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Fonte:
Gazzetta Economia, 04/2004

"RIDATECI LE DUE SICILIE"

 di Gianni Custodero

A Roma appena uscita dalla guerra, mentre tutte le certezze sembravano franare tra le rovine, una mano ignota aveva scritto su un muro sbrecciato «aridatece er puzzone». Per fortuna non siamo ai verbi difettivi come allora anche se il livello di credibilità delle istituzioni continua a scendere. Il federalismo, però, nella versione approvata dal Senato, fa venire davvero voglia di gridare e di stampare i caratteri cubitali sulle cantonate: ridateci le Due Sicilie. Non si tratta di invocare il ritorno dei Borbone, ma di pensare a qualcosa che faccia da contraltare alla Padania sì.


La soluzione varata a palazzo Madama non è solo un successo della Lega e di Bossi: piaccia o non piaccia ai piani alti della filosofia politica, è tagliata su misura nell’ interesse del Nord, cioè dei loro elettori. Che non sono solo scalmanati in camicia verde. Dietro queste avanguardie, infatti, non mancano industriali in doppiopetto e cravatta ed un popolo di piccoli e medi perseguitati fiscali..


Che poi «una larghissima maggioranza di costituzionalisti» abbia «espresso montagne di perplessità e di riserve» come ricorda Giovanni Sartori sul “Corriere della sera”, che stiamo andandoci a ficcare in un ginepraio, come sostiene Sabino Cassese, sempre sul “Corriere”, che questo federalismo produrrà «con ogni probabilità l’aumento della fiscalità, della spesa pubblica e della complessità burocratica, amministrativa e istituzionale» secondo l’opinione, da economista, del ministro Antonio Martino, è un altro discorso.


Giuseppe De Tomaso, che dell’esperienza regionale conosce vita e miracoli, evidenzia , giustamente, nella “Gazzetta del Mezzogiorno”, il prevedibile «aumento degli sprechi, del caos, dell’inefficienza, dei costi, delle tasse» e spera che i deputati meridionali della maggioranza «diano segni di vita». Che per il Sud, se la riforma va in porto, saranno guai grossi è scontato. Si può, comunque, essere certi che fino alla fine qualcosa accadrà.


È chiaro che non è questione di girotondi o di abbandoni dell’aula. Ma si tratta di una revisione della Costituzione: tra Camera, seconda votazione nei due rami del Parlamento e referendum, più che probabile sicuro per l’impossibilità di raggiungere la maggioranza di due terzi nella seconda approvazione, nulla, quindi, per fortuna, è ancora definito. Intendiamoci: il problema non è il federalismo ma il sistema e lo aggravano quelli che De Tomaso chiama mostri legislativi e che non riguardano solo il recente parto del Senato.


Questa medaglia, però, sarà pure una patacca ma, come tutte, ha un rovescio. Potrebbe, infatti, avviare finalmente un dibattito serio per un federalismo serio: finora le riforme hanno sempre dovuto fare i conti con i compromessi, con i rinvii, con i diktat e con la fretta di portare a casa qualcosa. Il risultato sono stati i rammendi, i rappezzi ed i rimedi quasi sempre peggiori del male tra prima e seconda Repubblica.


Il buco nero della spesa pubblica non è certo stato prodotto dai marziani o a colpi di bacchetta magica. Ha ragione l’assessore al bilancio della Regione Puglia, Rocco Palese: è tempo di affidare il tutto ad un’Assemblea Costituente perché proponga un nuovo modello di Costituzione. Non è il solo a pensarla così.


Sarebbe la soluzione più logica. Ma anche la più difficile. E ad altissimo rischio per la classe politica attualmente in sella. Inutile nasconderlo: per il federalismo si deve cominciare da un ridimensionamento al centro del governo e degli organi legislativi. E qui sta il busillis. Perché è inimmaginabile che il Parlamento decida un’autoriduzione o si spogli dei suoi poteri.


Ed è follia sperare che senatori e deputati mettano a repentaglio la propria rielezione ed i propri privilegi. I partiti? Ma dove sono? Sembra che non importi a nessuno se di questo passo si va verso lo sfascio istituzionale.


Era un Borbone Luigi XIV, il re Sole, che dichiarava «après moi le deluge»: dopo di me il diluvio. Dobbiamo proprio rassegnarci, dopo aver chiuso con la monarchia nel 1946, ad una sorta di poliarchia o, piuttosto, ad una forma di neofeudalesimo che, nonostante l’euro, non fa Europa?


Certo, per voltare pagina ci vuole un’Assemblea Costituente. Possibilmente con pochissimi componenti, costituzionalisti ed economisti non di comodo. C’è qualcuno che sponsorizza una soluzione del genere?


GIANNI CUSTODERO







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