Alla base del nostro Risorgimento vi fu indubbiamente un forte afflato nazionalistico. Ma anche altri furono gli elementi che concorsero nel movimento risorgimentale. Tra gli altri vi fu anche un certo "imperialismo" del Nord nei confronti del Sud: tanto per fare qualche esempio,
i Mille di Garibaldi erano quasi tutti lombardi e, quando i "cafoni"
del Sud manifestarono il loro dissenso con il cosiddetto brigantaggio,
ci pensò l'esercito piemontese a riportarli alla ragione. Ma vi
fu anche un terzo elemento, dopo quello nazionalistico e
"imperialistico".
Un elemento che non manca mai, neanche nei movimenti permeati dai
più alti ideali: quello "affaristico". In pochi sanno, anche
perché a scuola non ce l'ha insegnato mai nessuno, che la
spedizione dei Mille (tutti idealisti come il loro capo, è fuor
di dubbio) fu finanziata dagli industriali lanieri di Biella.
Il motivo che spinse questi uomini d'affari a tale (apparente) gesto di
liberalità fu molto semplice: producevano ad un buon prezzo dei
panni di lana di ottima qualità, che, però, non
riuscivano a "piazzare" nel Regno delle Due Sicilie perché i
Borboni, per proteggere i panni di lana che si producevano ad Isola ed
Arpino, imponevano su quelli che venivano da fuori dei consistenti dazi
doganali.
I lanieri di Biella pensarono: se finisce il Regno delle Due Sicilie
finiscono anche i dazi. E così fu. Qualche anno dopo
l'Unità d'Italia i lanifici della Valle del Liri chiusero, uno
dopo l'altro.
Per ironia della sorte, uno di questi (forse il più grande)
apparteneva all'industriale arpinate Giuseppe Polsinelli, che tanto si
era prodigato per l'Unità.
Di recente, a Teano, luogo simbolo dell'Unità d'Italia, si sono
incontrati gli uomini-simbolo (probabilmente inconscio) dei tre
elementi costituitivi del movimento risorgimentale.
Nella cittadina campana c'era Fini, che ben possiamo considerare il
continuatore dell'ala "nazionalistica".
C'era, in rappresentanza di Bossi, Maroni, numero due della Lega
Lombarda, continuatrice dell'ala "imperialistica".
C'era Berlusconi, che, penso sia fuor di dubbio, è un uomo
d'affari e che, in quanto tale, ben possiamo considerare l'erede della
corrente "affaristica".
C'era anche Casini, erede (anch'egli inconsapevole) di quella corrente
cattolica minoritaria che dette un contributo (sia pur minimo) al
movimento risorgimentale. Una cosa è certa: tutti i leaders
politici che si sono dati appuntamento (di recente) a Teano sono
(guarda caso) del Nord, come del Nord erano anche gli altri due leaders
che qui (o poco più in là) si incontrarono nel 1860.Il
giorno successivo alle elezioni regionali che hanno visto trionfare in
tutto il Nord e, in parte, anche nel Centro e nel Sud i partiti di cui
sono a capo i leaders anzidetti, il rieletto Presidente della Regione
lombarda alla radio (seguo poco la televisione) ha dichiarato: "Nel
Nord si produce l'80 % del P. I. L. e l'80 % di ciò che l'Italia
esporta.
Il Governo centrale non potrà continuare a non tenerne conto".
Ed ora che, con le probabili elezioni politiche, Berlusconi, Bossi,
Fini e Casini avranno in mano il Governo centrale, sicuramente ne
terranno conto. Francesco Saverio Nitti in un libro scritto nel 1903 ha
evidenziato come, al momento dell'Unità, in tutta Italia vi
erano riserve aurifere per complessivi 668 milioni di lire.
Di questi ben 443 vennero portati in dote dal Regno delle Due Sicilie.
La Lombardia (udite, udite) contribuì con 8 milioni. Il Regno di
Sardegna, che comprendeva anche il Piemonte e la Liguria, con 27.
Ora, dopo oltre cento anni di politica "filonordista", ci vengono a
dire che l'80 % del P. I. L. si produce al Nord. Forse non aveva tutti
i torti Francesco II di Borbone, quando, lasciando Gaeta, disse: "Il
Nord non lascerà ai meridionali neanche gli occhi per piangere".
Novità in vista in questa Italia «perennemente da fare, illimitatamente futura» (parola di poeta: Mario Luzi). Ma non certo perché un passaggio a cose nuove sia stato da qualcuno fortemente voluto. Tanto meno perché sottoscritto da Berlusconi e Bossi in un codicillo segreto del patto elettorale tra Forza Italia e «forza Padania», come sostenuto nell'articolo di giornale che ha ferito il leader dell'opposizione.
Tanto gli è dispiaciuto, quell'articolo, da indurlo a marciare quest'oggi sulla fatal Teano, con i capi del centrodestra, per testimoniare la persistenza dell'afflato unitario del Nord e del Sud, centoquarant'anni dopo il precedente, storico incontro.
Italiani sempre uniti, ma non sarà più la stessa cosa. Ancora una volta, il Caso irrompe nella nostra vicenda collettiva, come la passeggiata di un bighellone senza meta che finisce per trovarsi nel luogo di un destino non cercato.
La metamorfosi federale del vecchio Stato unitario, più che in un calcolo razionale, è iscritta nella distrazione di una classe politica che ha dato corso all'elezione diretta dei presidenti di regione e al potere costituente legato alla definizione degli statuti regionali, prima ancora di affrontare il problema del rafforzamento del governo nazionale. Il resto ne discende, come il frutto cade dal ramo.
L'oggetto di questa consultazione elettorale, sebbene nessuno abbia ritenuto fin qui di intrattenerci sull'argomento, è la dislocazione del potere dal centro alla periferia. Stiamo per eleggere parlamenti e governi regionali che saranno più forti delle istituzioni statali.
Inutile, oltre che tardivo, piantare paletti per contrassegnare termini non oltrepassabili, poiché chi volesse passarli non potrebbe essere fermato.
Del resto, nessuno si è sognato di dare sulla voce a Bassolino, candidato del centrosinistra nella regione Campania, quando, a Eboli, ha auspicato la formazione di una macroregione meridionale, speculare al vecchio progetto nordista di Bossi.
La nuova parola magica: «federalismo», non avrebbe tanta fortuna se non alludesse a un cambiamento tanto radicale quanto ormai acquisito dal senso comune.
Ancora troppo imbarazzante per parlarne liberamente dopo secoli di sacrosanta retorica unitaria, ma anche troppo razionale per subire contestazioni.
Sappiamo tutti, per esperienza diretta, che l'amministrazione pubblica non funziona e nessuno si aspetta più che uno Stato snervato da innumerevoli cessioni e usurpazioni di sovranità sia capace di svolgere quello che è oggi il suo compito primario: creare condizioni favorevoli per l'afflusso degli investimenti.
Attualmente così poco favorevoli — per eccesso di tassazione e di burocrazia, come per pochezza di servizi e di flessibilità nei rapporti di lavoro — che gli investitori restano alla larga dall'Italia. Sapendo questo, si è portati a credere che le cose andrebbero meglio se, per esempio, nel Nord Est delle piccole imprese rampanti e nella Campania della disoccupazione di massa, forti istituzioni di autogoverno restituissero alla politica la forza di corrispondere alle aspettative delle popolazioni e degli operatori economici.
Non è indispensabile essere fanatici del vecchio Marx per convenire sul fatto che le rivoluzioni del modo di produrre determinano i grandi cambiamenti delle società.
L'assetto centralista tramonta insieme con il modello di produzione della grande impresa «fordista» e con le sue appendici, come centralità della classe operaia e Stato sociale.
Oggi le opposte, ma concomitanti, spinte della impresa sovranazionale e di quella «reticolare», richiedono un ambiente istituzionale diverso. Né centralizzato, né frammentato in una fricassea di localismi.
Dunque uno Stato regionale, o «federale» che dir si voglia. Le cose cambiano, ma il sentimento profondo degli italiani garantisce che l'unità nazionale non sarà messa in discussione.
A due condizioni: che non sia troppo a lungo esposta alla prova della divaricazione degli interessi territoriali e dell'inconcludenza dei pubblici poteri; e che la politica torni in sé per governare il cambiamento.
TEANO (Caserta) — Se Bassolino s'è fermato ad Eboli per lanciare il suo manifesto, il Polo e la Lega ripartono da Teano per presentare la loro ricetta liberale per il Mezzogiorno. Sotto il quadro che ritrae lo storico incontro del 26 ottobre 1860 tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi (in realtà forse avvenuto alla "Locanda della catena" della vicina Vairano scalo, ma vabbè), incuranti dell'indignazione del centrosinistra (D'Alema: «E' stata una messinscena di pessimo gusto, Teano è una pagina gloriosa della nostra storia») semmai felici di aver scelto un luogo simbolo per l'unità d'Italia dopo la buriana seguita al siluro di Eugenio Scalfari, ieri si sono schierati Berlusconi, Fini, Casini, una selezione di colonnelli e cinque candidati — da Rastrelli a Formigoni — alla presidenza di altrettante regioni.
Con loro non c'era Bossi (l'iconografia garibaldina era forse troppo
per lui...), ma il suo numero due Bobo Maroni, che è riuscito
nell'impresa di farsi applaudire da una platea di campani («E'
scandaloso che certe accuse ci vengano dalla sinistra, che fino a due
mesi fa voleva l'accordo con noi»).
Ma come al solito è Silvio Berlusconi a tenere il timone.
«Noi — attacca — combattiamo con le armi dei valori e dei
programmi, loro con quelle della disinformazione». E giù
sciabolate contro «le menzogne che ci hanno rovesciato addosso:
dalla polemica sull'immigrazione fino all'ultima fanfaluca, la mia
presunta apertura a D'Alema, che non c'è mai stata».
Anzi, chiarisce, «questo premier per me è il più
comunista di tutti, comunista nella testa». E ce n'è anche
per i radicali giacché «ormai sarà chiaro a tutti
che chi vota Bonino o Pannella vota per la sinistra». Una battuta
anche per le riforme: «Sono convinto che il cancellierato sia un
buon sistema. Tuttavia molti in Forza Italia guardano con simpatia al
modello americano...».
Quanto alla polemica sulla devolution innescata da Scalfari sarà
Fini il più corrosivo («un falso scoop di un trombone
vero»), mentre Berlusconi si preoccuperà di spiegare
«quanto sia paradossale pensare che un partito che si chiama
Forza Italia e ha come simbolo la bandiera nazionale e un partito che
si chiama Alleanza Nazionale possano tramare contro l'unità
nazionale». «La Lega — aggiunge — non è più
secessionista».
In sintonia anche i leader di An e Ccd. «L'intesa con la Lega —
osserva Fini — si basa su di un federalismo che serve sia al Nord che
al Sud». «D'Alema è smemorato — rincara la dose
Casini — perché ieri, quando Bossi era secessionista, era
disponibile a corteggiare la Lega, e oggi fa finta di essere
preoccupato solo perché ha paura di perdere».
Ma il meeting di Teano doveva è servito anche a presentare la
ricetta di Polo e Lega «per la rinascita del Mezzogiorno».
«La formula — dice Berlusconi — è quella della ricetta
liberale che così bene ha funzionato in Spagna, in Inghilterra,
negli Usa. La ricetta è quella dell'84: meno tasse, meno
sprechi, meno rigidità nei contratti di lavoro».
Tremonti entra nel dettaglio. Promette infrastrutture. Per la ripresa
industriale invece presenta un vigoroso progetto di sgravi fiscali.
«Vogliamo ridurre ad un terzo il peso fiscale sulle imprese del
Sud. In pratica gli imprenditori meridionali dovrebbero pagare 30
mentre i loro colleghi in altre aree continuerebbero a pagare 100. Gli
sgravi durerebbero 5 anni e ci costerebbero 2 mila miliardi che
recupereremmo abolendo le agevolazioni per le cooperative con oltre 30
miliardi fatturato».
Nelle foto: Fini, Maroni e Berlusconi. Sotto, l'incontro a Teano tra
Garibaldi e Vittorio Emanuele II
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