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Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Fonte:

https://www.sicilialibertaria.it/ - N. 305

Sicilia Libertaria - Giornale anarchico per la liberazione sociale e l’internazionalismo

150°. L’Italia unita e la scoperta della mafia

(seconda parte)

 La “differenza” siciliana

di Carlo Ruta

La conoscenza della mafia maturava intanto sul campo, attraverso il confronto con la quotidianità dell’isola. Dai rapporti di alcuni prefetti e di altri pubblici funzioni cominciava a delinearsi un sistema, che corroborava la nozione di una Sicilia distante dalla normalità e, per certi versi, dai trend continentali. Il sottosuolo delle città, scandagliato pure con rigore sociologico, dietro sollecitazioni di vario tipo, cominciava in realtà a rendersi visibile. Il prefetto di Palermo Gioacchino Rasponi, in un rapporto richiesto dal ministro dell’Interno nel 1874, quando resisteva ancora il governo della Destra, rappresentava la mafia come una consorteria ampia, presente in pressoché tutti i ceti sociali, espressione comunque di un diffuso pervertimento morale, reso pure possibile dai retaggi del passato regime borbonico. Nello stesso periodo, ancora su sollecitazione del ministro, il prefetto di Trapani, Cotta Ramusino, convinto pure lui che la mafia fosse il risultato di un pervertimento del senso morale, ne spiegava l’esistenza con l’ingordigia dei ceti medi, soprattutto artigianali, e la tradizione dei ceti proprietari di ricorrere al braccio privato per farsi giustizia da sé, in definitiva per compiere le loro vendette. Dal canto suo, il prefetto di Girgenti Luigi Berti riteneva che la mafia fosse «un poco invidiabile privilegio della Sicilia ». E rimarcando ancora i presunti deficit civili del sud e dell’isola si esprimeva quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, che invocava nuove leggi repressive, dopo quella firmata nel 1863 dal deputato abruzzese Pica, che secondo lui era riuscita estirpare il «terribile brigantaggio napoletano».

Tale quadro di scoperte, oltre che travisamenti e pregiudizi, offriva elementi conoscitivi del fenomeno, con la enumerazione di dati sarebbero stati rielaborati con maggiore scrupolo sociologico dalle inchieste successive. Le analisi dei prefetti non erano comunque il solo percorso che portava alla conoscenza del fenomeno. Un altro, si direbbe il più fecondo, era costituito dalle investigazioni condotte dai magistrati sul terreno. È il caso di fare allora un breve passo indietro, ai primi anni settanta, perché una radicalità del tutto inedita assunse in quel periodo la sfida del procuratore del re a Palermo Diego Tajani, originario della Calabria. Riunendo indizi e dati, pure testimoniali, questo magistrato ebbe l’audacia di inquisire il questore Giuseppe Albanese, accusandolo di essersi servito di bande di malfattori per eliminare boss irriducibili e, addirittura, oppositori politici, sotto la protezione del prefetto Giacomo Medici del Vascello.

Il generale Medici era allora una delle autorità più prestigiose del Regno. Dopo aver combattuto in tutte le campagne garibaldine, dal 1860, aveva guidato una colonna dell’Esercito Regio nella guerra combattuta nel 1866 contro l’Austria, finita con l’annessione del Veneto all’Italia. Aveva guadagnato per tutto questo il favore incondizionato della Corona e l’incarico di prefetto di Palermo, che avrebbe mantenuto fino al 1873. Il caso insorse, con effetti da scandalo, nel luglio 1871, quando il procuratore giunse a ordinare l’arresto di Albanese, accusandolo di aver fatto assassinare il malavitoso Santi Termini.

Inaugurando una tradizione, Tajani finì con il pagare il gesto temerario con le dimissioni dalla magistratura, dopo l’assoluzione, ovvia, del questore per insufficienza di prove. Le sue requisitorie, fatte circolare in opuscoli, e i discorsi parlamentari, dopo che venne eletto deputato per la Sinistra nel collegio di Amalfi, ampliarono tuttavia la conoscenza del fenomeno criminale, mentre abbozzavano in qualche modo il paradigma giudiziario della lotta alla mafia.

Intorno la metà degli anni settanta, come si diceva, la situazione veniva riconosciuta dai prefetti come drammatica. Il governo Minghetti ne approfittò quindi per emanare, a firma del ministro degli Interni Girolamo Cantelli, una serie provvedimenti straordinari, che determinarono nell’isola repressioni indiscriminate. L’operazione ebbe tuttavia un costo politico, perché sotto la guida dell’aristocratico Nicolò Turrisi-Colonna, di cui il questore Ermanno Sangiorgi alcuni decenni dopo avrebbe documentato i rapporti con il boss dell’Uditore Antonino Giammona, la Sicilia dei notabili reagì con forza, mandando in parlamento 44 deputati d’opposizione, sui 48 che rappresentavano l’isola. La Sinistra, a partire dal 1876, non fu comunque da meno.

Con l’esordio governativo di Giovanni Depretis si apriva infatti una stagione di violenze e abusi, resi possibili dai provvedimenti d’emergenza firmati dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera. Tutti in ogni caso si dissero convinti della necessità di investigare la sostanza della mafia. In un crescendo di tensione civile e politica, partiva quindi la stagione delle inchieste parlamentari e governative, oltre che quelle private.

La prima commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni della Sicilia, istituita nel 1875, alimentò aspettative importanti. Chiusi però i lavori l’anno successivo, con la relazione del deputato di destra Romualdo Bonfadini, gli esiti, da molti osservatori, non solo italiani, furono considerati deludenti. Non si giunse a definire cosa fosse realmente la mafia, né si osò chiarire i punti di contatto con i ceti dirigenti, che non fossero quelli borbonici, malgrado si avesse alle spalle la vicenda Albanese-Medici. Ci fu comunque poco tempo per lamentare l’occasione perduta perché poco dopo, nel 1877, uscì per la casa editrice Barbera di Firenze un’inchiesta a due voci, che, senza recare l’imprimatur dello Stato, segnava una vera e propria svolta, soprattutto sotto il profilo sociologico. Gli autori, i toscani Raimondo Franchetti e Sidney Sonnino, entrambi di tradizione conservatrice, recavano l’intento dichiarato di rimediare ai deficit di conoscenza che riguardavano l’isola, convinti, al pari del «Times» di Londra, che gli stranieri conoscessero il sud del paese meglio degli italiani del settentrione. E tutto sommato centrarono l’obiettivo. Diversamente dai commissari dei due rami del parlamento riuscirono a comporre infatti, con un uso largo dei saperi scientifici del tempo, un’analisi rigorosa sulla condizione dei contadini e del fenomeno mafioso.

Franchetti, che elaborò il secondo tema, definì la mafia un’industria del delitto, opera di un ceto medio di facinorosi, una sorta di borghesia bellicosa e periferica, in grado di contestare il monopolio della forza esercitato dallo Stato. Ne spiegò le compenetrazioni con i poteri ufficiali dell’isola, portando a esempio la vicenda Albanese-Medici. Argomentò altresì che la modernizzazione dell'isola era stata fermata dalle protervie del ceto dominante, l'unico a far arrivare la sua voce fuori dall'isola, arrogandosi di rappresentarla tutta, oltre che al permanere del latifondo e delle sue fosche consuetudini.

Contestò la tesi sull’ingovernabilità dei siciliani a causa di una loro supposta insularità d’animo, imputandola invece alle condizioni d’indigenza in cui era ridotta gran parte della popolazione. Riprendendo poi alcuni temi ricorrenti dell’illuminismo meridionale, addebitò pure ai ceti borghesi il persistere delle iniquità. La soluzione dei problemi siciliani era comunque di tipo centralistico. Più che in un atto di volontà delle popolazioni siciliane secondo Franchetti era da ravvisare infatti nell’autorità dello Stato centrale.

C’era in definitiva quanto occorreva perché in Italia e all’estero la discussione sulla mafia registrasse ulteriori rilanci. E così fu.










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