Eleaml

Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Fonte:

https://www.sicilialibertaria.it/ - N. 304

Sicilia Libertaria - Giornale anarchico per la liberazione sociale e l’internazionalismo

150°. L’Italia unita e la scoperta della mafia

(prima parte)

 La “differenza” siciliana

di Carlo Ruta


Già prima dell’unificazione del paese sotto la dinastia sabauda, alcuni miti resistenti che i viaggiatori europei dell’ultimo Settecento avevano irradiato della Sicilia, a partire da quello di Palermo «città felicissima», prendevano a venir meno: non senza fondamento.

Di massima, gli osservatori stranieri in quei decenni usavano toni cupi nell’annotare la città, sottolineando più che in passato il disarmante spettacolo dei poveri, il commercio decaduto, il terrore borbonico, lo spionaggio, le brutalità, la corruzione degli uffici.

La capitale siciliana si mostrava in effetti come il centro di una suppurazione sociale e politica. E benché non tutto apparisse in disordine, pure in virtù dei commerci e delle relazioni che intessevano i protagonisti dell’industria, i più importanti dei quali stranieri, come gli Ingham e i Whitaker, i deficit civili riuscivano ad adombrare le curiosità architettoniche, il paesaggio, la storia millenaria. Non venivano riconosciute realtà criminali di rilievo, perché il regime poliziesco dei Borboni di Napoli in qualche modo le oscurava. Qualcosa avveniva tuttavia nella segretezza delle comunicazioni di Stato. Il procuratore generale di Trapani Pietro Ulloa in un rapporto del 1837 destinato al ministro della Giustizia Parisio, diceva di una consorteria occulta, radicata nella vita e nelle consuetudini dell’isola, che reggeva sull’intimidazione e sul delitto. Non si trattava beninteso di un fatto atipico, distante da quanto avveniva negli Stati italiani ed europei del tempo. Tutti i centri del continente ospitavano società segrete che si nutrivano di delitti.

Venivano registrati comunque dei fatti, delle situazioni attive, che nei frangenti successivi, fermentati dalla questione mafiosa, avrebbero fatto il nucleo della «differenza» siciliana.

L’unificazione del paese, con i suoi laceranti risvolti civili, a partire dall’irriducibile contenzioso fra il potere centrale e il Meridione, frustrato e per forza di cose rivoltoso, creò comunque le condizioni perché le problematiche sociali delle regioni più emarginate, a partire dalla Sicilia, esplodessero e acquistassero una visibilità inedita. Da prospettive eterogenee vennero allora le prime interpretazioni del fenomeno mafioso, sotto il peso della realtà effettiva, investigata perlopiù direttamente, ma dietro pure una varietà di sollecitazioni, divise fra la diplomazia, l’economia, la politica.

L’unità compiuta dell’Italia consentiva d’altronde di registrare meglio che in passato le tipicità e le differenze territoriali, di operare quindi confronti quantitativi e valutazioni, ponendo altresì a frutto gli strumenti delle scienze positive, che proprio in quei periodi registravano in ambito criminologico l’assunzione di paradigmi complessi, con gli studi di Cesare Lombroso.

Riguardo alla interpretazione delle «differenze» siciliane si registrarono comunque varie fasi. Di primo acchito, testimoni ascoltati divennero, nel paese e all’estero, i cronisti e gli osservatori, tanti dei quali non italiani, che seguono gli eventi militari del 1860 e quelli civili di poco successivi.

Acquistarono poi rilevanza i rapporti di prefetti e magistrati, di massima non siciliani, circa gli alti indici di criminalità nelle aree centro- occidentali. Stabilirono infine dei punti fermi, a dispetto delle differenze di valutazione, gl’inquirenti governativi e parlamentari, i notisti politici, gli economisti e i sociologi che nell’isola si recarono, a partire dalla metà degli anni settanta, per verificare le condizioni dei contadini e, maggiormente, per indagare quel fenomeno ormai ineludibile che veniva largamente riconosciuto come mafia. Si trattò in sostanza di passaggi nodali, su cui è il caso di dare un minimo ragguaglio.

Nel 1860 si ritrovarono in Sicilia un gran numero di osservatori, i più dei quali al seguito di Garibaldi, la cui iniziativa militare, godette ovviamente del massimo interesse, non soltanto in Europa, per quanto avrebbe potuto nei difficili equilibri continentali. Tali osservatori si coinvolsero negli eventi, scrutarono, annotarono, diffusero sui giornali europei e d’oltreoceano i loro reportage.

Di lì a poco avrebbero dato alle stampe i loro diari, non di rado con buoni risultati di vendita.

La componente più folta e motivata era quella francese, in sintonia con il «partito italiano», vicino a Garibaldi, che andava consolidandosi nella regione oltremontana. Vi si ritrovarono, fra gli altri, il celebre romanziere Alexandre Dumas, che in Sicilia era stato già nel 1835, i giornalisti Émile Maison e Ulric de Fonvielle, il giovane Èdouard Lockroy, che sarebbe divenuto alcuni anni dopo un politico di spicco, mentre la scrittrice Louise Revoil giungeva a Palermo al seguito di Vittorio Emanuele, nello stesso anno, quando occorreva dare ufficialità agli esiti del plebiscito. Cospicue risultarono comunque le rappresentanze di altre nazioni.

L’osservazione dei fatti che riguardavano la Sicilia non si fermò tuttavia alle operazioni militari del 1860. A tenere vivo l’interesse verso l’isola concorsero una serie di eventi, di difficile interpretazione, degli anni successivi, a partire dall’intrigo dei pugnalatori. L’uccisione pressoché simultanea di tredici uomini in una notte del 1862 ottenne in effetti una risonanza straordinaria, che continuò fino alla conclusione del processo l’anno successivo, con diverse condanne a morte.

E un clamore eguale, se non superiore, suscitò nel 1863 l’assassinio del generale garibaldino Giovanni Corrao, che voci del tempo addebitarono alle istituzioni sabaude. Era partita in realtà la resa dei conti del governo nei riguardi del radicalismo democratico e repubblicano, che nell’isola avrebbe acceso rivolte e determinato l’eccidio di Fantina a opera delle truppe sabaude, per chiudersi poco dopo con i fatti di Aspromonte.

Fu comunque la peculiarità e la continuità dei fatti a fissare l’interesse.

Nello stesso anno destò impressione il rapimento dell’industriale britannico James Forester Rose, avvenuto in una località vicino Palermo mentre viaggiava in carrozza con la figlia. Per gli inglesi non si trattava della prima volta. Già nel 1848 John Barlow, direttore della ditta Woodhouse, era stato rapito con il contabile Alison, e liberato cinque giorni dopo dietro il pagamento di cinquecento onze.

Ma dopo il 1860 le condizioni erano altre, e l’evolversi delle cose corroborava l’opinione che andava affermandosi nel continente. Nel 1865 l’inglese William Moens rischiò di essere catturato da briganti nei pressi di Randazzo, ma curiosamente fu rapito nei pressi di Paestum, per essere rilasciato dopo il pagamento del riscatto. Come in altri casi, si accesero discussioni, e non solo. Appena un anno dopo la vicenda venne raccontata dallo stesso Moens in un libro, English travellers and italian brigants, che, uscito appena un anno dopo, registrò in Inghilterra, e non solo, un discreto successo.

Nelle opinioni pubbliche continentali si radicava in sostanza l’idea, vantaggiosa per i governi sabaudi che pianificavano la repressione, di un Sud italiano e di una Sicilia incivili, omertosi e infestati da bande criminali. In tali casi non si trattava propriamente di mafia. Era banditismo, privo di ogni altra connotazione.

Per i giornali del tempo faceva tuttavia poca differenza. Il nesso tra i briganti, l’omertà sociale e le consorterie dei malfattori che serravano i centri urbani veniva dato per scontato. Costituiva una sorta di sottinteso, corroborato peraltro dagli interventi dell’Agenzia Stefani, che, già devota a Cavour, sosteneva le iniziative centralistiche della Destra.








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