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Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

CORRADO TOMMASI CRUDELI.

LA SICILIA NEL 1871.

FIRENZE.

COI TIPI DEI SUCCESSORI LE MONNIER.

1871.

di Autore

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AL PROFESSORE

GIUSEPPE INZENGA

Direttore dell'Istituto agrario Castelnuovo

in Palermo.

Caro amico

Stando quassù in mezzo ai monti, ho avuto agio di riunire questi appunti sulle cose siciliane, e te li mando come ricordo dell'affetto che ho sempre avuto grandissimo per le e pel tuo bel paese.

Samaden (Engadina), 18 agosto 1871.

Corrado Tommasi-crudeli.

Non v'è forse in tutta l'Italia un paese il quale, dopo la creazione del Regno italico, abbia fatto parlar tanto di sè quanto la Sicilia, ma non ve n' è alcuno cosi poco conosciuto ancora dagli italiani delle altre provincie. Quando avviene di discorrere delle faccende siciliane sul continente, si odono anche adesso pronunciare sul popolo di Sicilia i più strani e disparati giudizi; tanto strani e disparati da far credere talvolta che, piuttosto che di una provincia italiana, si parli di qualche terra perduta nell'Oceano Pacifico. Prima del 1860, in grazia delle nostre secolari divisioni e della mancanza di libere comunicazioni intellettuali, gli italiani di una provincia sapevano ben poco di ciò che avveniva nelle altre; ma perla Sicilia si può dire, senza timore di peccare d'esagerazione, che essa era ignorata da tutti. Divisa da un lungo tratto di mare dai centri intellettuali più importanti della penisola, essa era stata inoltre tenuta sistematicamente in una specie di quarantena da uno dei più spregevoli governi d'Europa; pel quale essa era una fonte di redditi, un soggetto di perpetuo terrore, ed insieme uno strumento utile a mantenere divisi i popoli soggetti. Tutto lo studio che un governo, anche dispotico, ma provvido e civile, avrebbe dovuto porre ad affratellare le popolazioni commesse alla sua cura, i Borboni di Napoli lo avevano posto a rendere inestinguibili gl'antichi odii fra i siciliani. e i napolitani.

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Dalla rivoluzione francese in poi, si erano serviti alternativamente degli uni per opprimere gli altri, sia per riacquistare i dominii perduti, sia per attentare alle libertà politiche tre volte spergiurate da loro; e soprattutto per mantenere divise le forze che, non volute o non sapute adoperare ad un fine elevato e civile, si temeva vedere da un momento all'altro riunite per scrollare il giogo comune. Quindi è che fino al 1860, i giudizii dei napoletani sulla Sicilia non potevano essere né giusti né imparziali; tanto più che, dal 1820. in poi, la massima parte di quelli fra loro i quali venivano in contatta coi siciliani, vi si trovavano in qualità di impiegati civili o militari di un governo odioso e disprezzato:

odiati e disprezzati essi, rendevano odio e disprezzo all'intero paese

. I liberali napolitani, quasi interamente privi di comunicazioni coll'isola, avevano su di essa delle idee molto vaghe ed inesatte; le quali, se non erano più informate agli odii suscitati dalla orribile reazione del 1799, e dalla lunga lotta dei Borboni contro il dominio di Murat, nelle quali tanta parte ebbero i siciliani, non peccavano però per eccesso di benevolenza, specialmente pei rancori lasciati dalle tendenze separatiste mostrate dai siciliani nel 1820 e nel 1848. Nel resto d'Italia invece le idee confuse che si avevano della Sicilia erano affatto diverse. La memoria degli sforzi ripetutamente fatti in questo secolo dalla Sicilia per scuotere il giogo borbonico, in nome delle libertà costituzionali manomesse; le nobili qualità dei siciliani che, dal 1820 al 1860, avevano esulato nel continente italiano ed all'estero, tenevano alto nella stima degli italiani il paese. E quando., ai primi d'aprile del 1860, giunse sul continente d'Italia la notizia di una nuova riscossa iniziata in Palermo, e della costanza colla quale pochi, valorosi tenevano in iscacco le truppe borboniche nella valle di Palermo; quando Garibaldi prese la generosa risoluzione dì accorrere in soccorso dei siciliani.

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gli italiani del continente si affollarono sotto le sue bandiere e navigarono verso Sicilia, coll'idea di trovarvi una specie di tavola rotonda degli eroi delle libertà moderna.

Quello che trovarono in realtà fu assai diverso da ciò che l'immaginazione aveva loro dipinto. Trovarono un popolo, il di cui stato sociale era molto più. prossimo che in qualunque altra parte d'Italia a quello che la rivoluzione francese aveva abbattuto; il quale aveva u. n modo speciale di 'sentire, di odiare, di combattere; il quale capiva in una maniera molto diverga dalla loro la grande impresa che si compieva: e il quale, in mezzo a grandi qualità, aveva molti di quei vizii peculiari alle razze da lungo tempo assoggettate ad una dominazione corruttrice. l nuovi venuti, provenienti da paesi i quali erano stati profondamente modificati dalle riforme sociali dello scorcio del secolo XVIII e dalla rivoluzione francese, rimasero sorpresi spiacevolmente. Ben pochi di essi conoscevano il passato della Sicilia, per modo da rendersi ragione delle sue condizioni particolari di vita ed apprezzare i progressi che, in un tempo relativamente breve, essa aveva fatti per opera di alcuni dei suoi più egregi cittadini. Né i tempi, nò le disposizioni di spirito dei nuovi venuti, né lo scopo pel quale erano venuti, erano di tal fatta da indurli ad intraprendere un corso di filosofia della storia siciliana. Quindi, se alcuni di essi giudicarono del paese con leggerezza e se, spoetizzati dalla realtà e soprattutto da alcune apparenze di realtà, trasmodarono nei biasimi come prima avevano avuto tendenza a trasmodare nelle lodi, si può fino ad un certo punto perdonar loro.

Lo stesso non si può dire di alcuni degli uomini preposti al governo di Sicilia, dopo compiuta la guerra di redenzione e l'annessione dell'isola al rimanente d'Italia, ai quali incombeva il dovere di studiare accuratamente le condizioni morali e civili del paese, prima di pronunciare su di lui dei giudizii temerarii e imprudenti.

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Essi invece, sorpresi ed irritati dalla gran quantità di pretese, di avidità, di vanti esagerati, che gli assalirono specialmente in Palermo, dimenticarono talvolta la suprema necessità di collegare moralmente al resto d'Italia una provincia di tanta importanza, ed affettarono per essa, anche pubblicamente, un disprezzo impolitico ed ingiusto.

Il disprezzo che, secondo il bel proverbio indiano,

traversa anche il guscio della tartaruga, passò facilmente l'epidermide delicata di un popolo suscettibile ed Orgoglioso come il siciliano, dal quale notoriamente una coltellata è meglio accolta di uno scherno o di un dileggio. La reazione contro questi stolti procedimenti non si fece aspettare: essa fu, come ognuno poteva prevederlo, sconfinata ed eccessiva; tanto più che il cosi detto partito d'azione, cosi ingiustamente maltrattato sulla fine del 1860, ed il partito retrivo facevano assegnamento ambedue sulla Sicilia e sulla sua nota e provata fermentescibilità, per servirsene ciascheduno al proprio fine, e soffiavano nel fuoco acceso da quelle imprudenze. Alla reazione eccessiva risposero risentimenti eccessivi. E di eccesso in eccesso, si giunse a veder dagli uni dipinta la Sicilia come la terra delle grandi iniziative, popolata da una razza vulcanica, insofferente d'ogni specie di dispotismo, devota, avanti tutto, alla causa delle libertà moderne, spogliata e bistrattata dal governo italiano, che non voleva e non sapeva far altro per lei, fuorché trarne del danaro e del sangue, - dagli altri come un paese semibarbaro, ingovernabile, incontentabile, incapace di sopportare qualunque grado e qualunque forma di libero regime, un paese da trattarsi per suo bene come un paese di conquista, e da civilizzarsi per forza, come la Francia praticava in Algeria. Né a queste esagerazioni faziose poteva far contrappeso il giudizio illuminato e imparziale degli italiani delle altre provincie, che erano estranei a questa conflagrazione di passioni.

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poiché, anche adesso, si contano sulle dita gli uomini politici delle altre provincie d'Italia, i quali, nei loro lunghi interregni ministeriali o parlamentari, si sieno degnati di fare qualche breve e fuggevole apparizione nell'isola, non che starvi il tempo necessario ad apprezzarne le condizioni ed i bisogni. I Tatti che precedettero, accompagnarono e seguirono là catastrofe d'Aspromonte,

le pugnalazioni dell'ottobre 1862 in Palermo

, le violenze deplorabili commesse durante la leva del 1864, fornirono argomenti e pretesti per eccedere da un lato e dall'altro in recriminazioni ed accuse che, per se sole, passionate come erano, facevano velo al giudizio dei vicini e dei lontani sul vero stato delle cose in Sicilia.

L'insurrezione del 1866 servi a rimettere un po' in calma gli spiriti bollenti, e ad eccitare i più temperati di ogni frazione liberale, a far quello che si sarebbe dovuto fare fino dal 18150, cioè a studiar spassionatamente la situazione. 1 Ma l'eco di quei conflitti e di quei risentimenti che pec sei anni di seguito avevano esasperati gli animi, e sollevati i cuori, si ritrova ancora nei giudizi! che generalmente si danno dello stato attuale di Sicilia, così nell'isola stessa, come nel rimanente d'Italia e d'Europa. Anche al giorno d'oggi non è raro udire affermare, dai denigratori e dagli adulatori della Sicilia, che essa in dieci anni non ha fatto alcun progresso, né politico, né economico, né civile: gli uni servendosi di questa affermazione come di un capo di accusa contro un popolo che vieti dipinto come semi-selvaggio, inerte, ed assolutamente inetto alla vita libera;

1 Vedi le pubblicazioni speciali 3i quell'epoca.

Rudini,

Lettera al Barone Ricasoli, degli 11 ottobre 186.Ciotti,

I Casi di Palermo. Palermo, 1866. -

La Sicilia e l'

inchiesta parlamentare. Palermo, 186.

Pagano,

Sette giorni d'insurrezione a Palermo. Cause, Fatti, Rimedii. Palermo, 186.

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gli altri come di un capo di accusa contro il governo italiano che non ha saputo o voluto far nulla di buono per lui. Dalle violenze di linguaggio di qualche anno fa siamo discesi adesso, nel palleggio degli elogi e dei biasimi, ad un diapason più moderato; ma ciò non toglie che quella affermazione sia falsa, tanto nell'un senso come nell'altro. Sarà difficile che di ciò si convinca a prima giunta, chiunque non conosce della Sicilia. se non ciò che ne può avere udito 0 letto in questi ultimi anni: Ma ognuno il quale, dopo aver conosciuta la Sicilia di undici anni fa, od anco soltanto quella di cinque anni or sono, vi ritorni adesso e sappia giudicare degli uomini e delle cose senza preoccupazioni partigiane,

non può fare a meno di riconoscere i grandi progressi civili ed economici

che questa nobilissima provincia d'Italia ha già fatti, ed apprezzare i germi di quelli ancora più grandi che vi si preparano per l'avvenire.

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I PARTITI POLITICI IN SICILI.

Lo stato attuale dei partiti politici in Sicilia si trova infinitamente diverso da quello che fuòri dell'isola ci si immagina. Su questo proposito, fino dall'indomani dell'annessione, si è vissuti lungamente in Sicilia e nel resto d'Italia in mezzo agli equivoci: equivoci che nell'isola vennero dileguati nel gennaio del 1865, «più completamente ancora dalla insurrezione del 1866; ma che fuori di Sicilia perdurano tuttavia, tantonelle regioni governative, come nelle file della opposizione. Non è raro infatti di sentir parlare della Sicilia nel continente italiano come di un paese dominato da uno spirito repubblicano, che gli uni si credono in obbligo di paventare e di sorvegliare, mentre altri vi costruisce sopra un fantastico edificio di speranze per L'avvenire. 1 Invece, e per tradizione e per istinto, il popolo siciliano è forse il più monarchico d'Italia.

1 In alcuni dei volontari del 1860 l'idea del repubblicanismo dei siciliani nacque dai sentir tutti in Sicilia chiamare i partigiani del governo borbonico e i soldati borbonici col nome di

realisti, accompagnando questa qualifica con aggettivi tutt'altro che affettuosi e rispettosi. Ma in Sicilia, da antichissima data, col nome di realisti si intendevano dalla gente cólta i partigiani della monarchia assoluta, e specialmente gli uomini della Corte borbonica. Anche il Palmieri, monarchico se ve ne fu, nel suo

Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia, chiama spessissimo

realisti gli anticostituzionali. Pel popolo minuto,

realista significava un partigiano dei Borboni di Napoli e della dominazione napoletana.

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e bisogna proprio aver dimenticato tutto il passato della Sicilia e aver guardato quello che ci è passato sott'occhio in questi undici anni, a traverso dei vetri colorati a seconda delle passioni, dei desiderii e degli interessi di partito, per conservare su di ciò il menomo dubbio.

Sé non che, a questa fede monarchica, il siciliano, e specialmente il palermitano, è stato abituato da secoli a collegare l'idea di un Re proprio, con numerazione propria, residente in Palermo, o per sé, o per mezzo di delegati muniti di poteri valevoli àd assicurare l'indipendenza nazionale della Sicilia. Essa costituiva un

regno per sé sola, e tale si voleva che rimanesse; ed una delle principali fonti dell'odio che si aveva contro i Borboni, era derivata dal non aver essi mai acconsentito a riconoscere l'antico diritto monarchico siciliano, se non forzati dalle più dure necessità. Le aspirazioni degli assolutisti e dei costituzionali siciliani, in questa idea di una monarchia propria si riunivano; per questa idea essi aveano sostenuti i Borboni contro Murat durante il loro esilio in Sicilia; e dopo il tradimento col quale, secondo la loro consueta ingratitudine, pagarono nel 1816 l'ospitalità ricevuta nell'isola, questa rimase l'idea dominante di tutte le rivoluzioni siciliane che si succedettero in questo secolo. Né di questo sicilianismo si può fare un capo d'accusa contro i liberali dell'isola; quando si rifletta che a questo sentimento si dovè nel 1812 il primo beli esempio di resistenza civile che si sia dato in Italia, e più tardi l'insofferenza di un dominio vergognoso e tirannico. Né si può disconoscere che, mentre nelle masse questa idea andava unita ad un irragionevole orgoglio o ad aspirazioni di privati interessi, negli uomini più eletti della Sicilia scaturiva dalla coscienza di un diritto politico secolare.
Infatti, cacciati gli uni e cessata l'altra, non si sente più pronunziare in Sicilia questa parola; sebbene viviamo in un regime monarchico, e sebbene il nuovo ordine di cose non sia precisamente popolare nell'isola.

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e da uno spirito liberale e conservatore insieme, che in nessuna altra parte d'Italia esisteva; poiché dappertutto gli mancava quel fondamento legale che nel diritto pubblico siciliano era.

Se nel 1860 nel bollore dei primi entusiasmi, questo sentimento di autonomia apparve dileguato, egli era però ben. lontano dall'essere spento.

Il sicilianismo, nella forma assoluta che rivestì nel 1812, nel 1820 e nel 1848, non era più nella mente della massima parte dei liberali siciliani, ma era nel cuore del popolo tutto.

Né è meraviglia che fosse così:. farebbe meraviglia invece che fosse stato altrimenti. Poiché sarebbe stata follia il pretendere che di una idea la quale rappresentava una antichissima tradizione storica, e per la quale, in questo stesso secolo, un popolo intero aveva tanto combattuto e tanto sofferto, sparisse ogni traccia; solo perché la fortuna d'Italia aveva inaspettatamente offerta al patriottismo dei siciliani una soluzione diversa da quelle fino allora credute possibili. Anche nel 1860 il movimento era separatista, diretto cioè ad abbattere il mal governo che la dinastia borbonica imponeva da Napoli: anche nel 1860 la Sicilia fu l'unica provincia d'Italia che, per redimersi a libertà, dové combattere le forze di un'altra provincia italiana. Ma questa, condizione di cose, riuscita così fatale all'isola e all'Italia tutta nel 20 e nel 48, fu nel 1860 profondamente modificata dalla grandiosa idea della unificazione generale d'Italia. Né solo le masse popolari, trascinate dal prestigio e dalle vittorie del gran condottiero, ma anche gli uomini politici che più avevano contribuito nella rivoluzione del 1848 alla separazione da Napoli, accettarono lealmente il nuovo programma. Era una grande vittoria che molti di loro riportavano su loro stessi, un sacrificio onorevole che essi facevano del loro passato ad un grande interesse e ad una grande idea nazionale.

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Non però rinnegarono questo passato. Posta in assetto 'definitivamente la quistione politica, compiuto il fatto della unificazione, essi diedero opera a preservare ed assicurare l'autonomia amministrativa della Sicilia. Accettarono perciò francamente il sistema regionale proposto da Farini e Minghetti sulla fine del 1860, e poco prima della cessazione della prodittatura del troppo calunniato Mordini, il Consiglio di Stato di Sicilia presentò al prodittatore iM8 novembre 1860 un sapiente lavoro sull'assetto amministrativo dell'isola, in ordine al sistema regionale proposto, il quale porta le firme dei più eminenti rappresentanti del partito unitario costituzionale. 1

Ma la proposta del sistema regionale naufragò in Parlamento, dove si può dire che non fu nemmeno discussa. Inutile riandare adesso le cause per le quali naufragò cosi miseramente e così immeritatamente. Con una foga tutta rivoluzionaria, davanti alla quale ammutolirono gli stessi autori di quel programma, lo si pose tra i ferri vecchi; si abborracciò in fretta un sistema amministrativo, che era una copia quasi fedele del francese, e lo si applicò indistintamente a tutto il Regno. In nessuna parte d1 Italia questo precipitoso e quasi violento procedere, destò maggiori risentimenti che in Sicilia e specialmente in Palermo! Il partito unitario costituzionale, che fino allora ora apparso in Palermo cosi forte, sì divise.

1 Vedi Relazione del Consiglio straordinario di Stato convocato in Sicilia con decreto dittatoriale dei 19 ottobre 1860, nella Collezione delle leggi dittatoriali e prodittatoriali, 2 parte, pag. 286. Palermo, tipografia Casini, 1860; firmata da Gregorio Ugdulena, presidente, Mariano Stabile, vicepresidente, Andrea Guarnieri, segretario, e dai consiglieri, prof. Michele Amari, Giacinto Agnello, Stanislao Cannizzaro, Giovanni Costantini, Pietro Cali, Francesco di Giovanni, Giovanni d'Ondes, Francesco Ferrara, Ercole Fileti, Giuseppe Fiorenza, Gaetano La Loggia, Marchese Lungarini, Domenico Peranni, Domenico Piraino, Francesco Paolo Perez, Marchese Roccaforte, Filippo Santocanale, Pietro Scrofani, Niccolò Tuppisi, Salvatore Vigo.

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Una parte di esso accettò il fatto compiuto, e senza perdersi in recriminazioni divenute ormai vane, diede opera a riguadagnare parte del terreno perduto col più largo uso possibile delle libertà comunali e provinciali, divenute sempre più grandi; nella speranza di affezionare le popolazioni al nuovo ordine di cose, mediante i benefizii derivanti dalle libertà medesime e l'aiuto intelligente dello Stato. Questa parte formò il cosi detto« partilo governativo.» Un'altra parte non poté inghiottire l'amaro boccone, non seppe rinunziare alla attuazione immediata di quel sistema, non si rassegnò a veder rovinato ad un tratto un edificio costruito con tanto amore e con tanta sincerità di convinzioni; si staccò dalla prima, e prese nome di« partito regionista». Nella composizione di questo partito però, disgraziatamente i costituzionali unitari non furono soli: altri, e molto più numerosi di loro, ad essi si aggiunsero i quali, pure essendo di intendimenti liberali, ed avendo per le libertà civili sofferte persecuzioni, prigionie ed esilii, erano grettamente rimasti attaccati all'idea di una Sicilia indipendente, e tutt'al più unita alla penisola italiana mediante una lega politica. Questi uomini i quali, nell'ottobre del 1860, avevano inutilmente avversata la unificazione, credettero venuto il momento della rivincita e, sopraffacendo i primi, diedero a questo partito un carattere che, senza di loro, non avrebbe mai rivestito. Ad essi si dové, se invece di sostenere apertamente e largamente un programma di decentramento amministrativo, in Parlamento e fuori, con tutti i mezzi legali e costituzionali, il partito regionista, divenuto autonomista, venne trascinato ad una forma di opposizione la più aliena dalle sue tendenze originarie, che erano liberali e conservative. Fu una opposizione piccina, acrimoniosa, inesorabile, di un colore piuttosto palermitano che siciliano, la. quale divenne il portavoce compiacente di tutte le accuse mosse contro il governo italiano, da qualunque parte venissero, e qualunque ne fosse l'ingiustizia e l'assurdità.

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E così questo partito, condotto per una china insensibile fuori del sentiero tracciatogli dai suoi più illustri capitani, andò cercando le sue alleanze dovunque trovava maggiore il cumulo delle ire e dei rancori, e il numero dei voti. Si collegò dapprima al partito detto «d'azione»ed ebbe parte non lieve nell'eccitarne. ed invelenirne i risentimenti, arieggiando un garibaldinismo d'occasione,

ed assumendo andamenti, linguaggio, e modi rivoluzionarii, che erano ben lontani dai suoi pensieri e dai suoi gusti. Più tardi, quando il partito d'azione, che in Palermo si è sempre distinto per la sincerità della sua fede nella idea unitaria e nel civile progresso, ripudiò ogni Solidarietà colla massa di gente facinorosa che gli si era agglomerata dintorno, e preferì menomarsi di forze e di clientela piuttosto che subire una tale contaminazione; gli autonomisti si unirono ai reazionari-clericali. Dal 1865 in poi votarono sempre con essi nelle elezioni politiche ed amministrative, e nelle elezioni del 1868 si impadronirono insieme con essi del Municipio di Palermo. Necessariamente tirati a rimorchio. da chi era più potente di loro per influenza e per seguito, essi dovettero subire la legge del più forte, e fare ai loro inesorabili alleati delle concessioni, che hanno gravemente compromessa la loro riputazione di uomini politici e liberali". I primi e veri capi del partito regionista però, non potevano consentire ad una abdicazione di tal natura, sinceramente unitari come sono e largamente liberali: essi vanno ogni giorno più distaccandosi dai raccogliticci posteriori e dai compromettenti alleati, e non è lontano il momento nel quale finiranno col raccogliersi, insieme alle altre frazioni del partito unitario, intorno alla bandiera del civile progresso, che molti dei loro primi compagni hanno, almeno apparentemente, disertat.

Nel momento attuale, il partito che domina la città di Palermo, la quale è sempre il centro politico principale dell'isola, è il reazionario.

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se pur si può dare il nome di partito ad un informe accumulo di elementi disparatissimi per tendenze, per origini e per desiderii, senza programma politico definito. Questi elementi disparati in una sola cosa si accordano: nell'avversare sistematicamente e rabbiosamente qualunque cosa che può condurre a consolidare la unificazione della Sicilia col rimanente d'Italia, ed a fare entrare nei costumi le libertà politiche e civili. Al di là di questo, essi sono impotenti a coordinare l'azione loro per. riuscire ad un risultato pratico e positivo. La comune aspirazione di un ritorno, anche momentaneo, al passato, è anche essa. vaga per modo dà esser sicuri, che sfidando, questa coalizione avveniticcia a darle una formula concreta, . la si porrebbe nel più curioso degli imbarazzi; poiché, se pur riuscisse a trovarne una, non riuscirebbe con questo che alla sua dissoluzione.

Infatti. il partito borbonico, che dovrebbe essere il nucleo vero di un partito reazionario degno di questo nome, è poveramente rappresentato in Sicilia. Piccolo nell'interno dell'isola piccolissimo nelle città marittime, esso non può vincere il cordiale odio che i siciliani professavano e professano contro la dinastia borbonica. Poiché anche il più reazionario dei siciliani, non cessa di esser siciliano, ed ha buona memoria, come tutti quelli della sua razza. Sa che in un momento di bisogno, la dinastia decaduta prometterebbe mari e monti alla Sicilia, come fece nel 1799 e dal 1806 al 1815, ma che ad altro non penserebbe se non ad usufruire le forze e le risorse dell'isola per riacquistare i dominii del continente; e che, se un miracolò la conducesse alla riuscita, tutte le promesse si risolverebbero in fumo, e si adoprerebbero le forze maggiori del continente e gli spiriti prepotenti dei reazionarii e degli autonomisti di Napoli, per ridurre a servitù la Sicilia, come avvenne nel 1816, nel 1820 e nel 184.

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Gli inganni sono stati troppo marchiani e troppo recenti perché siano dimenticati. 1 Cosicché il vero partito borbonico si trova ristretto in Sicilia a quei pochi i quali, per i loro rapporti personali colla dinastia caduta, o per puro sentimento di legittimità, sono rimasti costanti nelle loro prime affezioni. Intorno a questi pochi, i quali almeno hanno il vantaggio di sapere precisamente quello che vogliono (benché non osassero dirlo apertamente nemmeno nella rivolta del 1866), si sono agglomerati i malcontenti d'ogni fatta, dei quali Palermo specialmente abbonda. Prima di tutto coloro che io chiamerei volentieri«reazionari per istinto» dei quali vi ha dovizia dappertutto, e più che altrove in un paese isolano e abitato da una razza tenacissima delle consuetudini: uomini avversi per natura ad ogni innovazione, inchiodati nelle abitudini di vita e di pensiero dei loro nonni, i quali pargoleggiano dietro l'idea di un Re Travicello che piòva da un cielo qualunque, o sbarchi da una qualunque flotta, per dare a questi fanciulloni la sovrumana soddisfazione di rivedere il battistrada in Toledo. Poi i tiranni spodestati, cioè gli agenti della brutale e crudele polizia del Maniscalco, che per dieci anni fece sì immane scempio di ogni ragione di giustizia e di umanità in Sicilia,

i quali ora si trovano poveri ed esautorali. Poi la massa ingente di coloro i quali, per dato e fatto della rivoluzione, e dopo cessata la preminenza amministrativa di Palermo su tutta l'isola, sono rimasti quasi privi di mezzi: dagli impiegati di amministrazioni governative soppresse, i forensi e i sollecitatori d'affari presso l'antica luogotenenza.

1 Vedi, ad esempio, il Proclama diretto ai siciliani dopo l'ingresso delle truppe borboniche in Palermo nel 1849, da Carlo Filangieri principe di Satriano (Documento, n. 1), nel quale non sappiamo di. cosa maggiormente meravigliarci: se della bassezza adulatoria dello stile, o della impudenza di chi, non avendo mantenuta nemmeno una di tante bugiarde promesse, continuò imperterrito a governare per cinque anni la Sicilia.

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fino al povero uomo, la di cui famiglia traeva la sua sussistenza da qualcuno dei conventi ora soppressi. E poi l'elemento malandrinesco.

In tutte le rivoluzioni di Sicilia, una parte rilevante è stata sempre rappresentata dalla gente manesca e facinorósa, che nelle provincie occidentali dell'isola, e specialmente in quella di Palermo, abbonda per le ragioni che più sotto avrò luogo di dire. Appena iniziato un movimento rivoluzionario, e appena per virtù di pochi esso prendeva radice e prometteva la riuscita, questa gente accorreva sotto le bandiere della rivoluzione.

Vi era spinta in parte dall'odio comune a tutti i siciliani, ai buoni come ai tristi, , della dominazione delta straniera e che da straniera si comportava; ma più ancora dai suoi istinti anarchici, e dalla speranza di pescare nel torbido, nell'idea che «libertà» significava cessazione dell'impero della legge.

Il concorso di gente arrisicata ed usa al maneggio delle armi, era troppo utile nei primordii di una rivoluzione, perché nessuno, anche il più onesto e scrupoloso, pensasse a rifiutarlo. Tanto più che, siccome avviene sempre nei rivolgimenti i quali emanano da una grande passione popolare, ' nei primi giorni dopo la vittoria l'entusiasmo generale conteneva i pravi istinti di quella gente, eccitando forse quelli più nobili, che anco in tali uomini non periscono mai del tutto, specialmente in una razza cosi fiera come la siciliana. Ma poi la bestia si mostrava. Per prima cosa aprivano le prigioni e le galere, col pretesto di liberare le vittime politiche; si ingrossavano per mezzo dei carcerati, che poi bisognava amnistiare; si organizzavano in squadra, e si imponevano al nuovo governo come forza combattente. Per un certo tempo avveniva, che gli elementi buoni mescolati in queste squadre e l'autorità morale degli iniziatori del movimento, riuscissero a mantenere entro discreti limiti le brutali tendenze di quella gente. La durata della rivoluzione era misurata da quella di questo periodo.

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Quando i rapporti fra la cittadinanza delle classi superiori e la parte onesta del popolo minuto eran stretti e cordiali; quella gente facinorosa era contenuta per un tempo abbastanza lungo, da dare agio di ordinare un governo regolare e ristabilire l azione della legge, come avvenne nel 1848. Quando invece fra il popolo grasso ed il magro non v'era concordia d'azione, tutto precipitava in brev'ora, come nel 1820. Ma, in ogni modo, era quistione di tempo. 0 prima o poi questa gente, disgraziatamente più numerosa che altrove nella valle di Palermo, sede del governo e centro dell'azione politica, diveniva insofferente d'ogni ritegno, ed una bestiale anarchia invadeva il paese, come nel 1820, o lo minacciava come nel 18 49. La cittadinanza impaurita si ritraeva da ogni partecipazione efficace alla cosa ed all'ordine pubblico, e finiva coli' invocare il diavolo, non che una restaurazione borbonica, per finirla con una successione di spaventi. Il governo, privato cosi d'ogni appoggio, rimaneva come in aria e le truppe borboniche rientravano in Palermo senza colpo ferire. Allora il governo restaurato. patteggiava coi malandrini ch'è indirettamente, od anco in seguito a concerti avvenuti, avevano contribuito alla reazione. I più famigerati capisquadra diventavano Capitani d'arme e i loro seguaci Compagni d'arme: cioè si convertivano in truppa di polizia. 1 Però, per quanta buona volontà vi si mettesse,non tutta la mafia 2 poteva trovar pabulo governativo.

Una parte di essa (non la più famosa, ma la più numerosa) rimaneva esclusa dal festino.

1 Due famosi malandrini, Scordato, e quel Miceli che ebbe nel 1866 le gambe spezzate da un colpo di mitraglia, mentre con una scure cercava di abbattere la porta delle grandi prigioni di Palermo; erano stati nominati Capitani f arme nel 1849 dal luogotenente reale Carlo Filangieri principe di Satriano.

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Nome dato, abitualmente alla malandrineria siciliana, specialmente alla palermitana.

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arieggiava da liberale e si accostava di nuovo ai liberali, alcuni dei quali non rifuggivano dal mescolarvisi, per adoperarla in una nuova rivoluzione.

Nel 1860 le cose procedettero diversamente. La mafia si uni alle masse sollevate da Garibaldi, venne al seguito dei suoi volontarii, formò squadre, aprì le prigioni e le galere, liberò una gran quantità di condannati ai quali bisognò poi, al solito, accordare una amnistia; passeggiò per varii giorni in Palermo, armata mano, e vi compì efferate vendette; ma ebbe troncato a mezzo il corsa dei suoi trionfi in un modo affatto inaspettato e nuovo per lei. Garibaldi, forte del suo immenso prestigio e del concorso morale e materiale di tutta Italia, fece quello che un governo rivoluzionario puramente siciliano non avrebbe mai potuto fare: disciolse le squadre e le rimandò ai rispettivi domicilii. Ubbidirono, ricalcitranti, ma ubbidirono: un governo regolare si poté fondare e procedere di vittoria in vittoria, senza avere a temere la rovina dietro le spalle. Finché durò la Dittatura, la malandrineria zitti, ma non si rassegnò a vedersi così posta in non cale. Dopo l'unificazione, m mezzo allo scatenamento di tante passioni, sperò che l'occasione perduta nel 1860 potesse tornare, e di riacquistare l'importanza che aveva avuta nelle altre rivoluzioni, alla quale teneva come ad un suo legittimo diritto. Cercò dapprima di profittare dei dissensi del partito liberale e di accostarsi a quei del partito' d'azione; sperando che per questa via, o prima o poi, le riuscisse di godersi i sollazzi e i vantaggi di una anarchia completa. Ma sperò invano. I liberali di ogni colore avevano la coscienza che il fatto compiutosi era questa volta definitivo, e che l'era delle rivoluzioni interne era chiusa; e quindi respinsero questa impura alleanza, che non poteva più, come in passato, essere scusata dalla necessità di adoperare, per raggiungere uno scopo supremo, tutte le forze vive disponibili, senza guardar troppo per la sottile alla loro natura.

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Se le agitazioni del 1862 e del 864 permisero di avere su di ciò qualche dubbio, esso svanì intieramente nel gennaio 1865, in occasione del meeting per l'abolizione delle corporazioni religiose; nel quale i liberali unitarii si mostrarono per la prima volta tutti concordi, e pronti a resistere a qualunque pretesa che potesse indebolire i fondamenti della nuova unità nazionale. Fu allora che la mafia palermitana, decisa a non abdicare la sua posizione politica, e a non circoscrivere la sua azione alle strade maestre, si gettò interamente, come già aveva fatto parzialmente a riprese, dal lato dei reazionarii. Né questi le furono avari di promesse e di lusinghe.

La speranza di potere per questa via riuscire ad una baldoria completa, e di poter forse occupare di nuovo alte dignità politiche e militari, andò grado a grado crescendo fra quella gente scherana.

1

Nel 1866 finalmente, profittando dell'assenza della truppa e dei migliori del paese impegnati ancora nella guerra nazionale, essa colse il destro di dar carriera per selle giorni alle sue prodezze.

E fra le altre belle cose che fece, a sfogo di rabbia impotente contro colui che essa riguardava come il defraudatore di un suo legittimo diritto di guerra - Garibaldi - ne distrusse il ritratto al Municipio, e né mutilò il bellissimo busto che adorna il Giardino inglese di Palermo. Vinta e dispersa allora, non ha rinunziato alla speranza di poter prendere la sua rivincita in altra occasione, mediante il patrocinio e l'accordo di quelli stessi che la scatenarono nel 1866 nelle vie di Palermo.

1 Sulla fine del 1865 un malandrino condannato dalle Assisie di Termini a dieci anni di lavori forzati, dopo che il Presidente gli ebbe letta la sentenza si alzò, e con tranquilla impudenza gli disse:

«Che egli si era ingannato nello stabilire la durata della sua pena, che era di cinque anni e non di dieci; perché in Sicilia ogni dieci anni si aprivano da una rivoluzione le galere, e cinque di questi anni erano, già trascorsi.»

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Tutti questi elementi però, non sarebbero stati per se soli valevoli e dare alle passioni reazionarie la forza preponderante che esse hanno manifestata in questi ultimi anni, specialmente in Palermo. Essi esistevano anche nei primordii del nuovo ordine di cose, quando il governo del Re d'Italia succedeva in sfavorevoli condizioni a quello prestigioso di Garibaldi e avea piccole e deboli radici: quando i liberali unitarii erano divisi fra loro e rabbiosamente si combattevano, e nonostante ciò, dominavano interamente le elezioni politiche e amministrative in tutta Sicilia, e soprattutto in Palermo. Ma in allora il clero siciliano non faceva causa comune colla reazione, né forniva ai suoi varii elementi il saldo cemento che loro fornisce adesso. Il clero siciliano, prima del 1860, non era né reazionario né borbonico. Numerosissimo ed influentissimo, egli non era però segregato dal paese; viveva della vita di famiglia più che in qualunque altra parte d'Italia, e partecipava alla fede, alle speranze e agli odii politici del rimanente della popolazione. Quasi indipendente da Roma, in grazia delle libertà speciali della chiesa siciliana, non era stato convertito da lei in un docile puntello di tirannide, come era avvenuto per gran parte del clero del continente italiano. Cosi, mentre la rivoluzione del 1859 e 1860 trovò davanti a sè, in quasi tutte le altre provincie d'Italia, il clero serrato in falange compatta a difesa del trono e dell'altare, cioè delle tirannidi austriaca, papale e borbonica

; in Sicilia lo trovò favorevole, perché patriottico. Era un patriottismo puramente siciliano, è vero; informato all'idea del riscatto del paese amato da una dominazione che si diceva straniera, benché esercitata da uomini della stessa razza; ma pur patriottismo, e fortemente, spesso nobilmente, radicato nei cuori. Perfino i frati e le monache avevano a comune col rimanente del paese questo sentimento. Tutto il clero siciliano infatti parteggiò per gli insorti fino dal 4 aprile 1860, quando il prode Francesco Riso inalberò il tricolore italiano sul campanile della Gancia.

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maledisse e rinnegò il frate traditore che in quel giorno denunziò al Maniscalco la generosa impresa e la fece soffocare nel nascere; incoraggiò, e sostenne tutti i conati insurrezionali che si succedettero nella provincia di Palermo fino all'arrivo di Garibaldi; e contribuì potentemente, colla parola e coll'esempio, à sollevare sulle orme del gran condottiero, quelle masse armate che lo seguirono da Marsala a Palermo. Ed in noi, volontarii venuti dal continente italiano, ed avvezzi fino dall'anno innanzi a trovare quasi dappertutto il clero nelle file dei nostri nemici, è rimasta sempre viva la memoria della: sorpresa che. ci colse, vedendo i parroci alla testa delle bande armate siciliane; l'arcivescovo di Palermo visitare officialmente il dittatore, per riconoscerne, l'autorità ed il. governo; e il clero della cattedrale di Palermo, in occasione delle feste di S. Rosalia, rendere a Garibaldi (il generale della repubblica Romana del 1849), gli onori che si rendevano al Re di Sicilia come legato apostolico. Né questo concorso morale e materiale. del clero siciliano venne meno alla patriottica impresa durante tutto il corso della guerra, anche nelle provincie orientali dell'isola. 1

Ma dopo l'annessione la scena cambiò. Prima di tutto questo clero, nella massima parte assai ignorante, non aveva capito il carattere della nuova rivoluzione. Ne aveva capita la prima parte: quella cioè della cacciata delle truppe e del governo borbonico, la quale calzava a pennello colle sue aspirazioni esclusivamente siciliane.

1 Alla vigilia della battaglia di Milazzo, molte bande dei paesi circostanti vennero ad ingrossare la brigata Medici, avendo alla testa i loro parroci, armati fino ai denti. Io poi, in un battaglione di Messinesi, del quale mi fu dato il comando dopo quel combattimento, trovai col grado di sergente un frate francescano, il quale durante tutto il resto della campagna prestò modestamente e valorosamente il suo servizio militare.

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A questa prima parte aveva cooperato quasi unanimemente, sobbarcandosi anche con abbastanza buona volontà, all'imposta del 4 per cento sulla rendita lorda dei beni di manomorta, che il Dittatore aveva decretata. Finché durò la dittatura, l'idea italiana, personificata in un uomo circondato da un così straordinario prestigio e cosi studioso di evitare tutto ciò che potesse menomarlo, come lo fu Garibaldi nel governo della' Sicilia, non aveva nulla in sè che potesse allarmare le coscienze c gli interessi del clero siciliano. 1 Ma quando l'annessione al rimanente d'Italia fu formulata e votata, e più ancora quando il governo definitivo fu insediato in Palermo, il clero siciliano cominciò a paventare le sorti che lo attendevano.

Questo clero, rimasto immune dal tocco della rivoluzione francese, si trovava nel 1860 in condizioni molto analoghe a quelle del clero spagnuolo nel 1808. Stragrande il numero dei conventi, e questi dotati di rendite vistosissime; popolati: in gran parte da persone appartenenti alle primarie famiglie del paese, e non cosi rigorosamente recluse come altrove; cosicché i loro rapporti domestici e sociali erano mantenuti in un grado ignoto nelle altre parti d'Italia, e la loro influenza diretta sulla popolazione risultava più grande. Moltissime erano le famiglie del popolo e della media cittadinanza che, in tutta Sicilia, traevano la loro sussistenza dai conventi, per mezzo di impieghi domestici e amministrativi, esercitati dentro e fuori dei medesimi! Il timore che, o prima o poi, la legge sarda sull'abolizione delle corporazioni religiose potesse estendersi anche alla Sicilia.

1 Garibaldi toccò appena alle cose ecclesiastiche di Sicilia. Si limitò a cacciare con decreto del 17 giugno 1860 i Gesuiti e i Liguorini, invisi al rimanente del clero per la preminenza che si arrogavano, e perché docili e attivi strumenti della tirannide borbonica. Soltanto più tardi, da Napoli, con decreto del 21 settembre 1860, dichiarò beni nazionali quelli delle mense arcivescovili e vescovili del Regno Unito.

2 Per farsi una idea di ciò basti dire che, alla vigilia del.

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cominciò ad agitare tutti gli interessi morali e materiali che all'esistenza dei conventi si connettevano, appena l'unificazione fu compiuta.

Finché questo timore fu vago, il clero regolare siciliano si mantenne in una attitudine riservata. Ma quando dell'abolizione si cominciò a trattare nei giornali liberali e poi in Parlamento, quell'attitudine divenne decisamente ostile; ostile non solo agli uomini del governo italiano e ai loro partigiani, ma alle istituzioni che rendevano possibile una tale proposta, ed all'unione Col resto d'Italia che aveva importata in Sicilia l'idea di una simile possibilità. Ed in questa attitudine ostile il clero regolare ed i suoi clienti, ebbero fin da principio a compagno il clero secolare, minacciato ancor'esso nei suoi interessi e nella sua influenza dalle innovazioni che i liberali andavano inaugurando, specialmente in fatto di istruzione pubblica; ed irritato dagli insulti e dagli scherni, interamente nuovi per lui, la moda dei quali si era propagata all'isola dalle provincie più settentrionali d'Italia, , per opera di coloro i quali credono che la prova del massimo liberalismo consista nel dire vituperi dei preti. L'irritazione divenne furore, quando i liberali si credettero in forza sufficiente per tenere in Palermo un meeting per l'abolizione delle corporazioni religiose, il 22 gennaio 1865. Il clero eccitò tutte le passioni popolari, e poco mancò che il luogo del meeting non diventasse un campo di battaglia.

Da quel giorno in poi la guerra fu dichiarata, e il clero fece apertamente alleanza coi nemici dell'unità e della libertà, ridotti fino allora in Sicilia ad impotenti cospirazioni coi comitati borbonici di Malta e di Roma; nella speranza di potere col loro aiuto allontanare dal suo capo la spada di Damocle che da tanto tempo pendeva sopra di esso.

insurrezione del 1866, esistevano in Palermo, oltre ai conventi maschili, 24 conventi di donne, i quali avevano 919 impiegati laici, che percepivano complessivamente uno stipendio annuo di lire 327, 475, 75. - Vedi Relazione del prefetto Torelli al Consiglio provinciale di Palermo nella seduta del 3 settembre 186.

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Da quel giorno in poi, il governo italiano e tutti gli unitarii, ebbero la gran maggioranza del clero siciliano cosi avversa, come mai l'aveva avuta il governo borbonico.

Si fece appello a tutte le passioni e pregiudizii locali, e ad ogni forma di malcontento: si preparò la crociata contro «lo straniero empio e ladrone» e contro «i rinnegati siciliani compri da lui:» la si bandi il 16 settembre 1866 in Palermo, ma in mal punto e con poco accorgimento. Si calcolò sulla scarsezza delle forze militari rimaste nell'isola, sull'assenza dei più arditi ed influenti liberali andati a combattere gli Austriaci nell'alta Italia, e sulla caparbia cecità del questore Pinna; ma non si pensò che la pace aveva resa al governo italiano la libera disposizione delle sue forze di terra e di mare, e che bisognava fare i conti coll'Italia intera, libera per sempre dall'incubo della dominazione austriaca. Né si pensò, che l'abbandono sincero che l'Austria faceva della sua ingerenza nelle cose italiane, aveva tagliate le braccia ai reazionari di tutta Italia, e specialmente a quelli, accumulati in Roma. Se si fosse pensato a tutto questo, e si fossero giustamente apprezzate le tendenze largamente liberali del ministero Ricasoli, il clero siciliano avrebbe potuto approfittare della calma maggiore che la coscienza dell'assetto definitivo della nazione dava ai liberali di tutta Italia, per ritardare la catastrofe che egli maggiormente paventava, cioè la abolizione delle corporazioni religiose. Tanto più, che alcuni dei liberali, in vista delle condizioni speciali della Sicilia, avevano proposta per essa una estinzione graduata e lenta di quegli enti morali. Ma il cieco furore e la cortezza delle vedute fecero velo al giudizio: non si vidde altro che la debolezza presente e locale del governo e degli unitarii; si credè di poterli sopraffare per sempre, e si intraprese la lotta. E così, invece di creare al governo italiano un imbarazzo che due mesi innanzi sarebbe stato terribile, non si riusci se non ad un attentato sanguinoso e fratricida.

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il quale indignò tutta Italia, e non trovò eco nemmeno nelle altre provincie dell'isola, le quali vi scorsero soltanto un tentativo della città di Palermo per riacquistare l'antica supremazia su di loro.

La crisi che si voleva evitare fu precipitata, e l'ingresso dei generali Angioletti e Afasi in Palermo segnò la fine delle corporazioni religiose siciliane, la di cui partecipazione alla rivolta era stata troppo evidente e troppo diretta.

Dal 1806 in poi, la lotta non è meno ardente, ma ha assunto un altro carattere. L'energia calma e continua del governo locale, ha saputo contenere durante questi cinque anni gli elementi rivoltosi, per modo che la guerra alle istituzioni libere d'Italia non si è mai potuta far più armata mano: la si fa però, e attivissima, coi modi consentiti dalla legge. La coalizione degli elementi retrivi e facinorosi rappresenta una forza morale e numerica imponente, e nella città di Palermo preponderante. Da cinque anni a questa parte essa domina interamente le elezioni politiche e amministrative, e l'opinione della città.. L'arme del

sicilianismo è adoperata con maggiore abilità ed insieme, di quello che mai lo fosse contro i Borboni. È una propaganda indefessa e rabbiosa di un sicilianismo, non regionale, ma

nazionale; il quale proclama la nazione siciliana distinta dalla italiana, e questa nemica e spogliatrice di. quella. Nella stampa (per mezzo di periodici che per cinismo e trivialità uguagliano quasi il famoso

Pere Ducitene di Hébert), dai pergami, dai confessionali, nell'interno delle famiglie, negli istituti di educazione; dappertutto dove l'influenza di un clero, mescolato intimamente alla vita cittadina, e animato dall'ira destatagli da una spoliazione materiale. già avvenuta. e da una morale che teme, può esercitarsi 1 - si diffonde l'odio alla libertà e alla italianità, con una violenza che non ha il suo riscontro se non adesso in Roma.

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I continentali sono chiamati

italiani, quasi che i siciliani italiani non fossero;

e vengono dipinti ai giovanetti, alle donne, alle plebi ignoranti, come stranieri avidi ed empii, venuti a spogliar la Sicilia di tutto, giovandosi à ciò dell'opera di perversi e rinnegati cittadini. Qualunque tentativo fatto, o dal governo, o dalla cittadinanza liberale, o dalla passata amministrazione comunale di Palermo, per ridurre a forme più decenti e civili le superstizioni cattolico-pagane che fanno le veci di religione per la plebe siciliana, e spesso convertono le cerimonie del culto in orgie ignobili e sanguinose, viene descritto come un attentato commesso contro la religione cattolica, nell'intento di distruggerla dalle radici. La gran maggioranza del clero siciliano, e specialmente del palermitano, per procedere francamente e logicamente in questa propaganda antinazionale, rinnegò le sue tradizioni secolari, e divenuta cieco strumento del farisaismo romano, accettò senza resistenza fin da due anni. fa, l'abolizione della Legazia Apostolica, che guarentiva le speciali libertà della Chiesa di Sicilia, alle quali teneva pur. tanto in passato. Preferì perdere quelle libertà, piuttosto che vederne la guarentigia in mano di un potere civile inviso. L'

ultramontanismo, nuova e più corretta edizione del tanto imprecato gesuitismo, piaga ignota, salve poche eccezione.

1 Non poco hanno contribuito a suscitare questi furori del clero, la lentezza e la irregolarità colle quali sono state pagate per lungo tempo le scarse pensioni, attribuite ai frati e alle monache dalla legge di soppressione del 186.

2 La metà quasi dei delitti contro le persone e contro la forza e l'ordine pubblico, constatati nel distretto della Corte d'appello di Palermo, avviene nei giorni festivi. - Vedi

Discorso sull'amministrazione della giustizia nel distretto della Corte l'appello di Palermo nell'arino 1869, del Procuratore generale del Re, Diego Taiani. Palermo, 1870, pag. .

3 Per la stessa ragione, il clero siciliano si è unito al clero neocattolico di altri paesi d'Italia e d'Europa nella guerra accanita.

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nella chiesa siciliana fino al 1800, ha guadagnato rapidamente terreno, in Palermo soprattutto, mediante l'untuosità delle forme e la inesorabilità del fondo, la quale risponde cosi bene all'acerbità dei rancori che sollevano adesso tante anime ulcerate. Quei sacerdoti i quali, pur restando fedeli alle loro convinzioni e ai loro doveri religiosi, non hanno voluta rinnegare la loro fede nella libertà e nell'avvenire d'Italia, si trovano quasi esclusi dal rimanente della comunità religiosa.

Questa falange compatta di passioni e di interessi retrivi non può che incagliare l'azione regolare del governo e ritardare i progressi civili del paese, ma non preme di un grave peso sulla bilancia politica italiana. Ogni anno che passa, va circoscrivendo sempre più il suo campo d'azione nella città di Palermo e nei suoi immediati dintorni; poiché nel resto dell'isola non si trova un tal concorso di circostanze che permettano di sognare nemmeno uno sforzo retrivo di tal fatta. Imperocché gli effetti delle libertà amministrative e politiche, allontanano ogni giorno più le popolazioni dall'idea della possibilità di un ritornò al passato, e dal desiderio di un regresso civile.

mossa alle leggi civili, sulle quali riposa la costituzione della famiglia. Fino al 1865 era necessaria in Sicilia, per la validità civile del matrimonio, la

solenne promessa, fatta prima del matrimonio ecclesiastico, davanti all'Ufficiale dello stato civile. Le popolazioni erano da lunghissimo tempo abituate a quest'atto, e nel triennio 1863 6465, quasi mai avvenne nelle quattro provincie di Palermo, Trapani, Girgenti e Siracusa che la celebrazione della solenne promessa mancasse. Invece nel triennio 1866-67-68, dopo applicata col nuovo Codice italiano la legge sul matrimonio civile, si ebbero in queste quattro provincie 8847 matrimoni! puramente ecclesiastici, cioè civilmente nulli: i quali apparecchiano una generazione di bastardi, ed una perturbazione gravissima nei vincoli delle famiglie e nei movimenti della proprietà. E sulla fine del 1868, il parroco di Comiso rifiutò solennemente di battezzare un nato da matrimonio civile! - Vedi

Discorso inaugurale del Procuratore generale del Re alla Corte di appello di Palermo. Palermo, 1869, pag. 1.

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La piena invadente della civiltà moderna e l'uso delle nostre larghe libertà, soprattutto di quella della stampa, la quale ha già servito ad impedire che del Municipio di Palermo si facesse un governino reazionario bell'e pronto per ogni occasione, com'era nei pensieri di alcuni suoi componenti nella prima ebbrezza della loro vittoria elettorale, limitano necessariamente la durata di un simile stato di cose. La cortezza delle vedute può far credere il contrario ad alcuni uomini abituati a vivere in un microcosmo, pei quali la soddisfazione di sedere su di un trono (anche formato da

un guscio di castagna) è tutto; perché usi a giudicare delle cose del mondo a seconda di quello soltanto che hanno sott'occhio, credono che il loro trionfo sia eterno. Ma è fuor di dubbio che la forza delle cose, e l'azione del tempo e della libertà finiranno per vincere questa coalizione furibonda; tanto più che molte delle passioni c degli interessi che l'hanno creata, sono destinati a perire colla presente generazione.

Però non bisogna farsi illusioni. Il fatto, per quanto freddamente analizzato, rimane sempre gravissimo.

Una delle più cospicue città d'Italia, centro delle tradizioni storiche di una delle più importanti provincie del Regno, è dominata da una maggioranza apertamente avversa alla esistenza del Regno medesimo.

E questo fatto, già cosi grave, è reso anche più grave dall'avere questa città, entro di sé e nei suoi dintorni, un numero infinito di esistenze parassitarie e di uomini ribaldi, pronti sempre a mettersi a qualunque sbaraglio contro qualunque governo: perché per essi un governo, comunque costituito, è una potenza malefica che impedisce di mettere le mani sulla roba e sulla vita altrui. Un momento di debolezza o di cecità da parte delle autorità locali, potrebbe in un attimo ricondurre il paese a rivedere le orribili scene del 1866. La repressione sarebbe pronta, sicura e immediata, senza dubbio; ma il danno morale e materiale che deriverebbe al paese da una tale convulsione sarebbe incommensurabile, e immensa.

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pure il. discapito che ne risentirebbe la libertà, per la quale ogni vittoria, ottenuta versando il sangue, dei cittadini, è peggiore di una sconfitta. 1

La coscienza della gravità di una tale condizione di cose, unita al timore di vedere compromessi da una reazione stupida e cieca, i progressi notevoli che undici anni di libertà hanno fatto fare alla Sicilia tutta, e specialmente a Palermo, ha singolarmente modificati i rapporti reciproci delle varie frazioni del partito liberale in Palermo. Mentre nelle altre città dell'isola, dove il partito liberale si. è mantenuto preponderante, queste frazioni parteggiano ancora, e nei loro parteggiamene riproducono l'immagine di quel polverizzamento del partito liberale che è una delle più grandi piaghe d'Italia; in Palermo i liberali procedono uniti. Gli screzii che si incontrano fra loro sono adesso di lieve momento, e rappresentano, piuttosto. che una diversità di idee e di propositi, un rimasuglio delle lotte accanite che dal 1860 al 1865 queste frazioni sostennero fra di loro in Palermo.

1 L'esempio di ciò che avvenne in Palermo nel 1866 dovrebbe essere sempre davanti agli occhi degli italiani. Non mancarono allora le prove di una partecipazione diretta della Corte romana a quell'orgia sanguinosa, e quasi sempre negli anni successivi, tutte le volte che la ripetizione di fatti consimili è stata minacciata in Palermo, si è trovato qualche filo che metteva capo a Roma. Dopo if 20 settembre 1870, tutti gli sforzi fatti dal Vaticano per riacquistare il perduto dominio hanno avuto in mira, o di provocare un intervento straniero, o di suscitare scandali in Roma, e per varii mesi l'agitazione

romana in Palermo è stata impercettibile. Ma adesso che quei conati sono cosi ignominiosamente falliti, non è niente affatto improbabile che

la fazione gesuitica provochi nella sua disperazione qualche nuovo attentato all'unità italiana,

dove il cumulo di materie infiammabili è maggiore. Essa ha ancora in sua mano mezzi finanziari e morali più che sufficienti per giuocarci qualche brutto tiro di questo genere e, dopo la lezione del 1866, non sarà male star coll'occhio alla penna, specialmente in caso di probabilità di guerra con una potenza marittima.

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e che cessarono quando lo spettro della reazione sorse gigante davanti ad esse. In questo riguardo, non vi sono adesso' in Palermo situazioni equivoche. Quelli i quali desiderano di vedere assodata, l'unità d'Italia, e le libertà politiche e civili radicarsi e prosperare in Sicilia, stanno da un lato: quelli i quali vogliono il contrario, o non vogliono mettersi male con chi vuole il contrario, stanno. dall'altro. Fra i due campi la divisione è completa, netta, non alterata da meschine e vergognose transazioni. Se nel campo dei liberali avviene talvolta di assistere a qualche tirata di capelli fra i rappresentanti di una frazione e quelli di un'altra, questi dissidii hanno quasi sempre l'aria di diverbii di famiglia, e per lo più sono determinati o da vecchi rancori personali che difficilmente

si estinguono in mezzo ad una razza cosi tenace nell'odio e nell'amore come la siciliana,

o dalla debolezza che alcuni hanno di non passare per fedifraghi agli occhi di quei del continente alla di cui frazione nominalmente appartengono. Mai però le cose [arrivano a tale da condurre una delle frazioni del partito liberale ad accostarsi, nemmeno per un momento, ai nemici della nazionalità e della libertà. E ciò bene s'intende. Non solamente esse sono tutte involte in un odio comune - come lo provò l'insurrezione del 1866, nella quale le masse armate cercarono a morte il Rudinì del partito governativo; come il Perroni-Paladini del partilo d'azione, e non potendoli avere nelle mani, saccheggiarono le case di ambedue-ma hanno anche la medesima origine.

I

malvoni di Palermo infatti, non hanno nulla di quella impostatura dottrinaria, pesante, e talvolta arrogante, che ha resi antipatici alcuni dei liberali, detti moderati, in altri paesi d'Italia;

e i

rossi di Palermo non hanno nulla di quella ringhiosità plebea, vera o affettata, che distingue molti dei loro confratelli del continente. Gli uni e gli altri hanno troppo spesso cospirato insieme ed insieme combattuto contro la tirannide borbonica, nelle strade della città e sui campi di battaglia.

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per guardarsi troppo di mal occhio; ed oltre a ciò hanno troppo a comune la fede nella libertà e nel civile progresso, per non camminare quasi di pari passo, quando ambedue si trovano minacciati. L'empito di passioni retrive che è scoppiato in Palermo, ha avuto questo di buono: di collegare cioè tutti gli elementi liberali del paese per difendere, contro l'ignoranza e il fanatismo, . l'esistenza e le istituzioni libere dello Stato. Le difesero insieme, armata mano, il 16 settembre 1866: le difendono adesso coll'operosità civile e colla stampa, la quale su tal proposito si trova in Palermo eccezionalmente unanime. Ed a questa unanimità si è dovuta in gran parte la moderazione relativa che i reazionarii hanno spiegata finora nell'amministrazione municipale di Palermo, contenuti come sono da una sorveglianza assidua e gelosa di

lutto il partito unitario. 'Questo partito, fino dal 186l, ha avuto in animo di sostituire alla prosperità fittizia, della quale Palermo godeva prima del 1860, una prosperità durevole, che nella varietà degli eventi e degli assetti amministrativi rimanga incrollabile. Esso ha accettati i fatti compiuti e, pur deplorandone gli effetti immediati più dolorosi, ha creduto che vi si possa riparare molto meglio di quello che coll'aprire alle classi sofferenti l'unica prospettiva della cospirazione e della rivolta. Le ha spinte invece a. cercare nuove fonti di guadagno e, quando ha avuto in mano l'amministrazione municipale, ne ha creale egli stesso, per mezzo di grandi lavori pubblici, destinati ad abbellire la città e a convertirla in un soggiorno invernale, capace di rivaleggiare coi più rinomati e frequentati del Mediterraneo; nell'intento anche di offrire così alla piccola borghesia il modo di riparare alle perdite sofferte, mediante l'industria della case mobiliate. Ha procurato di fare di Palermo la capitale intellettuale dell'isola, moltiplicandovi e migliorandovi gli istituti delle più variate culture, e di elevarne la plebe a dignità di popolo civile e operosa.

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mediante cure indefesse prodigate alla educazione ed istruzione di lei. 1 Ha promosso e promuove ogni dì con ogni mezzo i lavori che occorrono, per stabilire più facili e sicure comunicazioni fra la città e l'interno dell'isola, e per ingrandirne il porto, nella fondata speranza di poterne fare il centro delle transazioni commerciali delle quattro provincie occidentali di Sicilia. Ed avendo trovata in questi ultimi anni al governo locale l'incarnazione di questo programma, eminentemente civile, nel generale Medici, ne ha sostenuta l'amministrazione con una unanimità affatto nuova in Italia. E nello svolgimento di questo programma (che non chiude per niente l'adito alla ricerca e allo studio di migliori sistemi amministrativi generali) egli ha fede di riavere a compagni i

veri regionisti, e di arrivare così, colla unione di tutti gli elementi liberali del paese, ad opporre un argine insormontabile alle prave tendenze di chi sogna il ritorno ad un passato il quale non può, non deve tornare, e non tornerà più.

Questo stato di cose costituisce, per se solo, un progresso ragguardevole. Esso rende molto più semplice di quello che lo fosse in passato, il lato politico della cosi detta

quistione siciliana, il quale è, quasi esclusivamente, palermitano, in grazia delle condizioni speciali nelle quali le tradizioni storiche, l'importanza morale è materiale sua, e le qualità della popolazione della sua provincia, pongono la città di Palermo. Se le divisioni del partilo liberale in Palermo si fossero mantenute così vive e profonde come lo erano ancora sei anni or sono, o se dai liberali più avanzati di Palermo si nutrisse l'idea di sostituire un'altra forma di governo a quella attualmente esistente in Italia.

1 Non ultimo dei meriti di questo partito era stato quello di aver sbarazzato, con un coraggio civile commendevolissimo, l'Amministrazione comunale di Palermo da una turba di contrabbandieri che, prima del 1860, funzionavano come guardie del dazio consumo.

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il pericolo per la pace interna del Regno sarebbe molto maggiore, di quello che le. fa correre il cumulo di passioni retrive che adesso, dominano quella insigne città. L'avervi. invece la massima parte dei liberali di ogni gradazione (cioè la parte più onesta e più colta della popolazione), convinta della inutilità è del danno' di andare alla ricerca di altre forme di libertà politica, rende il compito del governo locale meno penoso e più' nobile. Infatti, quando al 'governo, di quella importantissima provincia stanno uomini capaci di giudicare dello stato delle cose a dovere, e non a seconda di opinioni preconcette in altre parti d'Italia; dove la situazione dei partiti è affatto diversa; essi non hanno da sorvegliare e contenere che un solo nemico, la reazione. Così la loro azione politica si risolve in una opera eminentemente civile; perché, dove il partito liberale, in massa, è persuaso che l'era delle rivoluzioni è finita, e che per la libertà (ed anco contro i nemici della libertà), non si può né si deve combattere con altre armi che quelle della libertà stessa; le forze di tutta la cittadinanza, meritevole di questo nome, possono essere tutte impiegate al miglioramento morale e materiale del paese. E i governanti si trovano posti naturalmente alla testa di un movimento progressista, nel più largo senso della parola: diretto cioè a fare entrare la libertà nei costumi del popolo, a educarlo, a migliorarlo moralmente, e ad abituarlo ad usufruire di tutte quelle fonti di prosperità che scaturiscono dal retto e temperato, ma coraggioso e costante uso della libertà medesimo.

PROGRESSI CIVILI ED ECONOMICI DELLA SICIL.

NEL DECENNIO 1860-187.

Anche in Sicilia, sebbene un complesso di circostanze sfavorevoli ne abbiano a "varie riprese" impedito l'esercizio regolare, là libertà ha mantenute, come sempre, le sue promesse. La sua azione non si è limitata a chiarire la situazione reciproca dei partiti politici nel modo ché ho detto, e che senza di lei non sarebbe mai stato possibile nemmeno sperare. Essa ha inoltre iniziata una modificazione proficua nello stato sociale del paese, ed ha vantaggiate le condizioni economiche del medesimo, più di quanto forse la sua posizione geografica, il deplorabile stato delle sue comunicazioni interne, e le continue agitazioni alle quali è stato in preda per tanti anni, potevano far supporre nei primi tempi successivi all'annessione.

Uno dei meriti principali del partito liberale siciliano è costituito senza dubbio dall'assiduità, e perseveranza colle quali, fino dall'indomani della rivoluzione, esso ha dato opera a migliorare l'educazione del popolo.

In questo assunto eminentemente civile, quasi tutti i grandi municipii siciliani si sono adoperati con molta efficacia, e primo fra tutti quello di Palermo. Dal 1860 fino al 1868 gli amministratori di questo comune, anche in mezzo alle più grandi convulsioni politiche e sociali, non hanno mai perduto di vista questo santissimo scopo, ed hanno moltiplicati gli istituti d'insegnamento primario quanto le finanze del comune potevano permetterlo.

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Nel 1860 appena 800 ragazzi dei due sessi ricevevano in Palermo una qualunque istruzione elementare, in scuole quasi tutte dirette dal clero. Nel 1861 la provincia di Palermo aveva già 42 scuole elementari, con 3240 allievi, dei quali quasi 3000 erano maschi. Nel 1869 la medesima provincia aveva 749 scuole elementari, fra private e pubbliche, con 29, 311 allievi, dei quali un terzo di femmine. Il solo circondario di Palermo possedeva 460 di queste scuole. 1

Nelle altre sei provincie di Sicilia, nelle quali l'istruzione elementare si trovava prima del 1860 a un dipresso nelle medesime condizioni che in Palermo, erano già nel 1868 in piena attività 944 scuole pubbliche e 265 scuole private elementari, con 25, 073 allievi maschi e 12, 454 femmine. 2

Oltre a ciò, le sette provincie riunite possedevano già nel 1870, 74 istituti di educazione secondaria e superiore (tecnica e letteraria), quasi tutti di nuova creazione, e molti di essi fondati a spese dei comuni e delle provincie. 3

Il semplice enunciato di questi dati comparativi, dice abbastanza di quali progressi la libertà si sia fatta iniziatrice in Sicilia, relativamente alla educazione popolare.

Pur troppo quanto è stato fatto sinora è ben poco, di fronte agli immensi bisogni di una popolazione la quale, nel 1861, presentava una media generale di 86 analfabeti su 100 abitanti maschi e di 95 analfabeti su 100 femmine. 1 Ma è molto, se si pensa che tutto ciò è stato fatto in un paese nel quale, fino a undici anni fa, la ingerenza dei cittadini nelle cose del comune e della provincia era o nulla o illusoria, ed il quale durante sette di questi anni è stato straziato da agitazioni di ogni maniera, e da due pestilenze che vi hanno menato stragi inaudite nel rimanente d'Italia.

1 Vedi Documento, n. 2.

2 Vedi Documento, n. 3.

3 Vedi Documento, n. 4.

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Certamente, di fronte all'enorme piaga d'ignoranza che affligge la Sicilia, il numero delle scuole già fondate è ancora troppo piccolo, come è piccolo il numero di quei che le frequentano. Ma sventuratamente anche in altre provincie d'Italia si incontrano le medesime condizioni di cose e le medesime deficienze, 1 mentre non dappertutto la coscienza di questa vergogna e di questo pericolo nazionale si è sentita cosi profondamente come dai liberali siciliani. E non dappertutto dove la parte più eletta della cittadinanza ha saputo intendere a tempo questa parte dei suoi doveri civili, le popolazioni hanno corrisposto alle sue cure nel modo che molte fra le siciliane hanno fatto. In molte città dell'isola si è manifestata nelle classi popolari una vera sete d'istruzione, e il gusto di una educazione migliore si è diffuso talmente, che in Palermo, per esempio, le tendenze di taluno il quale, col pretesto di economia, tirava a diminuire dopo il 1868 il numero delle scuole pubbliche, sono state frenate dal sentimento, generale ormai, di questo nuovo bisogno e di questo nuovo diritto.

Sebbene, oltre all'insufficienza del numero delle scuole, altre manchevolezze si incontrino in Sicilia, come nel rimanente d'Italia, nella qualità dell'insegnamento che in esse vien dato; pure esse hanno già servito a rendere in alcuni luoghi più intimi e cordiali i rapporti reciproci delle varie classi della cittadinanza. Imperocché, in mezzo ad un popolo di affetti così vivi come il siciliano, si è sempre sicuri di vedere un'azione benefica, sincera e disinteressata, ricambiata da profonda riconoscenza.

1 Vedi Documento, n. 5.

1 La media di tutto il Regno dava nel 1861, 78 analfabeti su 100 abitatiti maschi, e 84 analfabeti. su 100 femmine.

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Non di rado è avvenuto che dei maestri elementari, benché scarsamente retribuiti, hanno somministrato del loro ai figli degli operai, usciti dalle scuole quotidiane per darsi a un mestiere, i libri, la carta e quanto occorreva perché essi potessero seguire le lezioni delle scuole festive. Spessissimo è avvenuto di incontrare nella classi più favorite dalla fortuna, dei cittadini i quali si sono dedicati a tutt'uomo e gratuitamente a questo ramo. della pubblica amministrazione, non sdegnando di assumere i più molesti incarichi, pur di. riuscire allo1 scopo desiderato.

Ed è veramente una fortuna che sia così, e che anche per questo mezzo ci si avvii in Sicilia ad una mescolanza più intima delle varie classi della cittadinanza, là quale valga ad attenuare in qualche guisa

i disastrosi effetti che risultano dalla mancanza di una classe media,

potente per numero e per ricchezza. Questa mancanza si fa sentir dappertutto in. Sicilia, . così nelle città come nelle campagne, dove la proprietà fondiaria. era, fino al principiò di questo secolo, riunita quasi tutta nei fidecommissi patrizi e nelle, manimorte. Più che altrove si fa sentire in Palermo, dove il patriziato di gran parte di Sicilia, attirato nella città dalle corti dei viceré spagnuoli, è andato a grado a grado accumulandosi, ed impoverendo; e dove, fino a 60 anni fa, ha costituita una casta nettamente divisa dal rimanente della popolazione, dai suoi privilegi, dai suoi costumi, e da quelle apparenze di diritti politici speciali che gli erano rimaste, anche quando la sostanza di questi diritti era da lungo tempo svanita nella comune servitù. Adesso, né politicamente né economicamente, esso potrebbe pretendere di costituire una casta separata dal rimanente della cittadinanza, e bisogna, per rendergli giustizia, dire che non ha mai affacciata una tale pretesa.

1 Vedi

Relazione intorno alla istruzione elementare della provincia di Palermo, del provveditore Girolamo. Nisio. Palermo, 1870.

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Esso non mostra, alcuna ripugnanza a mescolarsi colle altrè classi, e a dividere con loro il carico e la responsabilità delle pubbliche faccende; come in passato ha saputo dividere còn esse i dolori e i pericoli della lunga lotta contro la ti, rannide borbonica. Se esso ha conservato' in varie parti di Sicilia un prestigio che non è in proporzione colla sua attuale entità politica ed economica, ciò si. deve alla lunga consuetudine dell'esercizio dei diritti feudali, i quali soltanto nel 18l2 furono aboliti, e lo furono per una nobile iniziativa del patriziato medesimo.

In Palermo, città di 200, 000 abitanti, dove parrebbe che le abitudini della vita cittadina moderna dovessero essere più radicate che altrove, si incontrano invece più manifeste che altrove le tracce dello stato sociale anteriore alla rivoluzione francese. E ciò perché, fra un. patriziato numeroso ed una numerosissima plebe, si trova una classe media relativamente molto scarsa; la quale fino al 1860 era per la massima parte composta da piccoli e poveri impiegati delle amministrazioni' governative e delle corporazioni religiose, e da un numero infinito di uomini di legge e di faccendieri, per le mani dei quali passavano tutti gli affari che' dalle provincie affluivano alle giurisdizioni centrali di Palermo, quelli che da Palermo dovevano essere trasmessi a Napoli, e ripassavano poi tutti quelli che da Napoli ritornavano a Palermo per diffondersi di là in tutta Sicilia. Queste due categorie di persone, ad eccezione dei principi del foro, né per coltura, né per educazione, né per le abitudini della vita, si trovavano in condizioni tali ché permettessero loro di mescolarsi intimamente colla classe aristocratica. Molto meno lo potrebbero adesso, poiché ambedue hanno molto sofferto dopo la rivoluzione del 1860, in conseguenza dell'abolizione improvvisa di alcune amministrazioni governative (e fra le altre di quella sul dazio del macinato), della soppressione delle corporazioni religiose,

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e del discentramento avvenuto nel sistema amministrativo e giudiziario di Sicilia; per effetto del quale moltissimi degli affari che prima, affluivano a Palermo, sono esauriti dai prefetti delle altre sei provincie dell'isola e dalle corti d'appello di Messina e di Catania, senza passare necessariamente per la trafila di una rappresentanza vicereale, e di una unica alta giurisdizione stabilita in Palermo. La minima parte «del secondo ceto» era formata da proprietarii e da industriali; dei quali ultimi, i più, si trovavano condannati dallo stato del commercio d'allora ad operazioni di piccolissima scala. Nei rapporti sociali, le fusioni fra questo «secondo ceto» ed il «primo» avvenivano raramente, ed avvenivano in un senso inverso di quello che si verifica nei paesi nei quali, mentre l'aristocrazia decade, la classe media sorge potente per numero e per ricchezza. Vita socievole, riunioni geniali, non esistevano a Palermo se non in mezzo all'aristocrazia; ond'è che quelli i quali mediante l'industria si arricchivano, e colla ricchezza acquistavano il gusto ed il desiderio di altre abitudini di vita, si affrettavano ad abbandonare le file del «secondo ceto» o procurandosi un titolo di nobiltà dal re, o prendendolo addirittura da se medesimi; ed imitando gli usi e le fogge dell'aristocrazia, trovavano facile accesso nelle di lei. riunioni per sé. e per le loro famiglie. Questo stato di cose va adesso sensibilmente modificandosi, ma non potrà cessare del tutto, se non quando la classe media di Palermo, moltiplicando le posizioni indipendenti mediante il commercio e l'industria, avrà acquistata quella coscienza di una forza propria e di una esistenza propria che essa ha già in altre provincie di Sicilia e d'Italia.

Per quanto lenta debba essere di sua natura una simile trasformazione, abbiamo già i segni precursori più evidenti di essa, nello stato attuale del commercio di quella città. Cosa fosse il commercio di Palermo avanti il 1860, tutti ben lo ricordano ancora.

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Le mercanzie che uscivano dal suo porto in un anno sommavano appena a 8 milioni di lire italiane: nell'anno 1869 ammontavano già a 17 milioni.. 1 Appena un centinaio di battelli a vapore, nazionali e stranieri; entravano ed uscivano da quel porto nel corso di un anno: nel 1870 essi raggiungevano la cifra di 1764. 2 Né esso, né i depositi doganali, sono, più in proporzione col numero delle transazioni commerciali della piazza. La connessione postale col continente italiano avveniva, prima del 1860, una volta, al più due, la settimana, per mezzo dì piccoli battelli che facevano il tragitto da Palermo a Napoli e viceversa, i quali non si movevano quando 1l mare era grosso. È ancor viva in Palermo la memoria dell'anno 1856 nel quale, durante 36 giorni, non fu possibile avere alcuna lettera dal continente. Adesso si hanno cinque volte la settimana connessioni postali regolari col continente, per mezzo di buoni battelli appartenenti ad una Compagnia siciliana, la quale fa ancora il servizio postale fra le varie città marittime di Sicilia, fra Messina e Napoli, e fra la Sicilia, Malta e Tunisi. La popolazione, alla quale bastavano qualche anno fa quelle rare ed ineguali comunicazioni di cui ho detto, comincia adesso a trovar che le presenti sono ancor troppo scarse, sebbene coadiuvate da un servizio telegrafico che prima del 60 quasi non esisteva. La compagnia di navigazione postale, sebbene abbia acquistate proporzioni relativamente gigantesche, si è già chiarita insufficiente ai bisogni del commercio locale; ed una nuova Società di navigazione, per trasporti di mercanzie e passeggieri, si è costituita nel 1869 e promette di prosperare. L'importanza commerciale del porto di Palermo, già così grande adesso, diverrà in breve molto maggiore; quando cioè saranno,

1 Vedi Documento, n. 6.

2 Vedi Documento, n. 7

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compiuti i lavori d'ingrandimento di quel porto che ora son condotti con grande alacrità, e terminata la rete stradale destinata a connettere la provincia di Palermo colle tre finitime di Trapani, Girgenti e Caltanissetta, i. prodotti delle quali potranno affluire a Palermo con molta maggiore facilità e sicurezza di quello che lo possano adesso.

E non soltanto in Palermo, ma in tutta Sicilia, il movimento commerciale dei porti è andato notevolmente aumentando nel corso di questi undici anni.

Il quadro del movimento generale della navigazione per operazioni di commercio in questi porti, dal 1862 al 1869, ne è la prova più evidente. 1

Esso ci dimostra che dal 1862 al 1869 questo movimento è cresciuto di un milione di tonnellate all'anno, cosi negli approdi come nelle partenze; e che questo accrescimento è avvenuto in una maniera progressiva, ad eccezione dei due anni 1866 e 1867 nei quali la Sicilia fu sequestrata dalle quarantene, e poi orribilmente devastata dal colera.

Anche l'industria agricola siciliana ha saputo giovarsi dell'aura fecondante della nuova libertà civile ed economica.

L'abolizione di ogni specie di manomorta, e. la facilità colla quale si fanno adesso le enfiteusi dei beni demaniali ed ecclesiastici, hanno contribuito potentemente ai suoi progressi; ma vi ha contribuito ancora lo spirito di associazione novellamente risvegliatosi fra i proprietari, nei luoghi nei quali le condizioni climatologiche e la facilità delle comunicazioni col mare (e perciò delle esportazioni, permettono l'

intensa cultura del suolo. Nel territorio di Palermo, per esempio, il quale, in parte, anche prima del 1860 le enfiteusi delle mense arcivescovili di Palermo e di Monreale erano state effettuate, ed. avevano permessa una discreta divisione della proprietà, divenuta ancora più grande dopo il 1860,

1 Vedi Documento, n. 8.

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ingenti capitali sono stati già impiegati per rendere irrigui dei terreni i quali fino a pochi anni or sono erano interamente aridi. 1 Dove prima esistevano semplici pascoli, o coltivazioni di sommacco, con una rendita annua da lire 30 a 172 per ettaro, si veggono adesso orti ed agrumeti che danno una rendite annua da 1077 a 1434

lire per ettaro.

Nella bella vallata, che ora merita veramente il suo classico nome di

Conca d'Oro, già gli agrumeti occupano una estensione maggiore di ogni altra coltivazione, e forniscono uno dei più importanti articoli di esportazione del porto di Palermo, assicurando nello stesso tempo, in tutta la valle, il sopravvento della rendita massima sulla rendita media e minima del suolo.

Simili progressi sono ragionevolmente da aspettarsi in tutte quelle parti dell'isola, nelle quali le condizioni climatologiche sono simili a quelle della valle di Palermo. E già se ne hanno in altre provincie di Sicilia notevoli esempii: fra gli altri quello del feudo della mensa arcivescovile di Mazzara, dove il latifundio aveva, fino al 1861, soffocata la naturale ubertosità del suolo, e dove adesso, la piccola proprietà si mantiene prospera e rigogliosa. Disgraziatamente però, soltanto in una piccola parte dell'isola si incontrano condizioni così favorevoli. In Sicilia, come in molti dei:paesi meridionali d'Europa, l'

intensa, cultura, figlia della permanenza degli uomini e degli animali sul luogo coltivato, vien resa impossibile, in grandi estensioni di paese, o dalla siccità, o dalla malaria. Quindi il prodotto del suolo, necessariamente ristretto alle sole granaglie, non è di tale entità da rendere remunerativa la intrapresa agraria di piccole porzioni di terreni, e la piccola proprietà non può stabilirvisi, o, stabilita, non può mantenervisi.

1 Vedi il sunto della bella conferenza del prof. Giuseppe Inzenga Scilla

Topografia agraria di Palermo, negli

Annali di agricoltura siciliana. 1870, num. 11

e 12.

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Perciò è avvenuto frequentemente di vedere che in alcuni luoghi nei quali, mediante la vendita o l'enfiteusi dei beni baronali, e poi dei beni ecclesiastici e demaniali, si era ottenuto il frazionamento della proprietà territoriale; i piccoli proprietari od enfiteuti sono stati costretti dalla forza delle cose ad abbandonare la partita, per cui sono venuti a ricostituirsi i grandi tenimenti, in mano di grandi proprietari, o di grandi enfiteuti. In questi latifundi non vi sono coloni, cioè contadini abitatori del luogo coltivato. Il proprietario, o il gran fittaiuolo, divide il terreno in porzioni (terraggi) che vengono prese in affitto o in subaffitto da vari coltivatori (terraggieri), i quali pagano col raccolto, in quantità variabile secondo i casi, il loro affitto. 1 Questi terraggieri coltivano i loro terraggi o da per sé o per mezzo di giornanti; e gli uni e gli altri abitano in villaggi situati in località salubri, le quali si trovano talvolta a grandissima distanza dai campi. Vi sono esempi in Sicilia di contadini i quali, e per la grande distanza che separa le loro abitazioni dal terreno che debbono coltivare, e per l'orribile stato della viabilità, nell'interno dell'isola, partendo dal paese prima dell'alba, non possono arrivare sul campo che alle 10 antimeridiane, e debbono ripartirne alle 2 o alle 3 dopo mezzogiorno, per ritornare in luogo salubre prima che la notte li sorprenda.

Ognuno che abbia qualche idea dei costumi del popolo siciliano, può facilmente intendere come una simile condizione di cose riesca dannosa, non solo allo stato economico, ma anche allo stato sociale di alcune Provincie. Grandi estensioni di paese vi si trovano interamente deserte durante la notte, ed offrono un liberissimo campo d'azione al malandrinaggio; durante il giorno sono popolate scarsamente da coltivatori i quali vengono da lontano,

1 La quantità del grano che si paga come prezzo d'affitto, varia da 2 a 5 salme di grano (salma-ettolitri 2,75) per ogni salma di terra (salma-ettaro 1, 64) all'anno.

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quasi tutti armati di fucile; ed i quali spesso soccombono alla tentazione di convertirsi di tempo in tempo in malandrini, quasi sempre poi a quella di divenire manutengoli. Villaggi i quali, pel numero dei loro abitanti, hanno a prima vista l'importanza di vere città, presentano l'immagine della barbarie; popolati come sono da una massa di miseri proletarii campestri, condannati dalla forza delle cose a un nomadismo quotidiano, ignorantissimi, e in gran parte più o meno infarinati di malandrinaggio. Su questa plebe infelice o corrotta domina una piccola oligarchia di proprietarii o fittaiuoli, ovvero di imbroglioni nullatenenti, i quali hanno in mano le cose del Comune e ne dispongono a loro voglia, ripartendo le tasse a seconda dei loro particolari interessi; ed i quali, troppo spesso, sono alienissimi, per natura e per calcolo, dal promuovere il miglioramento morale e intellettuale dei loro amministrati. Talvolta si incontrano alcune di queste piccole oligarchie divise in due campi opposti, che nei giornali delle città marittime vengono spesso dipinte come rappresentanti due partiti politici, uno governativo, l'altro di opposizione. In fondo si tratta di cosa nella quale la politica non ha che far nulla:

si tratta della rivalità di due famiglie, o di due gruppi di famiglie, le quali contendono per l'esercizio di una piccola tirannide locale

, e delle quali quelle che sono in carica e la esercitano figurano come governative; mentre quelle che aspirano ad esercitarla figurano come opponenti rossi o neri, secondo il colore che ha l'opposizione nelle città dove la stampa si occupa di queste guerricciuole lillipuziane. E questo dualismo, con tutti i pravi effetti che ne derivano per la prosperità e moralità pubblica, è già da considerarsi come un benefìzio, in paesi che sono come sequestrati dalle parti più civili dell'isola, dalla difficoltà o dalla mancanza di comunicazioni stradali; e nei quali l'azione della libera stampa è quasi nulla, perché, al di fuori dei tiranni e degli aspiranti a tirannide, quasi nessuno sa leggere.

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C'è il vantaggio almeno, che i potenti sono contenuti dal timore dì ciò che possono dire e propagare altrove sul conto loro gli aspiranti a potenza. Vanno molto peggio le cose nei paesi (che adesso fortunatamente sono in scarsissimo numero), nei quali un solo gran proprietario o gran fittaiuolo esercita una dominazione incontrastata, e nei quali, in pieno secolo decimonono, si sono veduti esempi di prepotenza medioevale e di dilettantismo scherano, senza che una voce potesse far valere le ragioni della umanità e della civiltà, nemmeno nel santuario della giustizi.

Si intende bene che in tali luoghi ed in tali condizioni la legge comunale italiana è per ora lettera morta, e che, dal l860 in poi, quasi nessun progresso vi si è verificato. Di libertà e di italianità non vi si ha altra idea, molte volte, che quella che vi possono importare i soldati in congedo, e non vi sarebbe da stupire se in alcuni di tali luoghi l'Italia

(la Talia) fosse ancora pel popolo minuto,

come lo era nel 1860, la moglie di Vittorio Emanuele.

Il regno di questa

Talia prometteva nel 1860 di rinnuovare l'età dell'oro, poiché s'inaugurava colla improvvida abolizione del macinato, che era l'unica gravosa tassa stabilita nell'isola. Dal canto loro le popolazioni, secondo l'uso tradizionale, avevano inaugurato il nuovo reggimento saccheggiando gli uffici di percezione, bruciando i libri, le bollette dei dazi, e i catasti; cosicché pareva loro che questa volta di imposte non se ne avesse proprio a sentir parlar più.

Ma presta furono disingannate, e ne ebbero a sentir parlare anche troppo.

Ed oltre alle gravose tasse governative, i di cui effetti nocivi non hanno ancora potuto in molte località di Sicilia essere temperati da un proporzionato aumento della produzione agricola, ebbero a sobbarcarsi a nuove tasse comunali, per sopperire ai servizi pubblici che il nuovo sistema amministrativo imponeva ai comuni.

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Prima del 1860 i comuni di Sicilia non avevano da pensare né a scuole, né a medici, né a cimiteri, né ad opere pubbliche di sorta, né a guardia nazionale, perché nulla di tutto questo esisteva;

e a quei pochissimi fra i pochi bisogni che sentivano, ai quali il governo permetteva loro di soddisfare, bastavano alcuni piccoli dazi di consumo, pochi centesimi addizionali sulle tasse dirette, e le scarse rendite dei loro beni patrimoniali, per quanto gli avessero quasi tutti affogati nei debiti. 1 Dopo il 1860, ai nuovi carichi e ai nuovi bisogni, bene o male, in maggiore o minor proporzione, bisognava supplire, e vi si supplì per mezzo di imposte'. Ma nella distribuzione di queste, spesso si verificò nei piccoli comuni dell'interno dell'isola la più grande irregolarità e la più grande ingiustizia. Dove la maggioranza dei Consigli comunali era composta di proprietarii del suolo, si fece di tutto per sottrarre ai carichi la proprietà fondiaria; dove all'incontro la maggioranza dei Consigli comunali era in mano di nullatenenti, la proprietà fondiaria pagò tutte le spese. E ci fosse almeno la consolazione di credere che dappertutto le imposte riscosse venissero erogate in spese di utilità pubblica! Ma anche non essendo inchinevoli a prestar troppo facile orecchio alle voci malevole che corrono in Sicilia su tal proposito, è lecito dubitarne, quando si vede in qual miserando assetto si trovano i bilanci di molti comuni dell'interno dell'isola; alcuni dei quali, durante tutti questi undici anni, si sono risparmiati l'incomodo di produrne uno qualsiasi.

In questa faccenda l'amministrazione governativa potrebbe intervenire in un modo veramente benefico.

Una ispezione accurati dei comuni delle varie provincie di Sicilia, specialmente delle quattro occidentali, fatta da un abile ed integro amministratore, potrebbe in un tempo relativamente breve, condurre ad una più equa distribuzione

1 Vedi l'opuscolo

La Sicilia e l'inchiesta parlamentare, di. Giuseppe Ciotti. Palermo, 1867, pag. 3.

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delle imposte comunali e ad una regolarità, finora sconosciuta, nell'ordinamento e nella formazione di ciaschedun bilancio comunale. Tempo fa una proposta consimile fu fatta al Ministero dell'interna dalla Prefettura li Palermo, e non venne accettata, perché non si aveva di che sopperire alle spese di questa ispezione. Ma io credo che a questa idea ci si debba tornare, e che la sua pratica applicazione sarà feconda di utili risultati.

Un simile mezzo servirebbe non solo a riparare alle ingiustizie esistenti, e a svelare le frodi che possono esistere; ma servirebbe inoltre, in molti paesi, a mettere in carreggiata della brava gente che non sa trovare da se il bandolo di una azione amministrativa, per quanto piccola e ristretta. Nello stesso tempo servirebbe a prevenire il caso che, per la ignoranza o la malafede degli amministratori, sirisolvesse in fumo il vantaggio che i piccoli comuni siciliani possono ritrarre dall'affrancazione dei debiti dei loro beni patrimoniali, e dalla cessione fatta loro del quarto dei beni ecclesiastici incamerati. Ed intanto si potrebbe profittare dell'occasione, per combinare questa ispezione amministrativa ad una ispezione scolastica, e vedere un po' come i piccoli comuni dell'isola adempiono agli obblighi che la legge impone loro in fatto d'istruzione elementare; sia per ciò che riguarda la proporzione delle scuole col numero degli abitanti, sia perciò che riguarda lo stipendio degli insegnanti, i quali spessa, ad onta del

minimum stabilito dalla legge, sono pagati come facchino.

1 Nel 1860 il Governo italiano assunse a proprio carico tutti i debiti che gravavano sui comuni siciliani in quell'epoca, i quali ammontavano, in complesso, a L. 1,980,988. 31 di rendita annua. Inoltre,

quando nel 1867 i beni delle corporazioni religiose furono incamerati nel Demanio dello Stato, venne inclusa nella legge una clausula speciale in favore della Sicilia,

in forza della quale

un quarto dei beni ecclesiastici siciliani veniva ceduto in tutta proprietà ai rispettivi municipi.

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L'aiuto intelligente dell'amministrazione governativa potrebbe essere di grande utilità in Sicilia, anche per combattere i due più grandi flagelli dell'agricoltura siciliana, la malaria e la siccità. Sarebbe necessario), per esempio, il proibire per legge che la macerazione del lino e della canapa si facesse nell'interno dell'isola, rendendola obbligatoria in maceratoi artificiali costruiti in vicinanza del mare, sul modello di quello di Aci Rèale. Si potrebbero inoltre spingere i Consigli provinciali, o i consorzii comunali, ad intraprendere il bonificamento dei terreni palustri e acquitrinosi, che in alcuni luoghi

si otterrebbe facilmente mediante un ben' inteso sistema' di fognatura e l'incanalamento delle acque stagnanti; in altri, forse, procurandosi delle colmate per mezzo dei torrenti invernali. Alla siccità delle terre marittime è possibile rimediare, è già si va rimediando, colla molteplice costruzione di bindoli o norie

(senie in siciliano), ognuno dei quali in media mette sott'acqua due ettari di terra; tirando su le acque dette

di centro, che provengono in parte dalle acque marine, in parte dalle acque dei terreni superiori infiltrate nella roccia porosa, è le quali mantengono lo stesso livello delle acque, del. mare. Ma nei terreni bassi dell'interno, dove non esiste questa risorsa, non si può sperare di combatterei la siccità (che spesso entra in prima linea come causa di latifundio), se non per mezzo di lavori idraulici diretti ad impedire la inutile dispersione degli scoli montani, a ricercare le acque interne incarcerate, ed a raccogliere le acque dei torrenti invernali in laghi o serbatoi artificiali (

pantanos) situati sulle alture, per por distribuirle alle basse terre. Perché la. convinzione della possibilità di simili lavori possa penetrare nelle menti, perché i capitali necessarii ad eseguirli possano essere riuniti dalle provincie o dai comuni, sarebbe di grande utilità che l'amministrazione governativa intraprendesse a conto suo gli studi preparatorii, giovandosi del buon personale d'ingegnerìa idraulica che si trova a sua disposizione.

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Sarebbe questo il modo più pratico per invogliare la gente a fare quello che più e meglio si può, onde rimuovere in parte due delle principali cause del latifundio, così lesivo della prosperità economica dell'isola.

Ma oltre a queste due cause generatrici del latifundio siciliano, le quali forse non potranno mai essere interamente rimosse dalla industria umana, ve n'ha una terza, dovuta all'incuria dell'uomo, e che l'industria dell'uomo può fare interamente sparire. Ed è il vergognoso stato della viabilità, in tutta l'isola, e specialmente nelle quattro provincie occidentali di essa. Questo stato della viabilità che nelle terre basse di Sicilia entra soltanto in seconda linea nella genesi del latifundio, ne è invece la causa precipua, e talvolta unica, nelle regioni montagnose. Della viabilità siciliana si è molto parlato e molto discusso durante questi ultimi anni, e talvolta a sproposito.

Generalmente quei del continente, noiati dal troppo discorrere che se ne faceva, e spaventati dalle pretese eccessive affacciate dai siciliani, si attenevano alla idea che il governo non ci avesse ad entrare per nulla e che le provincie ed i comuni dovessero far tutto: per alcuni dei siciliani invece il governo doveva far tutto, e l'isola nulla.

Lasciando stare queste esagerazioni, spesso suscitate da spirito di parte, è fuor di dubbio che

al nuovo governo incombeva il dovere di compiere al più presto le strade nazionali di Sicilia

, e di aiutare efficacemente la costruzione delle provinciali e delle comunali. Sarebbe stato questo da parte sua un alto di abilità politica ed insieme di giustizia.

Il denaro dei contribuenti siciliani era stato incassato per una lunga serie di anni dal governo borbonico, senza che la minima frazione di quello fosse convertila in opere di utilità pubblica

. Talvolta anzi il governo aveva estorte dai comuni siciliani delle somme più o meno cospicue, promettendo di adoperarle nella costruzione di strade, ponti e canali, senza che mai si fosse posto mano ad alcuno di questi lavori.

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Durante la rivoluzione del 1860, i nuovi governanti non furono avari di promesse in proposito, promesse le quali non vennero mantenute dai governanti posteriori, e fu grave danno.

Di tutti i benefizi che le popolazioni aspettavano dal nuovo ordine di cose, questo era il più ardentemente invocato, e quello del quale esse sarebbero state maggiormente riconoscenti. Da se stesse non potevano procurarselo nei primi anni dopo l'annessione: l'esistenza delle amministrazioni provinciali era allora un mito, e quella della massima parte delle comunali poco meno. Quelle poche fra queste ultime che avevano una reale esistenza, erano state appena allora salvate dal fallimento, e colle piccole risorse che potevano mettere insieme, dovevano provvedere ai più urgenti ed immediati bisogni della nuova vita. Se il governo italiano, nei primi tempi dopo l'annessione, avesse fatte sue le promesse della Dittatura, ed oltre al costruire rapidamente le strade nazionali, avesse intrapresa la costruzione delle provinciali e comunali (salvo poi a farsi rimborsare più tardi dalle amministrazioni comunali e provinciali, a misura che esse erano poste in assetto e la ricchezza pubblica andava aumentando); l'effetto di questo beneficio, tanto sospirato, sullo spirito delle masse sarebbe stato così grande, da soffocare nel nascere il malcontento suscitato dai gravami che la nuova vita nazionale imponeva alla Sicilia. È convinzione di tutti in Sicilia, che se i milioni di lire spesi per contenere le agitazioni del 1862 e del 1864, e per reprimere la insurrezione di Palermo del 1806, fossero stati spesi fin da principio nella costruzione delle strade promesse, quelle agitazioni non sarebbero state così gravi, e quella insurrezione non sarebbe riuscita che ad un tentativo isolato di pochi furibondi. Ed io credo che questa convinzione sia giusta.

L'insurrezione deH866 richiamò così potentemente l'attenzione di tutti sulle cose siciliane, da avvantaggiare molto la quistione della viabilità dell'isola.

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I lavori delle strade nazionali dopo quell'epoca sono stati alacremente condotti, e si è cercato di attivare la costruzione delle strade provinciali e comunali facendo compiere gli studi preparatorii di queste ultime dal Genio militare, e agevolando con ogni premura la contrattazione dei prestiti necessari a por mano al lavoro. Se questo impulso governativo, del quale il migliore esempio è stato dato nella provincia di Palermo, non vien meno, e se anzi, nella convinzione della sua efficacia, si estende e si rinforza, è sperabile che in pochi anni vedremo la fine di uno stato di cose, che è insieme un danno ed una vergogna per la Sicilia e per l'Italia tutta.

Il compimento della rete delle strade ferrate siciliane coronerà quest'opera benefica, e nello stesso tempo la renderà più agevole. L'insistenza posta dai siciliani e da alcuni dei. loro governanti, per ottenere la costruzione pronta di quella rete, è sembrata puerile a taluno sul continente. Si è detto, con qualche apparenza di ragione, che era per lo. meno strano, che si pensasse a far strade ferrate prima che fossero eseguite le rotabili, senza le quali una strada ferrata si trova nelle condizioni di vita di un tronco d'albero senza radici. E certamente, se si considera la costruzione di una strada ferrata come un'opera destinata ad un lavoro rimunerativo, l'obiezione è senza replica. Ma nella massima parte d'Italia, le strade ferrate non possono per ora, chè lo potranno per un bel pezzo, essere considerate dal punto di vista di una speculazione; poiché, in tal caso, appena appena si sarebbero costruite le ferrovie dell'alta Italia, e a costruire le altre si sarebbe aspettato che le condizioni della viabilità, dell'industria e del commercio interno, e le abitudini di vita degli italiani, fossero cambiate per modo da rendere il loro esercizio remunerativo.

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Invece il governo italiano, immediatamente dopo compiuta l'unificazione, giustamente pensò che fosse necessario, a costo di qualunque sacrificio, consolidare quella unificazione,

collo stabilire prontamente rapide e sicure comunicazioni fra le varie provincie italiane; accorciando così l'Italia

, e dando un potente impulso al commercio interno, e ad ogni opera provinciale e comunale diretta a renderlo più attivo e più facile. Pel raggiungere questo scopo politico-sociale egli spese,

dal 1859 a tutto il 1869, la somma di lire 272, 708, 556 in sussidi e garanzie alle varie Società di strade ferrate del Regno. E sebbene di anno in anno il movimento delle strade ferrate italiane sia andato crescendo,

nessuna Società è arrivata ancora a raccogliere quel

minimum di utili che può rendere il suo lavoro indipendente dalla protezione del governo

; nemmeno la Società dell'Alta Italia, benché amministrata con senno ed economia, e benché esercente nelle provincie

più ricche, più industriose e più civili

d'Italia. 1 Nonostante ciò, nessuno pensa a rimproverare al governo la sua iniziativa; poiché la sicurezza dell'utile politico presente, e dell'utile economico avvenire, fanno dimenticare quello che vi può essere di avventato nell'ardimento col quale si è gettato in questa intrapresa.

In Sicilia, oltre alle ragioni comuni al rimanente d'Italia, ve ne sono altre tutte particolari dell'isola, che militano in favore della pronta esecuzione delle linee ferrate nelle principali direzioni del commercio interno. Esse scuoteranno l'inerzia dei comuni e dei proprietari, e procureranno il complemento delle reti stradali comunali, meglio di qualunque altra specie di esortazione; non fosse altro, per la rivalità che si desterà fra i vari comuni, nel timore che i più pronti a fare attirino a sé, in un modo permanente, la massima parte del beneficio proveniente dalla nuova risorsa.

1 Vedi Documento, n. 9.

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Per se stesse, e per questo effetto immediato della loro costruzione, esse determineranno un rapido miglioramento nelle condizioni dell'agricoltura di alcune provincie, e perciò un rapido aumento della ricchezza pubblica. Vi sono, per esempio, nell'interno dell'isola grandissime estensioni di terreno, nelle quali i pascoli esistenti (che danno una rendita annua di appena 30 lire per ettaro), sarebbero immediatamente sostituiti dalle piantagioni di sommacco, che danno una rendita annua di almeno 172 lire per ettaro, appena le condizioni della viabilità fossero tali da permettere il trasporto della raccolta. In queste località, ed in tutte le altre dell'interno dell'isola che non sono afflitte dalla malaria, molti contadini si convertiranno prontamente in coloni, ed usciranno da quei covi di miseria e di corruzione, che sono la massima parte dei villaggi dell'isola. Ed anco nei luoghi di malaria, si potrà ottenere una più lunga permanenza dei contadini sul campo, offrendo loro la possibilità di condursi rapidamente e con poca spesa, dal villaggio alle terre coltivabili, e di passarvi tutte le ore diurne. Oltre a ciò, si arriverà forse a salvare con questo mezzo una industria siciliana di grande entità, la quale adesso si trova minacciata nella sua esistenza - quella dello zolfo.

Attualmente la richiesta dello zolfo siciliano, sebbene sia estratto con metodi primitivi e tutt'altro che economici, e trasportato al luogo d'imbarco in una maniera dispendiosissima, è sempre assai grande, in grazia della malattia della vigna, per la cura della quale è necessario impiegare lo zolfo in natura. 1 Ma quando la causa determinante di questa richiesta non esisterà più, e lo zolfo estratto di Sicilia dovrà essere convertito per la massima parte in acido solforico, è impossibile che esso possa, nell'attuale condizione di cose, sostenere la concorrenza colle piriti.

1 Dal 1862 al 1866 l'esportazione dello zolfo siciliano è stata, in media, di 1, 649, 596 quintali ogni anno.

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Un quintale di zolfo siciliano, portato in Inghilterra, costa attualmente dalle 12 alle 13 lire; l'equivalente quintale in pirite soltanto 10. Adesso il prezzo del quintale di zolfo siciliano al luogo d'imbarco è, in media, di lire 9,60; e bisogna che sia ridotto almeno a lire 6,90, se si vuole aver la speranza di sostenere la concorrenza colle piriti, in Inghilterra, in Francia, nell'alta Italia e forse anche nella Germania meridionale. 1 Per ottenere questa riduzione è necessario, prima di tutto, che il trasporto dal luogo d'estrazione al luogo d'imbarco sia fatto con grande economia, e questa non si può raggiungere in Sicilia se non per mezzo delle strade ferrale, condotte nella maggior vicinanza possibile delle solfare. Da ciò l'ardore col quale si è spinta dal generale Medici la costruzione della strada ferrata da Palermo a Lercara, e quello col quale adesso si cerca di affrettare il conseguimento detto stesso benefizio per le solfare più prossime a Girgenti. Se poi i proprietari delle solfare arriveranno a migliorare i metodi di estrazione, e il governo si indurrà a togliere il rovinoso dazio di esportazione di una lira per quintale, che adesso grava sullo zolfo siciliano, si potrà considerare questa industria come preservata dal gravissimo pericolo che la minacci.

Dove però la necessità di costruire rapidamente le strade ferrate di Sicilia apparisce più manifesta, è rapporto allo stato della sicurezza pubblica del paese. Esso è tale, che se anco tutta la rete delle strade rotabili fosse già compiuta, la fiducia indispensabile perché il commercio interno si ravvivi, e i proprietari del suolo si conducano frequentemente ai loro possessi e finiscano collo stabilirvisi, invece di star rintanati nelle città e nei villaggi, non potrebbe rinascere cosi facilmente. Non v'ha dubbio che, per sé solo, quel fatto basterebbe a determinare un miglioramento improvviso nella sicurezza del paese;

1 Vedi

Statistica del Regno d'Italia. -

Industria mineraria, 1868. Relazione dell'ingegnere Parodi, pag. 332 e seguenti.

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ma siccome vi vorrà, in ogni caso, un tempo assai lungo prima che essa divenga completa, non basterebbe a dileguare l'incubo di terrore che da tempo immemorabile pesa in Sicilia su chiunque ha da muoversi nell'interno dell'isola. Perché questo incubo diminuisca per modo da permettere la molteplice circolazione di persone e di cose, che è la condizione indispensabile di un commercio prosperoso, bisogna che a questa circolazione sia offerta una tal guarentigia di sicurezza che, per ora, soltanto le strade ferrate possono offrire in Sicilia. Immaginiamoci, per esempio, che cosa sarebbe stato il transito ed il commercio, della provincia di Caserta, durante tutti questi anni nei quali la banda di Domenico Fuoco teneva la campagna, se invece di avere una linea ferrata che la traversava in tutta la sua lunghezza, essa non avesse possedute. che delle strade rotabili ordinarie. Questa immagine può dare in piccolo una idea di ciò che avviene in Sicilia, e di ciò che avverrebbe ancora per un bel pezzo se non vi fossero strade ferrate: dico

in piccolo perché la banda di Fuoco, sebbene capitanata da un uomo ardito e ricco di strattagemmi, non aveva il dono della ubiquità, mentre in alcune provincie di Sicilia il malandrinaggio è dappertutto.

IL MALANDRINAGGIO IN SICILIA.

Infatti quella che molti hanno voluto chiamare

la questione siciliana, è essenzialmente una

questione di pubblica sicurezza

. La schifosa piaga del malandrinaggio rode in Sicilia le viscere del corpo sociale, inaridisce le fonti della ricchezza pubblica, incaglia o sospende i commerci, esercita un singolare fascino di terrore o di simpatia in tutte le classi della cittadinanza, e fa sentire la sua azione malefica perfino nel santuario della giustizia, rendendo la legge impotente a colpire i malfattori. Estesa dappertutto nelle quattro Provincie occidentali dell'isola, si trova al massimo grado in quella di Palermo; dove incontriamo lo strano fenomeno di una grande città, che è veramente la capitale civile della Sicilia,

circondata da popolazioni le quali contano fra le più sanguinarie e ribalde d'Italia

. I governi che si sono succeduti in Sicilia fino al 1860 hanno talvolta potata con mezzi efferati e crudeli questa mala pianta, quando diveniva troppo rigogliosa: mai hanno dato opera ad estirparla. Per estirparla sarebbe stato necessario iche essi avessero avuti propositi civili; cioè che tutta l'azione governativa, la quale nei passati dispotismi aveva. il carico e la responsibilità di tutto, fosse stata diretta allo scopo di migliorare moralmente e materialmente il paese. Unico scopo di tutti i governi succedutisi in Sicilia, essendo stato invece quello di conservare a qualunque pattò la dominazione politica, essi non si preoccupavano se non di mantenere intatta questa, applicando ai mali sociali dei palliativi transitorii, solo quando acquistavano tale intensità da poterla minacciare.

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Una cura radicale avrebbe richiesta la cooperazione assidua della parte culta e civile della cittadinanza, che era appunto quella di cui più si temeva di veder crescere la importanza e l'ascendente, e l'educazione delle plebi, che era ben lontana dai pensieri di tali governanti. Quindi si amava meglio, piuttosto che sradicare il malandrinaggio con mezzi i quali potevano porre in pericolo una dominazione debole e corrotta, contenerlo il meglio che si poteva in discreti limiti, e per ottener questo, non si era trovato altro miglior mezzo che quello di transigere con lui. Una parte dei malandrini, spesso la più famigerata, veniva assoldata dal governo e convertita in truppa di polizia.

La polizia nell'interno di Sicilia era fatta prima del 1860 dalle così dette

Compagnie d'armi. Queste si componevano di ribaldi matricolati

, non di rado capitanati dal più matricolato di tutti, il quale, colla sua Compagnia, si faceva mallevadore della sicurezza di un distretto. 1

Per riuscirvi egli faceva man bassa sulla plebe dei ladri, ma veniva a patti coll'aristocrazia del delitto.

1 L'origine delle Compagnie d'armi rimonta all'epoca feudale, nella quale, in mancanza di forza pubblica, i baroni e i proprietari del suolo erano obbligati, per custodire le loro proprietà, a tenere al loro soldo delle squadre di uomini facinorosi. Questi bravacci difendevano, è vero, i castelli e le masserie, ma a patto di essere alla loro volta protetti dal padrone, quando la pubblica autorità voleva loro far render conto delle ruberie, prepotenze e delitti che ad ogni momento commettevano, o per conto proprio, e per conto di lui.

Nei primi tentativi fatti per stabilire un embrione di ordine pubblico in mezzo all'anarchia feudale, il governo, debole ed impacciato da mille giurisdizioni diverse (comunali, baronali ed ecclesiastiche), non seppe fare di meglio che prendere al suo servizio quanti più di questi bravi poteva

. Con poche modificazioni, questo bel sistema di polizia si è mantenuto fino ai nostri giorni, fino cioè alla venuta di Garibaldi in Sicilia.

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La Compagnia era composta di pochi eletti: troppo pochi di fronte al numero di quelli chiamati dai loro precedenti all'onore di farne parte; e per non essere sopraffatta da loro, accordava ai birbanti più famosi del distretto la qualifica di

affiliati, coll'obbligo di preservare una porzione del distretto dagli attentati dei ribaldi minori, e con la facoltà di taglieggiare a loro bell'agio, sotto la protezione della Compagnia, la gente del luogo che non osava fiatare. Quando essi ne facevano delle troppo grosse, e i derubati erano in tal posizione sociale da attingervi il coraggio di querelarsi del furto (mai però quello di denunziare il ladro), il Capitano d'armi pagava la somma perduta, e talvolta del danno sofferto si andava a rifare colla sua Compagnia nel distretto di un'altra.

Ma per lo più in simili casi si veniva a patti,

a composizione, come si diceva: qualcuno della Compagnia (non di rado complice del delitto) andava dal derubato, offriva il sessanta, l'ottanta, il novanta per cento della somma rubata (secondo la qualità della persona), e lo persuadeva a non dar querela.

Se però i furti o ricatti denunziati non erano opera di

affiliati della Compagnia, si cambiava registro. La Compagnia doveva pagare l'indennizzo, e pagava; ma si vendicava del profano che aveva osato cacciare sul suo, senza averne l'autorizzazione. Se non v'erano indizii sicuri, arrestava a diritta e a sinistra della gente, la bastonava, la torturava all'occasione, e cosi alla meglio o alla peggio arrivava a trovare il ladro. Se v'erano indizi sicuri, il temerario si trovava talvolta ucciso in qualche luogo remoto; poi si frenava la curiosità del giudice istruttore, facendogli pulitamente sapere che era

affare della Compagnia, e non se ne parlava più.

Così si faceva la polizia in Sicilia, e cosi si è fatta anche dal 1849 al 1860, per opera del famoso Direttore Maniscalco

che alcuni ci propongono, anche al dì d'oggi; come modello di un capo di polizia.

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Chi non conosceva il fondo delle cose e viveva nelle città marittime, credeva, che la sicurezza nell'interno dell'isola fosse più che discreta. I forestieri che si avventuravano a farvi qualche viaggio ricevevano la stessa impressione.; perché il malandrinaggio sistematizzato si esercitava, per cosi dire, in famiglia. Nessuna importunità di stampa alterava la levigatezza della superficie apparente del sistema; perché allora non esisteva altro giornale che quello ufficiale, destinato naturalmente a cantare su tutti i tuoni le lodi dell'onnisciente e onniveggente Direttore. Quei dell'interno avevano tutto l'interesse a non parlare: sapevano per troppe prove che il potere giudiziario non avea forza di riparare a tanto male - che il potere politico avrebbe fatto marcire in prigione, come fazioso o ribelle, chiunque avesse osato porre in dubbio l'eccellenza del sistema - e che anche quando, per favorevoli circostanze, non correvano questo rischio, essi erano nei loro paesi a discrezione assoluta delle. Compagnie d'armi, dei loro

affiliati e dei loro protetti.

Gli effetti di un tal sistema, tradizionalmente conservatosi con poche varianti dai tempi feudali fino ai giorni nostri, sono facili a concepire. Non che estirpare il malandrinaggio, esso serviva, a radicarlo sempre più, elevandolo alla dignità di una istituzione dello Stato. Per una lunga successione di generazioni, i popoli si erano abituati a considerarlo come un male necessario (a un dipresso come era il vaiuolo prima della scoperta del vaccino), non sognavano nemmeno la possibilità di liberarsene, é il

nec plus ultra dei loro desiderii e delle loro speranze era di vederlo ristretto a proporzioni moderate. Ciò avveniva per mezzo delle Compagnie d'armi, le quali lo limitavano, monopolizzandolo. Intanto con questo tutte le classi della cittadinanza si erano abituale ad adattarvisi, e a patteggiare in certo modo con lui, dietro l'esempio che lo Stato dava loro.

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Se lo Stato, con tutta la sua potenza e prepotenza, trovava necessario di transigere così vilmente coi malfattori;

a fortiori dovevano essere penetrati di tale necessità tutti i particolari che avevano da perdere qualche cosa.

E la transazione per essi consisteva nel subirne in santa pace i taglieggiamenti, cercando di renderli più moderati, gratificandosi con ogni specie di carezze e di piccoli favori i più temibili malandrini, e conservando, un assoluto silenzio davanti alle autorità politiche e giudiziarie su tutto ciò che avrebbe loro potuto nuocere. Con questo i timidi arrivavano a procurarsi una sicurezza relativa per la lord vita e le loro sostanze, mentre i prepotenti trovavano cosi il modo di tiranneggiare alla lor volta nel vicinato. La plebe, dal canto suo, considerava i malandrini come membri di una associazione potente e rispettabile, più forte dei ricchi e del governo; l'essere ascritto alla quale era un titolo d'onore ed una fonte di utili sicuri, guadagnati senza fatica e con rischio non grave. Quindi l'aspirazione ad esservi ascritto diffusa naturalmente in tutti quelli del popolo minuto resi propensi al mal fare dai loro istinti e dalla loro infingardaggine; e una tal quale ammirazione rispettosa da parte dell'onesto operaio; che nel malandrino era inclinato a vedere la personificazione della resistenza siciliana all'oppressione straniera. Imperocché nei popoli lungamente soggetti. ad un governo arbitrario e corrotto, l'idea della legge si confonde con quella del potere malefico che grava su di loro, ed è avvolta nel medesimo odio; specialmente quando la legge si trova impotente, come spesso lo era in Sicilia, di fronte alla polizia.

La parola

malandrino perde in Sicilia perfino il suo significato,

ed invece di un appellativo d'infamia di. venne pel popolo uno di lode, del quale molti onesti popolani menano vanto.

Io son malandrino - significa infatti per loro, essere un uomo che non ha paura di nulla, e il quale sa sfidare, con bella alternativa di coraggio e di scaltrezza, qualunque potere costituito, inclusive la giustizia;

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poiché anche la giustizia entra, secondo loro, nel concetto generico di un ente misterioso che si chiama indistintamente o il Governo o la Polizia. E così è avvenuto, che adagio adagio sieno penetrati nei costumi di tutto un popolo i principii di un codice speciale che si dice dell'Omertà, 1

il quale stabilisce come primo dovere di un

uomo quello di farsi giustizia colle proprie mani dei torti ricevuti

, e nota a infamia, e addita alla pubblica esecrazione e alla pubblica vendetta, chiunque ricorra alla giustizia, o ne aiuti le ricerche e l'azione. Per cui, anche il più onesto fra i popolani, crede fare opera virtuosa sottraendo alle ricerche della giustizia un assassino, o negandosi a testimoniare contro di lui; perché il codice dell'Omertà dice che: quando ci è l'uomo morto deve pensarsi al vivo, e che la testimonianza è cosa buona finché non noccia al prossimo. 2Ora è evidente che un simile stato di cose, un simile ordine d'idee continuato per una lunga serie di generazioni, non può modificarsi ad un tratto per opera di una rivoluzione

. Ed è evidente la impossibilità che un popolo, nel quale il concetto della giustizia sociale si trova cosi universalmente e

stranamente alterato,

arrivi a capire di un subito, e la cambiala natura del governo, è la distinzione fra le autorità giudiziarie e le politiche, e la maestà della legge in un paese libero, e il dovere che incombe a tutti i cittadini di offrirle lealmente il loro sostegno.

1

Cioè della gente che ha sangue nelle vene, di quelli che sono uomini.

2 Il Codice malandrinesco è in pieno vigore anche in grandi città (e più che altrove in Palermo), dove la polizia fino al 1860 era fatta non dalle Compagnie d'armi, ma da canaglia tale da stare alla pari con esse. Quivi

la

mafia taglieggia per lo più la cittadinanza in un modo indiretto

; sia gravando parasitariamente su alcune amministrazioni pubbliche, sia monopolizzando semiparasitariamente alcune professioni, e minacciando di morte i riformatori e i concorrenti importuni, in virtù di un articolo del Codice dell'Omertà che dice: A chi ti toglie il pane e tu toglili la vita- 67 -

Undici anni soli, sei dei quali trascorsi in mezzo ad agitazioni d'ogni fatta, non bastano nemmeno ad iniziare una simile trasformazione nel corso dei pensieri di un popolo intero, e nel suo modo di sentire e di giudicare degli uomini e delle cose.

E nemmeno può dileguarsi di un subito l'incubo di terrore sotto il quale i cittadini delle classi superiori, e specialmente i proprietarii dell'interno dell'isola, sono stati per tanto tempo mantenuti dalla malandrineria officiale, e da quella liberamente esercente; in modo da poter pretendere che essi trovino il coraggio necessario per unirsi ad aiutare la giustizia nella sua opera di repressione. È ancor troppo presto per sperare una simile cosa; poiché non solamente lo spirito delle nuove istituzioni è ancora ben lontano dall'esser penetrato nelle loro menti, ma oltre a ciò non esiste ancora in essi una tal fede nella stabilità è nella forza del nuovo ordine di cose, che li spinga a mettersi sopra una nuova via, nella quale finora non veggono che pericoli immediati e present.

Sciolte da Garibaldi le Compagnie d'armi e abolita la polizia cittadina del Maniscalco, la forma ufficiale del malandrinaggio cessò in Sicilia, e non vi rimase più che il malandrinaggio liberamente esercente.

Astrazion fatta dalle recrudescenze avvenute in questi undici anni in occasione dei grandi commovimenti popolari, la proporzione dei suoi misfatti è stata sempre in ragione inversa delle forze militari adoperate a contenerlo. Tutte le volte che queste forze sono state troppo diminuite di numero, e tutte le volte che dei malintesi concentramenti di esse le hanno rese inefficaci, egli è notevolmente ringagliardito. Infatti, non potendo contare sull'aiuto dei cittadini, non si può far calcolo che sulle forze militari, coadiuvate in alcuni distretti dai militi a cavallo e dalle guardie campestri, per reprimerlo.

Questa repressione è stata fatta con grande energia e con rara unità di propositi in questi ultimi cinque anni.

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La sicurezza pubblica ne ha risentito un notevole miglioramento in tutta Sicilia, e le popolazioni non hanno trascurato opportunità veruna di esprimerne la loro soddisfazione e la loro riconoscenza. Ma niente può dare idea della enormità di questa orribile piaga sociale, come il quadro che presenta il numero delle grassazioni, estorsioni violente e rapine, perpetrate nelle 7 provincie di Sicilia negli anni 1867, 1868, 1869 e 1870, durante i quali le popolazioni si sono dichiarate abbastanza contente dello stato della sicurezza pubblica. 1 Bisogna ben dire che in questo mondo tutto è relativo! E veramente il parlare di contentezza quando si hanno di tali cifre sott'occhio, potrebbe passare per uno' scherzo di cattivo gusto, qualora non si partisse dal dato, che nel 1866 il numerò di simili delitti constatati nella sola provincia di Palermo fu di 502!

Un male così grave e così antico non può essere vinto da rimedii di azione rapida ed immediata; perché il male morale prodotto dall'ingiustizia e dal malgoverno, non si rimuove così facilmente come l'ingiustizia e il malgoverno che gli diedero origine.

I mezzi applicati con frutto alla distruzione del gran brigantaggio delle provincie napoletane non possono essere adoperati qui; perché in Sicilia, anche nelle provincie più infestate dal malandrinaggio, non si formano mai delle bande capaci di tenere la campagna.

Le condizioni dei luoghi non sono tali da prestarsi come in Calabria, in Terra di Lavoro, in Basilicata e negli Abruzzi, ad una guerra di guerriglie.

Ben raramente avviene che il malandrino siciliano sia, come il brigante napolitano, un uomo che l'ha rotta interamente colla società, ed è in guerra aperta con essa. Ciò si verifica soltanto per alcuni dei più famigerati i quali, per la notorietà dei loro misfatti, sono costretti ad una separazione assoluta dal consorzio sociale e ad un nascondimento perpetuo.

1 Vedi Documento, n. 10.

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Generalmente si tratta di uomini i quali vivono apparentemente come tutti gli altri, i quali esercitano o di fatto o in apparenza un mestiere, e i quali, quando vien loro il destro, si riuniscono per fare un buon colpo e poi separarsi. Se la forza pubblica li sorprende sul fatto, bene sta, vengono uccisi in combattimento o arrestati. Se questo intervento non ha luogo, o avendo luogo riescono a sfuggire, non si trova più traccia di loro. Ritornano tranquillamente alle loro occupazioni ordinarie; fidenti che né i derubati o i ricattati, né le famiglie di essi, né i testimoni accidentali, oseranno denunziarli, trattenuti o dalla paura di sanguinose vendette, o da quella di disonorarsi violando il codice dell'Omertà. Disgraziatamente la loro fiducia in moltissimi casi non è che troppo fondata!

L'estinzione del malandrinaggio in Sicilia non può quindi sperarsi, se non quando le idee ed i costumi del popolo saranno radicalmente modificati. E questa è opera non d'anni, ma di generazioni.

Per fortuna l'abbiamo da fare in Sicilia con una razza che ha della stoffa, e la quale, se il sole di libertà non si ecclissa in Italia, riuscirà a correggere gli sciagurati effetti della mala signoria in un lasso di tempo relativamente breve. È impossibile infatti vivere, lungamente in Sicilia, senza rimanere colpiti dalle buone qualità che costituiscono il fondo del carattere morale di quel popolo. Egli possiede, è vero, in grado eminente alcuni dei vizii caratteristici delle più antiche razze italiche; specialmente l'

istinto talpa, come lo chiamò d'Azeglio: cioè la tendenza a procedere per vie coperte e tortuose, e a porre in conto di virtù la scaltrezza, della quale si fa spesso in Sicilia uno spreco ridicolo, a forza di essere inopportuno. È vendicativo, pronto alle risse ed al sangue e, nelle classi più ignoranti, superstizioso. Ma è un popolo sobrio, paziente, coraggioso, perseverante; che sente fortemente l'amicizia e la riconoscenza ed ha come sacri i vincoli di famiglia;

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ed il quale, anche nelle classi più superstiziose, non è intollerante degli altrui riti e delle altrui credenze, come lo si potrebbe credere a prima giunta, ripensando agli esempi che ebbe per tanto tempo dagli Spagnuoli, e al fatto del non aver esso mai contenuti nel proprio seno dei dissidenti dalla Chiesa cattolica, dopo la iniqua cacciata degli Ebrei nel secolo decimosesto. Ed è un popolo altiero (talvolta spropositatamente), di una alterezza che deriva non da una vanità puerile, ma da una specie di orgoglio nazionale il quale, quando è diretto a bene, diviene una potente leva morale, capace di suscitare generosi e nobili affetti. A questo orgoglio, che ha sopravvissuto a tutte le corruttele del passato, dobbiamo di trovare, in genere, il siciliano non servile e non invidioso; perché, ordinariamente, gode anzi e mena vanto della riuscita dei suoi concittadini, come di cosa che onora il suo paese. Il popolano di Sicilia non si crede inferiore ad alcuno, ma nello stesso tempo fa il suo possibile per non restare indietro agii altri; quindi, tutte le volte che è sottratto alle influenze e agli esempii locali, e condotto a spiegare la sua attività in altre condizioni di vita, si distingue. La popolazione marittima di tutta la costa di Sicilia è annoverata fra le migliori d'Italia per ardimento, abilità e disciplina; mentre i soldati siciliani fanno un eccellente figura nei nostri reggimenti, e tornano a casa cosi favorevolmente trasformati, da essere questa la prima forse delle cagioni, per le quali la leva si fa adesso in Sicilia con cosi poca difficoltà.

Questo orgoglio e questo spirito di emulazione hanno gittalo, in mezzo alla confusione d'idee sociali del popolo siciliano, i primi germi della idea del dovere e di progresso. Oltre all'omertà del malandrino, si trova in Sicilia l'omertà del popolano onesto il quale, se rimane ferito in rissa,

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non denunzia mai il feritore per quante istanze possano essergli fatte per indurvelo, 1 e rinunzia ad ogni idea di vendetta, piuttosto che mancare a quello che egli crede un dovere imprescindibile. E dappoiché è cominciata a penetrare nelle menti dei popolani l'idea che la cultura dell'intelletto è un elemento di superiorità, si veggono affollarsi alle scuole, dappertutto dove le pubbliche amministrazioni ne offrono loro il benefizio. 2

1 In una lettera da me diretta nell'anno decorso al vescovo d'Argyll, che fu pubblicata nel Times, enella quale ribatteva alcune inesatte idee espresse sulla Sicilia da un corrispondente dello stesso giornale, citai, fra gli altri esempi di questa forma d'Omertà, quello di un ferito in rissa il quale, prima di morire nello spedale di Palermo, rispose al confessore che insisteva perché denunziasse il feritore: che se non gli si levava d'attorno, avrebbe denunziato lui, perché era sicuro che, dicendolo in punto di morte, sarebbe stato creduto.

2 Se una volta o l'altra la tanto sospirata legge sull'istruzione elementare obbligatoria finisce coll'esser votata dal Parlamento italiano, io credo che la esecuzione di essa non incontrerà in Sicilia serii ostacoli per parte delle popolazioni. E quei pochi che vi si incontreranno, specialmente per ciò che riguarda le femmine, io ritengo che saranno facilmente vinti colla minaccia di pubblicare i nomi dei padri e dei tutori ricalcitranti, o con qualche altro analogo provvedimento che metta in causa l'amor proprio degli individui.

Credo però che si avranno resistenze serie da superare per parte di parecchie amministrazioni comunali, le quali, o per avarizia, o per inettezza, o per amore di oscurantismo, cercheranno di eludere la legge, non preparando un numero di scuole sufficiente a porla in esecuzione. Mi pare che di ciò si debba tenere gran conto nel determinare le penalità che debbono guarentire l'osservanza della legge in questione, e che, almeno in Sicilia, dove una scuola comunale appena è aperta si riempie. di alunni, sarebbe bene colpire con tali penalità piuttosto l'ente collettivo, di quello che l'individuo; poiché nella massima parte dei casi la colpa della violazione della legge sarà di quello e non di questo.

E a proposito della educazione pubblica in Sicilia, non potrà mai esser deplorata abbastanza da tutti coloro i quali conoscono un po' davvicino le cose di quel paese, la leggerezza colla quale, sotto specie di economia, venne abolito due anni or sono l'Istituto militare Garibaldi in Palermo.

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È indubitato che, sopra una simile base si può fondare col tempo qualche cosa di serio e di duraturo. Insieme colle libertà politiche, la civiltà del secolo decimonono è entrata in Sicilia armata da capo a piedi, come Minerva, di tutte le forze che la scienza moderna e le risorse non spregevoli di una grande nazione che ha fede nei proprii destini, possono fornirle. Essa trova in Sicilia un popolo non degradato, e nel quale delle belle e nobili qualità hanno persistito, a dispetto di una scellerata educazione secolare. Questa educazione ha pervertite alcune facoltà morali di quel popolo, ed ha rotto l'equilibrio fra esse, le facoltà immaginative e. le intellettuali, ma non in modo irreparabile. Che anzi, ni temperamento proprio dell'antica razza italiana (che è tuttavia la dominante in Sicilia) dà ferma fiducia di giungere a stabilire questo equilibrio, a misura che i mezzi della nuova educazione morale e sociale si moltiplicheranno in quella bella ed infelice contrada.

La fondazione di quell'Istituto era una delle buone cose fatte dalla Dittatura, avea dati già buoni frutti, e ne avrebbe dati dei molto migliori nell'avvenire. Era un mezzo per apprestar una educazione sana, civile e patriottica ai figli dei popolani e della piccola borghesia, ed invece di distruggerlo, sarebbe stata opera utile l'ampliarlo. Se non altri, il Ministero dell'Istruzione pubblica avrebbe dovuto opporsi a. quella distruzione in nome della necessità, che ogni giorno diviene più evidente, di formare il carattere italiano, ora che è formata l'Italia. Fino adesso ha pienamente ragione il Generale "La Marmora quando afferma che, in Italia, gli istituti militari e i clericali sono i 'soli che riescano a completare una educazione. Sopprimere i militari è Io stesso che spingere quelli che hanno bisogno di disciplinare seriamente un ragazzo, a metterlo nelle mani dei preti; e «on che bel risultato, soprattutto nella attuale condizione di cose, è inutile il dirlo. Questa malintesa economia è da mettersi alla pari coll'altra che indusse a togliere i cappellani dai nostri reggimenti: cioè ad abolire l'unica categoria di preti che si degnasse di invocare pubblicamente, sull'Italia e sulla sua bandiera, qualche cosa di diverso dalle maledizioni di Dio; senza pensare, che avendo adesso un buon terzo dell'esercito formato da soldati molto osservanti dei riti cattolici, essi vengono obbligati, quando si vogliono confessare, a porre molte volte la loro coscienza in mano dei più fieri nemici della nazionalità nostra e del loro dovere.

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Quando si è stati testimoni della trasformazione che la civiltà del secolo decimottavo (tanto inferiore di forze a quella del secolo attuale) ha potuto operare nelle regioni montuose di Scozia, sarebbe follia il disperare del risultato in Sicilia, dove si tratta di correggere alcuni vizi dell'organismo sociale esistente, non di crearne di pianta uno nuovo e affatto diversa.

Già alcuni sintomi precursori della riuscita cominciano a manifestarsi. Si è osservato, per esempio, che in questi ultimi anni,

il numero dei ferimenti di coltello in rissa è notevolmente diminuito nella città di Palermo

e suburbio. 1 E in tutto il distretto della Corte d'Appello di Palermo, che comprende le cinque provincie di Palermo, Trapani, Girgenti, Caltanissetta e Siracusa, si ebbe a notare negli anni 1867, 1868 e 1869 una grande e progressiva diminuzione nel numero dei crimini; fatto il quale, come ebbe a dire un magistrato di Palermo, indica «come finalmente sotto il raggio vivo e benefico di una libertà saggia, ordinata, educatrice, maturino i primi frutti, e come giù cominci il delitto a cedere il passo al lavoro. 1»

1 Vedi Albanese, Resoconto dello Spedale pirico di Palermo. Palermo, 1869;

A questo proposito è da notare che in tutto il mezzogiorno d'Italia, cominciando dalla campagna di Roma, il coltello, piuttosto ché un arme proditoria, è la spada del popolo. Quasi sempre infatti l'uso del coltello è preceduto da una sfida formale, e rientra nelle condizioni di un vero duello. In Sicilia esistono numerose scuole di scherma di coltello, e per lo più, prima di cominciare un combattimento, vien stabilito di colpirsi a cassa o a muscolo; cioè fra le quattro membra, o soltanto nelle membra, secondo la gravità del caso. L'abitudine di questi duelli è cosi radicata, che durante il rigorosissimo disarmo della popolazione siciliana operato dal Maniscalco, in ogni quartiere di Palermo v'erano dei ripostigli praticati nei muri e conosciuti da tutti i popolani del quartiere, nei quali erano nascosti due coltelli, a cui si andava a dar di piglio in occasione di rissa. Raramente il coltello viene adoperato in Sicilia per ferimenti proditorii: ordinariamente per questi vengono riserbati i rasoi (per sfigurare il viso sopratutto in casi di vendetta amorosa), e le armi da fuoco.

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Intanto però, onde poter procedere speditamente in questa via, è indispensabile che il malandrinaggio siciliano, qualunque sia la forma che egli assume, venga combattuto ad oltranza. Né a ciò bastano le forze militari. Un grande spiegamento di esse, ben concepito e bene diretto, non condurrebbe che' a prevenire un maggior numero di delitti, per la sorveglianza molteplice che permetterebbe, e a sorprendere un numero maggiore di malfattori. Ma un tale spiegamento di forze non potrebbe durare in eterno; durasse anche, non potrebbe, in moltissimi casi, produrre l'unico risultato che può trattenere le nature depravate da mal fare, cioè la sicurezza di una punizione proporzionata alla gravità del reato commesso. L'ultima legge di pubblica sicurezza votata in quest'anno dal Parlamento, rende adesso possibile di completare in casi di notorietà l'azione repressiva della polizia, con punizioni inflitte indipendentemente dall'azione del potere giudiziario; quando esso, per mancanza di prove legali, si trova impotente ad agire. Questa legge è un vero benefizio per la Sicilia, sebbene difetti un poco in ciò che riguarda il disarmo delle popolazioni. L'esperienza ha provato quanto sia difficile in Sicilia operare un completo disarmo dei popolani,

e con quanta facilità l'armamento generale di essi si ristabilisca

, appena la vigilanza si rallenta un poco. Io credo che, se l'applicazione di questa legge sarà fatta da autorità politiche ferme ed esperte, si riuscirà questa volta ad ottenere la cessazione del porto d'arme illecito, meglio che con i disarmi arruffatamente operati in occasioni di stato d'assedio;

1 Vedi Taiani, Discorso sull'amministrazione, ec. Palermo, 1870, pag. .

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purché però vi si aggiunga l'obbligo per tutti gli armaiuoli e fabbricanti di polvere di tenere un registro di coloro a cui vendono armi e munizioni, e si stabiliscano delle pene severe per quelli i quali si permettessero di venderne a chi non possiede la licenza voluta.

Con ciò sarà fatto un gran passo e si riparerà alle più urgenti necessità del presente. Ma per l'avvenire è indispensabile far qualche cosa di più, onde rialzare il prestigio della giustizia ordinaria, e ispirare ai malfattori la certezza diuna punizione proporzionata alla gravità dei loro misfatti; il che è impossibile di conseguire per mezzo di una legge di pubblica sicurezza, per quanto sia buona e bene applicata. Bisogna che cessi, quanto più presto è possibile, uno stato di cose pel quale, anche avendo la magistratura composta degli uomini più integri, più coraggiosi e più sapienti che mai possano immaginarsi,

1 Generalmente quei disarmi non riuscivano che a rendere inermi gli onesti, lasciandoli esposti peggio di prima alle aggressioni dei facinorosi.

Questi ultimi infatti riuscivano sempre a deludere il decreto di disarmo, o non consegnando nulla, o consegnando le armi peggiori e tenendo le buone nascoste

; cosicché, cessati i rigori dello stato d'assedio, queste armi scaturivano fuori da ogni parte, e le plebi ritornavano armate come per l'avanti. Bisogna poi avere in mente che

in Sicilia anche il popolano onesto tiene moltissimo ad essere armato

; perché per lui il possedere un'arme è lo stesso che avere il diploma d'uomo, non possederla è quasi un disonore, anche quando non vuol farne argomento di offesa. Prima l'armatura e poi la moglie, è un dettato comune, specialmente in provincia di Palermo, che è molto significativo in un paese nel quale le donne sono custodite con una gelosia orientale.

Non sarebbe poi fuor di proposito, rendere ancor più efficace la nuova legge di sicurezza pubblica, col mandare i siciliani condannati a lunga detenzione di qualunque grado, a scontare la loro pena nelle prigioni e nei bagni di altre provincie d'Italia.

Con questo si avrebbe il vantaggio, non solamente di toglier loro la speranza di essere liberati da una insurrezione, come hanno sempre in testa, ma si spezzerebbero una volta per sempre quelle fila che legano la malandrineria esterna colla popolazione delle prigioni e delle galere e che, a dispetto d'ogni sorveglianza, sono in Sicilia più forti e numerose che altrove.

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la spada della legge diviene nelle loro mani in moltissimi casi una spada di legno.

Un distinto pubblicista siciliano proponeva, qualche anno fa, che si adottasse in Sicilia una maggiore penalità per quelli i quali, si negano a testimoniare, o cercano con falsa testimonianza di indurre in errore la giustizia. 1 È certo che in questo modo si riuscirebbe ad ottenere qualche cosa di buono; poiché molti non chiedono di meglio che di avere nel rigore della legge una scusa per far ciò che adesso non osano fare per paura o per pregiudizio, e che pur sarebbe nel loro interesse e nei loro desiderii di fare. Ma quello che più di tutto importa è di risolvere. il problema, se nelle condizioni cosi eccezionali della Sicilia, convenga o no di applicare ai misfatti di malandrinaggio il giudizio per mezzo delle Corti di Assisie.

Stando ad alcune cifre statistiche, l'istituzione dei giurali in Sicilia non ha fatta così mala prova come alcuni affermano, poiché fino al 1870 la media degli assoluti dalle Corti d'Assisie non oltrepassò il 29 per 100 dei giudicati. 1 Ma in tali faccende non è la cifra lorda delle assoluzioni che interessa conoscere, bensì la qualità di esse. Qui la statistica è muta, ma non lo è la coscienza pubblica; poiché le più scandalose assoluzioni, e in mancanza di esse i verdetti più scandalosamente miti, sono stati pronunziati in Sicilia in cause di reati di malandrinaggio. E di ciò facilmente ci si rende ragione. Lascio da parte i difetti che in generale si manifestano nella nostra istituzione del giuri, sia pel modo col quale esso vien composto, sia per la difficoltà di riuscire a comporlo,

1 Vedi l'opuscolo: La Sicilia e l'inchiesta parlamentare, di Giuseppe Ciotti. Palermo, 486.

2 Vedi Taiani, Discorso citato, pag. 14. - Di Menza, Dei giudizi popolari in Italia e specialmente in Sicilia. Palermo, 1870, tavola 3. - Noce, Discorso all'assemblea generale della Corte d'Appello di Palermo del 2 gennaio 1871. Palermo, 1871, pag. 36.

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sia pel modo nel quale lo si fa funzionare; perché questo è argomento estraneo al mio assunto, e perché è già stato ampiamente e dottamente trattato da due magistrati della Corte d'Appello di Palermo. Osservo soltanto che in Sicilia, la ripugnanza già cosi grande dei cittadini a compiere il loro dovere di giurati (alla quale si dové di perdere 103 udienze delle Corti d'Assisie del distretto di Palermo nel 1869, e 65 nel 1870), diviene anche maggiore quando si tratta di reati di malandrinaggio. Ognuno cerca di lavarsene le mani se può; e tra per questo, tra per l'enorme abuso che gli avvocati fanno in simili casi del loro diritto di ricusa, il giurì non rimane certamente costituito dal fiore della cittadinanza. E se, cosi costituito, possa facilmente resistere alle seduzioni d'ogni specie, ai tentativi di corruzione, e agli accessi di paura che lo assalgono durante il corso delle sedute, lo lasciò pensare al lettore.

Sarà discutibile il modo di rimediare a questo stato di cose, ma non c'è ombra di dubbio che vi si deve rimediare.

Per amore soverchio di unità di sistema, i nostri legislatori non debbono rifuggire dall'affrontare le difficoltà di un problema, la di cui soluzione importa cosi grandemente alla moralità e alla prosperità di un paese, degno dell'affetto e della sollecitudine di tutti gli Italiani.

Dal 1866 in poi, l'energia d'azione del potere politico ha riparato in parte alla forzata impotenza del giudiziario, ed è giunta a procurare alla Sicilia un grado di sicurezza pubblica molto superiore a quello di cui mai abbia goduto dopo il 1860.

Adesso, mediante la nuova legge di pubblica sicurezza quest'azione potrà divenire più efficace; e chi ha già acquistati tanti titoli alla pubblica benemerenza, potrà procedere francamente nella sua opera riparatrice, senza timore di ledere le suscettibilità della magistratura, sempre onorevoli, ancorché per avventura intempestive.

1 Vedi Taiani, Discorso citato, pag. 12. - Noce, Discorso citato, da pag. 33 a pag. 3.

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Ma gli uomini fatti apposta per una situazione difficile e del tutto speciale non si trovano ogni giorno, e alla possibile mancanza di essi bisogna supplire, per tempo, colla saldezza e colla efficacia delle istituzioni. Perciò, dopo avere assennatamente provveduto in Sicilia alle necessità più stringenti, dando nuovi mezzi legali d'azione al potere politico; bisogna pensare ad offrire alla magistratura il modo di entrare essa in prima linea nella repressione del malandrinaggio siciliano, con tutte le guarentigie inerenti alla sua procedura, e con la sua sapiente proporzionalità nell'applicazione delle pene, ma con una sicurezza d'azione che adesso le manca, e per colpa non sua.

DOCUMENTI.

Documento n. 1.

PROCLAMA del Principe di Satriano (Carlo Filangieri) ai Siciliani dopo la rioccupazione totale della Sicilia nel 184.

Siciliani!

Conoscendo la Maestà del Re nostro signore il modo pacifico e fraterno col quale sono state accolte per ogni dove della Sicilia le reali truppe, meno la resistenza che han dovuto vittoriosamente superare in Messina ed in Catania, e che hanno eliminato il disordine e tutti gli orrori di una guerra fratricida, piantando invece lo stemma della pace e facendo rinascere la speranza negli animi di tutti i suoi sudditi, conoscendo il Re, per i miei rapporti, quanto egli debba confidare nella siciliana fedeltà, che può essere un momento scossa, ma non mai rovesciata, è venuto il suo santissimo petto, sede di tutte le più generose e magnanime virtù, nel disegno di far paghi gli antichi voti dei Siciliani, dando loro per suo rappresentante la gemma più cara della sua corona, il suo figliuolo primogenito, erede di questo regno beato delle Due Sicilie. 1

Parlare qui dei meriti di quest'angelo sarebbe fuor di luogo, non essendovi angolo dei nostri paesi dove non risuonino splendide le eminenti sue virtù.

1 Questo principe, che poi fu Francesco II, non ha mai durante tutta la sua vita posto il piede in Sicilia.

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Egli congiunge ad una sagacia profonda, la bontà che Dio nell'Evangelo suggellò. Quindi la Maestà del Re nostro signore non poteva fare a questa parte dei suoi reali domini un dono più caro di quello che le fa nel diletto figlio suo, stabilendo quelle leggi che più converranno al benessere della Sicilia, e che assicureranno la pace, il progresso e la fortuna avvenire di questa terra.

Il re, che è fonte di clemenza inesauribile, scioglie i ceppi dei Siciliani prigionieri, e li ritorna, salvo poche eccezioni dei capi, alle loro desolate famiglie, che hanno pianto gli effetti dell'altrui aberrazione funesta e lacrimevole.

II re, consapevole pei miei rapporti della lealtà della Guardia Nazionale di Palermo, dello zelo, attività e fiducia che deve essa ispirare, ne consolida l'istituzione con quelle modifiche che il tempo e l'esperienza sapranno meglio dettare. Quindi io intendo che il suo capo cooperi con tutte le forze al suo miglioramento, e si impegni sempre più a meritare della sovrana fiduci.

Siciliani, siate forti nel vostro zelo pel bene di questa terra di paradiso; comprendete che non già nelle istituzioni di sfrenata demagogia, ma in quelle che l'esperienza dei secoli consiglia, sta la fortuna degli Stati. Qui non avete udita una parola che guidi all'idea di forza, ma sibbene la voce del pensiero, che è la vera espressione del santissimo animo del magnanimo principe che ci governa. Confidate in lui, bandite il timore ed il dubbio, e la fortuna avvenire della vostra patria sarà pienamente consolidata.Palermo, 22 maggio 184.Il tenente generale comandante in capo

Principe Di Sartriano.

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È noto a tutti come tali promesse fossero adempiute. Coloro ai quali ciò non fosse noto, non avrebbero che a riscontrare la corrispondenza degli agenti diplomatici inglesi presso la Corte di Napoli, cominciando dalla lettera di William Temple al cav. Fortunato del 16 settembre 1849, che è la prima indiretta protesta del governo inglese contro la sfacciata violazione di fede che si perpetrava in Sicilia.

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Documento n. 2.

SCUOLE ELEMENTARI DELLA PROVINCIA DI PALERMO

(Abitanti 584929)

ANNO
1868-69
Circondario di TOTALE NUMERO
degli
allievi

ANNO
1860-61
In tutta la provincia NUMERO
degli
Allievi
Palermo Cefalù Corleone Termini
Scuole maschili diurne pubbliche 125 46 21 49 241 9,205 Scuole maschili diurne. 37 2,726
» femminili pubbliche 95 9 40 34 158 7,364 Scuole maschili
serali.
2 125
» maschili serali 73 22 9 26 130 5,151 Scuole femminili 2 234
» pubbliche miste 2 1 3 400 Asili
infantili
1 156
» pubbliche festive. 10 10 8 46 44 1,422 Totale 42 3,240
» maschili private 31 44 42 1,456
» femminili private 26
26
» femminili di Congregazioni religiose 24 24 1,206
» maschili di Istituti di carità 7 - — 7 1,109
» femminili d'Istituiti di carità 28 2 30
» maschili nei Convitti 8 8 522
» femminili nei Convitti 18 18
Asili infantili misti 8 2 1 1 9 1,776
Scuole infantili 8 4 a
9
Totale generale 749 29,31

– 85 –

Documento n. 3.

SCUOLE ELEMENTARI DELLE PROVINCIE DI SICILIA.
(esclusa quella di Palermo) nell'anno 1867-68.


PROVINCIE NUMERO
degli
abitanti
SCUOLE
pubbliche
SCUOLE
private
NUMERO
degli alunni
NUMERO
degli insegnanti
Maschili Femminili Maschili Femminili Maschili Femminili Maschili Femminili
Trapani 244,984 97 40 40 4 3,227 4,623 440 44
Siracusa 259,643 82 28 38 40 3,059 4,379 422 38
Messina 394,764 484 52 44 20 6,384 2,240 227 70
Girgenti 263,880 78 34 20 4 3,563 4,628 416 36
Catania 450,460 467 85 77 39 6,043 3,920 244 424
Caltanissetta 223,478 74 29 4 4 2,800 4,664 75 34
Totali generali 4,806,873 679 265 490 75 25,073 42,454 894 343

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Documento n. 4.

QUADRO degli Istituti di educazione secondaria (governativi, provinciali e comunali) delle sette
Provincie di Sicilia nell'anno 1870.

Palermo. — R. Liceo. — Due R. Ginnasi. — R, Istituto Tecnico. — Due R. Scuole Tecniche. — R. Convitto Nazionale.
— Collegio Convitto di S. Rocco. — R. Scuola normale maschile. — Scuola normale femminile. — R. Educandato femminile Maria Adelaide. — R. Istituti dei Sordo-Muti. Un Istituto di Marina. — Un collegio di Musica.
Termini. — R. Ginnasio. — R. Scuola tecnica.
Cefalù. — R. Ginnasio.
Corleone. — R. Ginnasio.
Monreale. — Ginnasio Comunale.
Caltanissetta. — R. Liceo e Ginnasio. — Convitto Provinciale. — R. Scuola Tecnica.
Piazza Armerina. — R. Ginnasio e Scuola Tecnica.
Terranova. — R. Ginnasio e Scuola Tecnica.
Catania. —R. Liceo e Ginnasio. — Collegio Cutelli. — R. Scuola Tecnica. — Scuola Normale femm; con convitto. — Educatorio Provinciale.
Acireale. — Ginnasio. — R. Scuola Tecnic.
Caltagirone. — Liceo comunitativo e Ginnasio pareggiato. — R. Scuole Tecniche. —' Educatorio Com. delle civili fanciull.
Nicosia. — R. Ginnasio. — R. Scuola Tecnica. — R. Collegio di Bronte.
Girgenti — R. Liceo e Ginnasio. — R. Scuola Tecnica.
— Scuola Normale femminile con Convitto. — Convitto Principe Umberto. — Collegio dei SS. Agostino e Tommaso. —Convitto Prov. femminile.
Licata. — Scuola Tecnica Comunale.
Bivona. — R. Ginnasi.
Sciacca. — R. Ginnasio. — Scuola Tecnica.

– 87 –

Canicatti. — R. Scuola Tecnica.
Messina. — R. Liceo. —R. Ginnasio. —Collegio Alighieri. — R. Scuola Tecnica. — Scuola normale Maschile. — Scuola Magistrale femminile.
Barcellona. — R. Ginnasi.
Milazzo. — Scuola Tecnica Municipale.
Castroreale. — R. Ginnasi.
Patti. —. R. Ginnasi.
Mistretta. — R. Ginnasi.
Siracusa. — R. Liceo e Ginnasio. — R. Scuola Tecnica.
Noto. — R. Ginnasio. — R. Scuola Tecnica. — Scuola Magistrale femminile.
Modica. — R. Ginnasio. — R. Scuola Tecnica.
Trapani. — R. Liceo e Ginnasio. — R. Scuola Tecnica. — Convitto Provinciale. — Scuola Normale femminile.
Alcamo. — R. Ginnasi.
Marsala. — R. Ginnasio e Scuola Tecnica.
Mazzara. — R. Ginnasi.
Partanna. — Ginnasi.
(Dalla R. Prefettura di Palermo.)

– 88 –

Documento n. 5.

QUADRO DEGLI ANALFABETI
delle sette Provincie di Sicilia nel 1861.



PROVINCIE

ANALFABETI

su 100 abitanti

Maschi

Femmine

Palermo

82

94

Trapani

89

96

Girgenti

88

97

Caltanissetta

88

97

Siracusa

85

95

Catania

87

96

Messina

85

95

Totale della Sicilia

86

95


(Dall'Ufficio di Statistica del Regno d'Italia)

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Documento n. 6.

QUADRO addimostrante il valore delle importazioni ed esportazioni occorse nel Porto di Palermo dal 1863 al 1869.


ANNO

cui si riferisce

il movimento

VALORE

Osservazioni

Importazioni

Esportazioni

1863

L. 24 698,777

L. 14,484,049


1864

» 25,303,360

» 15,268,938


1865

» 25,380,064

» 18,945,494


1866

» 24,270,608

» 15,545,290

Colera

1867

» 20,498,509

» 13,802,262

Colera

1868

» 22,642,685

» 12,604,434


1869

» 25,654,840

» 17,463,344



L. 165,445,840

L. 109,077,475



Il Direttore del Porto
Firmato: Cosmo Baille


– 90 –
Documento n. 7.

PROSPETTO del movimento della navigazione del porto di


PORTO

DI

PALERMO
TOTALE GENERALE BASTIMENTI ENTRATI
per operazioni di commercio
DEGLI APPRODI DELLE PARTENZE NAZIONALI ESTERI
per operazioni e di rilascio per operazioni
e di rilascio
a vela a vapore a vela
Bast. Tonnellate Bast. Tonnellate Bast. Tonnellate Bast Tonnellate Bast. Tonnellate
Anno 1861 3867 449 985 3754 428 887 2976 66 774 258 70 774 359 69 £07
» 1862 4244 489 490 4427 474 490 34J50 462 873 348 78 469 433 84 334
» 1863 4447 448 355 4002 444 965 3025 409 789 474 423 745 406 76 856
» 1864 3553 388 804 3492 402 469 2209 73 782 448 429 467 586 74 750
» 1865 3678 370 691 3504 402 052. 2447 -79 537 458 434 584 478 27 204
» 1866 3232 454 881 3030 437 596 2473 402 735 433 427 640 305 65 069
» 1867 2982 396 437 2906 388 475 2059 92 263 457 444 945 224 44 494
» 1868 3984 588 684 3883 583 797 2844 457 577 546 472 465 274 94 362
» 1869 6027 802 646 5804 776 374 4794 355 247 522 465 604 247 54 044
» 1870 5654 849 444 5648 776 026 4352 347 750 566 483 372 229 50 997
semestre 1871 2924 345 339 294 349 994 2343 99 946 270 90 979 406 25 544


Palermo dal 1861 al 1870 e nel primo semestre 1871.



ENTRATI
BASTIMENTI USCITI
per operazioni di commercio
RILASCIO FORZATO
(forza maggiore)

ESTERI
NAZIONALI ESTERI approdi partenze

a vapore
a vela a vapore a vela a vapore
Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate Bast.. Tonnellate
264 142 886 2941 467 839 258 70 774 348 67 872 234 422 405 » » » »
313 163 847 3050 464 488 344 77 269 447 69 345 342 463 7{8 » » » »
189 105 707 2969 430 314 443 444 882 379 67 784 488 99 697 23 2 288 23 2 288
181 104 364 2466 68 708 447 428 565 573 34 454 484 404 364 129 6 444 425 6 384
205 125 727 2264 '70 824 456 124 243 457 77 774 205 425 727 420 6 444 449 6 547
245 15 600 4979 85 903 429 426 060 303 66 269 245 456 003 76 3 43 74 3 364
165 114 834 4994 85 394 451 439 473 247 45 638 465 14 4 843 so 3 231 79 3 434
256 158 789 2725 456 206 544 174 445 260 94 594 256 458 789 424 5 794 424 5 794
355 223 398 4502 334 489 523 465 906 242 45 388 355 223 335 432 7*383 432 7 383
317 256 668 4348 273 545 567- 484 778 232 55 932 314 253 447 487 44 324 487 44 324
153 124 423 2333 404 046 268 90 036 442 27 039 453, 424 423 82 4 750 82 4 750


– 91 –

Documento n. 8.

Movimento generale della navigazione, per

ANNI APPRODI
TOTALE NAVIGAZIONE
generale
NAVIGAZIONE
di cabotaggio
a vela a vapore
NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE
1862 27 596 4 825 232 3 564 549 693 24 032 1 305 539 25 536 4 477 039 2 060 648 493
1863 29 704 2 014 854 4 488 832 439 25 246 1 479 442 26 944 4 449 478 2 793 892 673
1864 28 999 2 469 982 4 263 847 064 24 736 1 322 924 25 678 4 040 227 3 324 4 429 755
1865 34 230 2 205 640 3 847 844.504 27 383 1 364 439 27 834 4 038 993 3 396 4 466 647
1866 29 905 2 378 467 4 803 1 086 293 25 402 1 292 474 26 593 4 094 200 3 342 4 284 267
1867 26 466 2 209 055 4 084 970 440 22 385 1 238 645 23 270 969 498 3 496 4 239 557
1868 34 794 2 559 249 4 504 1 053 584 27 287 1 505 638 28 045 4 077 464 3 776 4 482 055
1869 34 989 2 869 327 4 493 1 428 738 30 796 1 740 589 30 948 4 303 659 4 044 4 565 668

operazioni di commercio nei porti di Sicilia

PARTENZE Osservazioni
TOTALE NAVIGAZIONE
generale
NAVIGAZIONE
di cabotaggio
a vela a vapore
NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE NUMERO TONNELLATE
29 305 724 564 4 262 654 547 25 043 4 070 047 27 685 4 248 974 4 620 475 593
30 429 2 088 620 4 573 894 749 25 856 4 496 874 27 653 4 249 378 2 776 869 242
28 382 2 263 354 4 495 900 490 24 687 i 363 464 25 537 4 077 962 3 345 4 485 392
30 240 2 131 537 3 806 849 249 26 434 4 282 348 26 900 4 000 995 3 340 4 430 542
29 107 2 333 009 4 825 4 408 849 24 282 4 224 490 25 846 4 068 484 3294 4 264 825 Colèra
25 399 2 111 540 4 044 936 408 24 385 4 475 402 22 342 924 579 3 087 4 489 934 Colèra
31 552 2 541 745 4 801 4 440 278 26 754 4 434 467 27 786 4 066 042 3 766 4 475 703
34 094 2 856 197 4 369 4 206 409 29 725 4 650 088 30 470 4 296 449 3 924 4 560 078

– 94 –

Documento n. 9.




PRODOTTO

chilometrico

nell'anno 1869

lire

SOVVENZIONI E GARANZIE

sborsate dal governò

alle varie società

nell'anno 1869

lire

SOVVENZIONI E GARANZIE

sborsate dal governo

alle varie società

dal 1859 fino a tutto il 1869

lire

Società dell'Alta Italia

23 672

5 000 000

35 635 275

»

delle Romane

11 663

19 590 425

99 589 599

»

delle Meridionali

9 464

26 558 250

126 214 796

»

delle Calabro-Sicule

5 482

5 236 000

1 0 883 544

»

diverse

16 252

45 000

388 342


Totale

16 612

56 429 375

272 708 556



(media gen.)




(Dalla Direzione di Statistica del Regno)


– 95 –

Documento n. 10.

TABELLA

delle grassazioni, estorsioni violente e rapine, commesse nelle Provincie di Sicilia nel quadriennio 1867, 1868, 1869, 1870.


ANNO

ANNO

ANNO

ANNO

PROVINCIE

1867

1868

1869

1870

Palermo

366

231

249

289

Girgenti

258

186

135

224

Trapani

171

73

64

51

Caltanissetta

136

89

64

83

Catania

98

108

52

66

Messina

42

30

40

59

Siracusa

44

35

8

11

Totale

1115

752

642

783


(Dal Comando generale delle truppe in Sicilia)


INDICE


Dedica

5

Introduzione

7

I partiti politici in Sicilia

13

Progressi civili ed economici della Sicilia nel decennio 1860-1870

39

Il malandrinaggio in Sicilia

61


Documenti.


N° 1. Proclama del Principe di Satriano (Carlo Filangeri) ai Siciliani dopo la rioccupazione totale della Sicilia nel 1849

81

» 2. Scuole elementari della provincia di Palermo

84

» 3. Scuole elementari delle provincie di Sicilia

85

» 4. Quadro degli Istituti di educazione secondaria (governativi, provinciali e comunali) delle sette provincie di Sicilia nell'anno 1870

86

» 5. Quadro degli analfabeti delle sette provincie di Sicilia nel 1861

88

» 6. Quadro addimostrante il valore delle importazioni ed esportazioni occorse nel Porto di Palermo dal 1863 al 1869

89

» 7. Prospetto del movimento della navigazione del Porto di Palermo dal 1861 al 1870 e nel primo semestre 1871.

90-91

» 8. Movimento Generale della navigazione, per operazioni

di commercio, nei porti della Sicilia

93

» 9. Prodotto chilometrico delle strade ferrate italiane nel 1869, e somme sborsate alle varie Società dal Governo, a titolo di garanzia o di sovvenzione.

94

» 10. Tabella delle grassazioni, estorsioni violente e rapine,

commesse nelle provincie di Sicilia nel quadriennio 1867, 1868, 1869, 1870










































95













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