irrisolti, in quel ventre di cui scriveva Matilde Serao.


È tempo che l'anima di Napoli riaffiori. Ormai il sole, il mare e le canzoni non bastano più se vogliamo evitare il rischio - come ha scritto recentemente Biagio de Giovanni - che il popolo di Napoli torni ad essere plebe, con una borghesia incapace di mettere la passione e l'intelligenza al servizio della causa comune.


Napoli ha bisogno di tornare ad essere una capitale europea ed ha cominciato ad avere i numeri per esserlo almeno come capitale della cultura.


Il secolo che si è aperto sarà ancora e di più il secolo del grande confronto tra il Nord ed il Sud, nel quale il nostro ruolo non potrà limitarsi a quello di grande regolatore del pur devastante fenomeno dell'immigrazione verso il Nord, ma dovrà portare le nostre capacità di lavoro nei paesi del Mediterraneo, a favore delle aree più deboli, creando reali e proficue osmosi.


Anche così si realizza la libertà. Thomas Jefferson, il grande presidente americano che raccolse l'eredità di George Washington, volle che sulla sua tomba fosse scritto: «Dio ci ha dato la vita, Dio ci ha dato la libertà».


Sono parole, concetti che hanno guidato la crescita del nuovo mondo e che hanno ancora seguaci tra i credenti in quella «religione della libertà» che, dal centro storico di Napoli, Croce diffuse nell'Europa del secolo decimonono.


Giancarlo Laurini, notaio, insegna diritto commerciale all'Università Federico II di Napoli

 

 

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