Eleaml


Fonte:
https://www.svimez.it/
SVIMEZ
Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
RAPPORTO 2005 SULL'ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO
(trentesima edizione)
(collegati al sito della SVIMEZ se vuoi scaricare il file in formato PDF)

Linee introduttive


Roma, 15 luglio 2005

1. IL MEZZOGIORNO NEL RALLENTAMENTO DELLECONOMIA ITALIANA  

Nel 2004, per la prima volta dopo diversi anni, l’economia meridionale ha fatto  segnare un tasso di crescita inferiore a quello del Centro-Nord. In base alle valutazioni  di preconsuntivo della SVIMEZ, nel 2004 la crescita del PIL è risultata, infatti,  dell’1,4% nel Centro-Nord, con una netta accelerazione rispetto allo 0,2% del 2003, e dello 0,8% nel Mezzogiorno, che fa seguito allo 0,4% dell’anno precedente. All’interno di una fase di sviluppo lento dell’economia nazionale, è proprio l’economia meridionale a manifestare evidenti segnali di difficoltà, confermati anche dai dati relativi all’andamento dell’occupazione, che ormai da circa due anni cresce soltanto nelle  regioni del Centro-Nord.

Sembra dunque essersi interrotto, dopo l’indebolimento già manifestato nel corso del 2003, un ciclo positivo per il Mezzogiorno che, pur all’interno di una crescita complessiva del Paese inferiore a quella dei principali paesi europei, aveva portato tra la metà degli anni ’90 e i primi anni del 2000 a tassi di crescita stabilmente superiori rispetto al Centro-Nord: nel periodo 1996-2004 il Mezzogiorno è cresciuto  cumulativamente del 16,3%, oltre tre punti percentuali in più rispetto al resto del Paese (13,2%).

Qualsiasi giudizio relativo alla performance nel 2004 della ripartizione meridionale deve necessariamente partire dalla considerazione della difficile fase che  sta attraversando il nostro Paese nel suo complesso di fronte al rapido mutare delle condizioni di contesto competitivo internazionale.

L’economia italiana, come noto, stenta a tenere il passo non solo con il veloce sviluppo di quella mondiale, ma anche con la contenuta dinamica dei paesi europei. La  quota complessiva dell’Italia sugli scambi mondiali ha continuato a diminuire dal picco del 1995 (4,6%), scendendo al 2,9% del 2004, due decimi di punto in meno di quella dell’anno precedente.

Il dato che emerge con particolare chiarezza è quello di un deficit di competitività, che è il riflesso di una limitata dinamica della produttività dei fattori; in primo luogo, quella del lavoro, che dopo due anni di significative flessioni è risultata in  Italia nel 2004 poco più che stazionaria (+0,5%) a fronte di incrementi del 2,1% in Francia e dell’1,6% in Germania. La conseguenza è una elevata crescita del costo del lavoro per unità di prodotto – il principale indicatore di competitività – aumentato nel  2004 del 2,3% in Italia rispetto allo 0,9% della Francia e alla diminuzione dell’1,3% registrata in Germania.

E’ in un simile quadro che vanno valutati i risultati fatti registrare nel 2004 dall’economia meridionale. Rispetto al dato nazionale, la congiuntura economica si è  caratterizzata infatti nel Mezzogiorno per un minore apporto complessivo della pur debole ripresa della domanda estera e per una più forte decelerazione dei consumi interni.

La crescita dell'export, in termini di valori correnti, è risultata più sostenuta nel Mezzogiorno che nel Centro-Nord: +8,9% a fronte del + 5,8%; ma, per effetto del minor  grado di integrazione internazionale della sua economia, la ripresa della domanda estera ha esercitato un impatto assai più debole sulla crescita complessiva dell’economia dell’area.

Quanto alla domanda interna, il rallentamento verificatosi lo scorso anno nel Mezzogiorno è interamente ascrivibile alla forte riduzione del tasso di crescita dei  consumi finali interni, passati dall’1,7% del 2003 allo 0,9% del 2004. Un simile ridimensionamento riflette non solo la brusca riduzione della dinamica della spesa  pubblica nelle regioni meridionali (0,8% rispetto al 3,0% del 2003) ma, soprattutto, il  comportamento delle famiglie, che hanno fortemente contenuto il volume dei consumi, con riduzioni particolarmente rilevanti nella spesa in beni alimentari, vestiti e calzature (i cosiddetti “beni-salario”). Si tratta di un segno preoccupante delle accresciute  difficoltà economiche delle famiglie meridionali. Accanto ad esse, un ruolo determinante nel deprimere le decisioni di spesa al Sud hanno giocato aspettative non favorevoli: secondo l’indagine ISAE, le attese di reddito e di benessere per la proprio  famiglia sono giunte alla fine del 2004 nel Mezzogiorno al livello più basso dell’ultimo  quinquennio.

E’ sul versante dell’occupazione che le differenze di andamento tra Nord e Sud si sono manifestate con maggiore evidenza. Dopo anni di crescita intensa e anche più  forte di quella registrata nelle regioni del Centro-Nord (+350 mila posti di lavoro tra il 2000 e il 2002), nell’ultimo biennio l’occupazione si è ridotta al Sud di 48 mila unità, a  fronte di un crescita al Centro-Nord di oltre mezzo milione di unità. La situazione  particolarmente grave del mercato del lavoro meridionale è confermata dalla forte riduzione delle persone che partecipano al mercato del lavoro (le cosiddette forze di lavoro). Nel corso del 2004 si è infatti consolidata la tendenza, già in atto dall’anno  precedente, ad una riduzione dei tassi di attività nella ripartizione, segnale evidente di un diffuso effetto di scoraggiamento che ha indotto soprattutto le fasce più deboli dell’offerta di lavoro, i giovani e le donne, a non partecipare attivamente alla ricerca di  lavoro, a rifugiarsi nel sommerso o, ancora, a scegliere la strada dell’emigrazione verso  le regioni del Centro-Nord. Solo alla luce dello svuotamento del bacino di coloro che cercano lavoro si può leggere il dato, apparentemente contraddittorio con l’andamento negativo dell’occupazione, del calo nel 2004 del numero delle persone in cerca di occupazione al Sud (-107 mila unità), con la conseguente riduzione del tasso di disoccupazione ( dal 16,1% al 15% del 2004).

L’andamento congiunturale dell’economia meridionale mostra dunque nel 2004 un quadro tutt’altro che positivo. Molte delle luci che si erano accese nel difficile  contesto economico del nostro Sud si sono andate affievolendo nel corso dell’ultimo biennio. Si è interrotto il processo di creazione di occupazione; si è indebolito – nonostante alcuni segnali di ripresa lo scorso anno – quel processo di accumulazione  che aveva rappresentato il principale elemento di rottura rispetto alla stasi in atto fino alla metà degli anni’90; si è, in via più generale, andata indebolendo quella spinta propulsiva che si basava su una diversa qualità della crescita (meno trasferimenti  assistenziali, maggiore apertura internazionale, maggiori investimento) ma anche sulla ricostituzione di valori civili (impegno per la legalità, nuovo ruolo protagonista delle amministrazioni locali, voglia di intraprendere), che aveva consentito di arrestare la  tendenza all’ampliamento delle distanze tra Nord e Sud in atto nel precedente ventennio.

Occorre dunque cercare di riavviare il processo di sviluppo del Mezzogiorno facendo leva su ciò che di buono è stato fatto in questi anni. Il nuovo modello di  sviluppo non può che continuare a basarsi su di un virtuoso intreccio di intervento pubblico e di iniziativa privata; esso va, però, aggiornato alle radicalmente mutate condizioni di contesto internazionale venutesi a determinare con l’allargamento  dell’Unione europea e con l’entrata sul mercato mondiale di nuovi protagonisti (la Cina e l’India, in primo luogo).

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2. L’INTEGRAZIONE INTERNAZIONALE: UNA SCELTA OBBLIGATA PER IL SUD  

La difficile fase economica che sta attraversando il nostro Paese impone una diversa lettura anche del contributo che il Mezzogiorno può dare nel processo di  adattamento del sistema nazionale alle mutate condizioni di contesto internazionale. Occorre partire dalla constatazione che per l’Italia, e ancora di più per il Mezzogiorno, l’industria rimane un crocevia obbligato: la scorciatoia del terziario non è  praticabile, anche perché il terziario avanzato potrà svilupparsi soltanto insieme all’industria, e non al posto di essa.

Vanno quindi analizzate le condizioni perché il settore industriale italiano possa uscire dalle difficoltà in cui attualmente versa e, all’interno di tale missione, verificare quale può essere il ruolo del Mezzogiorno. L’esperienza dell’ultimo decennio ha  indicato che è sul campo dell’integrazione internazionale che si giocano le possibilità di crescita del Paese: solo il raggiungimento di adeguati livelli di competitività nei settori concorrenziali può consentire al nostro sistema produttivo, da un lato, di partecipare alla  crescita della domanda mondiale e, dall’altro lato, di non essere spiazzato sul mercato interno.

La perdita di competitività che l’industria italiana ha fatto segnare negli ultimi anni non è certo dovuta a fattori di natura congiunturale, ma è da ricondurre ad una inadeguata rispondenza della struttura dell’offerta nazionale alle componenti più  dinamiche della domanda mondiale. Il declino subito dalla quota delle esportazioni nazionali sul commercio mondiale, in atto dalla metà dello scorso decennio, sembra sintetizzare i principali aspetti strutturali della crisi italiana. La spiegazione principale di questo declino non può essere trovata soltanto nell’apprezzamento dell’euro, che  certamente ha rappresentato un fattore di difficoltà aggiuntiva; un ruolo determinante è stato svolto dalle caratteristiche del modello di specializzazione internazionale della nostra economia, incentrato su produzioni qualificabili a tecnologia medio-bassa – per  di più talora altamente standardizzate – e orientato verso mercati (la Ue a 15, soprattutto) nei quali la domanda mondiale è aumentata più lentamente negli ultimi anni[1]. Oltre agli effetti di composizione, il cedimento della quota italiana sembra riflettere anche i mutamenti nella “divisione internazionale del lavoro” dovuti alle scelte di localizzazione delle grandi imprese multinazionali. Il successo della Cina e di altri  paesi emergenti – come l’Irlanda all’interno dell’area dell’euro – è in misura rilevante  da attribuire agli investimenti esteri affluiti negli anni ‘90, che hanno mutato  radicalmente la geografia mondiale della produzione e delle esportazioni manifatturiere.

L’Italia manifesta da tempo una scarsa capacità di intercettare questi flussi – e il Mezzogiorno in maniera più accentuata – a causa di un insieme di problemi strutturali del suo sistema economico, tra i quali assume rilievo crescente lo scarso grado di  apertura concorrenziale di molti settori dei servizi.

La scarsa integrazione dell’economia meridionale nei mercati internazionali condiziona negativamente i risultati complessivi del Paese. Il divario rispetto al Centro-  Nord appare molto forte sia sotto il profilo delle esportazioni, sia per quanto attiene all’attività delle multinazionali, misurata dai flussi di Investimenti Diretti Esteri (IDE) in entrata o in uscita. L’incidenza percentuale delle esportazioni di merci meridionali sul totale nazionale è stata pari nel 2004 al 10,6% (e pari a poco meno dello 0,5% del  commercio mondiale; livello analogo a quello del Portogallo, la cui popolazione è la metà di quella del Mezzogiorno.). La quota di addetti impiegati in aziende di proprietà estera localizzate nel Mezzogiorno (c.d. “internazionalizzazione passiva”), si è attestata nel 2004 poco al di sopra del 6% del totale nazionale; ancora più basso, appena il 2%, è  risultato il peso degli addetti impiegati in unità produttive estere appartenenti ad aziende del Sud (c.d. “internazionalizzazione attiva”).

Per aumentare il grado di integrazione internazionale del sistema meridionale occorre partire da alcuni punti di forza attualmente esistenti. Il modello di  specializzazione internazionale del Mezzogiorno ha potuto contare su vantaggi comparati in due gruppi di settori. Il primo, dominato da imprese medio-grandi a  controllo prevalentemente esterno alla ripartizione (mezzi di trasporto, prodotti energetici raffinati), ha mostrato anche negli ultimi anni una sostanziale tenuta della quota di export meridionale sul totale mondiale. Un secondo gruppo è caratterizzato da una più forte presenza di imprenditori locali, in qualche caso organizzati in forma distrettuale, nei settori dei beni di consumo per la persona e per la casa, e nell’agroalimentare; esso ha, però, mostrato, nel nuovo contesto di integrazione e globalizzazione dei mercati, crescenti difficoltà competitive, legate alle caratteristiche di specializzazione e alle ridotte dimensioni di scala operativa. In definitiva, la scarsa capacità del sistema economico italiano di attrarre (o trattenere) investimenti esteri e l’inefficienza dinamica del suo modello di  specializzazione, appaiono come le spiegazioni principali della crisi, strutturale, attraversata dalle esportazioni, e più in generale dal sistema industriale italiano. La realizzazione di un maggior grado di apertura internazionale, sia attraverso la crescita  dell’export che attraverso una maggiore capacità di attrarre investimenti esteri, rappresenta dunque una opzione pressochè obbligata se si vuole far ripartire il processo di sviluppo del Paese, e quindi del Mezzogiorno. Una simile opzione richiede però  adeguate e incisive politiche di intervento che facciano leva sui punti di forza tuttora presenti, nonché sulle nuove opportunità che offre il nuovo quadro internazionale.

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3. LE OPPORTUNITÀ DI UNA NUOVA CENTRALITÀ DEL MEZZOGIORNO  

In una fase di espansione e di profondo cambiamento del mercato mondiale, quale quella attuale, un’area come il nostro Mezzogiorno, debole ma con ancora molte  risorse, in primo luogo umane, inutilizzate, deve porsi in condizione di offrire convenienze alla localizzazione di nuovi investimenti, anche e soprattutto in settori  diversi da quelli tradizionali. Ciò richiede un sistema integrato di interventi in grado di fare “massa critica”, così da rendere attrattivo il territorio, sia rispetto a processi di  delocalizzazione di imprese esterne – nazionali ed estere –, sia a investimenti volti a crear nuove iniziative in settori ad alto contenuto di conoscenza. La strategia di politica  di sviluppo non potrà che essere complessa ed articolata, e protratta nel tempo, coerentemente con l’obiettivo non di breve termine dello sviluppo di un’economia concorrenziale. E dovrà riguardare una pluralità di campi di intervento – dalle politiche  per l’infrastrutturazione di base a quelle per lo sviluppo della logistica, dalle politiche di vantaggio fiscale a quelle industriali di carattere non solo orizzontale ma anche  selettivo, dalle politiche per la ricerca e l’innovazione al potenziamento del sistema  universitario e della ricerca di base, ai centri di ricerca applicata – così da introdurre discontinuità rispetto a scelte del passato, troppo condizionate dalle esigenze di difesa dell’esistente e poco attente a cogliere le trasformazioni in atto.  Il recupero di una nuova centralità del Mezzogiorno, per tramutarsi da mera enunciazione di principio in concreta opzione di sviluppo, richiede dunque scelte  coerenti con le nuove, più concorrenziali condizioni dell’attuale scenario internazionale, ma anche con le nuove opportunità che esso può offrire.

La nuova centralità del Mediterraneo, può costituire certamente una grande opportunità per il Mezzogiorno. L’ampliamento della movimentazione delle merci  provenienti dalla Cina e dagli altri produttori dell’Estremo Oriente stanno infatti lentamente mutando la posizione del Mezzogiorno da “periferia” a possibile “porta d’accesso” all’Europa e ai suoi mercati.

Si tratta di condizioni che offrono all’Italia l’opportunità di trasformarsi nella più importante piattaforma logistica europea, e al Mezzogiorno un’occasione di rilancio, attraverso lo sviluppo della logistica e dei servizi ad alto valore aggiunto ad essa collegati, ma anche di attività industriali per la manipolazione delle merci prima della loro collocazione finale sui mercati. Le opportunità che si prospettano per il  Mezzogiorno rischiano, tuttavia, di restare in larga parte un “progetto” se la politica di infrastrutturazione non saprà trarne tutte le dovute conseguenze.

I dati presentati nel Rapporto danno conto di una presenza di infrastrutture portuali nel Mezzogiorno superiore a quella del Centro-Nord, ma con evidenti deficit di dotazione per la movimentazione e stoccaggio delle merci (in termini di accosti,  magazzini e piazzali); e soprattutto evidenziano un livello di dotazione nelle infrastrutture interportuali pari a meno del 10% di quello nazionale. Ciò pone per il Mezzogiorno seri vincoli all’attuazione di progetti integrati di notevole interesse nazionale e comunitario, come le Autostrade del Mare, e rischia di limitare l’attività portuale al solo transito delle merci. Lo sviluppo della logistica del Mezzogiorno,  orientato all’integrazione euro-mediterranea, implica, invece, il pieno sfruttamento delle potenzialità dei porti, sia come capacità, di attracco, sia come connessione e integrazione con altre modalità terrestri, stradali e ferroviarie, oltre che con i centri  urbani di riferimento e gli hinterland.

Occorre, insomma, che venga realizzato nel Mezzogiorno quel complesso di condizioni (nel campo dei collegamenti intermodali mare-terra) necessarie per cogliere le opportunità offerte da questa nuova centralità geografica, e attraverso esse innescare effetti moltiplicativi sul territorio in termini di reddito e di investimenti.

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4. LE INFRASTRUTTURE PER LINTEGRAZIONE  

La competizione globale sta offrendo dunque un’occasione da non mancare per modificare l’attuale specializzazione produttiva dell’area meridionale. In tale quadro, valenza strategica avrà la disponibilità di infrastrutture. Infrastrutture adeguate ed efficienti – integrate inoltre con le reti infrastrutturali di regioni e paesi confinanti – costituiscono, da un lato, un fondamentale elemento decisionale ai fini della  localizzazione dei flussi di investimento e di lavoro e, dall'altro, fattori cruciali per  assicurare la complessiva capacità competitiva del sistema produttivo esistente. Una migliore dotazione di infrastrutture funzionali è condizione indispensabile per la crescita dell’industria manifatturiera e dei servizi produttivi; ma anche per lo sviluppo dell’industria turistica, settore nel quale – come ha di recente sottolineato il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio – il Sud presenta ampie risorse  potenziali nei beni culturali e ambientali ancora non utilizzate e gode di vantaggi comparati.

Il territorio meridionale presenta ancora oggi un livello di dotazione infrastrutturale inferiore sia rispetto alle regioni del Centro-Nord sia rispetto agli  standard dei principali paesi dell’Unione europea. Nelle infrastrutture di trasporto, in  particolare, la dotazione complessiva risulta largamente inferiore ai livelli medi nazionali, e denuncia distanze particolarmente significative nell’offerta di servizi più moderni e nella mobilità a lungo raggio: con riferimento alle infrastrutture stradali,  risulta più modesta la presenza di autostrade (con un divario di quasi 25 punti percentuali rispetto all’indice medio nazionale); in quelle ferroviarie, la sottodotazione risulta assai rilevante nelle reti elettrificate (che denunciano un divario di 30 punti) e a doppio binario (con un divario di 50 punti). Anche nelle infrastrutture di base permangono situazioni di sottodotazione che  hanno effetti rilevanti sia per l’attività produttiva sia per la vita civile. Uno degli ambiti di perenne emergenza nel Mezzogiorno è quello delle risorse idriche. La carenza del sistema idrico meridionale è dovuta non tanto alla minore disponibilità delle risorse, quanto al sistema di distribuzione che determina irregolarità nell’erogazione del servizio: la quota di famiglie che se ne lamentano è pari nel 2002 al 27,7% nel complesso del Mezzogiorno – con punte del 37-38% in Sicilia e Calabria – contro il  6,6% del Centro-Nord. Ciò è dovuto in larga misura ad impianti obsoleti; basti pensare che su 100 litri di acqua che vengono immessi nella rete poco più di 60 litri giungono alle utenze finali nel Mezzogiorno (appena 50 litri in Puglia). Anche nelle infrastrutture  ambientali (depurazione rifiuti urbani, incenerimento rifiuti, discariche speciali) l’indice  sintetico di dotazione situa il Mezzogiorno su livelli notevolmente deficitari (55% del valore nazionale).

Di fronte a simili fabbisogni, la programmazione infrastrutturale attivata ai vari livelli (nazionali e comunitari, ordinaria e specificatamente dedicata alle grandi opere) non riesce ancora ad esprimere livelli di attuazione adeguati. La legge-obiettivo  rappresenta il principale strumento di programmazione per la grande infrastrutturazione.

I progetti che hanno ricevuto finanziamenti CIPE sono 86 a livello nazionale, e di questi 45 riguardano il Mezzogiorno, per un costo complessivo di 14.423 milioni di euro.  Dall’analisi effettuata sui progetti del Mezzogiorno emergono, tuttavia, alcune specificità che in parte rischiano di modificare l’impostazione originaria dell’intervento stesso: una elevata presenza di progetti di completamento di opere già avviate in  passato; una dimensione media dei progetti (321 milioni di euro) pari a circa la metà di quella del Centro-Nord (613 milioni); scarsa presenza di finanziamenti privati.

L’esame dello stato di attuazione delle grandi opere inoltre, mostra ancora un quadro complessivamente deludente. I lavori cantierati relativi ai progetti realizzati nel  Mezzogiorno (per complessivi 2.168,8 milioni) sono pari a circa il 23% del totale dei finanziamenti disponibili, a dimostrazione di un “potenziale realizzativo” che, seppur  superiore a quello medio nazionale (16,4%), risulta ancora complessivamente piuttosto  insoddisfacente rispetto agli andamenti previsti in sede programmatica.

Per quanto riguarda la programmazione infrastrutturale sostenuta dal cofinanziamento dei Fondi strutturali comunitari, nell’ambito del Quadro Comunitario  di Sostegno (QCS) 2000-2006 per le Regioni dell’obiettivo 1 emerge, invece, una situazione complessivamente positiva ed in miglioramento. L’Asse “Reti e nodi di servizio”, in cui è preponderante il peso delle infrastrutture, presenta buoni valori sia in termini di impegno che di pagamento. Gli indubbi progressi fatti registrare negli ultimi anni dalle Amministrazioni centrali e regionali nella capacità di programmare e di spendere le risorse del QCS sono testimoniati dal rispetto degli avanzamenti previsti  dai criteri stabiliti dalla contabilità comunitaria.

Significativi avanzamenti nell’adeguamento infrastrutturale del Mezzogiorno richiederebbero però un volume di risorse ben più rilevante di quello che è stato  assicurato nel corso dell’ultimo decennio. Nel 2004 gli investimenti in opere pubbliche nel Mezzogiorno (in base a stime della SVIMEZ sui dati di contabilità economica del settore delle costruzioni), si collocano su di un livello di circa 20 punti inferiore rispetto  a quello del 1995; nel Centro-Nord il livello attuale è, invece, del 50% superiore a quello di nove anni prima. In rapporto al PIL dell’area, gli investimenti in opere pubbliche si sono ridotti al Sud tra il 1995 e il 2004 dal 3,8% al 2,6%, per effetto  soprattutto del calo sperimentato nella seconda metà degli anni ’90.

Si tratta di andamenti insoddisfacenti che rimandano alla più ampia questione delle risorse pubbliche destinate allo sviluppo del Mezzogiorno e che confermano quelli  che costituiscono ormai elementi strutturali della distribuzione territoriale della spesa pubblica nel nostro Paese. Essi consistono in un livello di spesa più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord sia per le spese correnti che, soprattutto, per  quelle in conto capitale. In questo comparto, prevalente è l’attività di investimento svolta dagli Enti territoriali, che pesano per circa il 70% nel Mezzogiorno e per oltre l’80% nel Centro-Nord; ed è proprio a questi Enti che deve farsi risalire l’insufficiente  livello di spesa in conto capitale che si registra nel Mezzogiorno. Nonostante l’apporto delle risorse nazionali e comunitarie specificatamente destinate al suo sviluppo, la quota della spesa in conto capitale effettuata nel Mezzogiorno nel 2002, ultimo dato  disponibile, da Stato, Regioni, Comuni, Province e Aziende sanitarie non supera il 30% del totale nazionale e nemmeno lo Stato con il 42% del totale (27% circa per gli Enti territoriali) raggiunge la percentuale del 45% che rappresenta l’obiettivo fissato nei  documenti governativi per imprimere una accelerazione allo sviluppo del Mezzogiorno.

Si pone quindi la questione dell’individuazione delle cause del debole contributo degli Enti meridionali alla spesa per investimenti e dei possibili rimedi ad un processo che non mostra segni di ripresa. Da una parte, può esservi una minore capacità degli  Enti meridionali nella realizzazione degli interventi; su questo fronte occorre dire che la situazione è nettamente migliorata rispetto al passato come dimostrano gli alti   coefficienti di utilizzo dei Fondi comunitari; si tratterebbe quindi di rendere ancor più incisivi i meccanismi premiali che già hanno dato buoni risultati. Dall’altra parte, il più  basso livello di spesa può essere posto in relazione con il sistema di finanziamento degli Enti territoriali, sistema che non appare in grado di assicurare agli enti meridionali entrate in linea con quelle delle quali possono disporre, grazie alla loro maggiore  capacità fiscale, gli enti del Centro-Nord. Sotto questo profilo è significativo il fatto che anche le spese correnti degli Enti territoriali meridionali risultino minori di quelle degli stessi Enti del Centro-Nord, sintomo questo di difficoltà che non riguardano solo le spese in conto capitale e che sono da ricondurre piuttosto che alla fase della spesa a  quella dell’acquisizione delle entrate.

Al riguardo, va sottolineata la necessità che, nel nuovo sistema di finanziamento delle Autonomie locali che sarà costruito in attuazione della riforma costituzionale, vi sia una valutazione adeguata dei fabbisogni riferiti anche alle dotazioni infrastrutturali  occorrenti per l’espletamento delle normali funzioni degli enti territoriali; che sia assicurata la copertura integrale dei fabbisogni sopra individuati con intervento del Fondo perequativo a compensazione delle minori entrate proprie degli Enti meridionali;  che siano previste risorse finanziarie adeguate e realmente aggiuntive per gli interventi di sviluppo indicati dal comma 5 dell’art. 119 della Costituzione.

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5. UNA POLITICA INDUSTRIALE PER LO SVILUPPO  

Le prospettive di ulteriore avanzamento del processo di industrializzazione del Mezzogiorno sono strettamente legate allo sviluppo di un tessuto di imprese produttive caratterizzate dalla capacità di raggiungere livelli di competitività adeguati alle nuove,  assai più concorrenziali condizioni dell’attuale scenario economico internazionale. A tale scopo, accanto alle politiche di intervento volte a rilanciare la  competitività del contesto territoriale, agendo sui fattori “esterni” alle imprese, si rende indispensabile una politica industriale più incisiva; una politica che, più decisamente che in passato, sia orientata a favorire il progressivo mutamento di alcuni importanti  elementi strutturali del sistema produttivo dell’area.

Gli obiettivi cui deve tendere questa politica sono quelli di un consolidamento dello sviluppo delle piccole e medie imprese e, al tempo stesso, di un rafforzamento  dell’attrazione di investimenti delle maggiori imprese, nazionali ed estere; di un accrescimento delle dimensioni medie dell’impresa meridionale e del suo grado di apertura verso l’esterno; dello sviluppo di comparti a più alto tasso di innovazione e di  settori capaci di intercettare le componenti più dinamiche della domanda mondiale. Si tratta di cambiare orientamento rispetto a una impostazione complessivamente “debole” delle politiche industriali, nazionali e regionali, in cui hanno prevalso gli  interventi “ad assorbimento”, capaci al più di assecondare la specializzazione industriale esistente. Si tratta, in altri termini, di aprirsi con maggiore decisione ad un approccio selettivo di politica industriale, che sappia individuare obiettivi e priorità.

La chiave della selettività è quella cruciale anche nel caso delle piccole e medie imprese meridionali, per le quali i persistenti e specifici fattori di debolezza strutturale – legati, principalmente alla prevalente specializzazione nei settori di carattere più  tradizionale e alle ridotte dimensioni di scala operativa – costituiscono oggi nel mutato quadro di mercato, in modo anche più stringente che nel recente passato, un pesante condizionamento alla capacità di tenuta e di progresso competitivo. In questa  prospettiva, per avviare il rilancio dell’economia locale nel circuito internazionale di sviluppo, il parametro di intervento da privilegiare sembra oggi quello delle “filiere produttive” – da arricchire con l’ispessimento dei settori a più alta produttività relativa e  intensità di ricerca – piuttosto che quello del “distretto”, esposto a qualche rischio di  astrattezza quando lo si proietta su un tessuto produttivo, quale quello del Mezzogiorno, spesso frammentato e disperso sul territorio.

Tra i vari livelli della politica industriale – per come si sono sviluppate le politiche nazionali nell’ultimo decennio, e per come si sono evoluti gli accessi alle  relative incentivazioni da parte delle imprese meridionali, rimasti su livelli sempre molto contenuti –, l’onere di una maggiore selettività ha finito per ricadere in modo ancora più pesante sugli strumenti della politica regionale, e soprattutto sulla misura più qualificante di tale politica, e cioè la legge 488/1992. Nel frattempo, tuttavia, quest’ultima ha nettamente accresciuto il suo ambito settoriale di operatività, ridimensionando fortemente la parte destinata all’industria manifatturiera; e, da ultimo, con la riforma avviata dal cosiddetto “decreto sulla competitività” – che pure presenta  alcuni importanti elementi di innovazione – non è parsa avvicinarsi ad un modello di intervento ispirato a obiettivi di arricchimento e modificazione del mix produttivo.

La necessità di un’ampia revisione di indirizzi, che consenta di evitare la tendenza alla dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e interventi e tra platee troppo vaste di imprese, rimane dunque una questione aperta, sia nella politica regionale nazionale sia al livello dei molteplici interventi di politica industriale ormai direttamente gestiti dalle Regioni. In un quadro internazionale profondamente  diverso da quello nel quale furono concepiti strumenti quali i patti territoriali, rivolti ad imprese operanti prevalentemente sui mercati locali, le Regioni avrebbero dovuto già da tempo cominciare a concentrare le risorse sulle imprese destinate a competere sui  mercati internazionali. Se ciò non è successo lo si deve anche ad un quadro normativo inadeguato, alla mancanza di opportuni raccordi istituzionali (interregionali e tra Stato e Regioni), ma, soprattutto alla mancanza di linee strategiche di riferimento nell’azione  dello Stato centrale e dell’Unione europea.

E’, quest’ultimo, un punto di cruciale importanza. L’Unione europea, infatti, ha continuato a condurre gli Stati nazionali lungo un percorso che agevola, anzichè ostacolarla, la distribuzione a pioggia delle risorse. Ne rappresentano l’ultimo esempio  le proposte per la revisione degli Orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionale. Secondo queste proposte, l’obiettivo di riduzione degli aiuti postula una diminuzione delle intensità massime di aiuto, compensata, però, da un aumento delle  intensità per le PMI anche nelle aree non assistite. Quando si commisura ai problemi di un’industria destinata a confrontarsi con minacce prevalentemente extra-europee, il principio della continua riduzione degli aiuti appare con tutta evidenza vieppiù  incongruo. Applicata alle aree in ritardo, questa continua riduzione suona anche come una implicita condanna quando si traduce in una diminuzione delle intensità agevolative.

La questione degli aiuti specifici al settore industriale è – come s’è detto – un punto critico centrale nell’interlocuzione con l’Unione europea. Ma vi è anche un’altra  questione, che riguarda da vicino soprattutto il nostro Paese, che è quella delle misure generali applicabili alla parte in ritardo di un paese a sviluppo dualistico.

L’Unione europea, come noto, ritiene distorsiva per la concorrenza l’introduzione di regimi fiscali differenziati all’interno di uno stesso paese e non distorsiva, invece, la previsione di regimi fiscali di favore se applicati agli Stati nella loro interezza (come avviene non solo nei casi dell’Irlanda e della Spagna ma in diversi nuovi Stati membri dell’Unione). L’impostazione ancora oggi seguita dalle autorità comunitarie risale alla Relazione Spaak del 1956, ossia ad un periodo in cui processi di aggiustamento macroeconomico, via cambi flessibili, inducevano presuntivamente un  processo di auto-compensazione delle politiche fiscali di attrazione perseguite negli Stati nella loro interezza. Siamo ora, invece, in regime di integrazione monetaria e, per una larga area, di moneta unica. I paesi che possono pagarsi un livello di imposizione  strutturalmente basso non subiscono aggiustamenti dal lato dei tassi di cambio: il vantaggio diviene strutturale e si avvia un circolo virtuoso. A questo punto, la penalizzazione del Mezzogiorno rispetto a questi paesi è del tutto evidente. Ed è  duplice. Si consideri, infatti, che sul versante del costo del lavoro l’essere inseriti in una nazione sviluppata comporta per la parte in ritardo un costo del lavoro più elevato, fattore che meriterebbe comunque, solo per questo, una compensazione sul terreno  contributivo o fiscale.

La posizione dell’Unione europea merita, dunque, una profonda riconsiderazione, anche se le sue conseguenze finiscono per penalizzare soprattutto il  Mezzogiorno, essendo l’Italia – con la Germania – uno dei due soli paesi dualistici nell’ambito dell’Unione a 25. Occorrerebbe che anche da parte della Commissione europea e degli altri Stati membri ci si convincesse del fatto che il Mezzogiorno può  giocare un ruolo strategico nelle dinamiche economiche che coinvolgono i paesi del Mediterraneo. Un effettivo vantaggio fiscale non sarebbe, dunque, nè un regalo, nè una protezione degli operatori locali se fosse interpretato come la condizione perchè al  centro del Mediterraneo possa attivarsi progressivamente un circuito virtuoso di sviluppo.

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6. LE RISORSE UMANE PER LO SVILUPPO DEL MEZZOGIORNO E DEL PAESE

Un tema sul quale molte volte si è soffermato il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, e sul quale la SVIMEZ auspica che l’intera Nazione debba  concentrare la massima attenzione, è quello della condizione dei giovani nel nostro Paese. L’Italia potrà riprendere a svilupparsi a tassi significativi se sarà in grado di offrire opportunità di realizzazione personale e professionale alle nuove generazioni che  stanno entrando nel mercato del lavoro. Ciò riguarda in primo luogo il Mezzogiorno, un’area ancora piuttosto giovane in cui la disponibilità di capitale umano inutilizzato costituisce, al tempo stesso, uno dei principali elementi di disagio civile e uno dei più importanti fattori su cui costruire le possibilità di crescita e di convergenza verso i livelli di sviluppo delle aree più avanzate dell’Europa.

Al Sud risiedono oltre 9 milioni di persone con età fino a 34 anni, pari a quasi la metà (il 45%) della popolazione complessiva dell’area; nel Centro-Nord il peso di tale fascia di popolazione è del 35%. Si tratta di un rilevante bacino di forza lavoro su cui occorre investire se si vogliono porre le basi di un paese moderno e pienamente integrato nella knowledge economy.

Al contrario, le informazioni statistiche più recenti, analizzate nel Rapporto,  pongono in luce una crescente difficoltà del mercato del lavoro ad offrire opportunità di  occupazione alla forza lavoro giovanile. I dati relativi all’andamento dell’occupazione tra il primo trimestre 2005 e lo stesso periodo del 2004 mostrano che, in presenza di una crescita complessiva degli occupati (308 mila unità a livello nazionale e appena 25 mila nel Sud), gli occupati di età compresa tra 15 e 34 anni hanno subito una significativa riduzione: 152 mila unità in meno in Italia, di cui 78 mila al Sud. Si assiste, dunque, ad un progressivo invecchiamento della forza lavoro impiegata, per effetto della tendenza a  ritardare la fuoriuscita verso il pensionamento e delle crescenti difficoltà dei giovani ad  entrare sul mercato del lavoro regolare.

Se a ciò si aggiunge il fatto che sulla componente giovanile si scaricano interamente le esigenze di flessibilità del sistema, ne emerge il quadro di un mercato del  lavoro duale: estremamente garantito nelle fasce adulte, dove la regola è l’occupazione  a tempo pieno e indeterminato; e, invece, estremamente chiuso rispetto alle forze giovani, escluse o condannate ad una situazione di precarietà, spesso nell’economia  sommersa, che si prolunga negli anni, con effetti negativi sulla posizione contributiva e sulle possibilità di crescita professionale ma anche su concrete scelte di vita (accendere un mutuo per la casa, decidere di sposarsi e di avere figli).

Si tratta di un problema che ha i riflessi diretti più rilevanti nel Mezzogiorno, ma dalla cui soluzione dipende la sostenibilità del percorso di sviluppo dell’intero sistema-paese. Basta prendere a mo’ di esempio il rapporto tra anziani e giovani,  indicatore indiretto della sostenibilità nel futuro dell’attuale sistema di welfare; esso  mostra per il Centro-Nord il livello più alto tra i paesi dell’Unione, con un valore pari a circa 160 (quindi più di un anziano e mezzo per ciascun giovane), a fronte di uno pari a 100 nel Mezzogiorno.

Una simile situazione impone interventi diretti a favore delle classi giovanili. In primo luogo, vanno colmati i deficit ancora esistenti nei tassi di scolarizzazione. I differenziali che il Mezzogiorno presenta in tale ambito sono ancora rilevanti e si  collocano all’interno di una più generale debolezza del sistema scolastico e formativo italiano. La popolazione tra 25 e 64 anni che possiede un titolo di scuola secondaria superiore è pari al 30% al Sud, al 33% al Centro-Nord e al 41% nella media dei Paesi  Ocse. In alcuni nuovi paesi membri dell’Unione europea, quali Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia, si registrano tassi di scolarità superiore più che doppi rispetto al Sud. I laureati sono appena l’11% della popolazione nel Mezzogiorno, otto punti al di  sotto del livello del Centro-Nord (19%), ma soprattutto pari a meno della metà del livello medio Ocse, e a un terzo di quello del Giappone e degli Stati Uniti.

Una più efficace politica formativa, inoltre, non può non considerare che, in presenza di un tessuto produttivo ancora largamente incompleto e poco presente nei  settori ad alto contenuto di conoscenza, il rendimento dell’investimento formativo è nelle regioni meridionali assai più basso. L’attuale sistema di piccole imprese concentrate nei settori tradizionali esprime, infatti, una bassa domanda di capitale umano qualificato, addirittura inferiore al già esiguo numero dei laureati. Da una analisi contenuta nel Rapporto, risulta che, su circa 50.000 laureati meridionali, 20.000 a tre  anni dalla laurea sono disoccupati e dei 30.000 che lavorano, circa un terzo ha trovato lavoro al Nord[2]. Un fenomeno, quest’ultimo, che si colloca all’interno della più ampia  tendenza all’emigrazione che tra il 1998 e il 2002 ha portato alla fuoriuscita dal  Mezzogiorno di circa 75 mila persone l’anno, la maggior parte di età compresa tra i 20 e i 29 anni e con un buon livello di istruzione.

Ciò vuol dire che molto dell’investimento formativo che viene effettuato al Sud per formare personale qualificato o si disperde o va a favore delle regioni ricche  del Nord, con l’effetto di depauperare il Mezzogiorno proprio delle risorse che potrebbero contribuire maggiormente al recupero del divario verso le regioni del Nord.  

Occorrono dunque strategie a favore del capitale umano che, oltre all’offerta formativa, siano mirate, attraverso interventi integrati, anche alla formazione postuniversitaria e alla difficile fase della transizione scuola-lavoro. Ma soprattutto occorre  inserire le politiche per la formazione del capitale umano all’interno di una più ampia azione volta ad aumentare il grado di innovazione all’interno del tessuto produttivo meridionale, così da spezzare il circolo vizioso tra bassa qualità dell’offerta di lavoro e bassa richiesta di personale qualificato da parte delle imprese.

Per raggiungere un simile obiettivo non basta il contributo delle energie imprenditoriali operanti nel Mezzogiorno. Occorre anche creare le condizioni per  attirare investimenti dall’estero. Solo nell’ambito di un nuovo progetto di sviluppo finalizzato alla realizzazione di condizioni di contesto produttivo competitive – il che significa realizzare infrastrutture in grado di integrare il territorio meridionale con i  mercati europei e, attraverso il Mediterraneo, globali; significa, ancora, l’offerta di condizioni fiscali vantaggiose, l’approntamento di suoli adatti alla localizzazione industriale sufficientemente sicuri, nonchè la disponibilità e la valorizzazione di risorse umane qualificate – potranno concretizzarsi le potenzialità che, pur all’interno di un contesto difficile, si vengono determinando per il nostro Sud.

Vi è oggi nel Mezzogiorno un rilevante potenziale di sviluppo – in termini di forza di lavoro giovanile, di nuova centralità geografica nel Mediterraneo, di patrimonio culturale e ambientale – che può contribuire grandemente a consolidare la posizione del Paese nel circuito internazionale di sviluppo. La realizzazione di questa potenzialità di crescita presuppone che di essa vi siano piena consapevolezza e convincimento da parte  di tutti. E che un diffuso consenso nazionale si traduca in forte volontà politica, capace di fare dell’obiettivo della “coesione nazionale” il cuore di una politica generale finalizzata allo sviluppo dell’intera economia del Paese.

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Rapporto 2005 sull’economia del Mezzogiorno

Indice

PARTE PRIMA - GLI ANDAMENTI DEL 2004

I. L’economia

II. I settori

III. La popolazione e il lavoro

PARTE SECONDA - IL MEZZOGIORNO E LE POLITICHE

IV. La finanza pubblica

V. Le politiche per l’industria

VI. Le politiche infrastrutturali

VII. Le politiche del lavoro

VIII. Le politiche strutturali dell’Unione europea

PARTE TERZA - PROBLEMI E PROSPETTIVE DELL’ECONOMIA MERIDIONALE

IX. Livelli e dinamiche dei divari Centro-Nord - Mezzogiorno

X. Il modello di specializzazione

XI. L’industria turistica nel Mezzogiorno

XII. Le trasformazioni dell’agricoltura meridionale e le prospettive

XIII. Giovani, scolarità e migrazioni: il ruolo delle risorse umane

XIV. Assetto del territorio

XV. Sicurezza e criminalità nel Mezzogiorno



[1] Si calcola che questa “inefficienza dinamica” del modello di specializzazione dia conto di quasi metà della perdita di quota delle esportazioni italiane su quelle mondiali, e di oltre il 70% della loro flessione rispetto agli altri paesi dell’area dell’euro.

[2] Quindi, su un investimento formativo che ha riguardato 50.000 giovani, solo 20.000 dopo tre anni hanno trovato un lavoro al Sud, e di questi circa il 20% giudica la laurea “eccessiva” rispetto al lavoro che svolge.








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