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Chi voleva davvero

le industrie al Sud?

Carlo Mangio presenta l’ultimo lavoro di Luca Bussotti dal quale emerge che partiti, industriali e molti economisti, non fecero quasi nulla per favorire una vera e forte crescita industriale del Mezzogiorno: i perché di tale scelta


È ancora attuale la “questione meridionale”? E, se lo è, quali sono, oggi, i suoi nuovi termini?

Con questi interrogativi, Luca Bussotti, sociologo dello sviluppo dalla sensibilità storica, cerca di avviare l’analisi di quello che, a giusta ragione, viene indicato nel testo («Studi sul Mezzogiorno repubblicano. Storia politica ed analisi sociologica», Rubbettino, pp. 304, € 16,00) come il nodo irrisolto dello sviluppo capitalistico italiano. A partire dal capitolo introduttivo, l’autore cerca di mostrare come l’attenzione alla “questione settentrionale”, ormai affermatasi prepotentemente negli ultimi anni, sia il frutto di un’ottica distorta dalle radici lontane, che affondano nelle origini stesse dell’Italia repubblicana.

L’autore sostiene che, una volta dimostrata, all’indomani della Liberazione, l’evidente arretratezza della parte meridionale dell’Italia, le scelte da compiere potevano essere diverse da quelle che, alla luce dei fatti, sono state attuate. Se, da una parte, il maggiore partito di opposizione, il Partito comunista italiano, con la linea “istituzionale” voluta da Togliatti, ottenne una Costituzione avanzata ed istituzioni repubblicane e democratiche, tuttavia lo stesso pose in secondo piano il riequilibrio socio-economico Nord-Sud, a beneficio di una ricostruzione incentrata maggiormente sulla “quantità” e non sulla “qualità” dello sviluppo. L’obiettivo principale del Pci, condiviso anche dalle masse lavoratrici e dagli stessi sindacati, era quello di riuscire a diventare competitori reali sulla scena europea e mondiale.

In più, l’intrinseca debolezza nel Mezzogiorno, sia in termini organizzativi che elettorali, spinse quel partito a concentrare le proprie forze sulla parte centro-settentrionale del paese.


Le posizioni della Confindustria sul Mezzogiorno

Se questo è il tema del primo degli studi presentati, la stessa questione viene trattata nel capitolo relativo alla politica meridionalista della Confindustria, in cui s’intrecciano le posizioni di quest’ultima con quelle degli esecutivi a guida democristiana, della Svimez di Pasquale Saraceno e dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, fondata nel 1946 dallo stesso Saraceno, del ministro socialista dell’Industria Morandi, e di altri “riformisti”, sia laici che cattolici.

Ed il risultato non cambia: pur con motivazioni assai differenti e, per certi versi opposte, la Confindustria – non senza lacerazioni al proprio interno, come il testo stesso rileva anche grazie a documenti d’archivio inediti – spinse verso una direzione univoca dello sviluppo industriale italiano, comprendente anche la destinazione degli aiuti di Stato. Il libro mette efficacemente in evidenza le ragioni del contrasto tra i governi centristi e l’associazione degli industriali italiani, le cui posizioni non erano affatto allineate come si potrebbe presumere. Al contrario, a partire dall’istituzione dell’intervento straordinario, nell’agosto del 1950, la Confindustria si dimostra scettica, se non apertamente contraria, ad una politica tesa ad industrializzare il Mezzogiorno. Il punto di equilibrio che colmerà le distanze tra Dc ed industriali sarà costituito dagli interventi che riguarderanno in larghissima parte la costruzione di opere infrastrutturali e non certo di tipo produttivo.

Bussotti ricostruisce, nelle pagine del suo libro, anche il “caso-La Cavera”, esponente di spicco di Sicindustria, membro della direzione nazionale del Pli, ed acceso sostenitore della presenza dell’Eni in Sicilia.


La dottrina si divide

Il formidabile coagulo di interessi che si stringe intorno alla mancata industrializzazione del Meridione viene suffragato anche dalle scienze storico-sociali: come si rileva nel testo, le teorie economiche di Vera Lutz, gli studi antropologici e sociologici di prestigiosi esponenti di scuola anglo-americana, le teorizzazioni di carattere storico di Rosario Romeo, sono tutti pezzi di un mosaico culturale che giustificano, in qualche modo, il disimpegno di governo e forze economiche dal Mezzogiorno.

Uniche eccezioni Saraceno e la Svimez, fautori di uno sviluppo equilibrato del paese, e per questo motivo inascoltati dalle loro stesse aree politiche di riferimento, quella democristiana e quella laico-liberale, ormai pronte ad accettare sul Meridione la mediazione con la Confindustria.

In questo senso va letto l’ultimo degli studi presenti nella prima parte del libro, maggiormente caratterizzata in senso storico, nella quale si ricorda l’esperienza di una rivista “storica” delle sinistre meridionali, «Cronache meridionali», in cui domina la figura di Rosario Villari e, accanto a lui, si avverte la presenza di numerosi storici, quali Aurelio Lepre, Pasquale Villani, Lucio Villari ed altri, con l’obiettivo di dare dignità sociale e politica alla vicenda del Mezzogiorno d’Italia attraverso i secoli. Fine ultimo era dimostrare come i meridionali non siano “antropologicamente” destinati al sottosviluppo, ma che, piuttosto, i germi di positive evoluzioni siano comparsi più volte nel passato di questa terra; tuttavia ragioni di tipo economico e politico hanno fatto sì che tali spunti fossero relegati ai margini della storia italiana.

Una battaglia, quindi, tutta culturale, che l’autore cerca di riprodurre attraverso le pagine della citata rivista.


Lo sviluppo delle realtà locali

Se la prima parte del lavoro si sofferma approfonditamente sui motivi passati e generali del sottosviluppo meridionale, la seconda intende esaminare più da vicino le dinamiche recenti.

Ovviamente vi è un filo conduttore che accomuna le due sezioni del libro: quale ruolo ha avuto lo sviluppo locale nella vicenda meridionale, e perché esso è stato riesumato, non in termini teorici ma come pratica politica, soltanto nel corso degli anni Novanta? Ancora una volta, gli spunti proposti appaiono interessanti, a partire dall’origine delle teorie di sviluppo locale in Italia, paradossalmente evocate dalla Confindustria.

Tuttavia, ciò viene fatto – a detta dell’autore – in maniera strumentale, come una sorta di “laissez-faire” destinato ad abbandonare definitivamente il Mezzogiorno a se stesso, a seguito del “vuoto desolante” lasciato dalle politiche dei “poli di sviluppo”. In realtà – così viene sostenuto nel libro – la dimensione locale ha sempre costituito una delle più gravi carenze nello sviluppo del Mezzogiorno, le cui classi dirigenti, almeno nel Secondo dopoguerra, hanno preferito gestire pacchetti finanziari provenienti dall’alto, senza esprimere alcuna progettualità, anzi affogando nel nulla le poche iniziative della “società civile” di un qualche interesse.

Non è un caso, allora, se, proprio alla fine dell’intervento straordinario, siano emerse, grazie anche all’opera del Cnel, le soggettualità territoriali, che hanno trovato uno sbocco concreto negli strumenti di programmazione negoziata, come i patti territoriali e i contratti d’area.


Lo studio dei recenti tentativi di sviluppo autocentrato

Nel testo si dedica ampio spazio a questa stagione, che attraversa tutti gli anni Novanta, anche se si ammette la difficoltà di compiere un bilancio definitivo di essa, sia in termini quantitativi (numero di posti di lavoro creati, investimenti compiuti, ecc.) che, soprattutto, qualitativi.

Mediante l’analisi di un “case-study” compiuto su Lamezia Terme, l’autore si chiede se tali strumenti abbiano avuto efficacia, in un’ottica di crescita, nei soggetti sociali, politici ed economici meridionali, di una cultura e di una consapevolezza su un tipo di sviluppo autocentrato e non più dipendente esclusivamente da fattori esterni.

Su tale quesito si ferma lo studio di Bussotti che, al di là di una certa frammentazione “genetica”, riesce tuttavia a raggiungere un notevole grado di omogeneità tematica, ponendo interrogativi ancora attuali rispetto ai meccanismi inerenti allo sviluppo dualistico italiano.


Carlo Mangio

(Anno II, n. 13, luglio 2004)

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"Chi voleva davvero le industrie al Sud?" di Carlo Mangio è tratto da:

Rubbettino
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