Eleaml


Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Guardia di Finanza Scuola di Polizia Tributaria

Ignazio Gibilaro - Claudio Marcucci

La criminalità organizzata di stampo mafioso

Evoluzione del fenomeno e degli strumenti di contrasto

Lido di Ostia, Luglio 2005

2.1 Cosa Nostra 43
2.1.1 Origini del fenomeno e metodo d'indagine 43
2.1.2 La storia recente 46

2.1.1 Origini del fenomeno e metodo d'indagine

Parlare di Cosa Nostra in termini completi non è certo cosa facile. Argomento da mille vite lo hanno definito61. Tuttavia, sebbene non si abbia in questa sede la pretesa dell'esaustività, si cercherà di tracciare per la stessa un percorso interpretativo quantomeno logico e aderente a ciò che oggi è l'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e come a questo stadio evolutivo essa sia giunta attraverso il suo passato recente. Tra le mafie italiche la Cosa Nostra siciliana è indubbiamente la più importante 62: lo è perché ad essa si riconosce universalmente una capacità delinquenziale di superiore livello; lo è perché le sue azioni denotano(o meglio hanno denotato) una sfrontata opposizione allo Stato non paragonabile a nessun altro tipo di attacco mai portato alle istituzioni democratiche da una consorteria criminale; lo è, infine, perché da essa o per suo tramite si è data del nostro Paese un'immagine a tinte fosche(per i nostri detrattori l'italiano non è 'ndranghetista o camorrista, l'italiano è mafioso). Ragionando delle sue origini più remote se ne potrebbe far discendere i presupposti addirittura dalla fine dell'età medioevale, cioè a quel periodo che vede la transizione dall'economia feudale a quella capitalistica. Secondo il Braudel 63, infatti, è in questo momento storico che se ne materializzano i presupposti, fissati, nella sua analisi, da un lato, nella generalizzata incapacità di cogliere i segni e le prospettive del cambiamento che si stava realizzando e, dall'altro, dalla fenditura tra la Sicilia del latifondo e le aspettative di una realtà politica e sociale in evoluzione. Per altro verso non sarebbe neppure scorretto farne risalire la nascita(in questo caso peraltro meno incerta) alle "gesta" dei Beati Paoli di ottocentesca memoria, in ragione, stavolta, della contiguità ideologica della citata associazione segreta con lo stereotipo che vuole l'esistenza di una mafia buona, votata cioè non alla sopraffazione ma al ripristino della legalità in surrogazione dell'assente stato di diritto, contrapposta, idealmente, ad una mafia cattiva (la mafia della prevaricazione). Ovvero, infine, alle contraddizioni di una riunificazione forzata e forse mai completamente digerita64. Ma affrontare il problema in questi termini comporterebbe necessariamente l'addentrarsi nel campo delle ipotesi, della sociologia, dell'interpretazione. Non ci pare il caso in questo contesto di andare così lontano e di filosofeggiare, ben potendo restringere il campo dell'analisi a periodi decisamente più recenti, storicamente caratterizzati da ampia significatività e, per certo, precursori dell'attuale assetto organizzativo dell'associazionismo mafioso siciliano. Si è detto che esiste una differenza sostanziale tra l'associazione per delinquere di tipo ordinario e l'associazione per delinquere di stampo mafioso e che il punto qualificante di tale differenziazione si gioca sul piano della commistione collusiva tra poteri: mafioso da un lato, politico dall'altro. Si ritiene, quindi, che indagare il fenomeno dal momento della sistematica realizzazione di questo"pactum sceleris" sia corretto, e aderente al tema prefissato65.

Il periodo di riferimento sarà, pertanto, quello compreso tra la fine degli anni Quaranta e i giorni nostri, periodo in cui si realizza la svolta epocale di Cosa Nostra che passerà dallo stato di mafia locale a una mafia imprenditrice e globalizzata. Nello stesso contesto non va poi dimenticato che accanto a una storia della mafia esiste una storia dell'antimafia66 che è ancora in gran parte da scrivere, poiché è stata a lungo sottovalutata da storici e sociologi, dall'opinione pubblica e perfino da quei movimenti politici e sindacali che con il loro contributo umano e ideale ne hanno dettato momenti importanti. Eppure, la rilettura delle battaglie dell'antimafia offre uno spaccato che, nell'incerto panorama delle vicende italiane, si rivela confortante: è una storia che vede protagonisti, fianco a fianco, braccianti e operai senza nome e magistrati divenuti, loro malgrado, famosi; studenti e rappresentanti delle forze dell'ordine; sindacalisti e giornalisti coraggiosi; leader politici e uomini di religione; e soprattutto un numero crescente di cittadini comuni, in Sicilia e altrove, animati dall'insofferenza verso l'illegalità e la tracotanza delle organizzazioni criminali. E' una storia fatta di infuocati atti d'accusa e freddi progetti di legge; di analisi di documenti giudiziari, azioni di polizia e manifestazioni di piazza; di impavidi atti di denuncia e quotidiane dimostrazioni di senso civico. La storia dell'antimafia impone anche, tuttavia, amare riflessioni: quanto tempo perso, quante vite sacrificate, quante affermazioni di buona volontà rimaste sulla carta, quale miniera di informazioni trascurata in questa battaglia contro Cosa Nostra e le altre forme di criminalità organizzata italiana! E' una storia che si scrive ancora oggi più facilmente attraverso le sconfitte e i cui protagonisti vengono riconosciuti e apprezzati solo quando la loro azione è interrotta dai mitra e dalle bombe o, peggio ancora, resa inoffensiva dalle diffamazioni e dai giochi di potere. E' una lotta da tempo proclamata ma finora combattuta in modo discontinuo e in ordine sparso, sia pure con coraggio e rigore morale, da frammenti della società civile dello Stato.

2.1.2 La storia recente

"...La mafia aveva creato nello Stato uno stato, nel Regime un regime: il regime di mafia cioè con le sue leggi e i suoi tributi di denaro e di sangue, le sanzioni penali. Investiva in pieno e sfruttava

tutte le attività dell'isola ad offesa soprattutto dello Stato, a danno soprattutto della popolazione, la quale senza libertà di scelta, tra lo Stato vero, lontano e inerte, e l'altro vicino, presente ed operante, dovette piegarsi a questo e subirne il gioco...".

C. MORI "Con la mafia ai ferri corti", Mondadori, Milano, 1932.

Alla fine degli anni Quaranta la mafia siciliana è ridotta a poco più che un simulacro di se stessa. Su questo punto, sussistono teorie diverse: la prima la vorrebbe perdente nello scontro con l'altro potere egemone presente sul territorio rappresentato dal Prefetto Mori67

(molti mafiosi sono stati ristretti nelle patrie galere e molti altri avviati al confino); la seconda, più condivisibile, segnala come l'azione repressiva abbia colpito con durezza esclusivamente la "bassa mafia", ossia quella della manovalanza, ma abbia appena sfiorato se non addirittura inglobato "l'alta borghesia mafiosa" 68. Aderire all'una o all'altra tesi appare oggi irrilevante se non sotto il profilo dell'indagine storiografica essendo ben più imponenti i cambiamenti che si verificheranno di lì a breve69.

Nell'Europa sconvolta dalla proliferazione di regimi dittatoriali e dalla guerra, la Sicilia assume un ruolo fondamentale verso la fine del 1943.

La predisposizione dell'invasione alleata rappresenta l'apertura dell'ennesimo fronte e l'inizio della capitolazione del fascismo italiano e del nazismo tedesco. Gli americani lo sanno e sanno anche che non possono sbagliare, devono occuparla nel più breve tempo possibile e con il minimo della resistenza accettabile. Il Comando alleato ha bisogno di informazioni attendibili, e di adeguate coperture per gli agenti infiltrati.

La missione viene affidata ad una unità specializzate in questo genere di attività:l'O.S.S. e ilNaval Intelligence Service

, che hanno già unità attive in Italia fin dal 1942. In cerca di soluzioni si rispolverano vecchie conoscenze e ci si appoggia agli emergenti di quell'ondata migratoria che ha visto spostarsi dalla Sicilia verso l'America non meno di quattro milioni di italiani nel corso del ventennio precedente. Il fatto che poi questi pochi emergenti siano mafiosi poco importa.

E' così la volta di Salvatore Lucania, ribattezzato negli"States"

col nome ben più altisonante di "Lucky" Luciano70, indiscussoboss

della mafia di New York e temporaneamente ospite delle carceri americane(ne dovrebbe avere per trenta anni con la prospettiva di prendersene altrettanti per omicidio). Il rapporto di collaborazione richiesto a Lucky Luciano è molto semplice: scongiurare possibili azioni in danno delle unità militari alla fonda nel porto di New York ad opera di guastatori tedeschi imbarcati su sommergibili e stabilire una connessione tra gli uominiintelligence americani e la mafia siciliana. Per nessuna delle due richieste ilboss risulta impreparato, da anni gestisce il"fronte del porto" ed ha i contatti giusti in Sicilia. In cambio di ciò, e con il beneplacito del procuratore di New York otterrà, in prima battuta, un trattamento penitenziario adeguato alla sua"patriottica collaborazione", in via sussidiaria, l'assicurazione che sarà espulso dagli Stati Uniti come indesiderabile, con ciò annullando, di fatto, le sue pendenze giudiziarie 71. Sotto questi auspici si pianifica, organizza ed esegue l'operazioneHusky. Ma il rapporto di collaborazione tra i cugini americani non si esaurisce con la sola occupazione del territorio. Esauritosi il ruolo di Lucky Luciano entrano in scena altri maggiorenti, stavolta siciliani. Il Governatore militare della Sicilia, il Colonnello Charles Poletti, ha anch'egli una necessità, il governo del territorio e la garanzia di mantenere in piena efficienza le linee di rifornimento logistico per le truppe impegnate nell'avanzata verso Nord. Per necessità o per scelta(questo non è mai stato chiarito ed anzi smentito dallo stesso Poletti 72 he però farà la stessa scelta alcuni mesi dopo a Napoli), tale funzione viene delegata ai neorisorti maggiorenti siciliani, ai quali viene affidato formalmente il controllo di taluni Enti locali.

Dalla fine della guerra ai primi anni '50 si assiste così ad una rilegittimazione dei gruppi mafiosi, la loro collaborazione con le forze alleate e l'assunzione diretta del potere negli enti locali, l'ipoteca sugli assetti futuri, prima con la scelta del separatismo come "arroccamento tattico" poi con l'attacco al movimento contadino culminato con la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, che segue alla vittoria, la prima e l'ultima, delle sinistre alle elezioni regionali siciliane, e precede l'estromissione delle sinistre dal governo nazionale e il varo del centrismo, con l'affermazione delle forze conservatrici nello scontro elettorale del 18 aprile 1948 73.

La vicenda di Portella della Ginestra tuttavia non è che un episodio di un percorso ben più intricato iniziato molto tempo prima. A compierla è Salvatore Giuliano, il Re di Montelepre, che da piccolo contrabbandiere ed assassino di carabinieri assurge a ruolo di portabandiera del separatismo. Giuliano fa comodo a tutti: fa comodo alle forze politiche democratiche perché si costituisce quale oppositore del nascente "pericolo comunista"; fa comodo alla mafia perché potendolo gestire ha in mano una formidabile carta di contrattazione politica, anche a prezzo dell'aumento della vigilanza repressiva sul territorio; fa comodo ai sostenitori del separatismo almeno fino a quando il movimento non si sgonfierà naturalmente. Nel caso Giuliano, come in tanti altri che seguiranno, non vi è una sola chiave di lettura e non vi è chiarezza di fondo a partire dall'individuazione di chi materialmente eseguì il delitto 74. Comunque sia andata, sta di fatto che il ribelle, esaurita la sua funzione, viene assassinato in circostanze anch'esse invero poco chiare. Con la morte di Giuliano e la fissazione di un patto di coabitazione tra la mafia e lo Stato si chiude un'era e se ne apre un'altra. Alle soglie degli anni '50, sulla scorta dei copiosi finanziamenti pervenuti nell'isola per procedere alla ricostruzione post bellica, si apre una nuova pagina per la mafia. La mafia comincia a diventare imprenditrice, a controllare appalti, cantieri. Si tratta, tuttavia, ancora di una fase di presa di contatto con il mondo economico imprenditoriale. Non si va oltre l'estorsione o il taglieggiamento.

La fonte principale dei proventi di Cosa Nostra è ancora il contrabbando e pochi sono gli utili da reinvestire 75.

A partire dai primi anni '70 76 invece la cosa cambia radicalmente, le famiglie mafiose entrano nel grande giro degli stupefacenti e questo determina quasi immediatamente il sorgere della necessità del reinvestimento dei proventi illeciti ed una elevata conflittualità 77. Una nuova epocale trasformazione, nell'ottica della continuità

Gattopardiana (tutto cambi purché niente cambi), si profila per la mafia siciliana. E' la fine della vecchia mafia e dell'avvio della fase di contrapposizione frontale con lo Stato, del periodo delle stragi e delle guerre di mafia. Insomma, l'epoca, dell'ascesa dei "Corleonesi".

A Corleone, cittadina dell'interno siciliano, governa la "famiglia" il dott. Michele Navarra. Alla sua corte siedono piccoli ragazzi dal nome al momento insignificante ma destinato a fare storia quali Provenzano, Rima, Liggio, Calogero Bagarella. Liggio è il killer di punta della squadra e, a suo modo, un riferimento. Si è già distinto con l'omicidio di un campiere che aveva osato arrestarlo e condurlo "letteralmente a calci nel sedere" fino alla caserma dei Carabinieri ma è uscito indenne dal processo. La vedova del morto, testimone oculare del fatto di sangue, non è creduta. E' ormai un mafioso fatto quando decide di togliersi da davanti il vecchio capomafia locale. Lo stende senza tanti complimenti78. Sotto la sua direzione, i "viddanf ' si avvicinano a Palermo in cerca di soldi e di opportunità. La vita per i viddani non è facile, Palermo non è facile, vi è una mafia consolidata e solide alleanze.

I corleonesi tuttavia riescono a tessere la loro tela, ad entrare nel giro della droga, a stabilire alleanze che torneranno utili più avanti. Sanno che non riusciranno ad imporsi facilmente e che non saranno mai completamente accettati(anche se Leggio fa già parte della Commissione molti mafiosi, tra cui Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Di Cristina e Tommaso Buscetta non aspettano altro che rispedirli a calci al paesello) ma hanno dalla loro qualità indiscutibili: non conoscono le buone maniere e non sono avvezzi a trattare. I corleonesi sparano. IlManifesto che annuncia il loro concreto insediamento viene affisso il 10 dicembre 1969 in un appartamento di Viale Lazio. E' il quartier generale del boss Michele Cavataio; una strage. Del gruppo di fuoco, una vera e propria nazionale dei killer, fanno parte i corleonesi Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, e Calogero Bagarella e rappresentanti delle famiglie di "Riesi" e di "Santa Maria di Gesù".

Ha così inizio una guerra di mafia 79 che lascerà sul terreno centinaia di morti e segnerà la definitiva ascesa al potere dei corleonesi, ormai saldamente governati da Salvatore Riina80. Agli inizi degli anni Ottanta sono i padroni incontrastati della mafia siciliana. Gestiscono tutto, appalti pubblici e privati, prostituzione, estorsioni, taglieggiamenti, traffico di stupefacenti, contrabbando di tabacchi e di armi. Gestiscono la cosa pubblica, hanno infiltrazione nel mondo della politica e della massoneria. La mafia perdente è decimata e i pochi che sono sopravvissuti alla mattanza sono scappati lontano dalla Sicilia. Ma tanta ferocia non porta bene ai corleonesi e prima ancora che se nerendano conto si innesca un processo autodistruttivo di incredibili proporzioni: il pentitismo di alto livello 81.

Nel frattempo l'azione di contrasto prosegue per la sua strada tra indagini e processi spesso disarticolati in Cassazione. L'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo ha gli uomini giusti ma non è ancora scoccata la scintilla deflagrante. Il detonatore di tante potenzialità si chiama Tommaso Buscetta, un mafioso di alto rango . Buscetta è sopravvissuto alla guerra di mafia scatenata dai corleonesi che odia più d'ogni altra cosa.

Arrestato in Brasile il 24 ottobre 1983, è prima posto a disposizione della DEA (

Drug Enforcement Administration) e successivamente estradato in Italia. Tommaso Buscetta, che non è un pentito e non ha mai dichiarato di esserlo 83, ha maturato l'unica scelta possibile per la sua personale lotta contro lo strapotere corleonesi: una guerra di verbali e non di lupara 84. La collaborazione, che inizia il 16 luglio 1984, è di portata eccezionale.

Al tempo non vi è dubbio sul fatto che la mafia abbia una struttura, proprie regole e riti, ma non vi sono soverchie certezze. Buscetta ne ricostruisce il passato e il presente, fa luce su una moltitudine di fatti rimasti irrisolti di cui fornisce chiavi di lettura e collegamenti, indica le regole per la spartizione del territorio, la composizione delle famiglie e dei mandamenti, disegna la struttura della "cupola", l'organo decisionale supremo. Le spiegazioni di Buscetta, perfezionano l'impianto accusatorio messo insieme dal pool di Palermo. Il 29 settembre scatta un blitz di portata inimmaginabile articolato su circa 370 ordini di custodia cautelare. Nonostante la latitanza di molti nomi eccellenti è il colpo più duro inflitto alla mafia dai tempi del Prefetto Mori. Non è però il colpo risolutivo. Intanto sulla base delle nuove acquisizioni informative provenienti da Buscetta e da altri pentiti si imbastisce l'impianto del primo maxi processo che vedrà alla sbarra 474 imputati e che solleverà le ire sdegnate dei puristi del diritto e dei garantisti ad ogni costo che lo definiranno senza mezzi termini "unmostro giuridico'"

. Cosa Nostra ha bisogno di alleanze politiche, le ha sempre ricercate ed ottenute, ma quello che si profila all'orizzonte è un momento particolarmente difficile. Il rischio che il maxi processo si concluda con la comminazione di condanne all'ergastolo basate su un impianto probatorio che possa reggere ai successivi gradi di giudizio terrorizza i mafiosi. Gli strumenti di pressione sono quelli di sempre: la gestione del pacchetto elettorale, l'omicidio dei potenziali rivali. Magistrati, poliziotti, politici(ma questi talvolta per motivi diversi) cadono sotto la falce mafiosa. Alla conferma definitiva delle prime sentenze si scatena l'ala militarista corleonese. E' un periodo lungo che parte dall'assassinio del Giudice Saetta, passa per quello del giudice Scopelliti e si conclude con le stragi di Capaci e di Via D'Amelio in cui Riina progetta e la cupola ratifica. Il delirio mafioso s'infrange di fronte all'amplificarsi delle collaborazioni. Il tentativo di scendere nuovamente a patti con lo Stato, di trattare con esso da una posizione di forza con il ricatto delle stragi fallisce. Riina termina la sua ventennale latitanza il 15 gennaio 1993, giorno in cui è tratto in arresto a Palermo dove vive da sempre con la famiglia(i tre figli sono nati tutti nella stessa clinica e registrati con il loro nome) e da dove non si è mai mosso. E' stato Balduccio Di Maggio, un suo fedelissimo, ad offrire ai Carabinieri(da mille chilometri di distanza dalla Sicilia) le esatte indicazioni per la sua cattura. La fine della latitanza di "Totò 'u curto" chiude un capitolo della storia della mafia siciliana ma, inevitabilmente, ne apre un altro85. Al vertice di Cosa Nostra siciliana gli succede Giovanni Brusca86, esecutore materiale della estrema offensiva terroristica dei corleonesi e dito del telecomando della strage di Capaci. Resisterà due anni prima di essere catturato il 20 maggio del 1996. Al suo posto assumerà il controllo dell'organizzazione Pietro Aglieri, durerà fino al 6 giugno 1997, data in cui verrà a sua volta arrestato a Bagheria, paesino adiacente Palermo in seguito alle dichiarazioni dello stesso Brusca nel frattempo divenuto "pentito".

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NOTE

(61) P. GRASSO e S. LODATO, in prefazione a Op. cit. La mafia invisibile.

(62) In merito, sebbene non vi siano allo stato elementi confermativi, appare di interesse rilevare come recenti investigazioni sembrano porre l'attuale Cosa Nostra siciliana in posizione secondaria rispetto alla 'Ndrangheta calabrese, giudicata, quest'ultima, come prevalente in punto di organizzazione, segretezza, e ramificazioni internazionali, specie nel settore degli stupefacenti. da: DIA - Relazioni semestrali al Parlamento - 1998, 2003.

(63) F. BRAUDEL, Il Mediterraneo: lo spazio e la storia: gli uomini e la tradizione, Garzanti, Milano, 1977.

(64) U. SANTINO, Storia della mafia tra continuità e trasformazione, rapporto del Centro Impastato di Palermo. ".In una serie di rapporti redatti dal Questore di Palermo Ermanno Sangiorgi tra il novembre del 1898 e il febbraio del 1900 si danno informazioni dettagliate sugli aderenti ad "associazioni di malfattori" che hanno precise regole formalizzate, operano nei quartieri di Palermo e nei paesi della provincia, hanno una struttura di coordinamento e sono sottoposte al comando di un "capo supremo".".

(65) Già a partire dagli anni Novanta il problema della collusione politica mafia ha costituito oggetto di mirati approfondimenti. Su questo tema la Commissione antimafia presidenza Violante e ancora dopo quella presieduta da Centaro rilevano che: La tematica presenta varie sfaccettature e va trattata con il necessario equilibrio, affinché non divenga terreno di scontro fine a se stesso o sia strumentalizzata al fine di delegittimare le istituzioni o demonizzare gli avversari politici. Il problema, veramente grave a causa delle ripercussioni sul corretto funzionamento di una democrazia, deve portare ad un'analisi sullo stato di salute della società e della politica, al fine di estirpare un cancro in grado di svuotare e rendere sostanzialmente inefficiente ed inutile l'unico luogo delle regole: lo Stato di diritto, nelle sue articolazioni. Al riguardo, bisogna muovere dal modello mafioso tratteggiato brevemente nella pregressa narrativa. Da esso si evince come ogni mafia, per vivere e proliferare, non può non collegarsi alle istituzioni ed ai suoi rappresentanti, a qualsiasi livello e di qualsivoglia funzione. Diversamente, non potrebbe svolgere i traffici illeciti o fare i propri affari. «In base a quanto accertato dalla Commissione antimafia, soprattutto attraverso il contributo dei collaboratori di giustizia - scriveva l'onorevole Violante nel 1993 -, risulta indispensabile che ogni settore delle istituzioni e della società civile rompa i rapporti con Cosa Nostra. L'impegno maggiore per la rottura di questi rapporti va richiesto alla politica per le responsabilità che le competono e l'autorevolezza che deve sorreggere il suo operato. Ma nessuno può ritenersi estraneo. Sono stati chiamati in causa avvocati, notai, medici, commercialisti; magistrati ed appartenenti alle forze dell'ordine; burocrati di diverso livello. Ciascuna professione, ciascun ceto deve impegnarsi nell'isolamento della mafia. Altrimenti è facile scivolare o nell'estremismo moralistico o in un cinico rinvio alle responsabilità degli altri, con il risultato di rendere più lontana la sconfitta di Cosa Nostra. Questa mafia, dopo un breve periodo di clandestinizzazione, potrebbe riprendere a tessere i suoi affari come e forse meglio di prima». La mafia, a differenza del terrorismo, è un cancro interno alla società, si nutre della sua linfa vitale, cerca di allignare nei suoi gangli vitali. Il collegamento con la politica diviene, in tal guisa, naturale; anzi, obbligato. D'altro canto, la politica, nell'accezione più ampia del termine, presiede a tutti i profili e le vicende di una società. Prescindendo dai casi di corruzione semplice, eventualmente anche isolati, il vero rischio si risolve nella stipulazione di un patto perverso, volto al reciproco mantenimento grazie ad uno scambio di favori (voti e/o denaro contro atti o provvedimenti). In proposito, è opportuno ribadire che nessun politico è stato mai in grado di condizionare la mafia o di indirizzarne l'attività; nessun grande vecchio o nessuna regia superiore, eventualmente interessi concorrenti. In ogni caso nessuna forma di subordinazione da parte della mafia. Non vi è stato mai alcun riscontro nelle indagini, tale da corroborare la teoria di segno opposto propugnata da mafiologi più o meno eccellenti e risultata frutto di deduzioni o, meglio, forse di elucubrazioni sganciate dalla realtà. Il tavolo di spartizione degli appalti, descritto dal collaboratore di giustizia Siino, pur vedendo politici e mafiosi sedere allo stesso desco, insieme agli imprenditori, vedeva i primi sostanzialmente in stato di inferiorità rispetto ai secondi. In tutti gli altri casi, il politico o il rappresentate dell'istituzione è funzionale al disegno del mafioso e ne attua le richieste. La diffusione del rapporto, legata a condizioni di incultura, di scarsa mobilitazione o tensione sociale, a momenti di crisi morale ed economica, non conosce limiti in ideologie ed investe ogni formazione politica; proprio nessuna esclusa.

da: Relazione sui rapporti tra mafia e politica (relatore l'On. Luciano Violante), approvata dalla Commissione nella seduta del 6 aprile del 1993, in Commissione parlamentare antimafia, Relazioni della XI legislatura (9 marzo 1993 - 18 febbraio 1994), tomo I, pag. 27;

Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, doc. XXIII, n. 3, pag. 400, relazione del 30 luglio 2003.

(66) L. PAOLI, Da Portella a Capaci, in inserto redazionale del settimanale Panorama dal titolo Mafia a cura di Enzo BIAGI, Milano, 1993.

(67) Nominato Prefetto di Palermo solo da pochi giorni (23 ottobre 1925) Cesare Mori è in grado di dare attuazione a quel programma che aveva già sperimentato negli anni precednti a Castelvetrano e a Trapani. Il 17 novembre, intervenendo ai lavori del primo congresso agricolo regionale, ne illustrò i contenuti essenziali: (Quotidiano Sicilia Nuova, 17, 18 Novembre 1925) "L'Ora è giunta in cui gli ostacoli si misurano, si affrontano, si aggrediscono e si frantumano, e se qui, oggi, si chiamano mafia e malvivenza, peggio per loro.due ordini di provvedimenti quindi: gli uni di carattere preminentemente politico, sociale, economico e tecnico.quanto agli altri provvedimenti, essi consistono nell'azione diretta, piena contro l'elemento attivo della situazione: mafia e malvivenza.".

(68) Il Prefetto Mori non ci va di certo con la mano leggera. I mafiosi arrestati sono sistematicamente sottoposti a ruvidi trattamenti e finiscono per parlare. Nel giro di poco tempo il Prefetto giunge così dove forse neppure il Regime Fascista voleva arrivasse, cioè alla scoperta dei rapporti tra mafia e politica, tra mafia ed economia. Anche in questo caso non vi è una definitiva certezza; sta di fatto che il Mori fu nominato Senatore ed allontanato dalla Sicilia prima di poter assestare il colpo definitivo. L'allontanamento di Mori da Palermo si inserì nel vasto rimescolamento delle autorità prefettizie voluto dal regime fascista nel 1925 per meglio inserirsi nello Stato (i prefetti erano tratti dal partito e non dalla carriera prefettizia). Mussolini ne diede l'annuncio a Mori con il seguente telegramma: "Decifri da sé. Con R.D. in corso V.E. è stata collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere dal 16 luglio. La ringrazio per i luoghi e lodevoli servizi resi al paese". La norma citata da Mussolini stabiliva il limite di 55 anni per la permanenza in servizio dei Prefetti e Mori lo aveva superato.

(69) S. PORTO, Mafia e Fascismo. Il Prefetto Mori in Sicilia, Armando Siciliano Editore, Messina, 2001, pag. 129, 130 ".L'azione di Mori si differenziò dalle precedenti perché non fu solo repressione poliziesca, ma azione mirante al coinvolgimento della popolazione. Mori volle che la popolazione siciliana partecipasse alla lotta contro la mafia con coscienza e volontà, a questo puntarono i suoi ripetuti incontri con guardiani e campieri nei vari raduni di città e di campagna (anche se talvolta si esagerò per la cornice di epopea in cui operò, quando il "novello liberatore" era salutato da scritte come "Ave Caesar"). Non si può disconoscere che Mori avesse capito l'animo siciliano, che riuscisse a far leva sul senso di orgoglio e di ribellione all'ingiustizia che era all'origine della mafia nella sua accezione originaria. L'orgoglio e la ribellione all'ingiustizia seppe spostarli a favore dello Stato, superando la credenza popolare che faceva dello "sbirro" un traditore e dell'omertà un segno d'onore. Il fascismo e Mori sapevano che per liberare la Sicilia dalla mafia al di là di una battaglia attuale e momentanea si doveva operare una graduale bonifica, sapevano che ad un'azione nel breve tempo, per poter giungere a risultati definitivi, ne andava abbinata un'altra nel lungo periodo. Promise ciò il fascismo, ma il più delle volte non mantenne questo secondo impegno. Forse se Mori fosse rimasto in Sicilia più a lungo, o se avesse avuto un continuatore che come lui avesse "sentito" il problema della mafia per un tempo tale che quella generazione di vecchi mafiosi si fosse estinta per morte naturale, vale a dire con la scomparsa fisica dei suoi maggiori esponenti, la mafia nelle sue manifestazioni più tipiche, nei suoi uomini più rappresentativi, sarebbe effettivamente scomparsa dalla Sicilia. Di fatto con la caduta del fascismo e l'arrivo degli americani, guidati da Charles Poletti il risveglio della mafia, tramortita, ma non debellata, fu immediata.".

(70) A. CARUSO, Da cosa nasce cosa, pag. 41. Nel 1942 Lucky Luciano è un uomo finito. Il procuratore distrettuale di New York, Dewey, è riuscito a chiuderlo in galera e a buttare via la chiave. (...) Si è conclusa la favola americana del bambino giunto dal centro della Sicilia, da Lercara Freddi, e cresciuto sui marciapiedi dell'East River. La legge di Luciano era stata la violenza, gli unici studi che aveva fatto li aveva dedicati alla legge del più forte. Si è laureato alla corte di Al Capone. A 35 anni Luciano comanda su mezza New York, incarnava l'aspirazione di Cosa Nostra a diventare moderna e importante, aperta alla politica e alle scommesse sul futuro. I quattrini di Luciano e dei suoi amici serviranno sia all'elezione di Roosevelt sia a trasformare il deserto del Nevada in una mecca del gioco d'azzardo.

(71) Sarà coattivamente rimpatriato come indesiderabile nel 1946. Si tratta di un atto dovuto non avendo mai Lucky Luciano preso la cittadinanza americana.

Stabilitosi inizialmente a Napoli parteciperà nel 1957 al "summit" di Cuba. In quella sede traccerà le linee giuda del moderno traffico di stupefacenti: produzione sempre più ad oriente, raffinazione ad opera dei marsigliesi e raffinerie anche in Sicilia. Sua è l'idea di impiantare fabbriche di confetti e di scatolame in genere al cui interno per anni viaggerà indisturbata la droga raffinata in Sicilia. Il ruolo centrale di Cosa Nostra siciliana nel traffico mondiale di stupefacenti sarà confermato da Buscetta che traccerà le vie del narcotraffico dalla Sicilia al Nord America passando per il Venezuela, territorio della famiglia Cuntrera - Caruana.

(72) C. POLETTI cfr. testo dell'intervista concessa a G. PUGLISI in AA:VV., I protagonisti. Gli anni difficili dell'autonomia, Edizioni Università degli Studi Palermo, 1993.

(73) SANTINO, Storia della mafia tra continuità e trasformazione, rapporto del Centro Impastato di Palermo.

(74) Una leggenda popolare tramandata a voce riferisce il seguente adagio " Giuliano, tradito da Pisciotta e ucciso da "tre dita" perché anche per sparare alle spalle ci vogliono le palle". "Tre dita" è il soprannome di Luciano Leggio (ribattezzato per un errore di trascrizione in Liggio), killer di punta della famiglia di Corleone.

(75) Nel corso degli anni '50, con l'avvio dell'integrazione europea, si ha un mutamento dell'assetto socio-economico nazionale e meridionale, che porterà al cosiddetto boom economico, alla massiccia emigrazione dalle campagne meridionali (4 milioni in 20 anni), alla terziarizzazione di tipo parassitario del Mezzogiorno e della Sicilia. In questa fase non avviene tanto un trasferimento dei gruppi mafiosi dalle campagne nella città (anche nella fase agraria la "capitale della mafia" è Palermo, per il suo ruolo di centro politico-amministrativo), quanto un inserimento dei gruppi mafiosi nella nuova realtà, segnata dalla centralità della spesa pubblica e dall'espansione della forma urbana. L'aspetto più interessante in questa fase è l'ingresso dei mafiosi in attività imprenditoriali, in prima persona o in rapporto con altri imprenditori. Come abbiamo documentato nella ricerca sulle imprese, un ruolo fondamentale nella nascita del mafioso-imprenditore ha il denaro pubblico, sotto forma di appalti di opere pubbliche o di finanziamenti erogati da istituti di credito. Cioè l'impresa mafiosa nasce come borghesia di Stato, intendendo per tale gli strati medio-alti che si formano e assumono un ruolo dirigente con la costituzione della regione a statuto speciale in Sicilia (1946) e della Cassa per il Mezzogiorno (1950). Le funzioni della mafia urbano-imprenditoriale sono le seguenti: gestione di attività imprenditoriali soprattutto nel settore edilizio, ma ancora con un ruolo di "parente povero" e di intermediazione tra proprietari di aree e imprese esterne (il sacco edilizio di Palermo vede in primo piano imprese non siciliane, tra cui la Società Immobiliare con capitale vaticano), controllo sui mercati alimentari, sull'assunzione negli enti locali, sul credito. Svolgendo tali funzioni la borghesia mafiosa assume sempre di più un ruolo egemone a livello locale. Le fonti di accumulazione illegali in questa fase, insieme alle vecchie (per esempio, le tangenti, che si spostano sempre più sulle attività economiche urbane), vedono lo svilupparsi di traffici internazionali, soprattutto il contrabbando di sigarette, che farà da battistrada al traffico di droga. Per avere un'idea della consistenza di tale fonte, riportiamo un dato contenuto nella Relazione della Commissione antimafia del 1976: il contrabbando di tabacchi fruttava 120.000 miliardi l'anno, di cui il 70% va alle organizzazioni mafiose. Per gestire tale attività i gruppi mafiosi, strutturati in famiglie, danno vita a un'organizzazione unitaria interfamilistica che in seguito sarà utilizzata per il traffico di stupefacenti. In questi anni la mafia si diffonde a livello nazionale almeno come "disseminazione delle presenze", nel senso che l'istituto del soggiorno obbligato porta capimafia e gregari in tutto il territorio nazionale, spesso nelle vicinanze di grandi centri. Il ruolo egemone a livello regionale e la diffusione sul territorio nazionale danno un'immagine che non coincide con quella che si è avallata di una "mafia in crisi". Tale tesi sopravvaluta la risposta dello Stato alla strage di Ciaculli del 30 giugno 1963. Né l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta, né i processi celebrati contro i mafiosi ebbero risultati incisivi: la prima ebbe un ruolo significativo solo per la raccolta della documentazione, i secondi si risolsero in una conferma dell'impunità. Ma l'evento decisivo che gioca a favore dei gruppi mafiosi è la fine dell'antagonismo sociale nelle campagne, con la dissoluzione del movimento contadino, senza che si abbia la formazione di un equivalente nelle città, con il risultato di un indebolimento complessivo delle forze di opposizione. da:

U. SANTINO, Per una storia sociale della mafia, in A. CAVADI, A scuola di antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 36-47.

U. SANTINO, Crimine transnazionale e capitalismo globale, in S. VACCARO, Il pianeta unico. Processi di globalizzazione, Elèuthera, Roma, 1999, pp. 163-183.

(76) In questo periodo "Le alleanze orizzontali fra uomini d'onore di diverse famiglie e di diverse province hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni Settanta per assicurare un migliore controllo dell'organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo verticale, "la commissione" regionale, composta dai capi delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa culminata negli anni '81 e '82. Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d'onore delle più varie famiglie spinti dall'interesse personale - a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia caratterizzata nello scontro tra famiglie - e ciò a dimostrazione del superamento della compartimentazione in famiglie. La sanguinosa contesa non ha determinato - come ingenuamente si prevedeva - un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate degli elementi più deboli ( eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. da: L'Unità, 31 maggio 1992, cit.

Il contesto criminale espresso da Cosa Nostra trovò riscontro anche nella percezione del Governo che, difatti, ed in controtendenza con quanto fino ad allora ritenuto, osservò che le vicende connesse alla guerra di mafia in corso costituiva fenomeno in grado di incidere negativamente la stessa sicurezza nazionale, specie laddove aggressive dell'incolumità di politici e rappresentanti delle forze dell'ordine. A tal proposito nelle relazioni dell'epoca si rilevò che: "Le numerose, indiscriminate esecuzioni hanno profondamente allarmato l'opinione pubblica, finora adusa a considerare il fenomeno mafioso, pur nella sua particolare pericolosità sociale, come un fatto a sé stante, quasi circoscritto in un'area di specifica gravitazione e non così ampiamente diffuso e articolato, come oggi si presenta, con settori di interesse e di influenza radicati nei più disparati campi della vita del Paese". da: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Relazione sulla politica informativa e della sicurezza, semestre 22 maggio 1980 - 22 novembre 1980.

Presidenza del Consiglio dei Ministri - Relazione sulla politica informativa e della sicurezza, semestre 23 novembre 1981 - 22 magio 1982.

(77) Per l'approfondimento dei profili "professionali" dei singoli capi si veda G. LI CAUSI in "I boss della mafia", Editori Riuniti, Roma, 1971 pag. 272. Il volume riproduce gli atti della Commissione antimafia relativi alla biografia dei singoli mafiosi: Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra, Luciano Leggio, clan dei Greco, i fratelli La Barbera, Tommaso Buscetta, Rosario Mancino, Mariano Licari, Salvatore Zizzo, Vincenzo Di Carlo. Più recentemente G.C. MARINO, I Padrini, Newton & Compton, Roma, 2002.

Per una complessiva valutazione del fenomeno mafioso dal secondo dopoguerra agli anni Settanta si veda anche la

Relazione conclusiva della "Commissione parlamentare di inchiesta su fenomeno della mafia in Sicilia, V legislatura, doc. XXIII, n. 2-quater, ed anche la Relazione riguardante casi di singoli mafiosi, entrambe in data 2 luglio 1971.

(78) Navarra si accorse di aver dato troppo spazio a quel giovane campiere e tentò di correre ai ripari, ordinandone l'uccisione. Liggio scampò però all'attentato e si prese la rivincita il 2 agosto del 1958. Quel giorno, mentre rientrava in auto a Corleone da Lercara Friddi Navarra fu trucidato da Liggio e dai suoi uomini. L'uscita di scena del vecchio capomafia segnò l'inizio dell'ascesa dei Corleonesi.

(79) G. RUSSO SPENA, Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, Editori Riuniti, Roma, 2001, pag. 82 "...Sta qui, secondo Giovanni Falcone una delle ragioni della grande guerra di mafia esplosa negli anni Ottanta. Intervistato da M. Padovani spiega:" L'origine di tale guerra risale agli inizi degli anni Settanta, quando alcune famiglie realizzano vere e proprie fortune grazie al traffico di stupefacenti. Gaetano Badalamenti, all'epoca uno dei pochi boss in libertà, getta le basi del commercio con gli Stati Uniti, in particolare con Detroit, dove ha la sua testa di ponte. Salvatore Riina, il "corleonese", se ne accorge nel corso di una conversazione con Domenico Coppola, residente negli Stati Uniti, da lui convocato appositamente in Sicilia. Ecco gettati i presupposti per lo scatenamento della guerra di mafia".

Per l'opera completa e altre considerazioni si veda dello stesso autore la Relazione sul caso Impastato,

da: Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, Doc. XXIII, n. 50 presentato in data 6 dicembre 2000.

(80) T. BUSCETTA, intervista di S. LODATO, La mafia ha vinto, Mondadori, Milano 1999, pag. 101 "...Anche Buscetta, che conosceva molto bene sia Badalamenti che Leggio e Riina, sottolinea la disparità delle condizioni economiche esistenti tra loro: " Badalamenti li ha mantenuti per anni, perché i corleonesi erano dei pezzenti morti di fame. Se ne prese cura, gli trovava le case per dormire durante le latitanze, il sostegno economico"".

P. ARLACCHI, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Mondadori, Milano 1990, pag. 115 e 363 spiega:"...Antonino Calderone ha raccontato il risentimento di Luciano Leggio, condiviso dagli altri corleonesi, nei confronti di Badalamenti: "L'accusa rivolta a Badalamenti era di essersi arricchito con la droga nel momento in cui molte famiglie si trovavano in serie difficoltà finanziarie e molti uomini d'onore erano quasi alla fame e che, tra l'altro il Badalamenti avrebbe iniziato da solo il commercio di stupefacenti all'insaputa degli altri capi mafia che versavano in gravi difficoltà economiche...".

(80) S. LUPO, Storia della mafia, Donzelli editore, Roma, 2004, pagg. 270, 271 e segg. propone una diversa ricostruzione delle motivazioni scatenanti la prima guerra di mafia per come esposte dai pentiti Buscetta e Calderone, sostenendo che: "... Tutto comincerebbe da un grosso affare di droga organizzato da Cesare Manzella, italo - americano di Cinisi, con la partecipazione dei Greco e di un gruppo di finanziatori di cui fanno parte anche i La Barbera. A gestire materialmente la transazione quale fiduciario di Manzella e soci è Calcedonio Di Pisa, il quale però consegna agli interessati una cifra inferiore al previsto "di parecchi milioni di lire", asserendo che qualcuno degli acquirenti americani lo ha truffato. I La Barbera prendono informazioni in America e concludono che è stato invece Di Pisa a intascare la somma, ma la Commissione presso cui si svolge l'istruttoria conclude altrimenti e manda assolto l'imputato. La decisione non placa i La Barbera, i quali decidono di agire personalmente contro Di Pisa e contro Manzella, che cadono entrambi, provocando la micidiale reazione dei Greco, una serie di azioni e rappresaglie con il risultato finale della rovina dei La Barbera e dello scioglimento della famiglia di Palermo Centro...".

(81) Secondo la Commissione Del Turco "Il 1992 è sicuramente un anno tanto particolare da meritare la definizione di anno bifronte sia perché segna il punto di massimo attacco allo Stato da parte della mafia sia perché è un anno di svolta nell'attività di contrasto da parte dello Stato che dimostra con i fatti una notevole incisività e una più decisa determinazione nella lotta alla mafia, a partire dalla ripresa della capacità di indagine da parte della Procura della Repubblica di Palermo che, seppure duramente provata dalle uccisioni di Falcone e di Borsellino, diventerà uno dei punti più sensibili della rinnovata controffensiva antimafia. In questo periodo esplode il fenomeno dei collaboratori di giustizia che colpisce al cuore diverse famiglie mafiose, inizialmente e in modo particolare quelle di Cosa nostra; poi, con il passare del tempo, anche le altre organizzazioni mafiose saranno colpite, seppure in misura e con intensità diverse. Le dichiarazioni di una quantità davvero eccezionale di ex uomini d'onore consentono l'individuazione di numerose associazioni mafiose e la loro completa disarticolazione, l'avvio di significative inchieste giudiziarie e la celebrazione di importanti maxi processi caratterizzati dal notevole numero d'imputati che arrivano a volte a contare centinaia di persone. Sul fenomeno dei collaboratori di giustizia, comunque lo si voglia valutare, si può tranquillamente affermare che, soprattutto nella fase iniziale, esso ha dato un formidabile impulso all'attività investigativa contribuendo alla cattura di numerosi killer e conseguentemente alla salvezza di numerose vite umane. Rispetto ad altre fasi storiche della lotta alla mafia nel nostro Paese il decennio appena trascorso ha registrato degli indubbi risultati, mai prima di adesso raggiunti. Sono stati fortemente incrinati storici pilastri del sistema mafioso come la segretezza, l'omertà e l'impunità. Al di là di alcuni eccessi, grazie al contributo dei collaboratori di giustizia, fenomeno che ormai si è trasformato fino a raggiungere caratteristiche diverse da quelle che abbiamo conosciuto inizialmente, l'omertà non è più l'antico ed inviolabile scudo protettivo di un tempo. È stata violata la segretezza della struttura interna, delle regole, delle gerarchie e del loro funzionamento, dei rituali e delle iniziazioni. Infine, la cattura di numerosi capimafia che erano componenti di alto profilo della Commissione di Cosa nostra e di altri importanti capi delle organizzazioni mafiose calabresi, campane e pugliesi ha incrinato l'impunità che per anni, troppi e lunghi anni, vuoi per incapacità degli apparati dello Stato vuoi per complicità o per corruzione, era stata accuratamente coltivata dai capimafia.

da: Relazione conclusiva dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari nella XXIII legislatura doc. XXIII n. 57, pag. 43,45.

(82) Buscetta ha tentato fino all'ultimo di opporsi ai corleonesi ed infatti, prima di partire definitivamente per il Brasile accetta di combinare un incontro fra Calò, Bontate e Inzerillo. La speranza è quella di far rinascere una grande alleanza contro Riina. Ma Calò, a parole disponibile, ha gia fatto la sua scelta. Tutto è pronto perché la conquista di Palermo da parte di Corleone diventi completa ed ufficiale.

(83) P. ARLACCHI, Addio Cosa Nostra. I segreti della mafia nella confessione di Tommaso Buscetta, BUR, Milano 2000, pag. 3, 4. "Non sono un pentito. E non sono una spia, né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri. Non mi considero una spia perché parlo in pubblico, davanti alla legge e alla gente, e non di nascosto. Non sono un informatore perché non ho venduto le mie dichiarazioni, come fanno i confidenti con la polizia. Quando ho deciso di parlare, ho chiesto solo che garantissero sicurezza e protezione ai miei familiari. E non sono un pentito, nel senso che questa parola ha assunto per molti, soprattutto in Italia e che non cessa di infastidirmi. La prima cosa che ho dichiarato al Giudice Falcone il giorno in cui ho iniziato la mia collaborazione, nel luglio del 1984, è proprio questa. Quello stesso giorno consegnai al Giudice un mio appunto, che lui trascrisse sotto forma di dichiarazione verbale: - Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori - si legge nel testo della mia deposizione - per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la giustizia, senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo. Invece, nell'interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano -. Sono parole molto impegnative. Parole che ho pronunciato dieci anni fa e alle quali mi vanto di aver tenuto fede fino a questo momento. (...) Ho parlato e parlo. Parlo per ragioni che chi vorrà leggere queste pagine potrà condividere o no, ma confido che in ogni caso capirà. (... ) Di cosa mi sarei pentito? Non l'ho ancora capito. Io ho rinnegato, ho disconosciuto un'istituzione nella quale ho creduto e che ho servito con lealtà e disinteresse. Non mi sono pentito di nulla. Io non ho chiesto perdono a nessuno. Non ho neppure chiesto un perdono generale alla società per i danni che ho recato con le mie attività di mafioso. Forse un giorno lo farò, ma finora non l'ho fatto. E' una mia scelta. E allora perché appiopparmi questa etichetta logora e imprecisa? Chi parla di Buscetta pentito dovrebbe specificare quando, dove e davanti a chi sono comparso per chiedere perdono. Non mi sono mai presentato in un tribunale a dire " Signor Presidente, mi pento di tutti i peccati che ho commesso come membro di Cosa Nostra". Non sono un pentito nel senso morale e religioso della parola. Non rinnego tutto me stesso e tutto il mio passato. Non sono un pentito: sono solo un uomo stanco e tormentato che - arrivato a un certo punto della vita, a una certa maturazione della sua esperienza e della sua capacità di giudizio - si è reso conto di che cosa è diventata la mafia e si è convinto ad aiutare la giustizia a smantellarla. La mia mentalità è cambiata in molti punti, ma la mia personalità è rimasta la stessa. Non credo di avere sbagliato tutto. Penso che molti comportamenti e idee della Cosa Nostra in cui ho creduto siano ancora validi, validissimi. Sono gli altri, i Corleonesi, che li hanno stravolti e distrutti...".

(84) P. ARLACCHI, Addio Cosa Nostra. I segreti della mafia nella confessione di Tommaso Buscetta, Op. cit. pag. 12, riporta le parole di Buscetta che così si esprime: "Ho deciso di collaborare anche perché le mie dichiarazioni sarebbero servite alla giustizia dello Stato per aprire le prime brecce nel muro della segretezza di Cosa Nostra, quel muro che protegge gente scellerata che ha assassinato i miei figli e sterminato i miei amici e parenti infrangendo una delle regole più antiche del genere umano, valide e rispettate anche nella Cosa Nostra di una volta: la regola che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Invece di rispondere con la vendetta personale e con gli omicidi, ho reagito così. E in questo modo credo di aver provocato alla mafia danni ancora maggiori".

(85) Il progetto di RIINA mirava a rendere "Cosa Nostra" abbastanza forte sul piano economico-finanziario e "militare" per imporla come interlocutrice del mondo politico, imprenditoriale e finanziario.A partire dagli inizi degli anni '80 e nell'arco di circa un decennio, il progetto ha preso gradualmente forma dimostrandosi vincente soprattutto nel campo degli affari, tanto da far assumere a "cosa nostra" un ruolo determinante nella gestione dei pubblici appalti in tutta la Sicilia.

Tra il 1991 e il 1993 il conflitto tra la consapevolezza della rilevante forza "militare" ed economica che i mafiosi erano ormai in grado di esprimere e la loro crescente frustrazione per le continue e sempre più gravi sconfitte che, d'altro canto, erano costretti a subire sul piano giudiziario, portò a maturazione una profonda mutazione genetica di "cosa nostra" che, prefiggendosi il conseguimento di obiettivi politici, assunse comportamenti tipici delle organizzazioni terroristiche.

L'associazione criminale siciliana, infatti, si propose di condizionare lo Stato cercando di imporre la scelta tra l'adozione di una politica di contrasto alla criminalità organizzata meno incisiva minacciando altrimenti la destabilizzazione delle Istituzioni a mezzo di una pesante campagna terroristica; concetto che RIINA ha efficacemente mediato affermando che "Si fa la guerra per poi fare la pace".

Cosa abbia potuto indurre RIINA a pensare che uno Stato moderno potesse intimidirsi o addirittura arrendersi di fronte ad una ondata di violenza terroristica e scendere a patti con la mafia, è qualcosa che ancora oggi rimane incomprensibile; resta il fatto che la Magistratura e le Forze dell'Ordine hanno reagito prontamente e con efficacia identificando, processando e condannando gli autori delle stragi che, tra il 1992 e il 1993, "cosa nostra" ebbe a compiere in Sicilia e nel resto del territorio nazionale nel tentativo di realizzare il suo progetto eversivo.

da: DIA - Relazioni semestrali al Parlamento - Secondo semestre 2000.

(86) Figlio di Bernardo, ex componente della "commissione" nella sua qualità di Boss della famiglia di San Giuseppe Iato, è accusato di crimini orrendi come la strage di Capaci (fu lui ad azionare il congegno che fece saltare in aria il giudice Falcone, la moglie e gli uomini della scorta), gli attentati a Roma, Milano e Firenze e l'omicidio di Giuseppe Di Matteo, 11 anni, figlio di un collaboratore di giustizia, strangolato e dissolto nell'acido. 36 anni, latitante dal 1990, è stato arrestato assieme al fratello Vincenzo nell'Agrigentino mentre alla televisione stava vedendo il film di Michele Placido sulla strage di Capaci.





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