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Dalle bonache alle cosche di Zenone di Elea - 28 Agosto 2012

Fonte:
“Quaderni Radicali” n. 30 e 31 – Anno XV Gennaio-Giugno 1991

LA STORIA DELLA MAFIA

di Leonardo Sciascia

 

Il primo vocabolario del dialetto siciliano che registra la parola mafia è quello del Traina, pubblicato nel 1868: e la dà come nuova, importata in Sicilia dai piemontesi, cioè dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo Garibaldi, ma proveniente forse dalla Toscana, dove “maffia” (due effe), vuol dire miseria e “smàferi” vuol dire sgherri. Il Traina trova che queste due parole, questi due significati, convergono nel tipo umano che in Sicilia è detto mafioso. Il mafioso ha baldanza e prepotenza da sgherro, ma è anche un miserabile, poiché “miseria vera è credersi grand’uomo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l’essere gran bestia”. Mafia è dunque “apparente ardire, sicurtà d’animo”. E nient’altro. Così pensava anche il più grande studioso di tradizioni popolari siciliane, il palermitano Giuseppe Pitrè:

”La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.

Il Pitrè anzi, rispetto al Traina, toglie al mafioso brutalità e prepotenza e le attribuisce agli altri, a quelli contro cui il mafioso si ribella; sicché la mafia altro non sarebbe che un sentimento di libertà, un atteggiamento di fierezza contro le angherie dei potenti e l’inettitudine della legge e dei pubblici poteri. In conclusione: il Traina come il Pitrè, come tanti altri studiosi e giudici e uomini politici siciliani, tendono a negare la mafia in quanto associazione e ad ammetterla in quanto “ipertrofia dell’io” (definizione del giurista siciliano Giuseppe Maggiore), dell’io dei singoli siciliani.

L’invenzione della mafia come associazione per delinquere ha anzi, secondo un magistrato siciliano, un responsabile: quel Giuseppe Rizzotto che nel 1862 scrisse la commedia I mafiusi di la Vi caria (la Vicaria era una prigione palermitana). ”L’artista esagerando con la sua arte tragica, a base di speculazione, i pretesi costumi dei galeotti nelle prigioni di Palermo, riuscì fatalmente ad accreditare e diffondere la stolta credenza” che la mafia fosse un’associazione di delinquenti, scrive il magistrato. E conclude: ”Dio perdoni al Rizzotto, che da molti anni è scomparso dalla scena della vita, il danno enorme arrecato alla nostra Sicilia. E le conseguenze tristissime di questo danno io provai quando, nel corso della mia carriera, ebbi la fortuna della destinazione alla Procura Generale di Torino”.

E si può essere d’accordo che la sua destinazione alla Procura Generale di Torino, invece che a quella di Palermo, sia stata una fortuna anche per la Sicilia, dove all’incirca in quegli anni c’è stato un procuratore le cui requisitorie nei processi contro la mafia, acute e implacabili, si possono leggere come uno dei più seri contributi allo studio del fenomeno: l’agrigentino Alessandro Mirabile.

Il procuratore generale Mirabile pensava esattamente il contrario del Pitrè: cioè che la mafia fosse setta, associazione; e con precisa costituzione (ovviamente non scritta), con regole rigorose, con segni di riconoscimento tra gli affiliati. Oltre che sulla propria esperienza, fondava questa affermazione su un memoriale (che bisognerebbe ricercare negli archivi giudiziari) scritto da Bernardino Verro, che nella prima giovinezza pare fosse entrato a far parte della mafia: e diventato poi socialista – una delle più belle figure del socialismo siciliano, in quel movimento detto dei “fasci” che fu duramente represso dal governo del siciliano Crispi – fu della mafia strenuo avversario fino alla morte. Nato a Corleone (paese anche oggi ben noto per fatti di mafia), a quarantotto anni, in pieno giorno, fu ucciso, in una strada del paese di cui era diventato sindaco, il 3 novembre 1915.

Questi nomi: Verro, Mirabile e, su tutti, quello di Napoleone Colajanni, studioso di problemi sociali e deputato del partito repubblicano, dicono che non tutti i siciliani negavano l’esistenza della mafia come associazione criminale ne ritenevano fosse offesa per la Sicilia il parlarne. Pubblicamente anzi la denunciavano e la combattevano, considerando sciocco e dannoso il principio che il male di cui una popolazione è afflitta bisogna nasconderlo o minimizzarlo. I mali sociali sono, infatti, proprio come le malattie individuali: nasconderli, negarli, minimizzarli vuole dire soprattutto non volerli curare, non volere liberarsene.

Quei siciliani che come Pitrè, come Luigi Capuana, ancor oggi ritengono che la mafia sia soltanto atteggiamento di spavalderia individuale, amor proprio, senso dell’onore, sete di giustizia e modo di farsi giustizia in un paese afflitto da una secolare carenza dell’amministrazione statale, naturalmente affermano che tutti i fatti di delinquenza associata in Sicilia non sono diversi da quelli che avvengono in altre regioni d’Italia e in altri paesi europei, né più gravi, né più numerosi. Per loro, la parola mafia non va applicata ai fatti delinquenziali.

Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa – la parola mafia, o l’espressione, venuta in uso in questi ultimi anni, di “Cosa nostra” – si tenda a creare una distinzione razzistica, un pregiudizio, nei riguardi di tutta la popolazione siciliana, da cui discendono la denigrazione, la diffidenza, l’irrisione anche verso il singolo siciliano che si trova a vivere fuori della propria terra.

È ingiusto, dicono costoro, che una banda di rapinatori sia considerata una semplice banda di rapinatori a Milano o a Marsiglia o a Londra e una “cosca mafiosa” (“cosca” è la corona di foglie del carciofo) a Palermo; che a Milano o a Marsiglia o a Londra siano indicati come colpevoli di un fatto delittuoso soltanto coloro che l’hanno effettivamente preparato ed eseguito, mentre un identico fatto, se accade a Palermo, si ritiene adombri una concatenazione di responsabilità e complicità più vasta, sfuggente, indefinibile – come se tutta la popolazione della città e dell’isola avesse oscuramente partecipato al fatto e ne proteggesse i colpevoli. Bisogna dunque, dicono questi difensori del buon nome della Sicilia, togliere la parola alla cosa, guardare alla cosa per come si presenta nei limiti dell’esecuzione, al fatto criminale in sé.

Ma la parola mafia (che in origine avrà avuto il significato che le attribuisce il Pitrè; e il più antico documento in cui la troviamo, del 1658, la dà come soprannome di una “magara”, cioè di una donna dedita a pratiche di magia), la parola è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa che i fatti criminali assumono in Sicilia rispetto a quelli di altre regioni, di altri paesi. Non tutti, si capisce; e non in tutta la Sicilia.

Questa distinzione già vien fuori nel 1838, quando ancora non esisteva la parola nel senso oggi in uso, da una relazione di don Pietro Ulloa (quello stesso che scrisse poi opere storiche sul regno dei Borboni, cui fu fedelissimo) allora procuratore generale a Trapani: “Non c’è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggerlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori a offrire transazioni per il recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanze di una protezione impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della Gran Corte Civile di Palermo, come il Siracusa, alto magistrato... Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; né di trovare testimoni per i reati commessi in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione c’è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo ombelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza...”.

Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa?

Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati e sottoposti all’attenzione del governo di Napoli (che naturalmente non ne tenne alcun conto, come poi i governi dell’Italia unita non tennero alcun conto delle relazioni Fianchetti – Sonnino, di quella parlamentare del 1875 – 76, dei discorsi di Colajanni alla Camera dei Deputati, dei rapporti dei prefetti onesti e dell’Arma dei carabinieri). Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di una associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale.

All’Ulloa non sfugge la causa prima di una tale situazione: che è la condizione sociale ed economica della Sicilia, ancora feudale in pieno secolo XIX. E appunto la mafia, che nasceva dalla feudalità e ne assumeva la forma (il capo mafia al posto del signore feudale, ad esercitare quel privilegio detto del “mero e misto impero” che era del signore feudale: e cioè il diritto di vita e di morte sugli abitanti dei paesi e delle campagne, il diritto di imporre tasse anche arbitrarie); appunto la mafia doveva operare un movimento che si può assomigliare al passaggio da una società feudale a una società borghese; quel passaggio che in Francia si realizzò attraverso la rivoluzione del 1789 e in altri Paesi attraverso quello che fu detto “l’assolutismo illuminato”, cioè quelle trasformazioni che i sovrani (l’imperatore d’Austria, il granduca di Toscana) seppero apportare nei loro regni decidendo dall’alto e spesso contro la stessa classe aristocratica che era stata il loro sostegno.

La Sicilia non aveva avuto una rivoluzione né aveva conosciuto “l’assolutismo illuminato”: la terra passò dai baroni ai “borghesi” (borghesi tra virgolette, che in Sicilia non si può dire esista una borghesia vera e propria) attraverso operazioni di tipo mafioso. I contadini promossi a “campieri” (specie di carabinieri del feudo alle dipendenze del barone) e da “campieri”, a “gabellotti”, (cioè ad affittuari delle terre), intimorendo i baroni, facendo loro dei prestiti con usure ingenti, derubandoli del reddito, riuscirono ad impadronirsi della terra.

Ma, servi divenuti padroni, i loro vizi furono quelli dei loro antichi padroni: volevano soltanto la terra, terra quanto più estesa possibile; e si contentavano del reddito che la terra aveva sempre dato. Non volevano trasformarla, bonificarla, migliorarla. Il reddito della terra veniva investito in altra terra. “Terra quanto vedi e casa quanto stai”, dice un proverbio siciliano; e cioè contentati di una casa anche piccola, ma se puoi compra tutta la terra che vedi. Già un viceré illuminato, il napoletano Domenico Caracciolo che fu in Sicilia dal 1781 al 1784, aveva notato come questa fosse l’unica regione d’Europa in cui il denaro guadagnato sulla terra diventava altra terra, non veniva cioè impiegato per migliorare la terra o per far nascere industrie o incrementare i commerci. E così è accaduto fin quasi ai giorni nostri.

Della mafia come “forma primitiva di rivolta sociale”, come la sola possibile rivoluzione borghese che potesse avere la Sicilia, ha scritto lo studioso inglese Eric J. Hobsbawm e alla sua analisi si può trovare riscontro nel romanzo “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e precisamente nel personaggio di Calogero Sedara. Ad un certo punto del romanzo, il principe scrittore fa dire al principe protagonista: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene”. Queste iene, questi sciacalli, hanno saputo soltanto operare nella dissoluzione della classe aristocratica, e ne hanno approfittato. E quando si sono trovati al posto degli aristocratici, cioè a dirigere la cosa pubblica, ad essere classe dirigente, hanno continuato a comportarsi come sciacalli, come iene: a dilaniare e divorare i beni pubblici così come avevano fatto coi beni dei loro antichi padroni. Insomma: la classe borghese – mafiosa, di cui è campione Calogero Sedara, non sa costruire: sa soltanto divorare.

Da ciò deriva che all’interno di tale classe c’è un continuo conflitto, un continuo processo di sostituzione. Fondandosi sulla violenza e sulla frode, il potere di un gruppo mafioso è facilmente vulnerabile nel momento in cui sta per assestarsi, per votarsi all’ordine costituito: basta una nuova ondata di violenza, di frode. I delitti della mafia sono perciò, di solito, “interni”: conflitti tra una nuova generazione e la vecchia, tra gruppi che sono già arrivati al potere, alla ricchezza, al decoro, e gruppi che vogliono arrivare. L ‘arrivo, dunque, spesso coincide con l’annientamento (anche fisico), con la fine.

La più completa ed essenziale definizione che si può dare della mafia, crediamo sia questa: la mafia è una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato. Nata indubbiamente nel feudo, nella campagna, come mediazione tra il padrone e il contadino, cioè svolgendo funzione poliziesca e vessatoria sul contadino per conto del padrone, e al tempo stesso derubando il padrone, abbiamo visto come già nel 1838 il fenomeno fosse diventato cittadino: di città come Palermo, come Trapani.

Per avere un’idea di che cosa fosse in origine la mafia, basta pensare alle considerazioni che il Manzoni, nei Promessi sposi, svolge sul fenomeno della “braveria”. Sgherri del tipo dei bravi, al servizio degli interessi e dei capricci dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei mafiosi. In Lombardia, caduto il dominio spagnolo e subentrato quello austriaco, attraverso riforme sociali e trasformazioni economiche, e soprattutto grazie alla correttezza dei funzionari statali e quindi di tutto l’apparato amministrativo dello Stato, la “braveria” fu naturalmente eliminata dal corpo sociale.

In Sicilia, perdurando le condizioni del dominio spagnolo anche quando gli spagnoli non ci furono più, resistendo le strutture sociali della feudalità (e, perdi più, di una feudalità piena di puntigli, avida di privilegi, rissosa, anarchica), quella che in origine era “braveria” diventò nel tempo quella che oggi conosciamo come mafia. Tramontato il “mero e misto impero” dei signori feudali, l’amministrazione statale che veniva a sostituirlo si rivelava debole, inefficiente, corruttibile – fatta com’era di funzionari incapaci e mal pagati, che dovevano il loro impiego a qualcuno (cui restavano, come dice l’Ulloa, “prostrati”), o che l’avevano addirittura acquistato e perciò si ritenevano, ed erano, autorizzati a rivalersi sulla parte più debole, meno temibile, dei loro amministrati.

Uno Stato quale che sia, quali che siano i principi o la classe che effettivamente rappresenta, sempre funziona (o non funziona) attraverso i suoi funzionari. In Sicilia un funzionario che si mostrasse sagace e onesto, resistente alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva o isolato o espulso come corpo estraneo. Il “trasferimento” è stata, e forse è ancora, l’arma del potere mafioso contro il funzionario che non stava al gioco.

Una storia della mafia altro non sarebbe, dunque, che una storia della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia alla Repubblica, nella formazione e affermazione di una classe di potere improduttiva, parassitaria. Questa classe, che già nella prima metà dell’Ottocento l’Ulloa definisce e denuncia, nella seconda metà del secolo trova terreno di più rigoglioso sviluppo nell’unità d’Italia e nel sistema democratico.

Quando, nelle rievocazioni dell’impresa di Garibaldi, si parla di “picciotti”, la parola non va intesa nel senso di una gioventù che spontaneamente corre sotto le bandiere garibaldine, a combattere contro la tirannide borbonica; ma nel senso di una coscrizione, di un reclutamento, operato dalla classe borghese – mafiosa, e dagli ultimi baroni, tra i contadini del feudo. E del resto anche oggi, nel gergo mafioso, col termine “picciotti” si indicano gli esecutori di ordini scellerati, i sicari. “Picciotti” quelli della battaglia di Milazzo, nel luglio del 1860; e “picciotti” quelli che nell’ottobre 1970 entrarono, travestiti da infermieri, in un ospedale palermitano per finire con una raffica di mitra un ferito la cui sopravvivenza costituiva pericolo per l’associazione mafiosa. E ancora “picciotti” quelli che il 16 settembre 1970 hanno rapito il giornalista Mauro De Mauro, che stava conducendo un’inchiesta su Mattei, e “picciotti” gli esecutori dell’assassinio del procuratore Scaglione, lo scorso anno.

Si capisce che non mancarono, alla grande avventura di Garibaldi in Sicilia, volontari veri, consapevoli; ma le bande che venivano dalla campagna obbedivano soltanto alla volontà dei capi, del tutto ignorando la causa per cui si combatteva, le aspirazioni che si volevano realizzare. Le quali aspirazioni, da parte di quella che Hobsbawm chiama “la nuova classe dominante dell’economia agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori cittadini”, si riducevano in fondo a una sola: che la Sicilia diventasse una colonia agricola del Nord commerciale e industriale. Il che, ovviamente, non dispiaceva alla classe commerciale e industriale del Nord; e da ciò una più accentuata complicità dello Stato italiano nell’affermazione e consolidamento della classe borghese – mafiosa siciliana.

Il “sistema” l’instaurazione della macchina elettorale, fece il resto. La mafia vi si associò indissolubilmente. Ed è soltanto col sorgere dei partiti di sinistra che la lotta elettorale nella Sicilia occidentale assume, da rivalità di interessi particolari e di “cosche”, carattere politico. La mafia fu subito contro il nascente partito socialista; e avversò anche quel partito popolare dei cattolici che poi divenne la Democrazia Cristiana. Riguardo al fascismo, la mafia si mantenne in diffidente attesa nei primi anni. Quando cominciò a muoversi per inserirvisi, era troppo tardi: Mussolini, che aveva il culto dello Stato, era arrivato a scoprire che la mafia era come un altro Stato.

Si racconta che la rivelazione gli venne dalla visita a un paese in provincia di Palermo, dove era sindaco un mafioso; e il sindaco ebbe l’ingenuità di dirgli che non occorrevano tanti carabinieri, tante guardie, che a proteggere il capo del governo, il duce dell’Italia fascista, bastava lui solo, la sua autorità, il suo prestigio. Mussolini si informò, seppe chi era il sindaco e cosa era la mafia: e ordinò una radicale repressione, mandando in Sicilia, con pieni poteri, il prefetto Cesare Mori. Funzionario indubbiamente capace, e disponendo di un’autorità praticamente illimitata, Mori attaccò la mafia ad ogni livello: a livello degli esecutori come a livello dei capi. I metodi di cui si servì repugnano alla coscienza civile: ma considerando che anche oggi, con l’istituzione della commissione parlamentare antimafia, le sole azioni che vengono compiute contro la mafia sono di tipo repressivo e non rispondenti ai principi della Costituzione repubblicana, e per di più si svolgono soltanto a livello degli esecutori, bisogna riconoscere che l’operazione di Mori fu quanto meno più radicale né si arrestò di fronte ai mafiosi di rango sociale elevato.

Colpiti dal fascismo, i mafiosi si diedero all’antifascismo. Se in Sicilia si fosse verificata, dopo la caduta di Mussolini e durante l’occupazione tedesca, la lotta armata contro il nazifascismo, la costituzione di brigate partigiane, e insomma quel movimento di Resistenza che si è verificato nel nord d’Italia, i mafiosi indubbiamente ne sarebbero stati i capi più autorevoli e valorosi. In Sicilia invece sbarcarono, il 10 luglio del 1943, quindici giorni prima che Mussolini venisse destituito, le truppe anglo – americane.

Nella Sicilia occidentale, prevalentemente occupata dalle truppe americane, i mafiosi furono subito chiamati all’amministrazione civile. Pare che i servizi segreti dell’esercito americano, tramite i mafiosi siciliani d’America, avessero già da prima stabilito contatti con loro, ricevuto informazioni. Famosi gangster siculo – americani, come quel Salvatore Lucania detto Lucky Luciano, oriundo di Lercara in provincia di Palermo, avevano creato rapporti di collaborazione tra mafia siciliana e servizio segreto americano: e infatti Lucania, che si trovava in prigione negli Stati Uniti, fu poi liberato e restituito all’Italia (dove trascorse, da rispettato benestante, i suoi ultimi anni di vita).

I rapporti tra la mafia siciliana e quella degli Stati Uniti, fondata e prevalentemente diretta da siciliani, sono stati sempre continui e intensi. Chi vuol saperne di più, cerchi il libro del giornalista americano Ed Reid, intitolato “La mafia”, pubblicato in edizione italiana nel 1956. Secondo il Reid, la mafia fu esportata dalla Sicilia negli Stati Uniti dai fratelli Vito e Giovanni Giannola e dal loro amico Alfonso Panizzola, nel 1915; e la prima città americana cui fu applicato il sistema di sfruttamento della mafia, Saint Louis nel Missouri. Noi siamo del parere che bisognerebbe andare più indietro nel tempo, alla fine del secolo XIX e ai primi del nostro. Comunque, la mafia, che si riteneva prodotta da una società contadina arretrata e miserabile, quale quella siciliana, radicandosi e prosperando nella società americana, ad alto livello d’industrializzazione e a un grado di benessere il più alto del mondo, si rivelò fenomeno più complesso e vitale: un sistema analogo al sistema capitalistico.

Per dare un’idea di come uno Stato possa divenire inefficiente di fronte alla mafia vale la pena riportare un episodio che riguarda Vito Genovese, mafioso siciliano d’America. Vito Genovese, in America ricercato per omicidio, si trovava in Sicilia nel 1943 – 44, sistemato come interprete presso il Governo Militare Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia, riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati inglesi (inglesi, si badi, non americani) lo arresta; gli trova addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani, che dicevano il Genovese “profondamente onesto, degno di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio”.

Una volta arrestato, cominciano i guai: non per il Genovese, ma per il Dickey. Né le autorità americane né quelle italiane vogliono saper niente dell’arresto. Il povero agente si trascina dietro per circa sei mesi l’arrestato; e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come il luogotenente del bandito Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel carcere di Palermo) in una prigione americana. Soltanto allora, cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio “americano”: e non, come si suol dire, per carità di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari, dovremmo raccontarne di casa nostra.

 LEONARDO SCIASCIA

 







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