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Dott. ORESTE DITO
MASSONERIA, CARBONERIA
ED ALTRE SOCIETÀ SEGRETE
NELLA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
con appendice ed illustrazioni

TORINO-ROMA
CASA EDITRICE NAZIONALE
ROUX E VIARENGO

1905
02
01 - Massoneria, carboneria ed altre società segrete nella storia del risorgimento italiano
02 - Massoneria, carboneria ed altre società segrete nella storia del risorgimento italiano
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La costituzione sarebbe stata proclamata il 28; ma trecento Carbonari di Salerno non si trovarono al convegno, ed un reggimento di quelli su' quali il Pepe contava non si mosse per titubanza del capo. Il moto dovette essere differito; ma non fa che differimento di pochissimi giorni, I fatti incalzavano; l'aspettativa era grande. Già a nome di tutta la Carboneria, l'Alta Vendita Generale, allora sedente a Salerno, dietro accordi colle altre Vendite regionali del Regno, l'avea proclamato, e i Carbonari salernitani s'eran messi d'accordo col presidio di Nocera, o speravano trascinarlo in un'azione comune. Né mancò qualche tentativo isolato; cinque tra' più audaci, sul cader di giugno, alzarono il primo grido, e in cocchio con bandiera a colori di sètta si avviarono da Cava a Nocera, chiamando il popolo a libertà. Niuno si mosse e a mezza via furono arrestati. Il governo, destatosi all'ultima ora, mandò a Salerno il principe dì Campana con alcune truppe per incarcerare quanti più Carbonari potesse; ma i più compromessi si rifugiarono in Avellino, ivi accolti da' loro consettarii.

D'altra parte, non pochi militari sospettati o compromessi. La condizione era difficilissima; bisognava decidersi.

Nella sera del 1° luglio, ad iniziativa de' due sottotenenti Morelli e Silvati, la Vendita costituita nello squadrone del reggimento Borbone, di stanza a Noia, e forte di centoventisette cavalli, decise di dar principio alla rivoluzione. La mattina seguente, in compagnia del prete Menichini e d'altri Carbonari, spiegando la bandiera carbonarica, quello squadrone marciò alla volta d'Avellino; fece sosta a Mercogliano, e dopo aver patteggiato colle autorità avellinesi, da Manforte proclamò la Costituzione di Spagna.

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Tutta la provincia di Avellino si sollevò, e ne seguirono l'esempio Salerno, la Capitanata, la Basilicata (1).

Si tentò dapprima di reprimere ciò che fu creduto ammutinamento ed era rivoluzione.

Il generale Nunziante, non sospetto di murattismo o di liberalismo, il 4 luglio così ne scriveva al re: «Qui non si tratta di combattere pochi uomini raccozzati senza piano, come in tanti altri rincontri, diretti solo da malnate passioni e da privati interessi. Le intere popolazioni domandano una Costituzione, e la sperano dal senno, dal cuore e dal raccorgimento di V. M. In tale stato di cose il combattere sarebbe lo stesso che accrescerne le forze... Ogni indugio, o Sire, sarebbe funesto» (1).

Nella notte dal 6 al 7 luglio, cinque Carbonari, fra cui il duca Piccoletti, genero del duca di Ascoli, intimo del re, si presentano alla Reggia e intimano di far sapere al vecchio Monarca che vogliono la Costituzione, altrimenti rivoluzione.

Il re, impaurito, fa rispondere che, conosciuto il desiderio del suo popolo, l'avrebbe data. - Quando? - Fra due ore. Era l'una dopo la mezzanotte. E alle tre di quel mattino, 7 luglio, usciva questo memorabile regio editto:

«Alla nazione del Regno delle Due Sicilie, Essendosi manifestato il voto generale della nazione delle Due Sicilie di volere un Governo costituzionale, di piena nostra volontà consentiamo e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi.

(1)

Cfr. Cenno istorico su i fatti che hanno preceduto e prodotto il Movimento del Battaglione Sacro di Noia. (Op. cit. Memorie sulle Società Segrete, ecc. App. vi, 208); 6 «Le cinque giornate dell'Italia Meridionale. Relazione del tenente colonnello Lorenzo De Concilii al suo Comandante, in Bertolini, Su la Rivoluzione Napoletana del 1820, Letture popolari del Risorgimento Italiano, lett. II.

(2) Atti relativi all'intervento di S. M. il Re delle Due Sicilie al Congresso di Laybach. Ed. Uff.'. 1821, p, 10. L'opuscolo è inserito nel volume della Biblioteca V. E. di Roma, Scritti del 1820 (22, 7,B. i.). Cfr. Palma, Sud. 474.

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Fino alla pubblicazione della Costituzione le leggi veglienti saranno in vigore. Soddisfatto in questo modo il voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino a' loro corpi, ed ogni altro alle sue ordinarie occupazioni», Non è qui il luogo di seguire ne' suoi particolari lo svolgimento di quella rivoluzione, già compiuta prima che iniziata; perché essa rispondeva all'unanime consenso della parte più eletta e pii forte del popolo napoletano. Nello spazio di pochissimi giorni la storia del Napoletano offre l'esempio più civile d'una rivoluzione, che, senza trascendere in violenze di piazza, senza spostare l'ordinario funzionamento della vita pubblica, rimane ad attestare quanto possa l'educazione e l'unione ne' destini d'un popolo (1).

(1) Ci siamo indugiati a mettere in evidenza l'opera, patriottica della Carboneria nel determinare la rivoluzione del '20 e le cause che ne favorirono il trionfo. Egea, però non sarebbe così facilmente penetrata nel popolo senza un altro potente coefficiente ch'era la condizione economica e che dal 1820 al 1860 determinò tutte le nostre rivoluzioni, senza che governanti e rivoluzionari, a rivoluzioni compiute, ne tenessero conto.

Il Delfico nel suo assennato opuscolo già citato, per il primo, in tempi in cui si faceva del sentimentalismo liberale, mette in evidenzii tale fatto.

«A queste cause generali, che van per tutto preparando una tanta mutazione, se ne accoppiarono delle altre eventuali ed imprevedibili, che valsero possentemente ad accelerarla fra noi.

«L'agricoltura è la sorgente di ogni nostra dovizia: i cereali ne formano la base. Ma Odessa era sorta fra le tempeste della rivoluzione ed attendeva in silenzio che la pace riaprisse i veicoli del commercio. Difatti la pace ritornò finalmente: e gli agricoltori e i proprietari di questa beuta regione accorsero esultanti al mare, reputandosi ancora i primi e più ricercati venditori nel gran mercato del Mediterraneo. Due contrattempi funesti ed imprevedibili distrussero quelle prime nostre speranza: la poste del 1816 e la penuria dell'anno seguente. L'Europa e noi stessi indotti dall'imperiosa necessità dovemmo rivolgere gli sguardi ad Oriente: e d'allora in poi l'esempio del primo strabocchevole guadagno riconduce in ciascun anno sulle spiaggie del Mediterraneo mille navigli carichi di frumento, che dal nostro poco differisce in bontà,

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L'Amico della Costituzione

(1° fasc. Domenica 23 luglio 1820), così scriveva sulla Storia di Napoli dal 2 al 6 luglio: «Sede del malcontento era la setta de' Carbonari. Non già che da questa si propagassero le opinioni

e lo supera di gran lunga per la modicità del prezzo. Quindi la nostra sorte fu cangiata, del tutto: l'invilimento delle biade tolse alle terre almeno il quarto del loro valore; la bilancia del commercio rovesciò a nostro danno, e la moneta uscì dal Regno senza potervi più rientrare.

«Una si perniciosa rivoluzione commerciale aveva radici troppo profonde ed un troppo vasto sviluppo perché il Governo potesse arrecarvi un pronto ed essenziale rimedio. Vi arano però de' mezzi indiretti da adottare, i quali nitido!c'isserò almeno parzialmente la piaga. 11 più opportuno fra questi era un sensibile disgravio sul tributo diretto, che calcolato sopra una scala di valori ormai divenuta, effimera, incominciava per le cangiate circostanze a riuscire insopportabile. I consigli provinciali del 1819 chiusero pressoché unanimemente i loro travagli invocando un tale alleviamento, che non ottenuto, pose d'accordo il ventre colla testa nel desiderio di un nuovo ordine di cose, dal quale si conseguisse ciò che inutilmente ai era richiesto fin'allora.

«Ed intanto, mentre per una parte i Ministri, negando il richiesto alleviamento, creavano la volontà di una mutazione, con incompressibile imprudenza creavano per l'altra la forza onde eseguirla, armando settanta mila militi fra coloro precisamente che più si dolevano della gravezza delle imposte: e dove esiste volontà e forza, Può mai non esistere azione? Quest'errore nasceva da un altro antecedente o non meno grave. Si credeva che la Nazione Napoletana del 1815 fosse la stessa del 1790: si supponevi che, come allora, cosi oggi il Regno fosse nella Capitate, mentre al contrario la Capitale è nel Regno. Non si fa bene il Ministro senza ben conoscere gli amministrati. Se, ritornando dopo dieci o venti anni successive mutazioni, avessero essi visitato attentamente le diverse provincie, vi avrebbero rinvenuto delle nuove nazioni, per cosi, tutte giovani bellicose incivilite illuminate intorno ai concussi interessi, le quali, lungi dagli ozi e dallo splendore della metropoli, non erano occupate che della propria miseria e mezzi di farla cessare». (p. 14 e segg.).

A. proposito della miseria e della fame di quei tempi, cfr. Dito, Rivoluzione Calabrese del '48, Cap. I, p. 5.

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contrarie al governo; ma bensì coloro che del governo avevano contrarie opinioni si facevano settari. Chi perciò conoscer volesse i progressi della scontentezza pubblica non avrebbe che a riscontrare i registri progressivi di Carboneria; egli troverebbe che in marzo di quest'anno i Carbonari iscritti erano al numero di 642 mila (1).

D'altra parte la Carboneria si dimostrò in quei primi momenti all'altezza, della situazione, esempio di moderazione e di virtù.

In tutto il Regno - soggiunge Io stesso giornale - non è avvenuto in quei cinque giorni alcun delitto; la vita, le proprietà, i diritti di ogni cittadino sono stati religiosamente rispettati; le autorità son rimaste nell'esercizio delle loro cariche, alcun ramo della pubblica amministrazione non ha sofferto il più momentaneo ritardo; le pubbliche strade sono stato sicure, i fondi pubblici sono stati trasportati da un sito all'altro senza custodia armata. Chi disegnar volesse con una frase la calma perfetta di una nazione, dir dovrebbe: i cinque giorni della rivoluzione di Napoli... (2).

(1)

Tale numero può sembrare esagerato, anzi esageratissimo. Il Palma (ibid. 467), crede la cifra di 200 mila iscritti, ch'è la minima ricordata dagli scrittori, anche esagerata, massimamente per il periodo anteriore al trionfo delta rivoluzione. E può essere se non si vuol comprendere, forse, nella cifra di 642 mila la cosiddetta turba carbonarica, composta di gente del popolo e dipendente dalle Vendite carbonariche.

(2)

Lo stesso Delfico mette in evidenza tale fatto (p. 18) «Non è però da tacersi che il carattere essenziale dì questa rivoluzione è stato una moderazione senza esempio fra le armi: e, nata presso la culla della violenza, saremmo noi tanto infelici per non mirar!»adulta ne' comizi e sulla tribuna?

«Sarà sempre dolce il rammentarlo. Nella inevitabile effervescenza degli animi, nell'improvviso sviluppo di tante forze, di tante passioni, di tanti sospetti, che pure furono in ogni tempo e presso ogni altro popolo i sintomi inseparabili delle rivoluzioni, la gloria d'un tal portento è divisa tra il Popolo ed il Re: non vi furono

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«Causa di questo prodigio è stata la setta de' Carbonari, che ormai pel suo numero e per le sue virtù non più setta chiamar si deve, ma popolo. I Carbonari han diretto nella nazione il desiderio d'un miglioramento politico; hanno impresso il sentimento del rispetto al re, alle leggi, a' diritti di ogni cittadino; hanno facilitata la esecuzione della grande opera col mezzo delle loro organiche istituzioni; e coll'esempio della loro virtù ne han destata nei cuori più freddi. Siamo giusti e riconoscenti: la cassa primaria se non unica della nostra sociale felicità è stata la sètta. E ciò ch'è più ammirabile, non appena in un paese era compiuta la rivoluzione, i Carbonari rientravano alle ordinarie occupazioni; e dopo di aver trattate le più auguste funzioni di patria, ritornavano all'aratro tranquillamente».

Il giorno 9 di luglio, l'esercito, le milizie, i Carbonari, eran passati in rassegna dal Pepe, nominato in quei primi momenti comandante generale di tutte le forze del Regno. Era un ammonimento che si faceva a' reali e a' ministri Potenze alleate, ponendo sotto i loro occhi sì gran d'armati, che in strettissima disciplina per la prima erano raccolti a Napoli. alla testa sfilava lo squadrone del reggimento Borbone da Noia aveva inalberato il vessillo della rivoluzione. le milizie della provincia di Avellino in bella divisa j dopo le milizie i reggimenti di fanteria di linea e dietro a questi tutti gli squadroni di cavalleria, succedevano le Vendite dei Carbonari armati di schioppi caccia e vestiti da borghesi. La Vendita di Noia, perché

perché non vi erano stati carnefici: non vi furono misfatti nè non vi erano vendette da prendere: le opinioni e non le passioni avevano preparata la crisi: errori e non delitti l'avevano terminata: lo scopo erano il meglio e la stabilità, non già il rovesciamento di un giogo detestato; e finalmente di veri colpevoli vi erano se non taluni pochi, che il Popolo con raro esempio moderazione seppe rispettare in grazia dell'ottimo sovrano (sic)».

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prima dichiaratasi, fa prima a sfilare. La precedeva il sacerdote Minichini, in abito da prete, con le armi e le insegue della sètta. La gioia che ispirò l'entrata di quelle colonne, e gli applausi che riscossero dalla numerosa popolazione di Napoli, ingrossata con quelle delle città e ville prossime, possono forse da coloro che conoscono l'ardente natura de' meridionali essere immaginati, ma da nessuno descritti.

Alla reggia il duca di Calabria sul grande balcone stava circondato da tutti i membri della famiglia reale, da' cortigiani e da' generali. Il vicario per far cosa grata al popolo e all'esercito, comandò a tutti gli astanti di attaccarsi al petto i nastri della Carboneria che i famigli dispensarono a ciascuno e che la duchessa di Calabria asseriva foggiati di sua mano in forma di stella. Il Vicario se n'era già ornato. Ciò non tolse, osserva mestamente il Pepe, che io dicessi fra me: «Eppure quivi, ne' balconi di quella reggia, stanno i veri e soli nemici della patria!»,

Ma subito dopo sì felici inizii, subito dopo quella gran fiammata d'entusiasmo tutto meridionale, apparirono i primi segni dello sconforto e della delusione. Come suole avvenire dì tutti i partiti trionfanti, e dopo tutte le rivoluzioni, anche la Carboneria non rimase immune di pecche e ceni di trasformare lo Stato in un vero monopolio della sètta.

E per riuscire in ciò cercò dì meglio organizzare e di centralizzare tutti i poteri in un'Alta e Potentissima Assemblea, con sede a Napoli, composta di 72 Potentissimi Arcipatriarchi, Io stesso numero cioè de' deputati continentali che formavano il parlamento. Modellandosi sulla Costituzione Spagnuola divise tutto il Regno in tante zone l'una dipendente dall'altra concatenandole in modo che tutto veniva ad accentrarsi nell'Alta Assemblea.

Contro questo accentramento insorse la Carboneria di Salerno, che considerava l'Alta Assemblea come troppo ligia e legata al governo.

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Prima d'allora la Carboneria della Regione della Lucania Occidentale, com'era in gergo carbonarico denominata la provincia di Salerno, s'era ispirata a concetti ultra democratici, e tali concetti essa avrebbe voluto far prevalere nell'organizzazione dell'Ordine, All'accentramento di tutte le forze carbonariche nell'Alta Assemblea opponeva il progetto di una federazione «tra le Carbonarie di quelle Provincie, non esclusa la provincia di Napoli, già organizzate in Governo regolare», lasciando a ciascuna la propria indipendenza col potere sovrano legislativo ed esecutivo nel recinto del proprio territorio. La Confederazione dovea essere governata da un Congresso periodico composto da tre Rappresentanti di ciascuna R..., da una Deputazione permanente composta di un terzo di detti Rappresentanti, uno di cadauna Regione, da scegliersi nel seno del Congresso medesimo.

Si determinarono così nella stessa Carboneria due tendenze in lotta tra loro, degli ultrademocratici, come si dissero, e de' costituzionali, tendenze che doveano danneggiare la stessa Carboneria, la quale ebbe a risentire maggior danno ancora dall'aumento degli affiliati.

Dalla Gran Dieta Carbonarica (Alta Vendita Provinciale) di Salerno si esortavano le Vendite dipendenti a facilitare l'iniziazione di nuovi candidati diminuendo di severità negli scrutini. «Ingrandiamo - scriveva - la nostra forza: non siamo esclusivi. Esaminiamo di nuovo i non ammessi ne' tempi di diffidenza; meno rigidezza nelle ricezioni. Rifiutiamo i veri indegni incorreggibili; gl'inquisiti di misfatti infamanti, qual è il furto qualificato; i prostitutori del proprio onore. Non curiamo i difetti emendabili; essi saranno emendati nelle nostre baracche. Non rifiutiamo coloro, ch'ebbero finora sentimento diverso dal nostro; non conoscevano allora la santità de' nostri principii»,

Il numero degli affiliati crebbe a dismisura; nella sola Napoli, secondo il Carascosa, 95 erano le Vendite, di cui una con 28 mila affiliati, e senza dubbio in gran parte rappresentavano mercé avariata.


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L'esercito ne fu sconvolto - dice il Colletta - la disciplina corrotta. Le quali cose son vere - ribatte l'Ulloa, ma aggiunge con maggiore moderazione di giudizio del Colletta e del Carascosa (1) - come il furon da per tutto. Sbucavano i trafficanti di malattie intellettuali. I quali uncicar volean, anzi che corrompere, ma come in paese conquistato. I pia scriventisi a Carbonari eran desiosi di pace e tutela. Ma altri erano spinti da vanità vilmente compre ed usate.... Per conciliarsi il sentimento del popolo i Carbonari napoletani s'ammantavano di apparenze civili ed anche religiose. Si portarono processionalmente in Chiesa; né mancavano tra essi preti e frati, ma non, come dice Colletta (ibid, 11), con croce e pugnale, protervi al guardo e taciturni. Smentito ne sarebbe stato il proposito - ribatte l'Ulloa (374). Simulavano invece raccoglimento e pietà, ed in Chiesa le loro insegne furono benedette. Anzi i Carbonari costituzionali smettevano ogni segreto ed ogni mistero per dare alla Carboneria il carattere d'una istituzione mirante alla conservazione di quell'ordine di cose, che si considerava opera loro, A tale proposito il Ministro degli Affari Ecclesiastici, G. Troyse, indirizzava una circolare (23 dicembre 1820), all'alto clero perché non si negassero i conforti religiosi a' Carbonari. «E tempo - ei dice - di abiurare gli errori in coi siamo caduti circa queste società, il cui scopo non è pia un mistero, perché essendo tanto diffuse, nessuna classe di cittadini può ora ignorare gli scopi delle loro riunioni. Essi lavorano per ottenere quella Costituzione che

(1) Cfr. Pepe, ibid. n, 88, Lo stesso Carascosa, che d'amicissimo del Pepe ne divenne a causa della sua condotta, «special me» te pel volume giustificativo da lui pubblicato, inimicissimo (cfr. PEPE, il, 430), non può negare l'utile che la Carboneria fece in quello gravi circostanze (cfr. in Pepe, ibid., li, 195 e seg,). Anche le imparzialità accennate dal C. sono confutate dal Pepe, che sdegnosamente rigetta, per il bene operato da' Carbonari, la taccia d'ipocrisia, «Mi rincresce notare, occorrere per la prima volta che uno scrittore dica de' suoi concittadini: aver essi operato bene, ma per ipocrisia». Cfr. inoltre Calà Ulloa, ibid., p. 273 e 274, il quale è molto pia moderato del Colletta e del Carascosa nel giudicarsi Carbonari. Cfr. pure Pepe, ii, p. 231.

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solennemente riconosciuta e giurata da Sua Maestà; quella Costituzione che nel suo 12° articolo riconosce solamente la religione de' nostri padri, della Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che sarà sempre la nostra»,

D'altra parte, questo popolarsi della Carboneria di elementi che vi ei affiliavano col proposito, ne' più, di speculare più sui soccorsi che spettavano loro in caso di bisogno dalla Società che sui meravigliosi segreti rivelati ad essi, fu causa di allontanamento e di delusione.

Scrive l'estensore inglese delle Memorie sulle Società Segrete (p. 117): «I vecchi membri cominciano a guardare con disprezzo i nuovi, delusi e disgustati essi stessi d'una realtà ben diversa da quella lungamente attesa ed ideata».

«La Libera Massoneria sembra ora destinata ad essere il ritiro di quei Carbonari che sprezzando i vecchi soci sono contenti di riunirsi ad un ordine più rispettabile. Le logge de' Liberi Muratori in Napoli aumentano giornalmente di numero; le loro pubblicazioni sono lette con più interesse che non quelle de' Carbonari, e non è difficile sentir dire: «Costui è più che un Carbonaro, è un Libero Muratore».

Fa allora che la Massoneria, disorganizzata dopo la caduta del Murat, meglio si organizzò, e nel 1820 furono pubblicati gli Statuti Generali che per molto tempo in seguito governarono quell'Ordine.

Con tutto ciò la Carboneria rimaneva sempre forte, come ritrovo degli uomini più spregiudicati ed amanti di facile ed inframmettente popolarità, e costituiva un vero pericolo, rappresentando uno Stato nello Stato.

Il ministro Ricciardi due volte propose di sopprimerla, ma non fu ascoltato, non si saprebbe ora dire, se per i pregiudizi liberali e democratici, o per la mancanza reale di forze; prevalse invece il pernicioso sistema del Borrelli (1),

(1) Il Borrelli fu designato a tale ufficio dall'Alta Assemblea Carbonarica, a ciò indotta per aver modo di tenere a freno i cugini

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capo della polizia e deputato facondissimo e influentissimo, dì dominarla coi confidenti che vi si fecero introdurre, e che, per guadagnarne la fiducia, più spingevano agli eccessi. D'altra parte, di fronte ad un governo fiacco per sè, la Carboneria rappresentò una vera necessità; essa aiutava a riscuoter le tasse, ad arrestare i disertori, a garantire l'ordine pubblico, a frenare i malvagi. Inoltre, pur monopolizzando lo Stato a suo beneficio, essa fu una garanzia di fronte alle mene de' Murattiani, da una parte, e de' realisti dall'altra.

Certo però tutto questo rivelava uno stato di cose che non poteva durare, e che, fin dagli inizi della rivoluzione, era stato previsto dal Delfico.

«La Costituzione - egli dice (ibid.) - già lungo tempo desiderata dalla parte pensante del Popolo,

Carbonari turbolenti appartenenti alla parte ultrademocratica. - Il loro contegno riusci di grande imbarazzo pel governo, u Ne ho avuta io medesimo - dice il conte Radowski - (cfr. Casi memorabili antichi e moderni del regno di Napoli, ricavati dagli autografi del fu Conte Radowski, Coblenz, 1812, p. 151), una prova solenne, assistendo per caso ad una delle udienze del presidente di pubblica sicurezza, signor Borrelli. Venne un usciere annunziando i figli di Epaminonda: e fieramente dimandavano che fosse loro consegnato il forte di S. Elmo; appresso gli Eraclidi: appresso quelli sangue di Cristo, che non avrebber dovuto aver nulla dì comune con Epaminonda e con Aristide. Tutti coloro mettean fuori le pretensioni più strane: con tutti era uopo discutere, e persuadendo e ripetendo, e talvolta volgendo la faccenda in ischerzo, determinarli a partire. Né era il caso di adoperare in verun modo la forza. Perocché dal momento, nel quale le milizie avevano abbandonati la bandiera del governo, era divenuto impossibile o al sommo pericoloso il porle in azione contra il partito dominante...

«Se la presidenza di pubblica sicurezza avea queste noje; non poteano esserne esentì le autorità militari, i ministeri di stato, le amministrazioni civili, e lo stesso appartamento del principe reggente. Da per tutto incontravansi deputazioni carbonarie: da per tutto dimande, doglianze, sospetti e progetti senza fine. Si volei che taluni fosser preposti a certi impicchi, che altri fossero espulsi, che si desse il tale regolamento, che il tal altro si abrogasse, o fosse modificato».

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fu richiesta ed ottenuta dalla parte, che al pensiero univa la volontà ed il coraggio. Il resto della Nazione è rimasta in diverse attitudini analoghe alle diverse circostanze morali o civili di ciascun individuo. La maggior parte del Volgo (e Volgo vi è ne' trivii e ne' palagi), è ancora attonita spettatrice di un oggetto ignoto, del quale non comprende né la essenza, né gli attributi; quindi sospende ogni giudizio e ai riserba di pronunziarlo sugli effetti sensibili della mutazione, perché il posi hoc, ergo propter hoc, è l'argomento favorito, anzi l'unico argomento del Volgo. Or questa classe bruta, ma numerosa e perciò rispettabile, si può facilmente riunire alla migliore purché questa sappia parlarle il linguaggio efficace del fatto, facendole gustare prestamente ì vantaggi del nuovo sistema» (1).

(1) I sentimenti di cotesto volgo sono attestati da satire e motti, più o meno popolari, che abbondarono negli avvenimenti di quella rivoluzione. Voglio vede - diceva un cartello popolare - tra lo Carbonaro e lo Calderaro chi sarà il primo che nce farci accidere! E, colla stessa allusione alle due sètte, la liberale de' Carbonari, e la sanfedistica de' Calderari, diceva un epigramma:

Guacliuni miei, sbagliate.

Se co chesta cardara e sto cravone

Cocere volite fa sto maccarone;

cioè Napoli simboleggiata nel maccherone. E pel parlamento, allora radunato, c'era questa botta:

Che fa lu Parlamento?

Fa chello ch'ha da fa!

Se chiama Parlaamento:

Parla, ch'ha da parlà!

Cominciando la minaccia dell'intervento austriaco, una filastrocca popolare riassumeva così la storia di Napoli degli ultimi tempi:

Qua una nc'era Ferdinanno,

Magnavano tutti quanti;

Quanno venette Giacchino,

Magnavamo sera e mattina;

Quanno tornai Ferdinanno,

Magnavamo tanto quanto;

Mo che nc'è la costituzione

Nun putimmo fa' manco colazione;

E si veneno li Tudischi,

Allora si, stammo chiù frischi!

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La rivoluzione non n'ebbe il tempo, è vero; ma se lo avesse avuto, l'avrebbe potuto con quella strana costituzione, che fu la spagnuola del 1812? Essa, secondo il Palma, attesta, a un tempo, a Napoli come in Ispagna, la generosità degli intendimenti, la confusione delle vecchie idee monarchiche e religiose, e delle nuove aspirazioni popolari, diffuse dalla rivoluzione francese, l'ingenuità degli animi, la grande scarsezza di coltura politica che impedirà di conoscere del tutto l'insuccesso e la decadenza nella stessa Francia de' concetti della Costituzione del 1791, cui la spagnuola era principalmente informata, e che bisognò abbandonare nella stessa Francia durante il dominio della Rivoluzione.

Non è dato a noi di giudicare di fatti che avrebbero potuto costituire un danno, e un danno rimediabile, per l'avvenire; ma non fu il danno principale. E certo però che oltre le circostanze accennate, altre ne concorsero alla caduta di quella rivoluzione. Essa, come la rivoluzione piemontese, aveva in sé un vizio organico che sfuggi a' rivoluzionari d'allora, i quali preoccupandosi del solo principio

La rotta dì Rieti è ricordato in un epigramma, e n'è l'eroe Pulcinella, cioè, il popolo napoletano:

Pulcinella, mal contento,

Disertò dal reggimento;

Scrisse a marami a Benevento

Della patria il triste.'verno:

- Movimento, parlamento.

Giuramento, pentimento,

Gran tormento e poco argento,

Armamento e mal cimento,

Fra spavento e tradimento

Siam fuggiti come il vento.

Me ne pento, me ne pento,

Mamma cara, mamma bella,

Prega Dio per Pulcinella!

E alla porta del Parlamento Nazionale si trovava affissa la scritta:

SI LOCA

Scusate le chiacchiere!

Osserva il Croce (op. cit.): «Alla nostra plebe, per molti secoli, fu conteso ogni sorta d'ideale: un riflesso della sua triste storia ai trova anche in questi rimasugli di canti popolari».

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dottrinario della libertà, fecero una rivoluzione che si dimostrò nel campo de' fatti insufficiente a sé stessa e del tutto impreparata a risolvere la quistione italica. Non si comprese che la quistione della libertà, per necessità delle xxxxxe, non poteva esser disgiunta dalla quistione italica, così complessa, e che richiedeva anzitutto l'unione degli Italiani in un intento comune.

CAPITOLO VI.

Perché cadde la Rivoluzione napoletana

Quella rivoluzione, consumandosi in se stessa,, dovea inevitabilmente cadere, non per gravi errori commessi, pur non mancando gli errori, non per accentuato contrasto di opinioni disparate, non per insufficienza di preparazione; cadde, perché essa non poteva lottare contro l'ineluttabile, allora.

«Ella cadde - dice il Pepe (n. XXX, 56 e segg.) - ma per abbatterla occorsero due congressi de' più potenti principi d'Europa; lo spergiuro del proprio sovrano, le vili pratiche di parecchi ambasciatori che violarono il diritto delle genti; le squadre francese ed inglese che si tennero minacciose nella rada di Napoli, e finalmente un esercito austriaco con Russi e Prussiani preparati a sostenerlo. Ella cadde; ma tutto questo grande apparecchio di perfidie e di forze per opprimere un povero popolo che, gemendo da secoli nel servaggio, non ebbe tempo di raccorre un solo frutto della tanto generosamente acquistata libertà, rese manifeste a' popoli le prave intenzioni di quei principi che cinque anni prima facevan loro tante lusinghiere promesse. Ella cadde; ma non per quelle interne discordie che bastano a vituperare la causa più santa. Ella cadde; ma vittima intemerata del prepotente orgoglio de' re e pronta a risorgere con la corona del martirio sulla fronte ogni volta che, rotta la rea lega di quelli, i fati consentano all'Italia di scuotere la pietra del suo sepolcro».

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Senza dubbio, non poco vi contribuì moralmente il moto secessionale di Sicilia, che, dal principio, dando di sé brutto spettacolo in tanta unanimità d'accordi, assunse forma di guerra civile e costrinse a tenere nell'Isola numeroso presidio. Il mancato accordo tra Siciliani e Napoletani è la prova più evidente di quella mancanza d'accordo tra i liberali delle altre regioni d'Italia. Preoccupati soltanto della libertà nelle singole regioni, essi, isolandosi ed aspettando, si fecero allora sorprendere dall'invasione austriaca quando non era più possibile opporvi resistenza.

La Carboneria piemontese - dice il Pepe [ibid, n, 389) - nulla fece conoscere a quella napoletana del suo divisamento, e la rivoluzione scoppiò nel Piemonte, all'improvviso ed all'insaputa, quando quella napoletana era già per essere inevitabilmente soffocata dalle armi austriache.

A chi era incaricato della bisogna, i Carbonari piemontesi non parlarono secondo il solito de' settarii, vantando e loro forze e promettendo aiuto; anzi dissero, che sebbene desiderassero ardentemente di aiutare i Napoletani, non erano ancor pronti a far la menoma mossa; ma la fecero quando non era più tempo e dovea riuscire un disastro. In Milano i patrioti erano pieni di buona volontà, ma risposero che non avrebbero potuto far nulla prima che un esercito napoletano non avesse valicato il Po.

Lo stesso Pepe giudica ancora più severamente la condotta de' liberali delle altre regioni, dicendo (n, 303) «che Carbonari di Romagna forse impauriti non aveano ardito inviare i rapporti ragguagliati che aveano promessi sulle mosse e sulle forze degli Austriaci». Ed aggiunge che «né i Carbonari lombardi e piemontesi davan segni di vita; e quei pochi che per amor della causa italiana eran venuti a partecipare con noi i pericoli di quella lotta, dolevansi del silenzio de' loro fratelli».: le accuse del Pepe sono, come sembrano, calunniose ed esagerate;

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ma sono giustificate dallo stesso ordine d'idee e d'aspirazioni degli Italiani d'allora, i quali, fino al 1848. e forse anche nel 1848, si preoccuparono, come abbiamo detto, più della libertà nelle singole regioni, che della causa italiana. Nel 1820 e 1821 essi non ebbero un'idea chiara di ciò che doveasi fare, se un'Italia in due o tre Stati, mentre la massima indecisione era ne' loro piani. I Piemontesi aspettavano l'impulso da' Napoletani; questi, dando alla rivoluzione un carattere prettamente napoletano, aspettavano l'aiuto di quelli; i Lombardi speravano nei Piemontesi e nei Napoletani; i Romagnoli volevano e non volevano. Tutti eran disposti a fare, ma nessuno ardiva di fare. E così, in tanto tentennamento il Napoletano fu abbandonato a se stesso e tutti si disinteressarono della libertà napoletana, o se ne interessarono quando, avvenuta l'invasione austriaca, ogni loro tentativo venne paralizzato e sventato dalle rapide vittorie dell'I. e R. esercito.

D'altra parte, le stesse accuse mosse dal Pepe ai liberali delle altre parti d'Italia, erano da questi ritorte contro i rivoluzionari napoletani, su' quali non si aveva nessuna fiducia. I ricordi lasciati dall'occupazione napoletana nell'Italia centrale, durante il 1814 e 1815, aveano determinato, come vedremo in seguito, una corrente di vera antipatia contro il nome napoletano.

Se ne' loro piani, anche la nazione napoletana era ammessa a partecipare alla rivoluzione, d'altra parte i liberali marchigiani e romagnoli nessun contatto volevano avere co' napoletani.

E in fondo, salvando la forma, tale era pure l'opinione del generale Zucchi, prode e valoroso soldato, e nell'arte della guerra versatissimo. Egli, secondo il Pepe, consigliò che né l'esercito napoletano o parte di esso si fosse avvicinato al Po; si sarebbe andato incontro a certa rovina, e che per combattere gli Austriaci con probabilità di riuscita faceva mestieri aspettarli nelle vantaggiose posizioni militari del Regno (n, 145).

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Era questa pure l'opinione del Pepe, d'attendere, cioè, nemico nel regno e di non venire a combattimento se non nelle Calabrie, concentrando l'esercito in quello scacchiere strategico che s'estende tra il Crati e il Tirreno, da Spezzano a Belvedere, da Cosenza a Tiriolo,

Ma le cose andarono del tutto alla rovescio, e non poca parte v'ebbero la condotta del re, la congiura de' generali, nonché la cieca fiducia che il Pepe nutriva nell'entusiasmo dell'esercito e delle popolazioni.

Già la convocazione d'un congresso a Troppau aveva fatto prevedere quali sarebbero state le intenzioni della Santa Alleanza verso la rivoluzione napoletana. Le apprensioni di guerra erano accresciute dall'equivoco contegno del re. La nomina della reggenza avea dal primo momento destato i sospetti di tutti. Si dicea l'infermità del re simulata; Capodimonte fucina ad ostili carteggi. Si aggiungeva che il re se la intendesse con l'incaricato di Danimarca, de Wogt, per negoziare colla Santa Alleanza. Se non vero bastava a' sospetti il verosimile; ciò che dovea accrescere diffidenza ed agitazione ne' Carbonari ultrademocratici. Un piano ardimentoso quanto temerario, essi si proposero eseguire; eccitare, cioè, la sedizione nelle tre provincie i Napoli, Salerno, Avellino, e trascinare la famiglia reale col governo in Melfi. Tirar però non si poteano i Reali da Napoli, se non cangiando i ministri. Fatta una federazione di provincie, ed un campo presso Avellino, se ne sarebbe il mutamento. Deputati emissarii furono inviati nelle provincie, fra i quali il Paladini, il Vecchiarelli ed il Maenza che, inviati a Salerno il 2 settembre, indi il 5 ad Avellino, e di nuovo a Napoli nella notte dal 5 al 6 furono arrestati sui loro carri in piazza della Carità.

«Un altro colpo di mano fu da essi maturato, opera però del prefetto di polizia, Luigi Siniscalchi, prima agente di rivoluzione, poscia accanito reazionario. Per perderli nella opinione indotto avea un Giovan Battista Grimaldi,

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capo d'una delle Vendite carbonariche, a far decidere da' buoni cugini, di recarsi dal re, pregarlo a tornare in città: negandosi, rimanere colà ad invigilare. Il 16 ottobre i cugini si posero armati per via. Di già il prefetto ne avea avvertito le potestà militari, e mentre quelli lentamente s'appressavano alla reggia, fu dato l'allarme. Corsero a briglia sciolta i dragoni, colle sciabole sguainate; li circondarono, li fecero prigioni. Il solo Grimaldi, conscio dell'insidia, si pose in salvo. Nella sera per la città si sussurrò di tentato regicidio. In Corte fu lodato il vigile prefetto. Il re, giorni dopo, alle istanze della famiglia, rientrò nella reggia di Napoli (1).

Ciò non tolse però che la prevalenza de' Carbonari fosse grandissima sull'opinione pubblica. Oramai sulle cose di Napoli pesava come un incubo l'Alta e Potentissima Assemblea.

A proposito della partenza del Re pel Congresso di Lubiana e del famoso messaggio del 7 dicembre 1820, essa pigliava un atteggiamento di lotta aperta e decisa. Nel Parlamento gravi dubbi nasceano; poteva opporsi alla potenza del re; ma se, ciò malgrado, partiva, la partenza divenìa fuga, il regno inescusabile. Né era possibile impedirla, compera proposito de' Carbonari. Molte navi straniere erano in porto, a poca distanza dalla reggia, custodita dalla Guardia, mentre il resto della legione non era discosto. Ma a far pressione sul Parlamento e intimorire il re, nel giorno 8 dicembre convennero a Napoli torme di settarii, chiamativi nella notte dall'Alta Assemblea. Tutte le vie attorno al Parlamento furono ingombre; a' deputati sopraggiungenti si mostravano i pugnali; il messaggio del re, a' canti delle vie, lacerato. Guglielmo Pepe lasciavasi vedere in piazza a pie' co' nastri settarii, da più mesi dismessi

(1) Calà Ulloa, ibid. p. 390. Il Radowski, op. cit., p. 155, ricorda che «ripristinato il governo assoluto, i principali di quei ribaldi furori giudicati e condannati». Ed in nota aggiunge che a «una decisione del 20 agosto 1825 condannò il capo di quella rea banda a 2 anni di ferri».

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Tutti gridavano Costituzione di Spagna o morte. Il Parlamento rifiutava ogn'altra costituzione, consentiva alla partenza del re, giurato che avesse quella costituzione e di sostenerla nel Congresso.

La partenza del re segnava l'inizio di quella lotta fatta alla sordina tra l'Assemblea carbonarica e il partito militaristico contrario alla rivoluzione ed alla guerra, L'Assemblea nell'imminenza della guerra avea chiesto ed ottenuto che a capo de' militi e de' legionarii fosse posto Guglielmo Pepe. Ed ei - dice l'Ulloa - sen mostrava invanito. Spesso li concionava; parlava di antichi, di Francesi, di milizie spagnuole. Gli Abruzzi chiamava Napoletane Termopili. Le quali parole nelle fondite, dagli avidi, da' turbolenti, da' pochi che tuttavia s'illudevano, erano ritenute qual evangelio. I generali n'eran ristucchi, ed ei li stimava gelosi) ed appunto dall'esercito, svanita la speranza della pace, impedir si voleva la guerra. Una occupazione di Tedeschi, e fosse pur temporanea, non voleasi. Si pensò a sciogliere il Parlamento, a disperdere l'Assemblea carbonarica, ridonando al re il primo potere. Evitando così guerra ed invasione, il re sarebbe clemente, l'antico governo tempererebbe. A chi diffidava, rispondeasi la saviezza umana spesso non avere scelta che fra due mali.

E così, mentre l'Alta Assemblea sognava la guerra di popolo, l'esercito invece era triste e sgomentato. Il Parlamento non contrastava all'Assemblea: ma i generali delle fantasie dell'Assemblea e Parlamento si sdegnavano, e fra non pochi si faceva sempre più strada il pensiero di non far resistenza a' Tedeschi; anzi, per meglio riuscire sollecitarono che al vecchio ministro di guerra, Parisi, della fermezza si temea, fosse aggiunto il Colletta. E questi sostituì del tutto, quando il Parisi sospettando di trame

Secondo l'Ulloa, il nuovo ministro davasi a tntt'uomo l'opera concordata tra' generali. Scompose i reggimenti ch'erano stati a Monforte e formati in prevalenza di Carbonari;

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mentre, d'altra parte, facea mancare di viveri le truppe che in Abruzzo comandava Guglielmo Pepe. E a tali strettezze furon ridotte, che con un decreto senza esempio (21 febbraio 1821) negli annali della guerra dovè il Parlamento permettere al Pepe di far sussistere le truppe a spese de' cittadini. D'altra parte il Pepe mandava notizie di grande entusiasmo nelle popolazioni, ciò che dovea nell'Assemblea Carbonarica suscitare grandi speranze. N'era a capo Domenico Casigli, vecchio e stimato militare, che avea finezza molta ed egual sapere. Scorgeva i pericoli della guerra e la ruina del regno, nè ignorava forse il disegno dei generali. Lasciava che l'Assemblea discutesse di mezzi di guerra, suggerisse consigli al Parlamento, al popolo colle stampe. Ma, con arte, i propositi pericolosi sviava, L'Assemblea sospettava de' generali, ed erano continue accuse e minacce. Era, come ne' tempi sconvolti, vezzo d'assalire i più onorati d'antica fama. Ma contro a' generali era men malvagità che timore. Le sentenze più eran rabbiose, e più si applaudivano. Casigli fé' decidere d'invitare i generali a convito, sperando così di conciliare i capi dell'esercito e della Carboneria, Invece il convito parve di funerale. Invano Rossetti cercò animarlo con canto estemporaneo. Se ne accrebbe negli uni lo sprezzo, negli altri il sospetto (1).

Intanto mentre l'Alta Assemblea facea opera di moderazione,

(1) A quel banchetto presero parte il Carascosa e il Colletti, che ili quell'occorrenza addimostrarono eccessi vii benevolenza verso una sètta ch'essi poscia amo data mente accusarono nelle loro storie. A proposito dell'improvvisazione de] Rossetti, il Pepe (ibid. II, 388) ricorda: «Il Rossetti ebbe un nel lampo d'ingegno quando disse: -' E chi de' nostri duci sarà Milziade? - Fece posa a quel dire: i convitati rimasero sospesi; ed il poeta con una inaspettata iperbole riprese: - Tutti saran Milziadi - Ed invero - aggiunge il Pepe - «fossimo stati tutti volenti ed uniti, saremmo addiventati segno dell'ammirazione e non del ludibrio dell'Europa, e pei Napoletani tutta Italia avrebbe conseguita la sua indipendenza e sarebbesi vendicata in libertà».


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i Carbonari ultrademocratici faceano ogni sforzo per dare alla rivoluzione un carattere giacobino, sull'esempio della rivoluzione francese. Dopo i vani tentativi di Avellino e di Capodimonte, altro essi compivano per impadronirsi de' pubblici poteri. A proposito del veto opposto dal Vicario a certe modificazioni della Costituzione spagnuola relative alla religione; veto suggerito dalla violenta dimostrazione de! cardinale Ruffo, arcivescovo di Napoli, e di altri ventidue arcivescovi e vescovi del Regno; nel 15 gennaio qualche centinaio di carbonari e legionari, tra' più violenti, irruppero nel Parlamento.

Dalle tribune, indirizzandosi impudentemente a' deputati, chiesero il castigo del Cardinale Arcivescovo, l'approvazione delle modificazioni, come sfida al veto, lo scioglimento del Comitato di salute pubblica e la riduzione della Guardia Reale. Ma i rimproveri de' deputati popolari che li accusarono di vender se stessi all'autorità straniera, disonorando la nazione, bastarono a far tacere e disperdere la folla tumultuante.

La situazione si facea più grave di momento in momento all'avvicinarsi nel regno delle truppe austriache. L'Alta Assemblea dopo il convito più sospettava de' generali; confidava nella sollevazione del Piemonte, come questo aspettava la resistenza di Napoli. Essa fé noto al Pepe i suoi sospetti, lo smarrimento degli animi, L'agitazione della plebe, l'esaurimento dell'erario. Esser necessario, dicea, trionfo militare che rinfrancasse gli animi, commovesse l'Italia, intimidisse i generali... Pepe, secondo l'UIloa, mestieri non avea di spinta, cruccio maggiore il pungeva, che i generali pensassero ad accordi. In questi era la morte di sua potenza e della gloria sperata, come aggiunge con ingiusta malignazione lo stesso autore. Mentre voci correvano di sperati accordi e fax si voleva l'Austria inchinevole a ciò, a Pepe invece parea la pace ruina, la guerra trionfo e dominio. L'inazione de' Tedeschi che agli uni sperare accordi, a lui faeea sperare vittoria.

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E questa fa sua ramosa illusione che lo acciecò nascondendogli il vero stato delle cose. Quanti erangli attorno uomini di guerra il dissuadevano. Sebbene il Parlamento avesse vietato d'essere assalitori. Pepe scrisse all'Alta Assemblea che nel 7 marzo avrebbe assalito. E l'Assembla appunto nel 7 marzo ne fé dar l'annunzio da un diario.

Ma come combattere? Troppo il Pepe ebbe fiducia nell'entusiasmo dì quell'esercito ch'era un'accozzaglia di uomini non adusati alle esigenze della disciplina militare, in parte regii, in parte settarii, e borghesi più o meno vestiti da militari. Qual meraviglia d'una sconfitta o d'una ritirata?

Dopo la disfatta di Rieti il Pepe corse a Napoli e propose all'Assemblea di formare un campo in Ariano. Ma Vicario e Ministri vi si opposero. Allora l'Assemblea volle udire il Russo, che valorosamente avea salvata la ritirata conducendo l'esercito dietro il Volturno. Questi consigliò guarnire i monti con quanti fossero volenterosi, e dopo ciò si scendesse a patti. Ma gli animi erano prostrati, e l'opera parve impraticabile (1).

D'altra parte, mentre il Parlamento si cullava nella vana lusinga della santa causa e nella fede del re, mentre il

(1) Il Radowski, op. cit. p. 212, racconta ud curioso aneddoti) Bullo stato di confusionismo e d'incoscienza in cui trovavasi il governo. «In si fatte posizioni - egli dice - il ministro della guerra tenente generale Colletta dimanda al parlamento un' adunanza segreta: e prende ad informarlo dello stato infelice in cui eran le cose. Egli giunge a questa frase: tuttavia ho più speranze, che timori. Ma viene interrotto da un usciere che annunzia un liberale venuto dal campo. Si permette che entri: e l'entrato dive mestamente: Tutto è perduto; l'armata è disciolta. Si levano in fretta i deputati: e dopo molti ragionamenti il presidente dichiara che si riuniranno nella sera di quel medesimo giorno.

«Borelli giunge in sua casa: e vi trova il segretario generale di pubblica sicurezza, il quale gli presenta una lettera. Quegli che l'ha scritta è il ministro della guerra. Egli consiglia e sollecita le precauzioni opportune, onde i soldati fuggitivi non saccheggino la capitale».

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Ministero era in uno stato di confusionismo, ed equivoca era la condotta del Colletta e del Carrascosa, comandante quest'ultimo d'uno dei corpi d'esercito mandati alla frontiera, le condizioni delle provincie eran gravi e minacciose. In alcune d'esse molto influì sulle masse superstiziose la carestia che in quell'anno travagliò il regno, e l'apparizione d'una cometa, annunziatrice, secondo i borboniani, di gravi e imminenti malanni, in pena, si buccinava, dello novità politiche e del trionfo de' Carbonari, nemici della religione e della dinastia. E ad aizzare dippiù i nemici della rivoluzione s'aggiungeva l'opera concorde dell'alto clero e di parecchi intendenti e di non pochi impiegati, specialmente nelle Calabrie, intenti a preparare la controrivoluzione, sotto l'usbergo della Santa Alleanza.

CAPITOLO VII.

La reazione e gli ultimi tentativi carbonari

nel Napoletano

Già dal 23 febbraio 1821 re Ferdinando aveva, da Lubiana, annunziato a' suoi popoli, col più ributtante cinismo, l'invasione del regno da parte de' soldati austriaci.

«Ordiniamo - era detto nel proclama - alla nostro propria armata di terra e di mare di considerare ed accogliere quella de' nostri augusti alleati come una forza che agisce soltanto pel vero interesse dei nostro regno, e che lungi dall'essere inviata per sottoporlo al flagello di una inutile guerra, è al contrario divetta a riunire i suoi sforzi per assicurare la tranquillità, e per proteggere gli amici veri del bene e della patria, quali sono i fedeli sudditi del re».

Un mese dopo, il generale Frimont, con quaranta e pii mila austriaci, era padrone del regno; mentre re Ferdinando così veloce nelle sue celeri fughe, faceva a lunghe e riposate tappe il ritorno trionfale. In Firenze, ad attestare la sua superstizione, come la mancanza di senso morale, faceva iscrivere nella ricca lampada da lui donata alla Madonna dell'Annnnziata, che ciò era per il ricupero del governo assoluto, ottenuto, diceva, coll'aiuto della Gran Madre di Dio.

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Facendosi precedere da un secondo proclama, rientrava a. Napoli il 15 maggio. Quel proclama è il più grave esempio di mendacio politico e di vigliacca impudenza. «Le calamità ed i delitti - vi si diceva - che hanno avuto luogo sono stati molti ed enormi. Essi non hanno prodotto in Noi che una profonda afflizione per la rovina totale che han cagionata a tutti i rami della prosperità generale, e per quei mali e disagi che han fatto sperimentare all'immensa maggiorità de' nostri fedeli sudditi interamente innocenti delle tristi catastrofi.

«Nessun personale risentimento ha avuto né avrà mai luogo ne' nostri dispiaceri. Il solo pensiero di cui ci occupiamo, è quello di far dimenticare coi giorni di calma e di prosperità i disastrasi traviamenti coi quali alcuni dei colpevoli hanno deturpato questo tratto della nostra storia».

Già, trovandosi ancora il re a Firenze, s'era intrigato per il richiamo del Canosa, il quale, anche questa volta dette la sua impronta personale alla reazione.

Con decreto del 9 aprile 1821 fu creata una Corte Marziale, con facoltà di Consiglio di guerra subitaneo, incaricata dell'esecuzione del real decreto de' 28 di marzo dello anno, contro qualunque unione segreta, e specialmente la Società de" così detti Carbonari.

«Essendo scopo della società carbonaria - diceva l'art. 5 - lo sconvolgimento e la distruzione de' Governi, punito di morte, qual reo d'alto tradimento, chiunque la pubblicazione del presente real decreto vi si ascriverà chiunque degli ascritti per lo innanzi segretamente riunisse sia nelle combriccole conosciute sotto nome di carbonarie, sia con qualunque altro nome di società».

Con decreto degli 11 aprile il Canosa rimosse il De Blasio da direttore di Polizia e ricostituirà il Ministero di Polizia. annullato quanto si era disposto dopo il 5 luglio del precedente anno.

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Fu abolita la cancelleria stabilita nel 1816, disarmati i cittadini, e proibiti sotto pena di morte il porto o la ritenzione di qualunque arma; adottato il principio di punire, scacciare dallo Stato, o almeno privare de' pubblici impieghi tutti coloro che dal 1793 avevano mostrato qualche propensione alle novità politiche; istituite giunte di scrutinio incaricate di esaminare la condotta degli ecclesiastici secolari e regolari, de' pensionisti e funzionar! pubblici di qualunque natura, nonché de' militari tanto dell'armata di terra che di quella di mare.

Fu richiamata in vigore la frustatura, e nella capitale si vide lo spettacolo di tre Carbonari ornati con ischerno dei fregi della loro setta, condotti legati e quasi nudi sopra asini per le strade principali, frustati dal carnefice a suon di tromba, e quindi mandati per varii anni in galera. Senza dubbio si sarebbero rinnovate le scene del 1815 se a tale sistema non si fosse opposto con grande energia la moderazione del tedesco Frimont. Il vecchio re subito al suo ritorno fu costretto ad abolire il Ministero di Polizia e creare un Consiglio consultivo di polizia chiamandovi a far parte l'intendente Nicola Intonti, il magistrato Francesco Canofari, ed un Flaminio Barattelli, dell'Alta Italia, vecchio arnese di polizia, che il Frimont dicea necessario alla sicurezza de' Tedeschi. Ma uscitone di li a poco e' tenne officio separato pei Tedeschi, e così accentuò sempre più l'ostilità fra la polizia tedesca e quella napoletana, e gli urti furon vivi.

S'andrebbe per le lunghe a ricordare i numerosi processi e le persecuzioni, cui allora, come in ogni tempo, dette luogo la reazione; ma l'atto che più suonò offesa all'onore de' meridionali e che ebbe di mira di snaturare il vero carattere della rivoluzione di loglio, riducendola alle proporzioni d'un ammutinamento militaresco, fu lo scioglimento dell'esercito.

Con decreto del 1° luglio, venivano disciolti quattordici reggimenti, e quattro battaglioni di fanteria, con cinque reggimenti di cavalleria.

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V'era detto: «Gli ultimi rovesci politici hanno scosso dalle fondamenta il nostro ordine sociale. L'armata è principalmente colpevole di tanti mali, la quale furiosa essa stessa, o lasciandosi strascinare da furiosi fuori la via di tutti i suoi doveri, abbandonandoci nel momento del pericolo ci ha posto nell'impossibilità di combatterli co' soli mezzi che avrebbero potuto prevenire tante funeste conseguenze. Abbandonata ad una sètta che distrugge tutti i vincoli di ubbidienza e di disciplina, si è veduta dopo di essere stata ribelle a' suoi doveri verso di noi, essere egualmente incapace di ubbidire a quelli, che la rivolta avevano voluto imporle. Essa ha operato la sua distruzione, ed i suoi capi che l'avevano traviata o che non avevano saputo preservarla dall'errore, sono stati obbligati di annunziare la sua dissoluzione...».

Eppure non mancarono, in quei tristi frangenti, generosi tentativi di resistenza. Morelli e Silvati, subito dopo l'invasione, corsero con un manipolo di partigiani armati per la Puglia nelle vicinanze di Mirabella, colla speranza di ripetere il fatto dell'anno precedente. Visto inutile ogni tentativo s'imbarcarono per l'Albania, si spinsero a' confini della Bosnia; ma alla frontiera austriaca furono arrestati come sospetti e condotti in Italia. Dopo varie vicende, scoverti e consegnati al governo napoletano, furono condannati al patibolo. La morte di Morelli fece ricordare quelle degli eroi del 1799; ei volle parlare alla moltitudine; ma il rumore de' tamburi dell'invasore coprì la sua voce.

Un tentativo che poteva avere altre conseguenze in Calabria a in Sicilia fu compiuto a Messina. Nella sera del 25 marzo circa venti Carbonari stabilirono di sostenere la costituzione. S'accordarono col maresciallo di campo Rossaroll, e furono inviati emissari per l'isola. Ad agevolare l'impresa nella mattina seguente giunse in Messina la notizia della rivoluzione piemontese. Il Rossaroll stabili di chiamare sotto i suoi ordini tutte le truppe stanziate in Sicilia,

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concertarsi co' comandanti militari delle Calabrie, ed ordinare una resistenza popolare in quelle provincie che supponeva devotissime alla costituzione. Riuscì il moto di Messina; il luogotenente generale principe della Scaletta fuggì a nascondersi in campagna.

Incominciata così la rivoluzione il Rossaroll inviò emissari, corrieri e proclamazioni per propagarla in tutta la Sicilia e chiamare a Messina tutta la truppa. Fa stabilito di arrestare il generale Nunziante comandante supremo, Palermo; ma varii di quei messi furono arrestati ed il tutto scoperto. A' Calabresi il Rossaroll diresse una proclamazione colla quale annunziava: «Noi colle armi difenderemo la patria, e l'Europa attonita all'altissimo tradimento dei perfidi che hanno introdotto gli Austriaci in Napoli, dirà che il napolitano onore ai sostiene in Calabria; e nelle provincia tutte dove ancora in armi sono i popoli. I Piemontesi per la santa costituzione già alle prese colla rapace aquila austriaca non isdegneranno avere per compagni i Calabresi».

Ma al proclama del Rossaroll fatto in nome de' Messinesi, a nome de' Calabresi della prima Calabria Ulteriore, fu risposto da Reggio (1° aprile 1821): «Da' torchi della vostra città venne fra noi un proclama: noi vi dichiariamo che fummo presti ad abbracciare la costituzione che dal governo imperante nella capitale ci fu data. Ora che l'ordine delle cose è cambiato, e che S. M. il nostro Sovrano ha manifestato le sue intenzioni, noi Calabresi, che per istinto non vogliamo essere né insorgenti, né anarchici, ci rechiamo a gloria di obbedire, e rispettare quel governo che siedo nella capitale del Regno. Tranquilli sosteniamo la calma e l'ordine pubblico coll'osservanza delle leggi, ohe da' legittimi ministeri del governo per mezzo dell'autorità costituite ci vengono comunicate. Per l'amicizia poi e buona corrispondenza che passa tra noi e voialtri Messinesi, sentiamo il dovere di disingannarvi di tutto ciò che vi ai è dato ad intendere che in Calabria esista un'annata in vostro appoggio. Troppo istruiti da' nostri doveri, noi non saremo

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mai uniti a chiunque volesse allontanarsi dall'ubbidienza Sovrano ed alle leggi» (1).

Il Rossaroll stabili allora di sottomettere colla forza la vicina città di Reggio, e congiungersi cosi a' Carbonari delle altre due Calabrie. Nel giorno due di aprile dispose l'assalto per la notte seguente; ma abbandonato da' suoi ufficiali subalterni, egli fu costretto ad abbandonare l'impresa e nel 3 aprile prese la via dell'esilio.

Mancato quel tentativo fu da' Carbonari catanzaresi e cosentini decisa l'insurrezione pel giorno 2 luglio, anniversario della rivoluzione. Nè i preliminari sfuggirono alla Polizia, e nel 1° maggio 1821 il principe di Canosa, con segnalazione telegrafica, ordinò l'arresto di Raffaele Poerio, capo di quel movimento, e del auo principale cooperatore, Cesare Marincola di Catanzaro.

Prevenuti, ebbero modo di nascondersi; ma pur essendo la trama sventata e la polizia in moto, come protesta all'atto incosciente e servile compiuto da untuosi officiali del governo, a nome de' reggini, insorsero ne' primi tredici giorni di luglio Misaraca, Gimigliano, Stalletti, Rossano. Né fu atto inconsulto, ma minaccioso ammonimento contro il governo, che in Cosenza mandava come Intendente il famigerato Francesco Nicola De Mattheis, uno de' più consumati seguaci del Canosa.

Egli s'annunziava a' Calabresi con un proclama che lasciava intravvedere quale in seguito sarebbe stato. «Le ultime vertigini - v'era detto - che non possano ricordarsi senza dolore, non hanno punto smentita la vostra devozione. L'empia temerità di qualche insensato, ch'è surto anche tra voi, ed a cui non é rimasta che l'onta della pubblica calamità, non decide dello spirito pubblico, e non altera quindi l'idea vantaggiosa, che sempre si è avuta del vostro carattere. Un argomento non equivoco di questa verità è il contegno da voi serbato ne' fatui tentativi di

(1) Giornale delle due Sicilie de' 7 aprile 1821.

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luglio del corrente anno. Accoppiando voi la saggezza alla fedeltà non vi lasciaste sorprendere dalle manovre d'un fellone della provincia limitrofa, che io non saprei definire se più malvagio, che stolto».

Ma egli s'ingannava sullo spirito pubblico della Calabria, e seguendo gli stessi sistemi del suo padrone Canosa volle ingaggiare una lotta colla pubblica opinione, che fu la sua ruina e il suo vituperio.

Gliene dette pretesto la congiura, meglio preparata, di generale rivolta nelle provincie di Napoli, Salerno, Basilicata e Calabria, d'accordo colla Sicilia.

Fin dal 1820 era sorta nel seno stesso della Carboneria, oramai palese a tutti e priva d'ogni forza di coesione, una nuova sètta denominata Lega Europea (1), mirante alla libertà e indipendenza italica. Divisa e suddivisa in leghe provinciali e comunali, e forse già in relazione co' Federati dell'Italia settentrionale, stabilì la sommossa generale a' principii del 1822. Un tentativo d'aperta rivolta avvenne nel 3 febbraio di quell'anno, a Lanrenzana e a Calvello, per opera dell'ex-maggiore de' militi, D. Giuseppe Veniti; ma fa subito soffocato. Fu creato all'uopo un Commissariato del Re ed una Corte Marziale per le provincie di Puglia e Basilicata, e tutto' fini in nuove condanne e nuove persecuzioni.

Già in Sicilia i Carbonari di Palermo, Catania, Messina aveano deciso pel 12 gennaio 1822, giorno natalizio del re, d'insorgere e fare un nuovo Vespro.

(1) Cfr. Appendice: La Lega Europea. A questi tempi pure sì riferiscono i Greci solitarii o Disperii, così denominati quei tra i Carbonari più spinti, interdetti e rigettati da ogni altra comunità. Erano detti anche Pellegrini greci o Greci del silenzio o i Cinque in famiglia, dal numero necessario alla ricezione d'un profano. Dalla polizia austriaca tale società si sospettava propagata in Italia da un mercante greco, e a quanto poteva presumersi il suo intento era l'indipendenza greca. Era in relazione co' Carbonari e tracce di essa si trovano anche ne' processi politici del Lombardo Veneto. Si tratta certamente dell'Eteria.

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Ma sventata la trama, molti riuscirono a fuggire, moltissimi furono arrestati e processati in pochi giorni dalla Corte Marziale straordinaria di Palermo. D'essi furono condannati a morte quattordici il 29 gennaio, e nel 31 a nove fu mozzo il capo.

Contemporaneamente dovea la rivoluzione scoppiare anche in Calabria; ma fin da' principii di gennaio la congiura era stata sventata per opera dell'Intendente De Mattheis, ed egli stesso nominato per la bisogna Commissario nelle due provincie di Cosenza e Catanzaro. Fu imbastito un processo contro una sètta variamente denominata de' Cavalieri di Tebe, e de' Cavalieri Europei riformati (1), ricorrendo a' metodi polizieschi più bassi e più feroci. Dopo lunghe inquisizioni ed atroci tormenti, alla fine la Corte Marziale di Catanzaro, sopra semplici sospetti e basse denunzie, completò l'opera criminosa del De Mattheis.

«Spuntato il primo giorno della Santa Settimana, in cui per la pietà del suo Fattore divino si scolorano i raggi del Sole, cioè il Lunedì Santo (24 marzo 1823), fu pronunziata la fatal sentenza, colla quale si eran condannati tre a morto, Francesco Monaco, Giacinto de Jesse, e Luigi de Pascale; dieci al terzo grado de' ferri... La sentenza di morte fu eseguita alle undici antimeridiane nella universale immobilità. Tanto fu compresa dallo spavento quella popolazione. Al giorno seguente e Pastore (generale comandante delle armi di Calabria) e De Mattheis riferirono il ritorno della tranquillità sulla superficie delle Calabrie per virtù di quel tremendo esempio. 0 Santa, o Sovrana Giustizia sacrificata! 0 giorni Santi profanati!» (1).

(1)

Cfr. nell'appendice sulla Carboneria le notizie riguardanti il Processo de' Cavalieri Tebani o de' Cavalieri riformati Europei.

(2)

Conclusioni - pronunziate innanti alla Corte Suprema - di Giustizia - riunita in entrambe le Camere - ne' giorni 30 giugno e 1° luglio 1830 - dall'Avvocato Generale, eco. - Giuseppe Celentano- nella causa - di D. Francesco Nicola De Mattheis, ecc. Napoli,1830, p. 131, § 97.

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E veramente quella condanna sollevò tale grido d'indignazione generale che lo stesso Frimont ne scrisse all'imperatore, e da Vienna fu fatto di tutto partecipe il re che allora trovavasi al congresso di Verona. Ordinata la revisione del processo, fu a sua volta processato lo stesso De Mattheis e suoi complici.

Senza dubbio, il De Mattheis fu un vile tirannello e il suo nome non merita alcuna riabilitazione; ma, d'altra parte, per la verità storica, non può mettersi in dubbio l'esistenza d'una vasta congiura ili Calabria, in relazione colle altre provincie. Il De Mattheis colpì nel segno e sventò il complotto, ma non riuscì nell'indagine. Si comportò ferocemente, e se ne fece un merito, bramoso com'era d'essere chiamato a succedere al Canosa, E ciò fu la sua mina.

Il Canosa era stato licenziato nel giugno 1822, ed il suo licenziamento fu l'opera del più bel retroscena dovuto al Medici. Questi era il favorito di Vienna, e lo si voleva a tutti i costi richiamato al governo. L'erario era vuoto e i dispendi per i tedeschi tutto assorbivano, né il governo austriaco avea pensiero di scemarne il numero. Un primo prestito di 30 milioni era di già sparito ne' primi tempi dell'occupazione; altro contraevasene di 16 milioni in Londra. Rothschild, sollecitato per altro prestito ancora, risponde a, ad insinuazione di Metternich, non aver fede che in Medici. O Medici o Canosa: ecco il dilemma. Il Conte dì Figuelmont, ambasciatore austriaco, sollecitava i Reali, da una parte; mentre la bellissima moglie non nascondeva alla Floridia i disgusti di Vienna. I Tedeschi non poter rimanere sempre; dopo una rivoluzione esser necessaria l'indulgenza. Il re, per ingenita nobiltà delle grandi anime - diceva essa - doverla usare verso il popolo. In Vienna, come in Napoli, stimarsi Canosa simbolo di rigore, antesignano degl'implacabili. E la Floridia quei sensi instillava in re Ferdinando. Contro Canosa unirsi, dicea, sdegno di Frimont, malcontento pubblico, penuria di denaro.

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Medici restaurerebbe le finanze, riterrebbe i Tedeschi, ma colla quiete ne scemerebbe il numero.

E così il vecchio frammassone ed il giacobino d'una volta ritornava al potere per non lasciarlo più; anzi s'avvalse, senza dubbio, del processo contro il De Mattheis per tenersi bene in gambe. Fu un'arme terribile che gli servi magnificamente contro il Canosa e i seguaci di costui, tra i quali il De Mattheis, come più spregiudicato gli dava ombra maggiore. E fu pure un atto di grande abilità poliziesca, perché quel processo, strascicandosi a lungo e finito dopo la morte del Medici in una vera bolla di sapone, richiamò sovra di sé la pubblica attenzione e tenne a bada i Carbonari, riuscendosi così, senza dare negli occhi, a distruggere la Carboneria.

E a meglio riuscirvi furono prese varie determinazioni a fine di ristabilire la pubblica morale, alla corruzione della quale si attribuivano i progressi della Carboneria e per conseguenza della rivoluzione. Fu ripristinata la Compagnia di Gesù come il mezzo più efficace ad ottenere il miglioramento della pubblica educazione. Furono disciplinati con norme severe gli studi, e fra l'altro fu ordinato che tutti gli studenti della capitale, i quali ne' giorni festivi non frequentassero le congregazioni di spirito, non potessero ottenere vermi grado dottorale nell'Università degli studi. D'altra parte, la polizia diveniva il puntello del nuovo regno borbonico; untuosa, feroce, venale, che, impregnando se tutta la vita meridionale, ne doveva preparare lenemente la dissoluzione politica e morale.

Così finiva la Carboneria nel Napoletano, e ad essa si può riferire ciò che il Delfico dice (ibid) del Murat «che c insegnò a combattere e non a vincere, che ci svelò le u°stre forze senza saperle dirigere».


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PARTE II - LIBRO II

LA COSPIRAZIONE ITALICA CONTRO L'AUSTRIA

NEL 1831

CAPITOLO I.

La restaurazione nella Stato Pontificio e la sua influenza nel movimento settario

Un distacco netto apparisce subito nel movimento settario e rivoluzionario tra il Napoletano e le altre regioni d'Italia. Ma mentre il movimento settario-liberale si presenta

delineato nell'Italia meridionale, e dal 1818, scomparse le affiliazioni con stampo anarchico e sanguinario, si compeneetra tutto nella compatta organizzazione della Carboneria; non così agevole riesce invece di seguire il movimento settario nel rimanente d'Italia, e specialmente nello ot così variamente costituito, qual era quello della isa. Movimento isolato, dapprima, demagogico, multile, con tendenze bonapartistiche e financo austriacanti, ecipe alla fine a quel piano di generale cospirazione ina che avrebbe dovuto scoppiare nel 1821, esso riL l'influenza d'una condizione speciale di cose in cui le a trovarsi il Papato dopo la restaurazione.

ritorno di Pio VII poteva essere allora esempio di erazione, come, fino ad un certo punto, lo fu d'indigenza; ma Pio VII, solo, ne' primi tempi e senza il fido salvi, d'ottimi sentimenti ma senza energia, snggestio

dalla parte più intransigente del Sacro Collegio, si

sfuggire la migliore occasione per conciliarsi collo ito de' tmpi e col sentimento de' suoi sudditi, on ebbe la forza d'essere allora il solo principe italiano no di tal nome, e poteva esserlo. Dimentico delle prò

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fonde e radicali innovazioni avvenute nello spirito pubblico e nell'organismo politico e sociale, non seppe essere qual era stato dopo il trattato di Tolentino, quando da cardinale e vescovo d'Imola scriveva in una famosa omelia non essere «la forma di governo democratico in opposizione alla legge umana e divina, né repugnare al Vangelo; esigere anzi tutte quelle sublimi virtù che s'imparano alla scuola di Cristo, e che praticate religiosamente formano la feliciti degli uomini e lo splendore d'una repubblica».

Con brevetto de' 4 maggio 1814 annunciava a' suoi sudditi il suo ritorno a Roma, e si faceva precedere, coma Commissario straordinario, dal genovese monsignor Agostino Rivarola; quel Rivarola, che, il meno adatto alla bisogna, dovea, allora ed in seguito, riuscire tanto fatale alla Chiesa, Costui con editto del 13 maggio ripristinava il governo del Papa tale e quale era prima del 1809, anzi prima del 1799, annullando tutto ciò ch'era stato fatto sotto il cessato governo. Si sbizzarriva in gravi persecuzioni contro i cosiddetti giacobini, com'erano chiamati ì liberali, e contro i fautori e gli amici del soppresso governo francese. Ad un Morelli, deposto per aver tenuto impiego sotto il governo caduto, giustificandosi col bisogno di dar pane alle proprie figliuole, si narra che il prelato stizzito rispondesse: «tu cerchi pietà da scusa che ti fa più colpevole; prima ohe servire i francesi dovevi prostituire le figliuole».

Il papa entrava trionfalmente a Roma il 24 maggio 1814, e per sei chilometri la sua vettura fa trascinata a braccia da giovani vestiti in gran gala. Era scortato dalla cavalleria ungherese e da poca milizia pontificia ch'era stata raggranellata nel momento. Gli facevano corteggio i detronizzati Carlo IV di Spagna, Carlo Emanuele IV dì Sardegna, Maria Luigia di Parma, il re e la regina d'Etruria.

Le feste si protrassero a lungo e colle feste la reazione governativa, o, come meglio si direbbe, l'odio pretino che non ebbe più limiti, e sollevò le più. ignobili passioni delle pinzochere, de' falsi devoti e della plebaglia.

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E quest'odio questo spirito di vendetta erano tanto meno scusabili quando si pensi che il potere non fu tolto al Papa dai Romani ma da Napoleone, a cui il Papa aveva prima ceduto le Romagne col trattato di Tolentino, poi lo avea coronato senza ricuperarle, poi aveva perduto il trono, ed aveva finito per rinunciarvi colla convenzione di Fontainebleau del 26 gennaio 1813. Un testimone oculare, l'avvocato Giuseppe Vera? amico e collaboratore del Consalvi, cittadino integro, pio, cristiano, lasciò scritto che quelle sacre feste furono il segnale di ogni genere d'insolenza, di sa echeggi amenti e dì strage. Gli stemmi del Governo passato erano atterrati e bruciati furia dì popolo, e portati in trionfo quelli del Pontefice; si fucilavano nelle piazze fantocci rappresentanti Napoleone e si obbligavano i palpitanti Sindaci o Podestà, detti allora in francese vocabolo, Maires, ad assistere vicino al giustiziando fantoccio. In molti Comuni furono saccheggiate le case degli impiegati, ad altri tagliate crudelmente le orecchie ed altri barbaramente uccisi noi tempo che cantavasi l'inno Ambrosiano, non perdonando neanche alle donne, come accadde in Velletri, Frascati e in molti altri luoghi. Non venivano ammessi alla presenza del papa e al bacio del piede coloro che aveano prestato il giuramento a Napoleone,

Si apriva un registro di ritrattazione, licenziati coloro che avevano avuto ufficio da' Francesi. Perseguitate od arrestate persone ragguardevoli, cacciati tutti i professori delle Università; tutte le lauree in cui non era intervenuta qualche persona ecclesiastica si consideravano come non avvenute; decretate nulle le lauree al tempo del governo francese. Il Colosseo s'interriva; amnistiati ed ammessi a servizio i briganti che infestavano la strada tra Roma e Napoli.

Si ebbe pertanto ricorso a tutte le arti per mantener vivo l'odio popolare contro i pretesi parmigiani de' passati Governi, e il favore o il fanatismo piuttosto per il Regime Pontificio. Si fece l'arrosto di un Massone, a cui si sparse essere stato ritrovato un cadavere imbalsamato con altri istrumenti e geroglifici.

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Molte cose mirabili ed orrende si disseminavano nel volgo contro questi settari, che imbandivano le mense con carni di fanciulli e celebravano orgie lascive ne' loro notturni congressi, ed altre favole (1),

Mentre così il governo pontificio stabiliva il suo temporal dispotismo, non trascurava di riedificare tutto ciò che allo spirituale apparteneva. E primieramente ristabili l'Inquisizione che replicate volte si annunciò da' pubblici fogli coi nomi di Sacra Romana ed Universale. Con la bolla «sollecitudo» del 7 agosto, e contro l'avviso di due coraggiosi cardinali, Della Somaglia e di Pietro, e fra i lamenti e le proteste degli altri ordini monastici, già soppressi da' governi passati, veniva ristabilita in tutto l'orbe cattolico la Compagnia di Gesù.

La Curia romana ripigliava così il dominio di Roma, senza aver nulla imparato dalle passate vicende, nulla obliato, nulla perdonato. Certamente quella reazione avrebbe dato il crollo allo stato papale, se l'accorto cardinal Consalvi non ne avesse mosso grandi lamentanze, e rattenuti a tempo la mano del debole papa.

Ristabilito nella carica di Segretario di Stato, il cardinale Consalvi trovavasi allora lontano, dapprima a Parigi, e poscia a Vienna per sostenere nel Congresso i diritti della Santa Sede; né gli poteva sfuggire che quella reazione maggiormente aggravava la condizione del papato.

L'Austria occupava ancora le Romagne, né voleva restituirle; Murat, che a malincuore aveva ceduto i due dipartimenti del Tevere e del Trasimeno, si teneva forte nello Marche. Nel 1814, trovavasi Pio VII di fronte all'Austria nella stessa condizione in cui s'era trovato nel 1800, allorché, appena eletto, e tenuto quasi come prigioniero, dovette lottare contro le lusinghe e le minacce del governo austriaco che fin d'allora pretendeva alla cessione delle Romagne delle Marche.

(1) Cfr. SlLVAGNI, La Corte e la Società romana, ecc, il, 705 seguenti.

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Ma se l'abilità, anche in quell'occasione del Consalvi, e più che altro la restaurata preponderanza francese fu d'impedimento all'attuazione di tali mire, dopo la caduta di Napoleone le cose cambiavano d'aspetto a favore dell'Austria. E veramente, con Nota del 26 maggio 1814, il principe di Mettermeli in una. memoria a Lord Castlereagh chiedeva le Legazioni per conto del governo austriaco. Il Consalvi a Londra otteneva, è vero, l'appoggio inglese per il ristabilimento del potere temporale, ma non poteva impedire che nel primo trattato di Parigi si aggiungesse un articolo segreto che assegnava all'Austria parte del Ferrarese e costituiva le Legazioni paese disponibile per diritto di conquista. Ed in ciò andavano d'accordo le principali potenze, volendo la Russia farne uno Stato pel Beauharnais, l'Austria per l'Infanta Maria Luisa di Spagna, e la Francia per Maria Luisa d'Austria moglie di Napoleone. La condizione era grave; ma l'impresa de' Cento giorni 5 il fallito tentativo del Murat, d'un tratto cambiarono aspetto alla cosa. La minaccia del Consalvi di trattare con Napoleone, il quale prometteva al papa di garentirgli il dominio dell'intero suo Stato e di rivedere il Concordato del 1801, valse a modificare le tendenze del Congresso. Questo, con atto del 9 giugno 1815, restituiva le Legazioni a.1 Pontefice, sottraendone soltanto l'Oltrepò che concedeva all'Austria, ed alla quale accordava pure diritto di guarnigione nelle piazze di Ferrara e di Comacchio, per la del Po. Contro tale smembramento del patrimonio Chiesa, con Nota del 14 giugno 1815 protestava il come quello che facilitava le mire dell'Austria, non sfuggiva il malcontento de' sudditi pontifici, anzi rinfocolava per mezzo d'abili confidenti ed emissari (1).

(1) Che l'Austria aspirale al possesso anche delle Marche, è ricordato in un dispaccio del card. Pacca alla Giunta di Governo, in data 17 maggio: «È stato pel Papa e per me un colpo di fui il sapere di avere incontrato monsignor Bernetti e monsignor ove di Posino difficoltà ed opposizione dal tenente-maresciallo

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A proposito dello spirito pubblico, bisogna ricordare ohe, dorante ancora l'occupazione del Murat, s'era chiesto ai potentati europei da tutto il patriziato romano e dalla borghesia grassa, perché Roma rimanesse con un regime laico e fosse governata dal re Gioacchino Murat. Fra i promotori dell'indirizzo si segnalarono i Borghese, Torlonia, Mariscotti. Brasehi, Barberini, Massimo, Sforza, Boncompagni, Gabrielli, Colonna, Doria e Chigi.

In un dispaccio del 10 novembre 1814, il vescovo dì Orthoise, ministro di Luigi XVIII a Roma, riferiva al suo governo ohe i romani sebbene avessero in grande ugia il governo francese, non erano per nulla propensi a sottomettersi tranquillamente al governo de' Papi, e peggio gii abitanti delle Legazioni, oramai abituati da 17 anni ad un governo civile e laico. Infatti i Bolognesi mandavano un» supplica a Pio VII chiedendo si rispettassero gli antichi loro diritti e si accordasse loro un governo laicale. L'avvocato Berni degli Antoni presentava in loro nome alle potenze alleate, ed a richiesta del Mettermeli e del Talleyrand un memoriale sostenuto a Vienna dal conte Aldini, per la costituzione di un sol governo laico di tutte le lezioni residente in Bologna sotto l'alta signoria del pontefice in base a' capitoli dei 1447 di Nicolò V.

Scrive il Farini (Stona d'Italia. i, 288), che se in Romagna, prima della partenza di Pellegrino Rossi ed altri. i maggiorenti fossero stati consultati, forse avrebbero preso il partito per l'Austria, piuttostochè pel Papa.

Bianchi, per dar loro il possesso delle provincie delle Marche. Domani Sua Santità parte per Modena pur andarsi ravvicinane ai suoi Stati, con animo di non rientrarvi fino a che la desiderati restituzione non aia eseguita». E la restituzione avvenne, ma va detto ne' proclami de' commissari austriaci, che l'Austria, rinuziando generosamente al diritto di conquista, cedeva a Pio VIII le Marche e le Legazioni.- Cfr. Spadoni, Sette, Cospirazioni e Curatori nello stato Pontificio, all'indomani della Restaurazione. Torino-Roma, Casa Editr. Nazionale Roux e Viarengo, p. LXI e LXIV.

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In un rapporto della Polizia generale di Venezia del settembre 1815, era detto: «Si prevede non senza qualche fondamento che il malcontento degli abitanti delle Legazioni, atteso il loro ritorno sotto il dominio papale, possa attirare seco delle funeste conseguenze», Ed in altro del gennaio 1816 si segnalava «che nelle tre legazioni si conserva uno spirito politico talmente favorevole al Governo austriaco, che la maggioranza dei voti di quella popolazione sarebbe certamente per esso, dacché, in generale, ai va sempre colà ripetendo e la dolcezza e la moderazione e la paternità dell'amministrazione provvisoria austriaca».

Di fronte ad mi tale stato dì cose, tutta l'accortezza del Consalvi fu volta a paralizzare l'influenza austriaca, con tutti i mezzi dì governo e appoggiandosi financo alle sètte. In quel generale asservimento de' governi italiani, bisogna riconoscerlo, la figura del Consalvi emerge gigantesca, per spirito di tal quale modernità ed anche di politica indipendenza. Al suo ritorno, con editto del 5 luglio 1815 era stata pubblicata una generale amnistia insieme ad alcune concessioni preliminari che anticipavano il famoso motuproprio organico del 6 luglio 1816. Ed era il meno ch'egli era in animo di fare, pur essendo sorretto dall'appoggio delle Corti Europee, che nella restaurazione pura e semplice dell'antico Governo papale vedevano un pericolo permanente per la pace d'Italia. Il Consalvi dovette lottare on le più aspre difficoltà; poiché, se venne secondato da atto il patriziato ù dal ceto colto de' cittadini; se godette l piena fiducia del Papa, ebbe contro di sé quasi tutto il acro Collegio, la, prelatura, i frati, i bigotti e le pinzochere che dicevano ch'egli rovinava lo Stato. E così averne ch'egli, non volendo scontentare né reazionari né liberali, fu costretto a seguire una via di mezzo e finì con Contentare e gli uni e gli altri.

Se tale malcontento fondava l'Austria le sue aspirazioni, dalla sua parte, come si vedrà, financo le sètte liberali, in quel periodo di tempo, tra il 1816 e il 1817,

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quando, cioè, correva voce d'una intesa fra Austria, Napoli, Prussia e Russia, per l'occupazione delle Legazioni da parte dell'Austria, delle Marche da parte di Napoli, della Sassonia da parte della Prussia e della Gallizia da parte della Russia. Né ciò ignorava il cardinale, Consalvi. ad onta d'ogni smentita officiale, ed anche ne' dispacci del Ministro francese a Roma, conte Blacas, si sospettava delle aspirazioni austriache.

Inoltre, ad aggravare il malcontento politico si aggiunse il malessere economico, che, di quei tempi, ai fece talmente sentire da impensierire seriamente il governo.

Con notificazione del 30 novembre 1816, il Consalvi, nome del governo, raccomandava che per sovvenire qualche modo alle necessità della classe indigente, che sfornita di mezzi dovea soccombere nella stagione d'inverno si eseguissero subito lavori pubblici e si ordinasse dappertutto un servizio di zuppe economiche e di soccorsi in denaro. E in altro editto del 21 aprile 1817, descrivendosi ancor con più foschi colori le conseguenze di quella pubblica calamità, né essendo sufficienti a tanta bisogna i provvedimenti presi, venivano aumentati alcuni tributi sulla ricchezza, e si istituiva una cassa dì prestiti formata dalle sovvenzioni de' possidenti, de' capitalisti e de' negozianti, come maggiormente interessati al mantenimento dell'ordina alla carestia si aggiunse un terribile morbo epidemici, detto tifo petecchiale, che mietè, specie nella bassa genie, numerosissime vittime. Queste calamità rendevano malcontento il popolo e davano ansa alle mene delle sètte, che cercavano trame profitto; anzi i retrivi giunsero ad attribuire all'opera d'esse la fittizia (sic) carestia preparata, secondo loro, coll'incetto di cereali e coll'incendio di qualche barcone di grano, e per mettere in isconvolta i popoli in miseria molti contadini per tirarli al loro partito (1).

(1) Cfr. Spadoni D., La cospirazione di Macerata del 1811. Macerata, tip. Mancini, 1895.

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Come si vede il movimento settario era favorito da tutte queste cause di malcontento politico ed economico, dalle mene austriache, e dal contrasto inevitabile tra retrivi e liberali, nonché dall'influenza che in quel movimento potette esercitare il partito de' Bonapartisti.

Una simpatia speciale nutriva Pio VII per Napoleone, ed aJ principi della famiglia napoleonica avea generosamente offerta ospitalità. Madama Letizia viveva in Roma come in casa propria, ed a lei si ricorreva in bisogno di denaro; grande ascendente sul patriziato romano godevano gli altri principi. Né ciò sfuggiva a' ministri della Santa Alleanza che al cardinale Consalvi raccomandavano una sorveglianza speciale su Luciano, principe di Canino. La polizia di Venezia segnalava nel gennaio 1816 «una fazione a Roma di concerto co' facinorosi di Napoli, guidata specialmente dal duca Braschi e dallo stesso Luciano . Costui era pure Gran Luce, nell'alta Vendita d'Ancona, mentre il genero principe Ercolani era a capo del consiglio Guelfo in Bologna. Inoltre, nella perquisizione operata iu casa del conte Cesare Gallo, che fu uno de' capi della cospirazione dì Macerata, si rinvenne un cifrario segreto co' nomi di Bonaparte e con frasi alludenti a possibili avvenimenti (1).

(1) Lo Spadoni riporta dal Ristretto processuale la chiave di corrispondenza segreta. Essa ha in calce il marco massonico.. R. C.'. f. Ne riproduciamo le frasi, alle quali corrispondono nel testo cifre convenzionali. - (Naple N...) - Id. sortito da S. Elena - Inglesi con Napoleone - America id. - Turchia - Francia id. -Rivoluzione in Francia contro i Borbotti - Morto Luigi - Guerra - Contro V Austria - Id. la Russia - Id. la Prussia - Sbarco degli Inglesi a Trieste - Id. in Ancona - Id. a Corfù - Tedeschi fanno movimento in Italia ohe partono - Arrivano rinforzi id. di Tedeschi - (Napoleone) è in Londra - Id. in America - Id. in Turchia - Id. viene in Italia - Giuseppe è partito d'America -Gerolamo da dov'è - Luciano id. - Piccolo Napoleone viene in Italia da Vienna...

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Tutte queste cause riunite insieme contribuirono a togliere al movimento settario nello Stato pontificio quell'unità d'intenti e di direzione, per cui esso prendendo carattere demagogico riuscì causa d'agitazione soltanto, non di vera affermazione politica.

CAPITOLO II.

Le sètte nello Stato Pontificio

e il tentativo di Macerata

Possono distinguerai in due gruppi, reazionarie e liberali.

I Sanfedisti e i Concistoriali appartengono al gruppo reazionario. I Sanfedisti, istituiti, secondo si vuole, dai cardinali Sanseverino e Castiglioni, rappresentavano la parte più intransigente e più violenta. Traendo origine dai bassifondi sociali, come nella Carboneria la Turba, cosi essi costituivano la forza bruta e fanatica al servizio de' Concistoriali.

Negli statuti era fissato che gli affiliati a tale setta dovessero uccidere, manomettere, disperdere quanti fossero convinti o soltanto sospetti di appartenere alla infame setta de' liberali, non avuto riguardo alla loro condizione, origine, patria, fortuna o aderenza, e di non aver pietà né de' pianti de' bambini né de' vecchi; e di versare fino all'ultima goccia il sangue degli infami liberali, senza riguardo né a sesso, né a grado.

Nello spoglio de' processi del 1821, facendo tutt'uno dei Sanfedisti e dei Concistoriali, è detto: Del Sanfedismo parlano di continuo i Carbonari pontificii, e pretendono sia diretto ad espellere gli Austriaci ed a ristabilire la preponderanza della Corte di Roma. Però di queste intenzioni non seppero mai esibire più accertate notizie; e siccome

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si trattava di svelare le mosse d'una società segreta che avrebbe mirato principalmente a combattere il moderno liberalismo, pare che essi cercassero piuttosto deviar l'attenzione del governo dalle loro combriccole, dirigendola sulle tracce dì una setta, la quale, quando anche esistesse, non potea meritare seria considerazione. Non favoreggiata dallo spirito del tempo, essa non poteva fare giammai progressi pericolosi (1).

(1) I Concistoriali recavano per emblema una croce rossa e uni medaglia con quaranta teste di martiri con la sigla S. Q. M, (Società de' Quaranta Martiri), Avevano: 1) un segno e tocco per riconoscersi, consistente nel fare una croce o colle mani o col piede e perfino cogli occhi, e nel saluto levandosi il cappello in una data maniera, cioè con la mano rovesciata, poggiando quattro dita, meno cioè il pollice, sulla parte davanti della cupola del cappello. - 2) In una parola detta sacra, ed era Pietro Paolo. - 3) In un quadro contenente i seguenti emblemi: a) un occhio col motto Dio vede tatto; - b) una testa di bue trafitto nella gola da mi freccia ed un giogo sul collo, immagine dell'empietà vinta ed oppressa; - e) mi angelo con una fiamma nella destra, od uno scudo nella sinistra col motto S. Angelo custode ci astute e ci protegge; - d tre monti, due ad eguale livello, ed il terzo loro sovrapposto, con una croce su quest'ultimo. - Tutto ciò era circoscritto da due circoli concentrici, in mezzo a' quali si leggeva: Fede e Speranza nella Santa Religione cattolica.

Da considerarsi identica alla setta de' Concistoriali era quella dei Sanfedisti, anteriore però alla prima, la quale, secondo si dice, fu costituita all'epoca dell'imprigionamento dì Pio VII, mentre la seconda all'epoca della soppressione de' Gesuiti. Si può credere che sui Sanfedisti s'innestassero i Concistoriali; ami parecchi de' loro simboli sono identici. I diplomi portavano le iniziali C+M+D+B+, da interpretarsi, forse, Chiesa o Congregazione militante di Bologna, che probabilmente era la sede centrale. V'era pure un occhio col motto Iddio vede; un cuore colla parola fede; un angelo che sorregge una croce, colla leggenda Iddio ci ama; un'altra croce, sulla quale età scritto: Iddio tuonò morte; Fede alla Chiesa cattolica. Vi era un capo di bove reciso, che credesi significasse la massoneria. alla cui distruzione erano principalmente dirette le opere de' Sanfedisti. Erano pure rappresentati de' fulmini che vanno a spezzare le colonne di un tempio diroccato, colla dispersione di varii


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E può essere anche così, perché gente di quella specie fanatica e manesca, è sempre pronta, anche senza vera organizzazione, a difendere in tutti i modi la propria causa.

Con cisto ria li, invece, rappresentavano una forza disciplinata e potente. A quanto sembra, tale setta fa costituita cadere del 1815, e sì voleva favorita dallo stesso cardinale Consalvi, che se ne servi corno il mezzo più efficace da opporre alla politica invadente dell'Austria e alla potenza delle sètte avverse e specialmente del Guelfi sino. Ebbe seguaci numerosi nelle Romagne e nel Ducato di Modena, con qualche diramazione in Toscana, in Piemonte, nel Veneto e nella Lombardia. Vi appartenevano i cardinali Albani, Della Somaglia e Severoli, vescovi, prelati, nobili, ricchi e cittadini colti ed autorevoli. Si sospettò financo che dell'azione dì essa fossero intesi il pontefice Pio VII, Ferdinando I e Vittorio Emanuele I. È provato che v'era ascritto anche Francesco IV duca di Modena, il quale, ammonito nel 1817 dal Metternich a cui la sètta dava ombra, rispondeva d'appartenervi allo scopo di sorvegliarla per conto dell'Imperatore.

Mirava a ricostituire l'antico guelfismo e a scalzare la

istrumenti muratori, una gru ed un angelo colla spada di fuoco che diceva: Omnia ad majorem Dei gloriam.

Le parole sacre erano Padre Figlio e Spirito Santo; quelle di passo Pietro, Paolo. Il giuramento era così concepito: «In presenza di Dio Onnipotente, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, e di Maria sempre Vergine immacolata, di tutta la corte celeste e di te, onorato padre, voglio aver recisa la mano e tagliata la gola, voglio perii di fame o morire fra i più crudeli martirii, voglio subire l'eterno castigo dell'inferno, piuttosto che tradire o ingannare uno degli onorandi padri e fratelli della Cattolica, Apostolica società, o mancare agli assunti obblighi. Giuro di sostenere con saldezza di cuore e di braccio la santa causa a cui mi son consacrato, e di non perdonare ad alcun individuo appartenente all'infame combriccola de' liberali, senza riguardo a parentela, grado, sesso od età. Giuro odio immortale a tutti i nemici de Un nostra santa religione cattolica 6 romana, unica e vera».

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potenza dell'Austria, nonché a cacciare d'Italia il Granduca dì Toscana, la Duchessa di Parma e il Duca di Lucca, dando le Marche al re di Napoli, e, in compenso, accordando al Papa la Toscana, mentre il ducato di Parma e Piacenza, il Veneto con Bergamo e Brescia, col titolo di Re, sarebbero dati al Duca di Modena. Al re di Sardegna, Milano e parte della Lombardia, il piccolo ducato di Lucca e la Lunigiana. Anche la Russia, per creare imbarazzi all'Austria, si volea che favorisse i Concistoriali, ed alla Russia sarebbe toccato uno de' porti a sua scelta, o Ancona o Civitavecchia.

Queste due sètte, per il loro carattere reazionario e per le persone che vi appartenevano, nonché per la forza stessa degli avvenimenti che seguirono, rimasero del tatto nell'ombra. Non così le sètte d'indole liberale, le quali più che sètte proprie e distinte, erano diramazioni o filiazioni localizzate delle due principali, la Massoneria e la Carboneria (1).

Da un rapporto confidenziale alla polizia romana (2), risulta che verso il 1817, due erano le società segrete che, a detta del confidente, cercavano di sconvolgere l'Italia e segnatamente lo Stato Pontificio, i Carbonari ed i Guelfi. «Vi sono, aggiunge il rapporto, anche molti Massoni,

(1) Nella sentenza, del processo Rivarola, pubblicata nel 31 agosto 1825, è ricordata «l'resistenza della società massonica ne' domini pontificii, infausto retaggio del cessato regime, e che varie altre unioni segrete, conosciute sotto la denominazione di Guelfi, Adelfi, Maestri perfetti, Latinisti, sin dall'anno 1815 si aggirassero in diversi punti de' domini medesimi, e che a queste unioni susseguisse poscia quella ile' Carbonari, colla diramazione nelle unioni della Turba, della Siberia, de' Fratelli Artisti, del Dovere, Difensori della Patria, Figli di Marte, Ermolaisti, Massoni riformati, Bersaglieri Americani, Illuminati, le quali unioni ebbero principalmente sede nelle quattro città di Cesena, Forlì, Faenza e Ravenna, ripartite in consigli, vendite, in sezioni, in squadre».

(2) Cfr. Dottor Domenico Spadoni, Alle origini del risorgimento. Un poeta cospiratore confidente. Macerata, tip. Mancini, 1902, p. 41).

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soprattutto in Roma, Perugia, Fermo, Ferrara e Bologna, ma ora sono inoperosi e rimangono come un venerabile avanzo dì antichità per i suoi ammiratori.

«I Carbonari sono temibili per il numero, per l'ardire, per la loro familiarità agli assassinii. Hanno origine dal Regno di Napoli, particolarmente da Teramo per mezzo della famiglia Delfico, e da Capua, e ai estendono per le Marche di Fermo, Macerata, Ancona sino inclusivamente a Faenza (1),

I Guelfi sono meno numerosi, meno arditi, ma hannosi a temere pel loro secreto, e prudenza, pella maniera d'agire, e pei loro principii. Vogliono ideata questa società in Inghilterra (1), stabilita in Bologna, e forse in tutta Italia, e direi ancora presso l'estere nazioni.

«Lo scopo de' Guelfi è l'indipendenza dell'Italia che preparano coll'accrescere il loro numero, collo spargere i loro principii, col far piegare a loro favore la pubblica opinione

(1)

La Carboneria era penetrata nelle Marche a' tempi dell'occupazione napoletana, e ne' processi i più vecchi carbonari ad essa quasi tutti si riferiscono per la loro recezione.

(2)

Secondo le rivelazioni fatte da uno degli imputati, «apprendiamo - dice il DEL CERRO (cfr. Fra le quinte della storia. Processi politici di Romagna, 102) - che la società de' Guelfi era in pieno fiore, a Bologna, nel 1817, e che il Guelfismo era stato istituito in Italia dall'ammiraglio inglese lord Bentinck sin dal 1815 ed aveva per fine la libertà e l'indipendenza italiana. (Leggasi GUALTERIO. Gli ultimi rivolgimenti italiani, il proclama col quale il Bentinek, in data del 14 marzo 1814, chiamava gli Italiani alla libertà [I, 226] ). Tale notizia è in contraddizione ad altre di marca officiale, riportate, come vedremo, ne' processi politici austriaci.

Secondo lo Spadoni (Sette, ecc, p. C, XXIV), si deve ritenere «che società do' centri e società de' guelfi (come di necessità avviene nelle sètte) altro non siano state che successive riforme della società de' raggi cfr. Botta, Storia d'Italia ecc. Italia MDCCCXXIV, 3, xiv, p. 67, e Spadoni, Ibid. p. CXXII ecc), e come tutte le sètte patriottiche, sorte al tempo della dominazione francese, evidentemente si formarono sull'antico tronco del massonismo».

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A tale oggetto hanno un qualcheduno presso i giovani studenti, ed altro presso la plebe» (1).

Il rapporto parla dell'unione delle due società, unione confermata da altre notizie.

«Queste due società per altro sembrano in qualche maniera riunite fra loro, giacché quasi per tutto il Gran Maestro de' Carbonari è anche Presidente del Consiglio dei Guelfi. Questi soltanto hanno aperta la comunicazione da un paese all'altro, che eseguiscono con la massima rapidità col mezzo dei loro visibili e de' loro messaggi. Bologna è il centro sapremo che dirige tutti quelli dello stato ecclesiastico.

(1) Il diploma guelfo portava (cfr. Cantù, II Conciliatore e i Carbonari, Milano, Treves, 1878, p. 116):

OMNIA AD MAIOREM DEI GLORIAM

ET

PUBLICAE FELICITATIS INCREMENTUM

+

FACITE IUDICIUM ET IUSTITIAM

ET

DILIGETE PAUPERES.

Secondo lo stesso Cantù (p. 117), che riporta le notizie dal Salvetti, il Guelfismo aveva un regolamento, che stabiliva il modo di organizzare la società, il di cui scopo era l'indipendenza d'Italia.

«Darle (si legge in esso) un governo unico costituzionale o almeno unire in vincolo federativo i varii Governi italiani, tutti però aventi per basi costituzione, libertà dì stampa e di culto, parità di leggi, monete e misure».

I mezzi dell'Ordine erano «propagare te idee liberali e comunicarle agli aderenti, agli amici ed a' chierici (uno de' gradi) con farli essere ben penetrati delta infelice situazione delle cose a della madre patria. La stampa, i trattenimenti, i colloqui soli tari sono opportuni mezzi. Destrezza e perseveranza è ciò che ai richiede, sopratutto sradicare i pregiudizi d'ogni sorte. Il villico apregiudicato è più caldo del ricco, del proprietario, perciò più utile».

Massime dell'Ordine. I Galli, i Teutoni, gl'Iperborei non fanno pei Guelfi.

Col giuramento si vincolavano i soci a procurare all'Italia la sua indipendenza con ogni mezzo, uniformemente al valore de' Capi dell'Ordine. In caso di violazione, si sottoponeva volontario alla morte.

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E poi certo che Bologna comunica con Milano... Milano poi deve corrispondere con Torino, ove mi si asserisce essere la società degli Adelfi o siano fratelli, di cui si vuoi capo il già colonnello Gifflengh, o Torino con altra società di Francia soprattutto in Lione detta de l'épingle, giacché i membri portano una spilla al petto nell'abito... Pare altresì che Genova abbia qualche comunicazione per terra, e per mare...».

Secondo il Foresti (1) i «cavalieri Guelfi erano la parte mentale, la Carboneria la parte materiale. Perciò quelli davano impulso, direzione, norma a questa, I Guelfi non avevano assemblee generali, non riti, non formalità. Movevano le vere molle della rivoluzione... A Bologna era il Centro guelfo. Il principe Ercolani ne teneva la principal direzione».

Anche il Foresti assicura che «i Guelfi corrispondevano cogli Adelfi del Piemonte e degli Stati dì Parma, e coi Federati della Lombardia. Varie denominazioni, ma unico e concorde scopo».

Secondo la requisitoria del Salvetti nel processo Pellico-Maroncelli (!) la Guelfìa com'ara detto nella costituzione, supponeva in Milano un Consiglio superiore che appellavasi Direttorio Guelfo. Sotto il titolo di Società de' Centri si era particolarmente diffusa in Lombardia ed in Milano nel 1814, generandovi quella cospirazione di cui ai occuparono in sul principio dell'anno 1815 le Commissioni civili di Mantova.

Non è possibile accertare [a vera origine di tale Società; anch'essa deve considerarsi come una filiazione massonica, la quale, a simìglìanza de' Concistoriali, si proponeva con;iltri intenti l'indipendenza d'Italia.

(1) Cfr. «Ricordi di Felice Foresti, in Vannucci, martiri della libertà italiana, li, app. I, p. 344 e seg.

[2) Cfr. Luzio, Processo Pellico-Maroncelli, Milano, Cagiati, 1103, g. 445.

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«Darle un governo unico costituzionale, o almeno unire in vincolo federativo i varii governi italiani, tutti però aventi per basi costituzione, libertà di stampa e di culto, parità di leggi, monete e misure» (1).

Nel catechismo de' Guelfi «Italia divisa ed oppressa», è chiamata col mistico nome di «Madre che ha per manto il mare e per scettro altissimi monti». «E la Donna dalle trecce nere, dalle grosse poma, la più bella dell'Universo».

Le sue doti sono «la bellezza, la sapienza siccome mi tempo la fortezza».

Il suo appannaggio è un ameno giardino elegante di fiori, in cui crescono fruttiferi gli olivi e le viti, ed in cui spira aria soave».

«Essa ora geme trafitta; i suoi vicini l'hanno trafitta con l'aiuto dei figli degenerati, e l'han trafitta nel seno e nella vagina».

I suoi figli si dicono pronti a soccorrerla ed a confortarla, assicurando audacemente, che l'ora della sua resurrezione è prossima, quando il gallo canterà di nuovo; quando le aquile pugneranno quando i tori muggiranno; quando l'arpa chiamerà i delfini; quando la luna sarà coperta di sangue, e la barca resterà a terra; profezia metaforica riferentesi ad un nuovo risorgimento della potenza napoleonica o ad ima nuova rivoluzione che avrebbe abbattuto i varii governi d'Italia.

«Giuro al Dio degli Eserciti ed a te Sommo Tenibile di conservare nel più profondo del mio cuore l'arcano che ora mi hai rivelato».

«Giuro di spargere tutto il mio sangue per la Costituzione ed Indipendenza d'Italia. Giuro di esterminare i nemici, ed in caso d'iniqua mia mancanza voglio che il mio corpo

(1) Nelle Istruzioni e Regolamenti (cfr. Spadoni, Sette, Cospirazioni, ecc,, p. 95) è detto: «La M, (massoneria) e la C... (carboneria) sono trasfuse nei guelfi, e le dignità possono essere scelte nel seno de' C... e cosi viceversa».

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sia dato alle fiamme e le ceneri al vento. Costituzione, Indipendenza, Morte».

Era questo il giuramento degli iniziati a tale società.

Supponeva divisa l'Italia in undici regioni: Milano, Venezia, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Ancona, Napoli, Cosenza, Matera. Capitale si supponeva Roma.

*

**

In tal guisa, mentre la Carboneria si estendeva nelle Marche, il Guelfismo invece era sparso nelle Romagne. Il malcontento pubblico e la probabilità di grandi imminenti avvenimenti consigliarono i Carbonari e i Guelfi dello Stato Pontificio a riunire le loro forze in un sol fascio. Dall'autunno del 1816 i Carbonari delle Marche incominciarono a spiegare un'attività sempre maggiore, affiatarsi e stringere le file tenendo frequenti congreghe e corrispondenze (1), fiondando Vendite in paesi dove non esistevano, istituendo un'Alta Vendita in Ancona (non riconosciuta però dalla Vendita Madre di Fermo), ed accordandosi col Consiglio centrale Guelfo di Bologna per lavorare con unità di forze e di direzione all'intento comune.

Fu pure ideato un «piano d'organizzazione per la riunione delle Società segrete a stabilire una estesa comunicazione, ed un'attiva e sicura corrispondenza». Secondo quel piano lo Stato Romano veniva diviso per allora in tre grandi sezioni, queste in centri primari, e a loro volta questi ultimi in centri secondari.

(1) Come tessera di riconosci mento in tempo di viaggio furono usate delle carte di picche e cori contrassegnate dalle iniziali dell'Alta Vendita di Ancona: A. V. A. Cfr. Spadoni, La cospirazione dì Macerata, ecc, p, 12. - Dito.

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- La prima sezione era costituita dalla Legazione di Bologna col centro primario a Bologna; la seconda sezione dalla Legazione di Ferrara, Ravenna e Forlì, con centro primario a Forlì; la terza sezione era costituita dalle tre Marche, con Ancona centro primario.

Tra l'altro si stabiliva che ogni società segreta avrebbe osservato la propria costituzione e regolamenti, travagliando secondo le proprie prescrizioni. Per un'esatta ed attiva comunicazione ed una sicura corrispondenza si sarebbe usato il metodo alfabetico de' Guelfi.

A formare la catena necessaria per l'attivazione della corrispondenza di paese in paese fino al Centro, furono, in quel torno di tempo, costituiti Consigli guelfi a Pesare. Senigallia, Ancona, Loreto, Fermo e Sant'Elpidio.

Stabilito tale accordo, anche fuori d'Italia, lo stato delle cose lasciava prevedere grandi avvenimenti. Già nel 1815 contro la reazione di Ferdinando VII erasi in Ispagna sollevata la Corogna, e incombeva la minaccia di generale sollevazione. Dal 1816 era scoppiata la rivoluzione nell'America meridionale contro la Spagna, e nel 1817 il Brasile tentava di scuotere il giogo del Portogallo. Un filo misterioso univa nell'aspettativa i liberali d'Europa e d'America; anzi, di quei tempi - scrive lo stesso confidente - «i Guelfi di Romagna si attendevano per agire i successi degli Americani, come pure ciò che sarebbe avvenuto in Inghilterra e nel Portogallo, ovvero che le Potenze di primorango fossero impegnate in qualche guerra».

Nel mese d'aprile o dì maggio del 1817, Paolo Monti, Gran Maestro della Madre Vendita di Fermo e Presidente del Consiglio Guelfo, ricevette dal Supremo Consiglio Guelfo di Bologna l'incarico di fare e di rimettergli un piano rivoluzionario.

Il Monti ne commise la redazione ad un consettario che godeva di molta considerazione tra' settarii, un tal Mallio -appunto colui che in seguito dovea essere

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- il confidente della Polizia - e gliene suggerì le basi, parte per sentimento proprio e degli altri Guelfi di Fermo, e parte per consiglio avuto da Bologna.

Si premetteva in esso che «i Popoli d'Italia, avendo già sperimentata la malafede de' Francesi, le rapine degli Austriaci e le insigni depredazioni de' Napoletani, dovevano una volta ed ora esercitare i propri diritti nazionali appigliandosi ad un proprio Regime indipendente e ben regolato da persone saggie e probe, costituendosi in Nazione. Non potersi riuscire al conseguimento di questo benefico effetto senza una rivoluzione de' popoli italiani, eccettuata tra questi la Nazione Napolitana perché vile e senza carattere. Che per l'effetto di tale rivolta si voleva una scintilla incendiaria che poteva dipendere dalle circostanze generali e particolari del tempo e de' luoghi. Per il tempo fu stabilito quello della morte del Pontefice e della successiva sede vacante, in cui il Governo era in uno stato di confusione, e il dominio pontificio nell'altro di debolezza. In allora in ogni città di Capoluogo avrebbe dovuto erigersi un Consiglio di persone liberali, ed aliene da' sentimenti di sudditanza. Questi Consigli dovean regolare col mezzo de' subalterni Consigli di dipartimento. Questi Consigli principali dovean dipendere da un Consiglio generale e primario, ad esso rimettendo le alte deliberazioni. Dovea questo Supremo Consiglio centrale spedire alle diverse Potenze estere europee l'istanza, o sia il voto di tutti i Consigli dipartimentali per lo stabilimento di un governo indipendente, e di tutti i popoli d'Italia in una Nazione. Le misure da prendersi nell'esecuzione della rivolta, per garanzia del buon esito e il successivo Governo indipendente doveano essere soltanto quelle che bì esigevano dalla sicurezza, escluso ogni mezzo sanguinario. Si concludeva argomentando che ogni buona ragione dovea far credere che le Potenze estere non si sarebbero opposte al voto universale de' popoli d'Italia, se essi fossero stati decisi e fermi in questi principii sugli esempi dell'Inghilterra, dell'Olanda e della Svizzera.

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- Ma se, malgrado queste buone ragioni, una qualche potenza estera avesse volato assumere il patrocinio dell'Italia dandole un Re costituzionale, non dovea essere questa che l'Austria e la Germania, cioè l'Imperatore, ch'essendo al contatto col nostro Stato ed il più forte, ci sarebbe stato più adatto che ogni altro».

È notevole l'esclusione dal piano di rivolta della Nazione Napolitana perché vile e senza carattere, nonché il voto che l'Austria assumesse il patrocinio d'Italia, anche dandole un re costituzionale.

L'esclusione de' Napoletani si spiega. Quel rapporto rispecchiava i sì dice che di quei giorni più o meno fondatamente correvano a proposito d'un accordo tra i governi Austriaco e Napoletano, d'occupare, alla morte del Papa, ciascuna per proprio conto, l'uno le Legazioni, l'altro le Marche. Ciò che i settari marchigiani non potevano desiderare, preferendo in caso d'occupazione il governo austriaco a quello di Napoli, e ne aveano le loro buone ragioni a causa di quelle insigni depredazioni avvenute durante l'occupazione murattiana.

Il piano fu inviato al Fattiboni di Cesena con incarico di farlo pervenire Bologna. Il Fattiboni disapprovò l'esclusione de' napoletani dal progetto, e il Supremo Consiglio Guelfo di Bologna fece sapere - e in ciò bisogna riconoscere una grande prudenza settaria - che il piano, fatto a guisa di voto, era stato applaudito potendo essere utile norma nella circostanza; ma, a quanto sembra, se ne disinteressava aggiungendo che bisognava attendere la risoluzione de' Grandi Dignitari di Milano, presso cui agivano fervidamente due settarii per affrettarne l'esito.

Né poteva non essere così. Quel progetto dallo stesso Monti fu definito nella parte esecutiva una vera chimera. Più che altro, esso, a quanto sembra, fu richiesto a' Carbonari delle Marche come un ripiego per esplorare i veri sentimenti dei marchigiani, e le loro aspirazioni, le quali non si rivelarono conformi a quelle dei capoccia della setta guelfa, ch'erano bonapartisti.

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- E' certo, però, che subito dopo avvenne un raffreddamento tra ì settarii marchigiani e quelli romagnoli, che sì cambiò in un vero distacco, dopo il vano tentativo di Macerata. Con tatto ciò i Carbonari marchigiani non si smossero dal loro proponimento di rivolta. Le notizie allarmanti, le riunioni e i discorsi riscaldavano gli animi mantenendo vivo lo spirito rivoluzionario (1). Nel 21 maggio 1817 il Papis, Gran Maestro dell'Alta Vendita d'Ancona, scriveva al conte Gallo (già podestà d'Osimo sotto il Regno italico), Gran Maestro della Vendita di Macerata, una lettera che concludeva così: «Siate dunque attivo, giacché se mai l'occasione è stata propizia, lo è certamente in questi tempi, n cui la ben giusta indignazione popolare ci favorisce, e le notizie che ci pervengono ci assicurano riuscire nell'intento».

Intanto, mentre si prendevano gli accordi rivoluzionari tra ì varii paesi sopraggiunse la nuova che Pio VII s'era ristabilito in salute. Sicché l'azione progettata veniva a sospendersi e rimandarsi ad altro tempo. Ma contro il

(1) In una baracca in Ascoli fu, per es., recitato un Sonetto che terminava cosi:


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Figli di Bruto il brando ornai scuotete,

Poiché spunta nel ciel di sangue tinta

Stella, che batta il rio tiranno, il prete.

Un altro settario (il Mallio, che, secondo lo Spadoui, cfr. Alle origini del Risorgimento, fu il vero traditore nel processo pei fatti di Macerata), diffondeva nella primavera del 1817 dalla Vendita Madre di Fermo alle dipendenti il seguente sonetto:

Sceso dall'Alpi sitibondo il Tauro

Alla ligure donna il sea trafisso.

L'Aquila avvezza all'Italo tensuro

Sull'Adriatico Lion gli artigli infìssi::

L'irsute orecchie avvolte entro il oamauro

Il Lupo tibein che in lacci visse

Spezzolli, e sete di vendetta e d'auro

Quant''ha dal Tebro al Tronto al Reno affisse.

Fame intanto di vita i germi adugge

Senza che i mostri rei v'abhian riparo,

E' pestifero morbo il popol strugge.

E che più, Italia sonnacchiosa aspetti!

Perché non stringi il preparato acciaro,

E' il gran momento di tuo scampo affretti!

(Cfr. Ristretto del Processo).

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- parere del Supremo Consiglio di Bologna e del Papis sopraddetto, alcuni Carbonari d'Ancona e di Macerata vollero tentare ad ogni costo ini tempestivamente la sollevazione, e ne fu stabilito lo scoppio nella notte di S. Giovanni.

Capi della congiura erano in Ancona certo Riva, in addietro gendarme, ed in Macerata un tal Carletti, impiegato, dipinti nel processo come naviganti finanziariamente in cattive acque. Furono distribuite in tutti i paesi copie d'un proclama incendiario diretto a' «Popoli Pontificii», e redatto da un altro caposettario, Pietro Castellano.

Era convenuto che diverse Vendite Carbonariche ed insieme Consigli guelfi espressamente prevenuti doveano in quella notte inviare a Macerata un numero armato di congiurati. Sarebbero state loro aperte le porte della città dai settarii della medesima, già pronti ad agire. Il motto d'ordine per tutti era: - Chi evviva? - San Teobaldo. Un altro motto, segreto tra' capi, era: - Vendetta al Popolo.

Impadronitisi degli uffici, delle caserme, liberati i carcerati, dalla sommità della torre di Macerata per mezzo di quattro caldaie ardenti di pece e d'altri fuochi si sarebbe dato il segnale della rivoluzione agli altri paesi.

Nella notte, entro e fuori la città, i settarii si unirono in compagnie, aspettando i soci che doveano raggiungerli in gran numero da' vicini paesi. Alcuni di questi giunsero puntualmente ne' luoghi fissati a poche miglia dalla città: ma due fucilate esplose incautamente contro una sentinella ch'era di guardia presso le mura, richiamarono l'attenzione de' carabinieri, i quali giunsero immediatamente sulla piazza, e dove i ribelli riuniti erano pronti all'attacco per principiare l'impresa da compiersi poi entro le mura. Ma occorreva il rinforzo del corpo principale degli insorti, come già era stato prestabilito; questo aiuto non venne, ed i settarii furono obbligati ad abbandonare l'impresa e si dispersero per le vicine campagne.

A questo si ridusse quel tentativo, più folle che temerario, come fa. detto; ma il processo che ne segui valse a

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paralizzare d'un tratto e scompigliare l'attività de' Carbonari, sicché in alcuni luoghi vennero a mancare gli anelli della catena. Anzi - aggiunge il confidente - vi è ora il progetto di rifondere tutte le società in una sola con una nuova denominazione, nuovi segni e nuovi statuti. Allude, a quanto pare, alla Costituzione Latina.

CAPITOLO III.

La

Costituzione latina

ed i progetti

del governo toscano

In un congresso settario tenuto nel palazzo Ereolani a Bologna, in ottobre del 1817, fu, da' deputati delle Vendite provinciali, approvata la Costituzione cosiddetta Latina, mercé della quale tutte le Vendite carboniche doveano dipendere da corpi superiori invisibili, che appellavate tribunati, e i quali ad una corporazione suprema, detta Senato, erano soggetti. Autore di quella riforma fu Costantino Munari, e con essa veniva ribattezzata romanamente l'intera organizzazione della Carboneria. I maggiorenti dell'ordine pigliavano nomi romani, come Curzio, Spartaco, Attilio Regolo, Scipione Affricano, ecc.

Col giuramento si prometteva odio eterno ai governi monarchici (non costituzionali), e di procurare con tutte k proprie forze e perfino colla vita la Indipendenza d'Italia. In caso di mancanza s'invocava la morte.

Questa Costituzione era in sostanza il vero piano per effettuare una rivolta armata. Tutto era chiaramente espresso in sé; e in più articoli era anche spiegato come doveasi amministrare il paese durante la rivolta.

(1) Cfr. Foresti, ibid., p. 831 e 832.

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In quel torno di tempo i capoccia delle sètte romagnole furono in relazione cogli emissari segreti del granduca di Toscana; anzi fa non poca meraviglia l'apprendere come tra i principi desiderosi di mettere le mani sugli Stati della Chiesa, si schierasse anche il bonaccione e tranquillo granduca di Toscana, Ferdinando III.

La Toscana era uno Stato che, a malgrado del suo governo assoluto, si era acquistato, anche presso i liberali, una riputazione di mitezza straordinaria: il principe, senza muscoli, senza nervi, di costumi semplici, buon padre di famiglia, innamorato di libri rari e di rilegature preziose, non era desideroso d'altro che di sapere felici i suoi sudditi; i ministri, impersonati nel conte Vittorio Fossombroni, non avevano altra cura se non quella di ridurre l'azione del governo ai minimi termini. Governare, per loro, era dormire; non lo dicevano, ma lo facevano intendere sotto mille forme: e dormivano saporitamente, e come tutti i dormiglioni non amavano d'essere svegliati. Il Fossombroni, che aveva nell'anima insieme alla fìaccona paesana una punta di scetticismo, soleva dire: «Dopo di me, il diluvio; l'importante è che ci si vada incontro non di galoppo, ma adagino, adagino, senza che si scomodino né governati, né governanti»; e a un grosso funzionario, che non sapeva mandar giù, con toscana indolenza, quella teoria, domandò un giorno, un po' seccato: - La è pagata regolarmente a ogni fin di mese? - Sicuro... - Ed allora non s'occupi d'altro! (1).

È probabile che a provenire i disegni del governo pontificio e de' Concistoriali, e mosso da segrete istigazioni dell'Austria, il Fossombroni si servisse delle stesse armi del Consalvi per creargli de' grattacapi, mettendosi in relazione co' Latinisti romagnoli. Non più di questa fu l'importanza della missione segreta affidata ad un Giuseppe Valtancoli.

(1) Cfr. Del Cerro, Tra le quinte della storia. Un primo ministro cospiratore, Roma, Bocca, 1903, p. 154.

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Era costui un ex-liberale ed ex-frammassone, uno de' tanti che dopo gli avvenimenti del 181415 prestavano i loro servigi a' governi allora restaurati. Di lui cosi il Del Cerro abbozza la losca figura: «Da un lato spia volgare, segugio di polizia lanciato sulle orme de' liberali; dall'altro, incaricato d'una missione politica segreta, certamente assai meno ignobile di quella che apparentemente rappresentava per conto del suo governo».

Nel 1818, cotesto Valtancoli comparve in Romagna e fece credere ai capi settarii che i Massoni e gl'Illuminati esistenti nel Granducato si sarebbero collegati con loro per sottrarre alla dominazione pontificia, purché però assentissero di formare parte della Toscana.

A quanto sembra i capi della Carboneria Latina furono attratti in tale ordine d'idee; imperocché non era «tanto vivo il desiderio di sollevarsi ad una forma di reggimento libero e costituzionale, quanto imperioso il bisogno di scuotere l'insopportabile giogo del governo de' preti». E siccome quest'operazione eseguir si dovea col mezzo de' Massoni della Toscana, si adottò la introduzione di questa società in sostituzione della colà meno accetta Carboneria, come ramificazione dipendente dal Grande Oriente di Toscana.

I costituti di parecchi imputati nei processi romagnoli confermavano ciò. Secondo ossi il governo granducale aveva intenzione di riunire alla Toscana la Romagna, e i ministri s'adopravano presso la Corte d'Austria per averne l'assenso. E a riuscir nell'intento si stimava opportuno di far nascere qua e là de' tumulti che avrebbero fornito il pretesto alla Corte Toscana dì far occupare la Romana con l'apparente scopo di ristabilire la quiete.

A meglio assicurarsi di ciò quattro rappresentanti della Carboneria si portarono a trattare col governo toscano, «furono il conte Orselli, già sottoprefetto del Regno italico, il conte Francesco Ginnasi, il negoziante Francesco Gallina e Mauro Zamboni.

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Ebbero parecchi colloquii col ministro Fossombroni e a tale proposito cosi l'Orselli riferiva nel suo costituto: «Io gli parlai due volte, Gallina credo più di me, e così pure Ginnasi. Io feci conoscere al ministro le cose dettemi dal Voltangoli e come egli ci aveva fatto credere che alla riunione della Romagna con la Toscana ponesse il pensiero la Toscana medesima e che qualche cosa si potesse assai facilmente ottenere. Io gli manifestai come quella riunione era generalmente desiderata in Romagna. Il ministro dichiarò che il Voltangoli aveva ecceduto nelle sue assicurazioni. Che quella riunione era bensì desiderata anche dalla Toscana, ma che per mandarla ad effetto ai esigeva il consenso dell'Austria».

Secondo ebbe a rivelare il Maroncelli era invece l'Austria più direttamente interessata nella faccenda. «Si credeva che le varie Potenze alleate avrebbero forse voluto sostenere il Papa e che quindi l'Austria (immedesimata colla Toscana), non essendo allora o in volontà o potere di sostenere una guerra colle medesime non si sarebbe facilmente determinata ad occupare gli Stati Pontificii. Si credeva che fosse necessario di presentare un pretesto che all'Austria avesse dato buona ragione d'impadronirsene ed alle altre Potenze di assentirvi. Questa parea che dovesse essere una rivolta che i sudditi pontificii di ogni ceto avrebbero dovuto operare, e le operazioni della Massoneria e della Carboneria ad altro non doveano tendere che ad effettuare questa rivolta all'opportunità del momento, il quale, consolidatasi bene la nuova Massoneria coi ministri austriaci o toscani, sarebbesi presentato ad ogni cenno che di là venisse a' settarii di dar mano all'impresa» (1). Il Salvotti, che certamente ignorava queste pratiche, osservava nella requisitoria contro il Maroncelli: «Parrà improbabile che i Carbonari della Romagna, ossia i capi, abbiano accettato un piano che mal corrispondeva a quel nazionale entusiasmo, che la Carboneria suscitava; ma qui ricorre una osservazione

(1) Cfr. Luzio, ibid. del Salvotti: MARONCELLI, p. 442

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opportuna ed è che poteva a buon conto parere a quei capi di avere operato assai col promuovere la riunione della Romagna alla Toscana; e chi sa forse, che da questo stesso primo lor passo non abbiano calcolato di trarre un mezzo più vigoroso ed efficace per quella nazionale indipendenza ch'era lo scopo ultimo dei criminosi (sic) lor desiderii».

D'altra parte se i Carbonari romagnoli odiavano il papa, non odiavano meno l'Austria; essi avevano fretta di sbarazzarsi del governo pontificio, e quindi non potevano andare d'accordo con chi voleva andare con tutti i suoi comodi, come pare volesse fare il conte Fossombroni. Inoltre la generalità de' Carbonari romagnoli malvedeva i capi della sètta trascorrere d'una in altra società, d'una in altra transazione, privi d'un programma concreto.

Durante questo periodo d'indeterminatezza e di semiscissura il movimento settario mentre da una parte perdeva nelle Romagne ogni compattezza ed ogni unità, acquistava dall'altra, sempre più, quel carattere sanguinario, giustificato dalle stesse condizioni locali.

I liberali, vittime degli arbitrii curialeschi, e cardinaleschi, e sbirreschi, e mandati ai patiboli e alle galere senza difesa e senza niuna garenzia di giustizia, si rifugiarono più che mai nelle congreghe settarie, e cercarono di farsi giustizia da sé, avventandosi armata mano contro delatori e carnefici. Per questa via da' delitti del tristo governo nacquero i delitti dall'assassinio politico stimato unico rimedio a questi incomportabili mali. Quindi il perpetuo succedersi di atroci attentati, di ribellioni e di repressioni implacabili che oscurarono e fecero perdere ogni senso morale. La confusione andò al punto che chi uccideva a tradimento una spia, un alto o basso ministro di quella oscena tirannide, non era chiamato assassino, anzi erano compianti coloro che lasciavano la vita sul patibolo per somiglianti cagioni (1),

(1) Farini, Lo Stato Romano, I, 2, 27, ed. 2, Firenze, 1850.

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Inoltre lo spirito rivoluzionario aveva fatto pullulare una quantità strabocchevole di associazioni clandestine, che con la politica non avevano spesso nulla da fare; dalla politica però prendevano in prestito i panni per nascondere le loro prave voglie. Ignoravano nella loro grande maggioranza, non diremo l'ordinamento, ma financo l'esistenza delle due società principali del tempo, la Massoneria e la Carboneria; e Massoni e Carbonari, quando per esigenze rivoluzionarie ebbero ad assumere la direzione di quelle losche sètte, curarono che una linea nettamente tracciata separasse le loro associazioni dalle altre (1).

A tale ordine di sètte appartennero tutte quelle ricordate nel processo Rivarola, della Turba, della Siberia, de' Fratelli Artisti, del Dovere, de' Difensori della Patria, de' Figli di Marte, Ermolaisti, Massoni riformati. Bersaglieri Americani, Illuminati, le quali ebbero principalmente sede nelle quattro città di Cesena, Forlì, Faenza e Ravenna (1).

(1) Del Carro, ibid., p. (5970. (2) Traccia d'un'altra setta trovasi ne' processi delle Marche, quella de' Fratelli seguaci de' protettori repubblicani. Non fu che una riforma pedestre della Massoneria e non ebbe alcun seguito. L'Unione Repubblicana comprendeva sette gradi: Apprendente, Iniziato, Avanzato, Maestro, Gran Maestro, Apostolo, Grande Apostolo, Eccelsa Luce.

Negli Statuti è detto che; la Riunione Repubblicana è formata per l'esterminio de' Tiranni, per abbattere i loro Troni, per distruggere le imposture, e vivere al mondo liberi ed eguali, essendo nati tali, e per godere di questi giorni, che dal Grande Architetto dell'Universo vengono accordati, avendo per base, di non conoscere altro, se non il solo autore della natura, il vivere, l'amarsi da Fratello, di far bene al suo simile e di non tradirei, di non usurpare i diritti altrui, di soccorrere l'umanità, di rompere la catena, del servaggio, e di conservar la massima che vili, e codardi, sono quei mortali, che si sottomettono al dispotismo del loro simile»

Nel grado di Maestro si giurava: «Io N. N. giuro, e prometto avanti al Grande Architetto dell'Universo, ed aliti Bella Riunione Repubblicana, e avanti a Te mio Maestro, di esser sempre nemico ile' Tiranni, amico della Libertà, amante della Gloria, di dipendere

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Tra le più importanti erano quelle de' Cacciatori Americani, e degli Illuminati. La setta de' Cacciatori Americani, od Americani semplicemente, fa fondata in Ravenna appunto nel 1818. Reclutata tra gente del popolo ebbe consuetudini simili a quelle de' Comuneros di Spagna. «Si ritengono - deponeva un teste - per Americani in Ravenna tutti quelli insubordinati al Governo e nemici all'ordine attuale di cose. Questa denominazione di Americani è nata per quanto opino dalla rivoluzione d'America ed anche dalla riunione che si faceva da' soggetti indicati e da una turba d'altri loro seguaci, che ai diceva nel pubblico d'essere circa 400, nell'osteria degli Americani. Tra i capi era Giorgio Byron, allora cicisbeo o cavalier servente della contessa Guiccioli.

Ancora di maggiore importanza fu l'altra sètta, degl'Illuminati, a torto considerata come una sètta a sé, E la Bteasa Carboneria modificata nel nome. Noi ignoriamo se gl'Illuminati romagnoli derivassero da quelli toscani, e la ragione del cambiamento di nome. Certo è che ne' primi tempi ne' quali apparve ebbe gli stessi segni, parole e cerimoniale della Carboneria meridionale (1).

L'oggetto di tali società secondarie, com'è detto ne' costituti, era quello d'introdurre una Costituzione e di tenere a freno la società de' Sanfedisti a loro nemica e di distruggere quelli che le contrastavano. Tutti i fratelli dovevano essere armati, e la sera tutti portavano armi, pistole corte, coltelli, stili, che dovevano essere pronti contro i nemici dell'unione.

sempre da' Regolatori del mio Ordine, di non rinunciar mai al sacro istituto, neppure dì palesare i segreti, a costo, che mi sia recisa la gola, che le mie carni siano date da mangiare ai cani, che ala avvelenato, che aia bruciato vivo, che la mia polvere aia sparsa al vento; ed in testimonio dì ciò mi sottoscrivo, rilasciando nella tu sacra mano il mio Testamento, essendo sommamente contenta di spargere tutto il mio sangue per nutrire la nascente Repubblica». - Cfr. Spadoni, Sètte, Cospirazioni, ecc. in Appendice.

(1) Cfr. nell'Appendice sulla Carboneria.

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E da credersi però che tutte codeste società popolari, pur avendo nomi diversi, costituissero la Turba, appendice della Carbonerìa e de' Guelfi, società subalterna composta di plebe manesca e facinorosa, al servizio de' veri settarii e loro garenzta materiale contro la burbanza delle sètte avverse de' Sanfedisti e de' Concistoriali (1).

Un'altra sètta ricordata ne' processi è quella degli Adelfì. Essa penetrò in Romagna dopo il 1817, e impiantò chiese a Faenza, a Cesena, a Forlì, a Ravenna. In generale, però, i capi del movimento e i più provati settarii appartenevano contemporaneamente a tutte queste particolari società, o le dirigevano. Tutti indistintamente appartenevano alla Massoneria, sebbene non fosse in attività Riprese i suoi lavori in seguito alle trattative col Valtancoli; si riaprirono gli antichi templi massonici, e fu adottata la stessa organizzazione carbonarica in sezioni.

In Forlì fu istituito un Capitolo di Rosa Croce, alla dipendenza del Grande Oriente di Toscana. Anzi, volendo i capi romagnoli uscire dall'isolamento in cui si trovavano rispetto agli altri paesi, e perciò estendere de' legami a Modena, Parma, in Lombardia, in Piemonte, ed anche in Francia, riattivarono la Massoneria, poiché nessuna società segreta pareva più opportuna a quest'uopo. In questo torno di tempo il giovine Camillo Laderchi, iniziato massone e carbonaro, fu spedito in Lombardia, mentre Pietro Maroncelli, anch'esso massone e carbonaro, si portava dapprima a Modena e poscia in Milano. Ma già dal 1817, anche la Carboneria era penetrata nel Lombardo-Veneto per la via del Polesine.

(1) Primo Uccellini nelle sue Memorie ricorda che in Ravenna la Carboneria dividevasi in tre sezioni: la prima portava il nome di «Protettrice», perché reggeva le altre; la seconda «Speranza», perché composta in gran parte di giovani studenti; e la terza, perché era un miscuglio d'ogni sorta di gente, operai quasi tutti, i più pronti all'azione, ebbe nome di «Turba».

CAPITOLO IV.

Governo e sètte nel Lombardo-Veneto

e loro caratteri diversi

Il Regno Italico era crollato nel tumulto del 20 aprile 1814; ma quel tumulto, colla barbara Decisione del conte Prina, assunse innanzi alla Storia tutti i caratteri d'un fattaccio, indegno d'ogni città civile e di quel partito che sotto il nome d'Italici e d'Indipendenti aveva creduto cosi d'assicurare l'esistenza e l'indipendenza del Regno.

In quel tumulto, tramato e maturato dal danaro e dall'impotente vendetta di pochi patrizi, fomentato dal ministero istupidito per la caduta dell'astro napoleonico che li lasciò tutti confusi nelle loro tenebre, provocato dall'importuna e fanciullesca ambizione del viceré, ed eseguito dalla plebaglia avida di stragi, d'anarchia e di rapine, - in quel tumulto v'entrò la feccia di tutti i partigiani giacobini, stolti e avventati, che speravano la democrazia: v'entrò in alcuni il desiderio degli Austriaci, come nel '96; in altri il terrore de' Francesi, se mai avessero potato e voluto vendicarsi, almeno per pochi giorni: v'entrò sopratutto la meschina, e potentissima ne' Milanesi, vanità municipale, e l'orgoglio patrizio, e mille altre specie di passioni, di odi, di desiderii, di fazioni politiche; e tutte basse, inermi, senza consiglio, senza capi, senza fine determinato, senza mezzi probabili. E tutti poscia, o con imprudente lealtà o con finto amore di patria, gridavano indipendenza:


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- coloro che non sanno essere né coraggiosi, né fermi! e quando! ed a chi! e con che meriti, con che forze!» (1).

E subito dopo, la reggenza, costituita da' primati di quella congiura, e composta di quasi tutte persone amiche dell'Austria, distruggendo gli ordini antichi, rifiutando il soccorso dell'esercito italico, chiamò i soldati austriaci invitando i cittadini ad accoglierli con vivi trasporti dì universale letizia coll'affettuosa ospitalità dovuta a generosi liberatori. Ed era quella stessa reggenza, che, in uno slancio d'ingenuità, se non d'ipocrisia, mandava a Parigi una deputazione implorante alle grandi Potenze una indipendenza, che, se prima del 20 aprile ora considerata ammissibile, i fatti posteriori attestavano invece di non meritare. E fu il più grave rimprovero mosso a' cosiddetti Italici, che nell'assenza completa d'ogni programma, s'erano gettati a capofitto nell'ignoto.

E veramente, il Foscolo, ritraendo con parole di fuoco quello stato di cose e le brutture di quei giorni, cosi ne scriveva il 24 giugno 1814 (5): «Non hanno saputo ciò che si vogliono: pare che tutte le loro forze intellettuali ai sieno educate alla chiacchiera, all'astio, o al malcontento di tutto e di tutti. Ora trovano brutti, spilorci e gialli i Tedeschi, i quali a me pare non abbiano colpa se la canaglia patrizia e plebea dell'Italia - la maìorité insomma - ha gli occhi dell'anima itterici. E tuttavia l'esperienza non ha potuto cacciare nelle testacee cornee di queste genti la verità antica, ed anteriore, per quanto io credo, ad Adamo; ed è: che chi non sa ciò che si voglia, deve rassegnarsi a fare ciò che vogliono gli altri. I nostri patrizi vorrebbero e non vorrebbero l'onnipotenza de' preti; e i preti vorrebbero il Santo Ufficio, ma non vorrebbero i frati;

(1)

FOSCOLO, Opere, vii. Lettera alla Contessa d'Albany, n. 392,p. 3, 16 maggio 1814, ed. Le Monnier.

(2) Ibid., Lettera 404, p. 39, alla stessa Contessa d'Albany.

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e i frati sperano di riacquistare il predominio su le coscienze, ma temono il concorso preponderante de' gesuiti; e i possidenti vorrebbero avere degli impieghi lucrosi - tutti sotto l'altro governo lucravano, - ma vogliono pagare un terzo solo de' carichi; e la plebe vuole il pane rinvilito t tre soldi la libbra, e poi grida se il possidente, che venderebbe ai poco le grasce, non persevera nel medesimo lusso, e scema i lavori alla plebe, E tutti insieme, ed uno per uno, credono che i monarchi d'Europa si sieno armati a raddrizzare i torti degli individui. Fioccano petizioni a Bellegarde, perché si restituiscano i privilegi antichi alle sacristie delle chiese ed alle anticamere do' signorini, e si ridonino le trine agli staffieri o le nappe ai cavalli, e un abile boia all'Inquisizione domenicana, Item, professandosi teneri della gloria italiana e della patria letteratura, vanno ideando di bruciare quanti autori giansenisti, repubblicani, atei, giacobini, amorosi, comici e tragici - tutti insomma, fuorché il padre Segneri e il Metastasio - ebbe fino ad oggi l'Italia, e che non sieno stati canonizzati dal Santo Ufficio. Finalmente, molti chiedono alla clemenza di Cesare una stanza in prigione o la galera o il patibolo o, se non altro, l'esiglio per chiunque ebbe opinioni contrarie alle loro passioni. Le denunzie fioccano a centinaia per settimana nel palazzo di Bellegarde, il quale le fa ardere senza volerle pur leggere, E fa somma fortuna davvero, che Bellegarde governi in sì fatti tempi questa città; e sarà fortuna maggiore se la Casa d'Austria, facendo la sorda a chi tratta di giacobini l'imperatore Giuseppe II e Leopoldo, continuerà a governare la Lombardia secondo la mente di quei due principi».

Non fu così; ma pure in tanta bruttura ed ignavia di plebe feroce ed eccitata, in tanta cupidigia d'ingordo pàtriziato e nell'incoscienza de' più, potetti! sembrare una fortuna il governo austriaco. Né se ne previdero le conseguenze avvenire; perché nella lusinga d'ottenere il più si perdeva

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tutto che fin allora, sia pure nel solo nome, era stato simbolo di nostra vita futura. Ma contro il nuovo stato di cose s'iniziava subito una lotta titanica e degna di ricordo, che dovea trasformare cosi meravigliosamente la città del fattaccio di Prina nella città delle Cinque Giornate

Con decreto del 26 agosto 1814 si dava Io sfratto alle società segrete, e sopratutto a quella de' Framassonì ch'era la più estesa, minacciando della prigionia coloro che vi fossero ascritti. E fu appunto dalla Massoneria, compenetrata in una nuova società segreta, con carattere italiano, quella dei Guelfi, - ricordata dal Salvotti nella requisitoria dei processi del 1820 e 1821, sotto il nome di Società de' Centri - che fu maturato il primo tentativo di rivolta. La cospirazione ebbe carattere militare, e vi presero parte più capi del disciolto esercito italico, Teodoro e Giuseppe Lecchi, Gaspare Bellotti, Giacomo Filippo De Meester, e non pochi cittadini, tra i quali Giovanni Rasori, parmigiano, professore a Pavia, medico insigne e caldissimo apostolo delle idee democratiche. Nella speranza d'una restaurazione napoleonica e dell'appoggio del Murat. attratto fin allora al miraggio dell'Indipendenza Italica, era loro disegno chiamare alle armi i veterani italici, sorprendere le fortezze e cominciare l'insurrezione di notte a Milano, suonare le campane a stormo, gridare costituzione e indipendenza. Si tenevano conventicole in casa Rasori; l'avvocato Lattuada avea preparata la nuova costituzione; il colonnello Gasparinetti «il Rasori indirizzi all'esercito italico e al popolo. Mancava un capo che avesse nome e autorità presso i soldati. Il generale Fontanelli, già ministro della guerra sotto il Regno Italico, sì rifiutò di capitanare una impresa ch'egli giudicova cosa impossibile; il generale Zucchi era lontano, onde l'esecuzione di quel piano fu rimessa a tempo migliore.

Intanto per rivelazioni, in cui ebbe parte il conte Alessandro Giffleuga, generale napoleonico, e, come vedremo, figura abbastanza equivoca del mondo settario, ne fu informato il conte Vallesa, ministro degli esteri del Regno

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di Sardegna, il quale a sua volta ne fece de nunzi a alla polizia di Milano. Questa per opera di ben architettato spionaggio ebbe in mano più carte e scoprì i nomi dei congiurati, che furono arrestati nel dicembre del 1814.

Fu creata a' primi di gennaio del seguente anno una commissione straordinaria per giudicarli. Il processo sì tenne a Mantova con grande apparato di forza; il procuratore imperiale chiese per alcuni la morte, e gli accusati lo seppero e per lunghissimo tempo, fino al 17 settembre 1815, aspettarono angosciosamente la notizia della pena che per grazia fu commutata nella deportazione al di là delle Alpi, e nel carcere più o meno lungo a Milano e a Mantova.

Dopo l'impresa de' Cento giorni e dopo il Congresso di Vienna, con quella grazia 11 s'era oramai sicuri d'avere disarmato il partito napoleonico, anzi l'imperatore Francesco, ad attestare la sua benevolenza, si benignò, Terso la fine del 1815, di visitare i suoi fedeli sudditi di Lombardia. Fu accolto in Milano con feste dal vecchio patriziato e dalla claque organizzata dalla polizia. Anche la poesia, in quell'occasione, pii Maneggiando, non risparmiò di profondere carezze e baci por lui. Vincenzo Monti cantò nel Ritorno d'Astrea, il sapiente, il giusto, - il migliore de' re Francesco Augusto, facendo dire alla bella Italia, come ad una meretrice rifatta,

…..............se non viva,

se son diva, d'Augusto è favor (1).

(1) E in tal meretrìcio mercato ebbe il Monti un rivale che lo superò e che fu Pietro Stoppini di Beroldingen, anche liti cantatore in quell'occasione.

Tu che del mondo sei il Creatore

Che d'ognuno vedi il bel cuor sincero,

Che tu perdoni ad ogni peccatore

Che de' falli suoi si pentì davvero,

Ti prego di testificar l'amore

Che ebbe sempre il fedel Lombardo vero

Per il nostro Francesco imperatore

Per serbar lui e per noi l'Impero...

Chi è questo Eroe che noi se ne viene?

Chi mai formò questo erculeo Impero?

L'origine sua non ha da terrene

Ma dall'incognito divin Mistero.

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Narrano però ohe l'imperatore, con tal quale meraviglia e sorpresa, chiedesse a don Giulio Ottolini: «Io tratto le provincie italiane con predilezione: ebbi riguardo alla lingua, ai costumi, alle tradizioni, presi ogni cura perché fossero soddisfatti nell'onore e nell'interesse, e nondimeno so che covano pessimi umori. Ma perché?»,

Il perché l'avea dato egli stesso nel rispondere agli omaggi de' professori dell'Università di Pavia nell'Aula Magna dall'alto della cattedra: «Sappiate, o signori, che io non voglio letterati, non voglio gente di studio, ma vogliomi facciate de' sudditi fedeli a me ed alla mia Casa». Che completava l'altra risposta che senza ipocrisia, e lui e il Metternich, aveano nel 1814, a Parigi, data ai deputati Lombardi, chiedenti l'indipendenza: «Bisogna anzitutto che i Lombardi dimentichino d'essere italiani; l'ubbidienza ai miei voleri sarà il vincolo che unirà le Provincie italiane al rimanente de' miei Stati».

Concetto che veniva confermato nella proclamazione che il Bellegarde pubblicava il 5 aprile 1815 contro l'impresa di Murat V'era detto non doversi «colla speciale idea dei limiti naturali illudere gl'italiani tutti del fantasma di un regno, di cui mal si potrebbe fissare la capitale, appunto perché natura coi suoi limiti ancora ha prescritto avarie parti d'Italia i loro governi particolari, ed insegnato cosi che non l'estensione del terreno,

Fra cento e mille che ne vanta Atene

E le madri degli Eroi che da Omero

Encomiata fur colle sirene

Pari non si può nell'Emisfero.

Eppure in quel traffico indecente di versi, che faceano rimpiangere, nobilitandola, la Musa asservita alla potenza di Napoleone, non mancò il pungente epigramma. Uno così diceva:

Milano pazientissima e giuliva

Festeggia quando arriva.

Pavia gran madre d'ogni scienza ed arte

Festaggia quando parte.

Ma tutte le città che pensan bene

Le sprezzan quando parte e quando viene.

E in un altro più meneghino ancora:

Aritmetica di tresco.

Zero e zero fa Francesco,

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non il numero della popolazione, non la forza delle armi, ma le buone leggi, la conservazione degli antichi costumi, una economica amministrazione formano felici i popoli...».

Insomma gl'italiani doveano cristallizzarsi nel loro passato, i Lombardi doveano dimenticare d'essere italiani, annullare sé stessi nell'avvenire, essere soddisfatti del paterno governo austriaco, E certo che il governo austriaco fu migliore e più sano che non altri governi italiani; ma quel governo ebbe una nota caratteristica che lo rese più odioso degli altri. Si prefisse ad ogni costo di germanizzare il Lombardo-Veneto, per finire poi di germanizzare tutta l'Italia, Tutta la vitalità italiana nel dominio austriaco fa accentrata con una ben serrata e compressa organizzazione burocratica e poliziesca nella Cancelleria aulica sedente a Vienna, Perciò, austriaci ne migliori impieghi, stranieri il viceré e la Corte e la polizia superiore e i magistrati capi, e professori e vescovi e governatori. Tutto doveasi modellare, costumi, abitudini, sentimenti, sul modello austriaco, sopraffacendo quanto rivelasse carattere d'italianità.

Sistema facile di governo che il viceré Ranìeri eo.mpendia va in quel famoso ritornello che i monelli milanesi scimiottavano, accompagnandosi al suono del tamburo:

«Vedrò, dirò, farò. - farò quel che potrò».

«Vedremo, faremo, riferiremo all'angusto nostro fratello», col quale intercalare era solito rispondere a' reclami eia gli pervenivano.

Era ciò possibile? Lo stesso Metternich lamentava tale stato di cose. «Io non credo - così scriveva alla moglie nel 1819 (Mémoìres, rii) - che vi sia qualche cosa che rassomigli meno della Germania all'Italia, eppure i nostri savii di Vienna vogliono ad ogni costo fare degl'italiani dei tedeschi. E così ciò riesce loro a meraviglia».

E in una relazione all'Imperatore, osservava: «V. Maestà non ignora che la lentezza nel disbrigare gli affari, l'intenzione che ci si attribuisce di germanizzare intieramente le provincie italiane,

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la composizione de' tribunali, la nomina giornaliera di tedeschi nei posti della magistratura e negli altri uffici pubblici, sono tutte ragioni di continue irritazioni per gl'italiani e ci fanno perdere tutti i vantaggi che l'amministrazione nostra presenta a paragone di quelle degli altri Stati della penisola».

Eppure la miglior lode che va fatta ai lombardi è appunto questa, d'essersi conservati italiani in quel letto di Procuste ch'era per essi la forzata germanizzazione. Certamente, la germanizzazione dì quelle provincie sarebbe stato il passo più decisivo per l'intera sommissione d'Italia. Dopo il Congresso di Vienna, l'Austria era padrona del Trentino, della Gorizia, dell'Istria, della Lombardia, del Veneto colla Dalmazia; aveva suoi principi a Modena, a Parma, in Toscana, e col proposito di tenere a sé tutta legata l'Italia avea proposto una lega fra i varii Stati italiani, della quale essa sarebbe stato a capo. Se in ciò avea trovato renitenti i principi italiani, e primo fra tutti il governo pontificio, o meglio il Consalvi: pure, ricorrendo allo spauracchio del liberalismo minaccioso e delle sètte, ch'essa stessa accarezzava ed incitava nelle provincie non proprie, era riuscita a conchiudere trattati segreti coi singoli governi. Anzi, a meglio riuscire nella bisogna avea organizzato un potente e serrato servizio di spionaggio che stendeva i suoi tentacoli su tutta la penisola.

A proposito della visita fatta dall'Imperatore a Roma, nel 1818, cosi il Consalvi ne scriveva il 3 maggio al cardinale Spina: a Mi ha parlato molto degli illuminati, dei framassoni, dei carbonari; mi ha date preziose notizie ed La promesso tenerci informati di tutto; vorrebbe che i cardinali legati andassero d'accordo e corrispondessero direttamente con la sua polizia di Venezia e di Milano... L'Imperatore è il vero direttore di polizia non solo del suo vasto impero, ma di tutta Italia... Sa più egli dei fatti nostri che non ne sappiamo noi» (1).

(1) Cfr. Farini, ibid., ii.

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D'altra parte quella politica di germanizzazione creava una condizione tale di cose che offendeva non solo gl'interessi materiali de' sudditi italiani, ma scontentava ogni classe di persone. Lo stesso partito retrivo rimpiangeva il buon tempo aulico, i privilegi quasi cessati de' nobili e del clero, il dominio de' gesuiti. I giovani patrizi, e tra questi anche quelli che sotto il nome d'Italici aveano contribuito a rovesciare il regno italico, nella illusione di ottenere maggiori garenzie d'indipendenza e di libertà, vedevano ora le cose peggiorate senza speranza di meglio.

Il sistema inaugurato dall'Austria era quanto di più dannoso e d'ingannevole insieme. Appoggiato ad una polizia formata dì tutti i falsi liberali di ieri, e sorretto da unii magistratura cieca e servile, iiclk quale i più fieri ed ostinati nemici del nome italiano erano appunto magistrati italiani, cercò un puntello nel favore dei dotti, accarezzandoli, proteggendoli anche, ed assoldandoli nella Biblioteca Italiana, e facendone i portavoce del nuovo stato di cose e i lodatori delle delizie della schiavitù. Mentre nelle scuole i giovani doveano imparare a portarsi verso il loro Sovrano in tutto ciò ch'egli comanda nella sua qualità di Sovrano, come si portano i servitori fedeli in tutto ciò che loro comanda il padrone.

Bisognava perciò opporre al sistema austriaco un altro sistema che riuscisse non solo a paralizzare gli effetti dannosi, ma a formare ed educare la coscienza della nuova generazione; ciò che doveva imprimere al movimento lombardo quel carattere di civile rinnovamento che purtroppo nel rimanente d'Italia non si discosto dal dottrinarismo liberale. Se, come diceva il Pellico al Mompiani, per rigenerare l'Italia erano necessarie le società segrete e bisognava, perciò, farsi carbonaro; le sètte soltanto non bastavano. Le sètte col loro arcano ma vivificante simbolismo svegliano e tengono desto il sentimento di patria e dì libertà, e questo è il primo e più valido contributo d'ogni rivoluzione; ma esso è insufficiente quando

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non s'accompagna ad una seria e proficua educazione morale e preparazione sociale delle masse.

Ciò comprese il giovine patriziato milanese, e primo fra tutti, il conte Federico Confalonieri, che fin dal 1814 s'era slanciato con tutte le sue forze nel movimento liberale, non già, come fa detto, incoraggiando la furia plebea, ma partecipando alla dimostrazione contro il Senato e al movimento contro Eugenio per un regno indipendente e senza Eugenio. Egli era, come dice il D'Ancona, uno di quelli che per natura e per proposito di vita agli altri sovrastano; sicché le moltitudini, secondo le capricciose lor voglie, mirano ad essi come a vessilli da seguire o a bersagli da colpire.

Nel 1814 egli strinse relazioni a Parigi coi migliori liberali del tempo, e dall'Angeloni conobbe gli statuti della Società degli Adelfi. Nel 1816, in compagnia della sua Teresa, visitò quasi tutta l'Italia, e sebbene pedinato dagli agenti austriaci e dalle polizie locali, ebbe modo di stringere relazioni co' migliori delle varie regioni, quasi a stabilire una tacita intesa pel futuro bene d'Italia. Non potendo in patria, per opera del duca di Sassex, fratello del re Giorgio d'Inghilterra, s'iscrisse alla Massoneria nella Loggia di Cambridge, nel 1818.

«... Non sedotto da improprie istigazioni - così egli dichiara nel suo testamento massonico (1) - nè influenzato da mercenari od altri indegni motivi, francamente e volontariamente mi offro a' misteri della Massoneria, a ciò indotto dalla favorevole opinione che ho formato dell'istituzione e dal desiderio di sapere».

Egli stimò che per cacciar via gli stranieri d'Italia e ' fondare libero stato fosse necessario rieducare il popolo, e condurlo colla istruzione a sentire il bisogno della libertà e farsene degno. Perciò faceva consistere il progresso non

(1) Cfr. D'Ancona, Federico Confalonieri, Milano, Treves, 1897, in Documenti, p. 220.

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nella sola aspirazione politica della libertà; ma nell'incremento delle industrie, del commercio, dell'istruzione popolare, e in tutte quelle manifestazioni di vivere civile che contribuiscono a svegliare la coscienza del popolo e a infondergli forza ed ardimento.

E a tale intento si diede attorno con numerosi e fidi amici a trapiantare in Lombardia e a diramare in altre parti d'Italia le scuole di mutuo insegnamento secondo il nuovo metodo lancasteriano, e a promuovere la navigazione a vapore del Po, collegando meglio fra loro Milano e Venezia, perché la più facile e stretta congiunzione materiale giovasse alla concordia degli animi e delle volontà. Meditava di fare a Milano, nel centro della città, allato al Teatro della Scala, un grand'edifizio sul modello del Palais royal, che contenesse un Bazar, un giardino con portici e botteghe, un ateneo, un teatro diurno, e caffè e gabinetti di lettura: ritrovo e sollazzo e strumento di coltura ad ogni classe della cittadinanza; il tutto, la notte, illuminato a gas. Questa luce, di recente invenzione, era come simbolo di quei o lumi» intellettuali e morali, ch'erano la comune parola di riconoscimento de' liberali filantropi di quel tempo. Voleva istituire una stabile compagnia comica, ne aveva l'approvazione di Pellegrino Rossi, esule a Ginevra (1).

E nel campo delle lettere al classicismo fu opposto il romanticismo, alla reazionaria Biblioteca italiana il rivoluzionario Conciliatore, che nella vita lombarda d'allora anche per poco, fu ciò che nella vita italiana de' tempi posteriori l'Antologia di Firenze. Fondato il 3 settembre 1818, per impulso del Confalonieri e del Porro principalmente, esso veniva, dopo un anno e poco più, dalla sospettosa polizia, perché mandava odore di carbone, com'ebbe ad insinuare un giornalucolo al servizio polizia, l'Accattabrighe, diretto dal famigerato conte

(1) Ibid., p. 53.


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sardo Calappio, già commissario di polizia e framassone a' tempi del regno italico, spione della più brutta specie della polizia austriaca.

E veramente la data di fondazione del Conciliatore di poco avea preceduto la scoverta de' primi carbonari del Polesine.

CAPITOLO V.

I Carbonari del Lombardo-Veneto

e i Filadelfi del Piemonte

Verso la fine del 1818 la polizia del regno Lombardo-Veneto scoprì che nella provincia del Polesine sin dal 1817 era stata introdotta la sètta de' Carbonari, e costituite parecchie Vendite. Il dottor Felice Foresti di Conselice, pretore di Crespino, mandato nella sua regione natia col segreto incarico di assumere informazioni sui Concistoriali e sui loro disegni antiaustriaci, era stato iniziato a tutti i gradi della Carboneria, e quindi l'avea importata nel Polesine.

I Carbonari, assai numerosi alla destra del Po, sentivano e capivano bene il gran vantaggio che sarebbe venuto alla causa italiana dal recare alla sinistra del Po, negli stati austriaci, l'organizzazione e le idee della Carboneria.

In sul finire del 1818 già era stato organizzato un Centro carbonico a Rovigo, Vendite subalterne a Crespino, alla Polesella ed alla Fratta, e messi insieme gli elementi personali per altri Centri nelle provincie austriache di Padova e del Dogado.

La Vendita Centrale di Ferrara agiva di concerto con quelle del Polesine, Bologna le dominava tutte, cioè quelle di Modena, Ferrara, Romagne, Polesine. La corrispondenza era attiva quanto mai fra esse.

Nell'autunno del 1818 capitò repentinamente alla Fratta il generale francese d'Arnaud, marito d'un'Elena Monti, bellissima donna della Fratta, già sospetta por segrete relazioni con Gioacchino Murat.

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Elena era donna di energia e di carattere intrigante. Venne di Francia con l'incarico di far proseliti alla Società segreta francese, detta la Spilla nera (épingle noìre), il cui intento (pare) era di mettere il figlio di Napoleone sul trono di Francia. Molti fra i Carbonari aderirono alle insinuazioni di quella donna.

Nel giorno dì San Martino del 1818 ella riunì a banchetto i suoi aderenti, e tra i fumi delle libazioni non si risparmiarono brindisi al buon successo de' futuri avvenimenti politici, alla causa del tiglio dì Napoleone, a quella d'Italia, ecc. La polizia vedeva ed udiva tutto col mezzo di un nipote di essa signora, giovine ch'era stipendiato come spione nella casa medesima della zia. Quindi due giorni dopo quel fatale pranzo, la signora ed i commensali tatti furono arrestati, e messi nelle prigioni di Venezia, in luoghi separati, e trattati col massimo rigore.

Così avvenne che per rivelazioni d'uno degli arrestati, Antonio Villa, ell'era pure carbonaro, il 7 gennaio 1819, furono arrestati i cosiddetti carbonari del Polesine. Tredici furono gl'imputati principali, e tra essi il Foresti, il Solerà, il conte Fortunato Oroboni, mentre altri ventuno venivano coinvolti nel processo.

Contemporaneamente la Carboneria si estendeva anche in Milano, importatavi da Maroncelli, che vi ascriveva, nel 1819, il Pellico, il conte Porro ed altri. Ma mentre nel Veneto il movimento settario era limitato alla sola Carboneria del Polesine, nella Lombardia invece era più vario, più vasto, ed era già in relazione col movimento settario piemontese nell'intesa di un'azione comune.

Non era ancora terminata la processione de' Carbonari della Fratta che scoppiava a Napoli la rivoluzione, e il governo austriaco che se n'era immediatamente dichiarato il principal nemico, invigilò specialmente per impedire che i principii della medesima si comunicassero, o si dilatassero nelle provincie del regno Lombardo-Veneto.

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Con notificazione del governo di Milano in data 29 agosto 1820 si faceva noto: «Che la società de' Carbonari la quale s'era dilatata in diversi Stati circonvicini, aveva tentato di fare de' proseliti anche negli Stati austriaci. Dalle inquisizioni fatte a quest'oggetto essersi scoperte le mire quanto pericolose per lo Stato altrettanto ree di questa Società, le quali per altro non ad ogni membro di essa venivano palesate dai superiori della medesima. Dedursi queste mire a pubblica notizia per avvertimento de' sudditi. Lo scopo preciso a cui mira l'unione de' Carbonari essere lo sconvolgimento e la distruzione de' governi. Quindi secondo le leggi vigenti, i membri dulia medesima eesere rei di tradimento».

Di lì a non molto, il 6 ottobre, fu arrestato il Maroncelli per una lettera abbastanza compromettente intercettata dalla Polizia. Così veniva scoperta a Milano l'esistenza della Carboneria e d'una vasta trama, onde, dopo il Maroncelli furono arrestati il Pellico, il conte Porro, il conte Camillo Laderchi, Gian Domenico Romagnosi, Melchiorre Gioìa e compromessi parecchi altri.

De' processi austriaci la critica, oramai, ha ricostruito in ogni particolare l'andamento e il modo come furono condotti; né qui è il caso di ritornarvi su. Fu una lotta tremenda ed impari tra giudici inquisitori ed accusati, già condannati prima d'esserlo; lotta, fatta di sorprese, di tranelli, di carezze feline, d'intimidazioni, di torture morali, di suggestioni, nella quale non pochi disgraziati rimanevano sorpresi, allucinati, spossati, annichiliti, e finivano per essere inconsciamente i rivelatori di se stessi e degli altri.

Da quelle rivelazioni strappate cogli artifici della più consumata dottrina poliziesca, è dato a noi dì conoscere il carattere diverso che la Carboneria assunse nell'Italia centrale e settentrionale, e che piò si confaceva cogli intenti dì quei settarii e colle condizioni speciali di quelle regioni. A tre fonti diverse appartengono le notizie raccolte a tale proposito ne' costituti de' diversi imputati.

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Le pratiche carbonariche rivelate dal Maroncelli (1), ricordano in tutti i loro particolari il cerimoniale della Carboneria napoletana, a cui fu iniziato, com'egli dice, nel 1815, e ciò ai spiega, poiché non ebbe contatto che per pochissimo tempo coi Carbonari della sua regione natia, e nei primi tempi quando anche nelle Romagne la Carboneria era la stessa di quella napoletana.

Il catechismo di primo grado, come il cerimoniale d'iniziazione ad apprendista, meno qualche particolare di secondaria importanza, sono identici a quelli da noi pubblicati. Vi manca però quella sciocca e teatrale ipocrisia ch'era la prova del pugnale, come pure il barbaro, quanto ridicolo spettacolo della testa recisa. Anche il giuramento è simile; non cosi invece il catechismo di secondo grado, che, nella spiegazione chiara ed esplicita de' simboli, rivela, senza alcun velame o gergo incomprensibile, il fine incessante della Carboneria ch'era la distruzione della tirannide.

IlForesti ricorda che i principii professati erano quelli ammessi unanimemente di unità, libertà, indipendenza. Discrepanza sulla forma organica del governo: monarchia temperata, molti; democrazia, moltissimi». E infatti il catechismo in parola rispecchia la tendenza democratica, che la Carboneria romagnola assunse dopo la Costituzione Latina.

- La Croce dove servire per crocifiggere il tiranno nell'egual modo che crocifisso fu il nostro B... C... C... G..,M... D... U,.. (buon cugino carbonaro Gesù gran maestro dell'Universo).

- La corona di spine servirà per trafiggere il capo.

- Il filo esprime la catena che lo condurrà al supplizio.

(1) Cfr. i costituiti pubblicati dal Luzio, ibid., p. 367. Gli Statuti pubblicati dallo stesso autore si riferiscono a' soli due primi gradi e all'ordinamento delle Vendite. Sono tracciati su quelli massonici e ragionevolmente, essendo molto contatto tra le due sètte, ed anche perché tra i compilatori degli Statuti massonici, stampati in Napoli nel 1820, ma che risalgono al 1813, era il Briot, uno degli organizzatori della Carboneria in Italia.

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ben dice il Carducci (1) - fu la più complessa e larga ad un tempo: delle regioni e popolazioni che traversava, come il camaleonte della favola i colori, attingeva i sentimenti e i bisogni del presente».

I fatti smentiscono l'affermazione esplicita del Salvotti nelle conclusioni del processo Orselli (2), e cioè, che lo scopo della Carboneria fosse quello d'un feroce repubblicanesimo. Se «la distruzione de' monarchi ricoperti sotto l'odioso sembiante di tiranni e di despoti, era inculcata come dovere»; se la repubblica poteva e doveva essere l'onesto e lontano ideale d'ogni carbonaro; certamente, i Carbonari del '20 e del '21 per nulla si dimostrarono repubblicani. Furono in generale sinceramente costituzionali, e se qualche cosa di vero è nelle asserzioni del Salvotti, non manca egli stesso di rilevarlo, aggiungendo: «tutti quelli che parlarono del di lei scopo politico nella nostra inquisizione addussero L'indipendenza d'Italia. Ed allora si rese manifesto, che i Carbonari italiani miravano alla distruzione del governo austriaco massimamente».

E da questo feroce repubblicanesimo scoverto, si badi, dalla polizia austriaca negli intenti della Carboneria, si lasciarono ingannare non pochi de' nostri scrittori patrii, cadendo anch'essi nello stesso errore, nel quale era caduto l'inquisitore di Venezia.

Inoltre egli stesso ricorda: La I. R. Direzione Generale di Polizia ci comunica un fascicolo di carte, che trattavano della Carboneria ne' tre primi gradi di apprendente, di maestro e di gran maestro», ed osservava, che gli originali de' due primi gradi si ebbero nella Romagna, adottati d'altronde da tutta la società; che quello però di terzo grado non si conosceva che genericamente a' segni ed alle parole, e che la copia ne fu fatta nella città di Velletri (3).

(1) Letture del Risorgimento italiano, I, prefaz. XXXV.

(2) Luzio, Md., App., ivi, 503.

(3) Per gli alti gradi della Carboneria, secondo le ricerche della polizia austriaca,Ii:fr. ibid., App. XII.

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Senza dubbio, la polizia fu tratta in errore appunto k questa generica conoscenza d'un grado, e a Velletri, che fu attribuito alla Carboneria, senza esserlo, come a noi sembra.

Secondo le vaghe notizie raccolte dalla polizia, in questo grado il carbonaro, bevuto un liquor rosso, che doveva raffigurare il sangue del tiranno sparso dal maestro (fuori di un teschio, che si supponeva esser quello del tiranno ucciso), prestava il seguente giuramento sopra un ramo di acacia: «In faccia ai resti della tirannide estinta, sopra questa pianta fatale a' Regi, giuro odio eterno a' tiranni; giuro di distruggerli fino all'ultimo rampollo con tutte le forze della mia niente e del mio braccio; giuro di stabilire il regno vero della libertà e dell'eguaglianza». Mancando invocava morte immediata.

Il carbonaro ammesso a questo grado veniva battezzato con un liquor rosso, che raffigurava il sangue de' tiranni, e gli si diceva: «Le tue orecchie non odano che gemiti di tiranni, e grida di popoli liberati, i tuoi occhi non si aprano, che per vedere l'esterminio de' tiranni e la libertà della terra; rammentati quel detto celebre; il cadavere del nemico ha sempre buon odore: le tue labbra siano sigillate dal sangue de' tiranni».

Il catechismo di questo grado, complesso de' doveri e delle istruzioni del gran maestro, gli andava inculcando, che il grande oggetto per cui doveva lavorare, era la distruzione de' governi, opera della mano degli uomini.

«Favorirò - rispondeva l'interrogato nel modo col quale divisasse di cooperare al grande oggetto - favorirò con tutte le mie forze, e a costo della mia vita, la promulgazione della legge agraria, senza la quale non vi è libertà, poiché la proprietà individuale è un attentato contro i diritti del genere amano» (1).

(1) Le notizie di questo grado provengono dalla polizia romana, scoverte a Velletri, ed erra il Romano-Catania (Filippo Buonarroti, Sandroo, Palermo, 1902, p. 151),

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Tuttociò potrebbe anch'essere una pura invenzione della polizia pontificia che su vaghi indizi volle attribuire alla Carboneria un grado che non le apparteneva. Mentre quegli indizi, confermati dal ramo d'acacia e dalle parole libertà, eguaglianza, si riferiscono con molta probabilità ad un grado della Massoneria, anzi non andiamo errati riferendoli del tutto a quel ramo della Massoneria che fu la Società dei Maestri Perfetti o de' Filadelfi.

La più grande indeterminatezza regna su questa setta, per quanto riguarda la sua esistenza in Italia e la sua origine.

La si vuole fondata in Francia nel 1804 dal colonnello Ondet, d'accordo col generale Lafavette e Servan, col corso B. Poggi, col Govot, col Bazin e col frusinate Luigi Angeloni, ed intendeva abbattere la tirannide napoleonica, e riordinare la Repubblica. D'essa parla pure il Salvotti nel processo Maroncelli-Pellico e in quello Orselli; ma le sue notizie, in gran parte attendibili, van corrette nel senso che l'Adelfia o Fìladelfia non costituì una società politica soltanto, né fu fondata nel 1804, e le sue origini debbono ricercarsi nella stessa Massoneria.

Il Coppi (1) è più nel vero ricordando che «colla invasione francese erasi dilatata in Italia la setta dei liberi 'muratori che aveva una propensione democratica. Essa per

attribuendo all'influenza del Buonarroti l'impronta sociale che la Carboneria prese nel Lombardo-Veneto. Per me è dubbia tale influenza; né credo che il Buonarroti, pur ascritto a' Sublimi Maestri perfetti, fosse allora ascritto alla Carboneria. Ne fu gran parte in Francia, ma molto dopo il 1820, quando cioè ad essa impressa quel carattere cosmopolita, del quale risentì pure allora la Carboneria italiana; carattere cosmopolita rimproverato, come vedremo, dal Mazzini.

Il Romano-Catania riporta in riassunto la notizia dal Cantù (Conciliatore, ecc), il quale a sua volta non precisa la provenienza di quel grado, onde l'errore.

(1) Annali d'Italia dal 1750 al 1861, Napoli, 1872. Ad ami. 1820 e 1822. Vi cita pure le fonti donde attinge.

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dette col tempo la sua considerazione, ma poi si rinvigorì rinnovandosi in un'altra setta denominata degli Adelfi. Aveva questa il suo centro, detto Gran Firmamento, in Francia, e nel 1816 si diffuse molto nell'Italia settentrionale. Nel 1818 essa prese la denominazione di Società de' Sublimi Maestri perfetti».

E parlando di questi egli aggiunge: «La società dei maestri sublimi, ossia de' muratori perfetti, aveva introdotte alcune riforme ed in sostanza aveva stabilito: Doversi proscrivere ogni religione rivelata, distruggere tutte le monarchie, uccidere i monarchi e poi stabilire una popolare repubblica. Quindi i settarii ammessi al primo grado rinunziavano alla religione da essi professata, e giuravano sotto pena di morte di consacrare alla propagazione della setta tutte le loro facoltà fisiche, intellettuali e pecuniarie, e di obbedire puntualmente e ciecamente a' loro capi. Quelli poi che appartenevano al secondo grado, e denominatali ai sublimi eletti, erano armati di pugnale ed erano obbligati di colpire col medesimo i simboli della dignità reale. Solennizzavano costoro quattro feste che alludevano alle principali epoche della rivoluzione francese, e fra le altre a quella della morte di Luigi XVI. Era loro indispensabile dovere d'infondere odio e livore nel popolo contro i principi, i nobili ed i sacerdoti. Quindi dichiaravano: Doversi nei giorni di popolare movimento concedere luogo ad un momentaneo trionfo della plebe, e ch'essa saccheggi e si tinga del sangue patrizio e sacerdotale; affinché compromessa ani volta non possa più ritirarsi. Doversi quindi stabilire governi costituzionali, quai mezzi di facilitare la distruzione dì ogni monarchia. Il Consesso principale della setta, denominato il Gran Firmamento, risiedeva in Francia è fra gli altri subalterni che chiamavansi centri ne avea uno in Ginevra. Questo con altro nome era anche detto congresso italiano, essendo appunto diretto a propagare la setta in Italia».

Senza dubbio, da parte il giacobinismo sanguinario ricordato in queste notizie,

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il simbolismo de' Filadelfi e dei Maestri sublimi ci riporta a quello d'alcuni alti gradi massonici, ed è probabile ch'essi siano quegli stessi Filadelfi, ch'esistevano in Francia, e costituivano uno de' Riti della Massoneria, nella seconda metà del secolo xviii.

Sugli avanzi de' dogmi di Svedenborg e di Pascalis (1),

(1) Lo svedese Svedenborg era versatissimo nelle lingue antiche e nello studio di filosofia, metafisica, mineralogia, astronomia. Egli fece profonde ricerche sulla Massoneria, nella quale era stato iniziato; e secondo lui le dottrine di tale istituzione derivano da quelle degli Egiziani, Persiani, Ebrei e Greci. Egli imprese a riformare la religione cattolica romana, ed ì suoi dogmi furono adottati da un gran numero di persone nella Svezia, in Inghilterra ed in Alemagna. Il suo sistema religioso trovasi esposto nel libro intitolato «La Gerusalemme celeste a il mondo spirituale».

Svedenborg divise il mondo spirituale o la Gerusalemme celeste in tre cieli: il superiore o terzo cielo; lo spirituale o secondo, che occupava il centro; e l'inferiore o primo, che riguardava il nostro mondo. Gli abitanti del terzo cielo sono i più perfetti fra gli angeli; essi ricevono la parte maggiore dell'influenza divina, e la ricevono immediatamente da Dio, che mirano in volto. Dio è il sol«invisibile del mondo; da lui provengono l'amore e la verità, di cui sono simbolo il calore e la luce. Gli angeli del secondo cielo ricevono immediatamente; dal cielo superiore l'influenza divina; essi veggono Dio distintamente, ma non in tutto il suo splendore; per essi è un astio senza raggi, nel modo medesimo che a noi apparisce In lima, che emana più luce che calore. Gli abitanti del cielo inferiore ricevono la divina influenza mediante gli altri due cieli. Questi hanno per attributo l'amore e l'intelligenza: quello, la forza.

La dottrina dello Svedenborg fu accettata da molte logge, anzi nel 1783, per opera del marchese di Thomé, fu istituito un proprio rito, detto di Svedenborg, comprendente sette gradi.

Anche Martinez Paschalis fu innovatore della Massoneria. Il suo sistema risale al 1754 e comprendeva, nove gradi intitolati apprendista, compagno, maestro, grand'eletto, apprendista coen, compagno Coen, maestro coen, grande architetto e cavaliere commendatore, e che formavano il rito degli eletti coen o sacerdoti. Esso abbracciava la creazione dell'uomo, la sua punizione, le pene del corpo, dell'anima e dello spirito ch'egli prova.

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nel 1773, si era formata nella Loggia degli Amici riuniti, in Parigi, una nuova Massoneria che aveva preso il nome di regione de' Filaleti. Essa, nel 1780, subì in Narbona notabili modifiche, che dettero origine ad un altro rito detto primitivo, il cui centro venne stabilito nella Loggia locale, detta i Filadelfi. Si diceva introdotto in Narbona da superiori generali maggiori e minori dell'ordine de' free and accepted masons del regime, e comprendea tre categorie di massoni, l'iniziazione de' quali era divisa in dieci classi, I suoi gradi non erano propriamente tali; essi erano delle collezioni o famiglie di dogmi, da cui si poteva trarre un numero immenso di gradi. Dopo le tre divisioni della Massoneria turchina o francese, d'apprendista, compagno e maestro, veniva la quarta classe che abbracciava il maestro perfetto, l'eletto e l'architetto. La quinta si formava del sublime scozzese e di tutte le composizioni analoghe. Nella sesta vi erano i cavalieri d'Oriente ed i principi di Gerusalemme. Le quattro ultime classi riunivano tutte le conoscenze massoniche, fisiche e fisiologiche, che possono influire sul benessere materiale e morale dell'uomo temporale, e tutte le scienze mistiche, il cui oggetto speciale è la riabilitazione e reintegrazione dell'uomo intellettuale nel suo posto e ne' suoi diritti primitivi. Queste ultime classi portavano i nomi di primo, secondo, terzo e quarto capitolo di Rosa Croce.

Su per giù è la stessa Massoneria; ma mentre durante l'Impero i due riti scozzese e francese si disputarono le grazie di Napoleone, asservendosi al suo governo, i Filadelfi invece rappresentarono la massoneria antiufficiale, a cui si ascrissero i nemici della tirannide napoleonica.

In Italia, essa dopo il 1815 prese il posto della Massoneria

Scopo dell'iniziazione era di rigenerar gl'individui, e reintegrarli nella loro prima innocenza col dritto da Loro perduto pel peccato originale. Fra i discepoli pia ferventi del Paschalis era il barone di Holbach, autore del sistemi della natura.

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asservita a' governi dei Napoleonidi e che non avea più ragione d'esistere, sfatata com'era e magagnata, dopo la caduta d'essi. Fu importata per l'opera attiva di propaganda del Buonarroti, durante il suo soggiorno in Ginevra, e dell'Angeloni, a cui più direttamente devesi la preparazione e la direzione del movimento settario nel Piemonte. Verso il 1818 tale setta riuscì a conciliare e a raccogliere sotto la sua direzione in un sol fascio tutte le sètte secondarie, i guelfi, i latinisti, i fratelli artisti, gl'illuminati, gli Italiani liberi, gli amici dell'unione, i fratelli scozzesi, ecc, e si mise in relazione colla Carboneria nello svolgimento d'un piano comune, nell'Italia settentrionale e centrale.

Tale iniziativa partì dal Piemonte, e la condizione del Piemonte favoriva in certa guisa quella concentrazione delle forze liberali, che per un momento sembrarono di voler sconvolgere tutta l'ltalia.


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CAPITOLO VI.

La drammaticità della storia piemontese

e i

Federati italiani

Meraviglioso giorno il 20 maggio 1814; spettacolo di vero entusiasmo quando dal ponte sul Po apparì la bonaria figura del desiderato re Vittorio Emanuele I a giocondare un popolo stanco e rifinito dalle ansietà e dagli aggravi della signoria straniera. «Non v'ha cuore di piemontese che non ne serbi soave memoria - scriveva Santorre Santarosa, testimone insospetto (1) - giammai in Torino fii veduta festa più commovente; il popolo accalcarsi giulivo attorno al Re; gli occhi della balda gioventù contemplarne le fattezze; i vecchi servitori, i vecchi soldati avidi di raffigurarlo; da ogni petto grida di gioia; da ogni volto trasparire contentezza di cuore e giubilo. Nobili, borghesi, popolani, campagnuoli, tatti s'era stretti in un pensiero; tutti ei vagheggiava la medesima speranza. Non più parti, non più tristi rimembranze; il Piemonte ridiventa una sola famiglia, con Vittorio Emanuele padre adorato».

E Massimo d'Azeglio (1): «Vestiti alla moda antica, con la parrucca, il catagan ed i capelli alla Federico II, avevano certe figure ridìcole, e cionondimeno ci parvero belle».

Passano appena sette anni e questo buon Re, semplice, affabile, giusto e popolaresco è costretto ad abdicare.

Donde ciò? Così si domanda il Manno; ma la risposta bisogna ricercarla nella lettera che in quello stesso giorno il Re scriveva alla Regina: «Ricorderò sempre questo giorno del mio ingresso nella nostra fedele Torino»;

(1) De la réoolwtion piémontaise, Parie, 1822, p. 4, (Anonimo).Masso, Informazioni sul Ventuno in Piemonte, Firenze, 1879.

(2)

I miei ricordi, p. 110.

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«e, - soggiungeva - subito la compenserò della sua gioia col cancellare ogni traccia dell'occupazione nemica».

E infatti con malaugurato e famoso editto del 21 maggio 1814 si tentò di rifare d'un tratto, e tutto intero il vecchio ed impossibile ordine di cose. E via via si prosegui, con cieco risentimento e colle avventatezze del conte Borgarelli, e colle esagerazioni de' convinti, e collo zelo inopportuno de' piaggiatori e colle avidità degli affamati (1).

Invece d'accettare - dice il Cibrario (1) - l'eccellente legislazione, i forti ordinamenti amministrativi dell'impero francese, si distruggeva tutta un'epoca; o credevasi distruggerla relegando in fondo ad un orinale la figura di Napoleone. E fu una brutta trovata della regina.

Si ristabilirono i privilegi, i tribunali d'eccezione, le pene crudeli, le confische, e ciò che forse era peggio, il Re di nuovo s'impaccio nell'amministrazione della giustizia, stornando a suo piacimento le parti da' loro giudici naturali, concedendo indugi a pagar debiti, sospendendo, e annullando procedimenti criminali, sostituendosi pene arbitrali dal Re in forza d'un potere chiamato economico, usando misura diversa di pena col l'aristocrazia e colla plebe' dei delinquenti, quand'anche il reato fosse eguale.

Risuscitavano improvvisamente i conventi, le banalità, le decime, le commende, le primogeniture, i fedecommessi, i privilegi di tutti i generi, le aristocrazie di tutte le classi, i frati di tutti i colori; risuscitavano le sportule de' giudici, le piazze de' causidici, degli speziali, de' fondacchieri, le giurisdizioni del Vicario e dell'intendente, gli auditorati, i Consigli, i Comandi militari, il Foro demaniale, il Foro soldatesco, il Foro ecclesiastico, con tutta la sequela dei tribunali di eccezione; risuscitavano le interdizioni de' protestanti, le assise gialle degli ebrei, le inquisizioni segrete, le fustigazioni, i tratti di corda, la tortura, la ruota, le tanaglie infuocate,

(1) Manno, ibid., p. o.

(2) Ricordi, ecc, Torino, 1850, p. 191.

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i giustiziati ridotti in quarti, i cadaveri profanati, pasto alle fiere le umane membra (1)

E per meglio cementare il vecchio ordine di cose con un personale sicuro da sostituire alla burocrazia dal dominio francese, si ricorse al Palmaverde, almanacco del 1798. Tutti coloro che a tal epoca vi si trovavano inscritti venivano richiamati al loro posto; ne' posti vuoti dovevano salire quelli che seguivano ad essi. E così gli uomini più misurati e prudenti che avevano in pubblici uffici servito la patria a' tempi napoleonici, o in estere contrade cresciuta, ben operando, la fama del nome piemontese, erano scartati come giacobini, e conferivansi spesse volte gl'impieghi a tali che non aveano altra capacità salvo quella d'aver avuto fede ne' diritti santissimi della legittimità, e d'averne predetto il trionfo nel ritorno del Re, e che avversavano per principio ogni progresso, ogni riforma; gente per la quale il mondo avea cessato d'esistere fino al quattordici.

Ma tuttociò era una follia? Eppure potè sembrare in buona fede l'unico rimedio atto a ridonare pace all'universo, ritornare, cioè, all'antico in tutta la sua interezza, senza ricorrere alla finzione o a dannose transazioni.

Ma la lotta che necessariamente doveva scaturire dal contrasto di opposte tendenze e dì principii opposti, ebbe nel Piemonte qualche cosa di caratteristico che non si riscontra altrove. È una lotta che risentì di tutto il misticismo pseudocristiano allora di moda; è una lotta, alla quale la natura morbosa de' personaggi che vi presero parte, impresse tale una drammaticità psicologica che ricorda la tragedia greca o il dramma shakespeariano.

Vittorio Emanuele I, piccolo di statura, brutto di viso, curvo dagli anni, povero di spirito, scarso d'ingegno e di sapere, è uno di cotesti personaggi.

(1) Cfr. BROFFERIO, Storia del Piemonte, 7.

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Buono, estremamente buono, egli sente in sé una forza misteriosa che lo trasforma inconsciamente nel freddo, compassato, inesorabile fato della leggenda. Si sente dominatore d'un mondo ch'egli colla tenacia de' suoi avi non vuole sottomettere a chicchessia. Per quindici anni egli ha dormito; ma il suo è stato sonno magnetico fatto di fissazione nel passato, e nel quale egli ha inteso rinnovellare in si l'anima e la fierezza del suo grande Avo, Testa di ferro. Anche lui, come Testa di ferro, ha visto perduto i dominii aviti; anche lui ha creduto, sognando, di combattere contro gli usurpatoti, e ne' suoi sogni s'è sentito il duce glorioso della cavalleria fiamminga, l'eroe di San Quintino. E svegliandosi ha creduto sul serio a quei sogni, e sa lui non può nulla che lo devii dalla sua fissazione, né le minacce dell'Austria, né le preghiere della moglie o i pianti della figlia, né le aspirazioni del suo popolo (1).

Egli è il sostenitore della legittimità e del suo Io. È una vittima, un idolatra di quell'arca santa che per Ini è il trono de' suoi avi. E quando s'avvede che il suo Io - tutto un passato di glorie, di memorie, tutta la storia dei suoi avi in quell'o, il trono, l'arca santa del diritto - non è più la divinità incontrastata d'una volta; quando s'avvede che è venuto meno il prestigio dell'autorità e non è più compreso il sacrosanto diritto della prerogativa, allora egli pronunzia un no, e s'arretra innanzi a quel mondo nuovo, s'arretra, e bisogna dirlo, né superbo, né vigliacco.

Il suo no vale per lui tutto quel mondo nuovo che freme, che aspetta. No, no; e nel disprezzo olimpico per tutti egli si sente

(1) «Ho dormito quindici anni - diceva bonariamente il re -; ora mi sono svegliato e non ho che a ripigliare le cose del giorno innanzi», Un giorno che il re ripeteva all'ambasciatore russo questo suo favorito ritornello, il russo, annoiato, facetamente rispose: «Sire, ringraziamo il cielo che non ubbia dormito anche l'Imperatore di Russia, altrimenti Vostra Maestà correva gran rischio di non risvegliarsi sul trono n. (Brofferio).

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ancora d'essere il dominatore d'un mondo che oramai si va dileguando, è vero, ma ch'egli saprà ritenere ne' suoi sogni. Meglio vivere ne' sogni, che vivere estraneo

in un mondo che non lo sa comprendere. E si ritira a sognare; ma prima di riaddormentarsi, con un bel gesto che gli fa onore, ordina al conte Saluzzo di bruciare tutte le lettere che possono compromettere qualcuno.

Questo qualcuno è Carlo Alberto, l'altro personaggio di quel dramma, personaggio ch'è il termine di transizione politica e morale d'una schiatta. Né Carlo Alberto è in grado di comprendere quel mondo che si rivolge a lui. Nato giacobino, cresciuto borghesemente nel delirio napoleonico, diviene d'un tratto l'erede presuntivo al trono di Sardegna. C'è troppa vita in lui; ma quella vita, è per lui tortura continua.

Non lo storico, ma il psicologo - come per il maggior numero de' nostri uomini del Risorgimento - deve studiare quel personaggio segnato dalla fatalità. Pallido, emaciato, impassibile, dagli occhi lustri, penetranti, è sopraffatto da un male misterioso - il mal sottile del dubbio - che ne corrode tutte le fibre, e che lo prostra, lo dilania, lo brucia, lo consuma, in una lotta nella quale il suo io si sdoppia in due nature, la natura atavistica e la natura giacobina, È lo schiavo di queste due nature, suggestionato, allucinato, oppresso, attanagliato ora dall'una ora dall'altra; tormentato da visioni macabre, perseguitato da fantasmi infiniti, lanciato in una ridda di spettri, nella quale il ano cervello si sfaccetta e si consuma in uno spasimante scintillio. E in quello stordimento cerebrale, in quell'annientamento del suo io. egli vive una vita fatta di contrasto di fronte a quel mondo che vorrebbe far suo, ma dal quale per forza superiore, misteriosa, egli s'arretra, come Sant'Antonio s'arretrava spaventato e disfatto innanzi a quella bellezza, il desiderio della quale lo avea divorato nei sogni carnali d'asceta.

E a torno a questi due personaggi è il popolo piemontese variamente formato.

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Da una parte sono gl'idolatri del passato, sbiadite figure de' cortigiani d'una volta, educati nella penombra delle anticamere e delle caserme; figure tozze e banali, incoscienti, ma misurate, compassate, connaturate di passiva obbedienza. Dall'altra parte sono gli antichi ufficiali di Napoleone che videro il sole di Marengo e di Austerlitz e ne conservarono nel cervello tutto lo sfavillìo; gli antichi impiegati, i nuovi elementi sociali, ora spostati, avvocati, professori, ingegneri, medici, preti, commercianti, proprietari, nobili, ricchi, che hanno in se un patrimonio di vita vissuta e che ora sono condannati all'inazione forzata, alla compressione dei propri sentimenti. E tra questi sì delinea la novella generazione concepita nel fervore della guerra e della rivoluzione, anch'essa, col germe nel sangue della rivoluzione e della guerra. E naturale che costoro cerchino nella vita anche artificiosa delle sètte quella vita che loro viene a mancare.

Anche in Piemonte le sètte erano diffuse. Fin dal 1815 un Pallavicini, lucchese, spargeva largamente colà libelli rivoluzionarii e settarii. Venivano emissari di Francia, iniziazioni si facevano de' nostri viaggianti all'estero, si tenevano conventicole in paese, protette e coperte dagli ambasciatori di Francia e di Spagna, e l'uno e l'altro rivestiti d'alti gradi massonici, e dal ministro dì Baviera che brigava sperando di preparare coi nuovi eventi una restaurazione al Beauharnais,

È un mondo indeterminato, vago, nebuloso, nel quale primeggia la figura dal generale Alessandro di Grifflenga, figura. ancora inesplicabile, che tendeva al nuovo senza punto scomodarsi, e adattandosi tranquillamente anche ai vecchi tempi.

Dalla restaurazione, come ai disse e forse sì crede (1),

(1) Manno, ibid., App., III, 129. La patente giustificava in seguito cosi la nomina a. maggiore generale: «Nemico d'un ozio imbelle, e spinto da generoso ardire, prese servizio presso estera potenza, ed a gloria del proprio nome e della nazione piemontese, cui appartiene,

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gli fu fatto l'insulto di mandargli una patente di capitano, grado che aveva nel '99. Ma dopo le rivelazioni riguardanti la congiura militare del 1814 in Milano, venne invece, caso isolato, decorato del grado di maggiore generale col carico di colonnello del corpo de' cacciatori reali. Eppure, dopo questo, e sapendosi sorvegliato, egli continuò a congiurare nel mistero delle sètte. Era a capo degli Adelfi ed in corrispondenza con la Betta dell'épingle di Lione, e a capo di tutto il movimento settario del Piemonte, e in relazione cogli altri settarii della penisola. Ma nelle sue relazioni settarie c'è tanta cautela di se stesso, che quelle sembrano le abitudini di cui non può fare a meno, anziché vere aspirazioni.

Così il confidente marchigiano dice di lui: a mi diressi al generale Cìfflengh da me particolarmente trattato, e conosciuto in Ancona. Ciò fu la mattina, ma appena mi vide, mi disse di andarlo a trovare la sera a mezz'ora di notte. Io mi vi recai difatti, trovai mandata fuori di casa la famiglia de' servi, e tutti i soldati ed appena arrivato alla porta della sala, sentii ch'egli stesso mi aperse senza darmi neppur tempo di bussare: mi accolse confuso, e sospettoso, mi domandò tumultuariamente per qual progetto mi ero portato in Torino, al che risposi, perché temevo da un canto la vigilanza del governo pontificio per la mia qualità di settario e perché cercavo di conoscere i miei fratelli e cugini per qualche aiuto, e per servire le società alle quali ero ascritto; al che replicò, che io partissi subito

seppe colle sole sue virtù militari farsi strada a' sommi onori della milizia. Ripieno dì sentimento d'onore e di rispettoso attaccamento per il legittimo suo sovrano, appena intende il felice cambiamento degli affari d'Europa, si dimette subito dall'estero servizio e viene ad offerire la sui spada e la sua vita. La purità dei sentimenti che in lui conosciamo, le profonde cognizioni teoriche e pratiche di cui lo sappiamo fornito intorno al mestiere delle armi ed il valore di cui ci ha dato in tanti incontri le più indubitate prove, ci hanno disposto, ecc...».

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da Torino per evitare le ricerche terribili di quella Polizia, che io non avrei trovato nessuno in Torino, e mi volle dare una moneta d'oro di 29 lire, ecc.».

Senza dubbio, il Gifflenga, in relazione coll'Angeloni, a cui facea capo tutto il movimento settario, fu colui che forse introdusse, ma certamente propagò nel Piemonte la massoneria degli Adelfi, contribuendo così a preparare quella cospirazione che all'ultimo momento dovea abbandonare e tradire.

Oltre la massoneria regolare che faceva capo ai due ambasciatori di Francia e Spagna; oltre la massoneria degli Adelfi, anche la Carboneria era già penetrata nel Regno Sardo. Un'Alta Vendita esisteva a Torino, e Vendite particolari ne' principali centri di Piemonte e di Liguria: a Genova, Biella, Casale, Ivrea, Vercelli, Asti, Novara. Secondo il Manno, i veri caporioni iniziati aJ più reconditi segreti si trovavano in Alessandria; ma essi, e per la condizione de' tempi e per le opinioni che correvano, si celavano dietro ai nobili di Torino ed agli uffiziali dell'esercito. Tutti i Carbonari piemontesi volevano un Regno settentrionale italiano ed un regime costituzionale. Si sperava nell'antica ambizione dì Casa Savoia d'unire la Lombardia al Piemonte. N'erano a capi il medico Gastone, l'avvocato Grandi, l'avvocato Marochetti di Biella, l'abate Bonardi di Casale, il conte Palma d'Ivrea, il dottore Fossati di Novara, il capitano Prina, l'ingegnere Appiani, il medico Rattazzi.

Anche la Società degli Adelfi avea preso un carattere politico che meglio verso il 1817 si delineo in due società che da quella derivarono.

Ricorda Beolchi (1) ch'egli e gli avvocati Giovanni Battista Testa, Pietro Fechini, Pietro Gellio, Giovanni Allegra, Cristiano Vanni, Biginelli, il matematico Oreglia, l'ingegnere Iosti, il medico Costa ed altri fondavano in quell'anno, a Torino, l'associazione segreta de' Liberi Italiani

(1) Cfr. Piemonte nei 1821 in Riv. Contemp., 1864.

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Fechini avendone parlato al suo amico maggiore Santarosa, sentiva che ve n'era un'altra allo stesso scopo, detta de' Federati Colla unificazione delle varie sètte alla dipendenza dei Sublimi Maestri Perfetti, avvenne pure la fusione delle due Società de' Liberi Italiani e de' Federati in una sola che per lo scopo politico a cui tendeva fa detta de' Federati Italiani ed organizzò militarmente il movimento settario.

Ogni federato - secondo le risultanze del processo bresciano - doveva prestare un lungo giuramento col quale si prometteva segretezza, onore e fedeltà alla costituzione e al re, che sarebbe stato proclamato e che doveva essere il Principe di Carignano; si prometteva di cooperare con tutti i mezzi per ottenere la costituzione di Spagna od altra che si sarebbe reputata più analoga; s'invocava il castigo di Dio sopra colui che avesse violato il segreto. Erano stabiliti de' gradi, di colonnello, comandante e capitano coi rispettivi segni di riconoscimento, le parole e il modo con cui si dovea prestare il servizio nel momento dell'esecuzione. Ogni comandante dovea fare dieci capitani, e ogni capitano quattro federati. Patria, onore, costanza: erano le parole di riconoscimento. Si domandava: - Che cosa cerchi? -; bisognava rispondere: - L'Indipendenza d'Italia (1).

Non a torto il Salvotti, nella requisitoria del processo Confalonieri, afferma che e tutte le Società segrete popolari, che furono sparse in Piemonte, in Parma, nel Modenese

(1) Cfr. pure D'Ancona, ibid., p. 286 e seg. e 241. «Il segno era il seguente: quello che salutava o che voleva farsi conoscere univa entrambe le sue mani palma a palma, mettendo il pollice della nano destra trii il pollice e l'indice della meno sinistra, ossia per dir meglio il pollice della mano sinistra tra il pollice e l'indice della mano destra, in guisa che il pollice della sinistra premeva sulla prima articolazione dell'indice destro. All'incontro il membra che rendeva il saluto metteva la matto destra sul fianco sinistro, quasi che la mettesse sulla spada»,

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negli Stati Pontificii, a null'altro miravano che a preparare appunto alla rivolta delle braccia attive, che all'uopo si sarebbero armate».

«E la Federazione avesse questo stesso carattere, e che dessa dovesse essere il semenzaio della Guardia Nazionale, o forse piuttosto il nocciolo della medesima, già preparato nel segreto, ella è verità che dallo atesso suo esteriore organismo deducesi, imperocché i varii gradi nella stessa adottati erano per lo appunto sotto nomi militari adombrati».

Ma chi poteva e doveva essere il segnacolo in vessillo di quel generale movimento? Non potevano i liberali sperare in Vittorio Emanuele, non nel fratello Carlo Felice cui nessuna forza umana avrebbe piegati a smentire sé stessi, il loro passato e ciò che stimavano sacro ed intangibile patrimonio degli avi. Era naturale che tutti vedessero in Carlo Alberto il simbolo de' nuovi tempi, e maggiore interesse e popolarità ispirava il saperlo fatto bersaglio - come si buccinava - alle perfide macchinazioni della regina Maria Teresa, e della Casa d'Austria per contendergli la successione al trono di Sardegna.

Con loquacità giovanile egli favellava contro tutto e contro tutti, né si peritava di mettere in ridicolo il re, la regina, i ministri, i cortigiani, e più specialmente tutte le ordinanze reazionarie che, come gragnuola, cadevano l'una appresso all'altra, sulle stupefatte popolazioni e sul paese.

Attorno a lui s'era formata una folla di adoratori infiniti, sicuri ch'egli era un genio, e che avrebbe condotta la nazione piemontese a trionfare di tutti ed a portare particolarmente la rigenerazione all'Italia.

Ad un giovine torinese Vincenzo Monti diceva: " Beati voi, giovani piemontesi, che vedrete la redenzione d'Italia. Voi avete il Principe di Carignano. Questo è un sole che s'è levato sul nostro orizzonte. Adoratelo, miei cari, adoratelo».

Per mezzo del generale Gifflenga egli nel 1819 si metteva in relazione epistolare coll'Angeloni, autore, nel 1814, d'un

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libro sopra l'ordinamento che aver dovrebbono i governi d'Italia, spirito giacobino e repubblicano, che pure, per amore all'Italia, transigeva co' propri ideali nella speranza di vedere un principe italiano mettersi a capo del movimento rivoluzionario. IAngeloni mandò al Carignano ì suoi libri, scrivendogli una elucubrata lettera, in cui manifestava lieti presagi all'Italia ed al Principe. Questi gli fece rispondere dal Collegno vivi ringraziamenti per il bene che l'Angeloni faceva alla patria coi suoi scritti, manifestando agl'Italiani i veri loro interessi ed animandoli tutti a quell'unione, di pensieri che solo potrà dare a noi forza bastante a procacciarci ciò che finora invano attesimo dagli stranieri. E concludeva dicendo che il principe desiderava provargli di giustificare gli elogi ricevuti. Replicò l'Angeloni, lieto di veder sorto in Italia il fatidico astro, che, auguravasi volesse accelerare il suo splendido corso.

E quando tutto era pronto a scoppiare sembrava che il principe stesso ne desse il segnale. Dopo le rivoluzioni di Spagna e di Napoli avrebbe detto ad uno dei confederati;

- «E noi cosa facciamo?». - Ed a Giacinto Collegno:

- a Purché anche da noi qualche cosa si faccia». In un banchetto d'ufficiali d'artiglieria il 4 dicembre 1820 ascoltava con piacere versi di caldo patriottismo. Si metteva in relazione col Gonfalonieri a cui mandava successivamente, De!dicembre 1820 e nel febbraio 1821, due suoi aiutanti di campo apportatori di parole «assai singolari».

Oramai la natura giacobina avea preso il sopravvento e lo spingeva al gran passo. Egli si sentiva oramai l'Eroe, l'uomo fatale. Innanzi a sé vedeva l'Italia tra i fulgori della santa corona del ferro...

E fu un'allucinazione dalla quale dovea svegliarsi eroe, sì, ma.,, eroe del Trocadero!

(1) Romano-Catania, Luigi Angeloni e Federico Confalonieri in Pensiero Italiano, VII, 1898, fasc. 89.


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CAPITOLO VII.

Il pronunciamento militare del Piemonte

e la catastrofe dulia cospirazione italiana

Ai primi del 1821, metà dell'Italia era in rivoluzione; nella Lombardia, nei Ducati, nelle Romagne non s'aspettava che un segnale per insorgere, e si aspettava dal Piemonte.

Già all'annunzio della rivoluzione napoletana i capi settarii romagnoli s'erano scossi e avevan discusso se e come potessero ottenere lo stesso polìtico cambiamento anche nella Ro magna. Il cardinal Castiglioni che fu poscia Pio Vili, così scriveva a' 23 settembre del 1820: «Siam circondati dalla mala genìa Massonica ehe ci ha rubati quasi tutti gli impiegati e ci toglie la gioventù di talento». A Bologna i Carbonari mandavano fuori clandestinamente un giornale intitolato l'Illuminatore. Agli 11 d'agosto del medesimo anno fu affisso a Cesena una carta clandestina in cui offrivasi 100 luigi di premio a chi scrivesse una memoria sulla costituzione da dare agli Stati Pontificii.

Congressi settarii erano tenuti, sul declinare del 1820, a Cesena, Forlì, Faenza, e Ravenna. Un emissario fu inviato a Napoli ed ebbe un abboccamento col Pepe, il quale tìiubiaravagli «che qualora gli Austriaci non avessero voluto immischiarsi nel polìtico mutamento di quel Regno, i Napolitani non intendevano d'interessarsi per gii altri popoli

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d'Italia contenti di consolidare la nascente loro istituzione politica circoscritta alla loro patria; che però se l'Austria avesse voluto muovere loro guerra, i Napoletani avanzando bì sarebbero valsi dell'opera de' Romagnoli (1).

Altri emissarii furono spediti in Piemonte, in Parma, e nel Lombardo-Veneto, e quando si conobbe inevitabile la guerra dell'Austria contro Napoli e si previde la rivoluzione del Piemonte, anche i Romagnoli si persuasero che l'ottenere anch'essi il sistema costituzionale dipendeva dall'esito che avrebbero avuto gli sforzi de' Napoletani e dei Piemontesi.

Era comune credenza che il Duca di Calabria e il Principe di Carignano fossero d'accordo ed intesi di fermare di tutta l'Italia due regni a regime costituzionale, divisi dal Po. Tra l'uno e l'altro, lo Stato Pontificio, avrebbe, secondo i Carbonari napoletani, formato, dopo la morte del papa, un altro regno per il principe Leopoldo Borbone, separando così il potere temporale dal dominio spirituale dei pontefici. Ma tale pensiero fu deposto allorché si ebbe conoscenza della guerra che l'Austria avrebbe mosso al Napoletano, d'intesa col vecchio e spergiuro re Ferdinando.

Ciò non ostante l'unione patriottica per lo Stato Romano, costituitasi in Teramo e formata de' rappresentanti di Pontecorvo, Benevento, Romagna ed altri, appena nota la guerra contro Napoli, deciso lo scoppio dell'insurrezione in Romagna per il giorno 15 febbraio, spalleggiato da un drappello di settarii napoletani. E veramente in quel giorno, un trecento carbonari, fra napoletani e fuorusciti, dal Tronto si avanzarono fino a Ripatransone. Spargevano proclami co' quali promulgavano la Costituzione di Spagna, ed invitavano a raccolta col nome di Unione patriottica dello Stato Romano in uno de' campi dì Pesaro, Macerata, Spoleto e Frosinone. Ma venivano tosto dispersi e ricacciati negli Abruzzi da un corpo di truppe di 600 soldati pontificii,

(1) Cfr. Luzio, ibid., p. 510.

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capitanati dal delegato del Papa, monsignor Zacchia. In seguito, conosciuta l'intenzione de' Piemontesi, fu stabilito d'insorgere tra il 20 ed il 21 marzo (1).

Intanto ohi non si faceva illusione su quella eccitazione artificiosa degli animi era il Confalonieri. A' primi del 1821, il 10 gennaio, era tornato da un rapido viaggio in Toscana fatto col pretesto di salutarvi lo Jablonowski, e vi aveva trovato il Pecchio ed il Trechi pervenutivi per altre vie. Vi si eran dati la posta, non senza che la polizia se ne accorgesse, perché in Toscana, come in luogo centrale, meglio potevasi giudicare de' preparativi delle Romagne, e più esattamente conoscere i fatti di Napoli.

A Milano e nella Lombardia s'era in ansiosa aspettativa. La Federazione v'avea posto piede più che altrove; in Milano erano due centri: all'uno appartenevano persone distinte di censo, di nascita, di talenti; all'altro persone di stato mediocre ed anche di condizione umile, sulle quali si poteva contare e per il loro attaccamento al partito e per la fermezza del loro carattere. I Federati dì Brescia e di Pavia tenevano il secondo luogo nella fiducia de' capi; venivano poi quelli di Cremona, di Lodi, di Como, di Bergamo, di Sondrio, ma in minor numero, non tanto per ragione della minor popolazione; quanto per la mancanza di soggetti abili a ben dirigere l'operazione (2).

Già dovea il Confalonieri recarsi a Torino per esaminare

(1) Le sètte soltanto ai agitarono, e Primo Uccellini scrive nelle sue Memorie che se le Romagne non tentarono d'impedire il paesaggio degli Austriaci che andavano a sedare la rivoluzione di Napoli, fu per ordine espresso dell'Alta Vendita Carbonaresca di Bologna: «Si lasciassero passare senza molestarli e solamente al loro ritorno fossero da ogni parte assaliti...». E il Fattiboni aggiunge che gli ufficiali austriaci, molti de' quali si rivelavano per carbonari, furono ben accolti a Cesena e altrove dagli stessi liberali». (Cfr, Masi, Cospiratori in Romagna dal 1815 al 1859, pag. 232).

(2) Cfr. Cantù, Conciliatore, ecc.; Relax. Offic:, p. 158 e segg.

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più da vicino lo stato delle cose; ma caduto ammalato vi si portò in sua vece il Pecchio che ritornato riferì essere imminente la rivolta militare, e questa «destinata a comunicarsi, per irruzione, anche alla Lombardia».

E sul da fare quando l'irruzione fosse avvenuta, in un convegno a San Siro, ove convennero lo stesso Pecchio, Carlo Castilia, Borsieri, Arrivabene e Bossi fu elaborati il progetto di un governo insurrezionale e che fu comunicato al Confalonieri infermo e mandato anche al Principe dì Carignano.

Secondo quel progetto furono preparati i quadri d'una Guardia Nazionale; designati il comandante, quattro colonnelli e molti ufficiali; provveduto alle armi. Si stabiliva la creazione d'una Giunta provvisoria a Milano come succursale di quella di Torino. Doveva la medesima essere divisa in sette sezioni o ministeri. Designate le persone che a ciascuna d'esse doveano presiedere, i segretari ed altri impiegati subalterni. La presidenza era stata assegnata al Confalonieri. Si stabiliva, appena conosciuto il passaggio del Ticino da parte de' Piemontesi, di suscitare tumulti popolari in Milano ed in Brescia, sorprendere le fortezze di Peschiera e di Rocca d'Anfo e impadronirsi del tenente maresciallo Bubna, comandante delle armi austriache in Lombardia. Mentre un corpo d'esercito piemontese avrebbe occupato Milano e la Lombardia, un altro corpo a Piacenza si sarebbe spinto lungo il Po, distruggendo tutte le teste di ponte sulla sinistra, e tentando un colpo di mano sopra Manto va. Avvenuto ciò, l'armata austriaca che trova vasi a' confini del Napoletano sarebbe stata costretta a ripiegare per difendere la sicurezza del Regno; i Napoletani l'avrebbero inseguita e così si sarebbe trovata fra due fuochi,

D'altra parte il governo avea subodorato qualche cosa, né la Corte dell'Arciduca Vice-Re faceva mistero delle disposizioni ch'ella dava d'immediata partenza, e il presidente del governo poneva in salvo parecchi milioni; men in contraddizione di quanto fu asserito dal Salvotti,

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messo da documenti, furono in Milano trattenuti un 2000 nomini, insufficienti di certo nel caso di rivolta, e gli altri furono mandati al confine piemontese sul Ticino per formarvi un cordone e rompervi il ponte.

In questo a' primi sentori del moto piemontese furono spediti a Torino Bossi e Vismara per i comuni interessi. Si fissò il momento dello scoppio nel giorno in cui i Piemontesi avrebbero varcato il Ticino, e siccome questo movimento ritardava, il 15 marzo si spedirono a Torino Giorgio Pallavicino e Gaetano Castiglia per pregare il Principe di Carignano a marciare in Lombardia.

Già fin dal 9 marzo era scoppiata la rivoluzione in Piemonte, ma avea subito preso una brutta piega.

*

**

Non appena scoppiata la rivoluzione di Napoli, l'Angeloni che dall'esilio vedeva giusto negli eventi d'Italia, scriveva a' suoi amici napoletani di propagare la rivoluzione verso Roma, e a Carlo Alberto, a Collegno, a Gifflenga, esortando, scongiurando, perché si muovesse infine il Piemonte, che la rivoluzione napoletana vedeva perduta se tutta Italia non fosse sorta alla riscossa (1).

Ebb'eglij in quel tempo, anche molti convegni col Principe della Cisterna, che avevagli recato una Italia piangente (2), ed una lettera del Gifflenga, nella quale dicevasi: noi stiamo a vedere ohe faranno i partenopei.

(1)

La Cecilia, Panteon de' Martiri della libertà italiana in Romano-Catania, ibid.

(2)

Era questo un simbolico dono in etti «l'Italia era figurata su di una pietra dura, incastrata in anello d'oro, quale una donna nuda, sedente quasi lassa sopra un macigno con in capo la corona di merlate torri: essa appoggia la destra palma alle gote e piange; accanto le posa un leone, simbolo della forza. Si legge il motto: Non semper». (ANGELONI, Esortazioni patrie). Cfr. Romano-Catania, ibid.

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Di questa espressione egli fu assai dolente. E conosciuto intanto, per uno scritto d'un generale russo (confidato ad un francese), i disegni delta Sant'Alleanza su' moti italiani, mandò una copia dello scritto in Napoli al Ministero della Guerra pregando di apparecchiare le armi alla difesa della patria minacciata; ed un'altra copia mandò a Carlo Alberto, esortandolo e supplicandolo di troncare gl'indugi.

Già nell'11 e 12 gennaio 1821 erano a Torino scoppiati i tumulti universitarii, e sebbene nessuna relazione avessero colla congiura già ordita de' Federati, pure potevano essere l'occasione propizia ad insorgere, anche per la piega che pigliava la rivoluzione napoletana. Fin dallo scoppio di questa, innumerevoli affissi dimandavano, in Torino ed in altre città piemontesi, la Costituzione spagnuola memorie anonime si rivolgevano al re a tale proposito; indirizzi ai soldati del regio esercito e a' Piemontesi. Si trovavano proclami incendiari fin nell'oratorio della Regina.

Due indirizzi a stampa erano rivolti al re: l'uno de' Federati (Des devoirs des Piemontais), con parole rispettose chiedeva costituzione ed indipendenza; l'altro de' Carbonari (Des desseins de l'Autriche), domandava la Costituzione di Spagna. Fin da' primi di dicembre 1820, l'Austria aveva richiamato l'attenzione del governo sardo sulle mene de' Carbonari. Metternich ne' primi dì gennaio 1821 ne aveva parlato al San Marzano; né, d'altra parte, la polizia piemontese se ne stava inoperosa,

A' primi di marzo sì aveva notizia dell'entrata degli Austriaci negli Stati Pontificii, e contemporaneamente dell'arresto di Ettore Perrone e del marchese di Prie, seguito da quello del Principe della Cisterna, che tornava da Parigi latore della lettera dell'Angeloni a Carlo Alberto, la quale con altre carte cadde in mano della polizia piemontese. Altra lettera fu pure sequestrata diretta al Gitflenga, ciò che portò alla scoperta della congiura e del moto imminente.

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Il Gìfllenga, chiamato a discolparsi dal re, si ritrasse dall'impresa; giurò di nuovo obbedienza e fede al re, e il suo contegno come quello d'altri generali molto contribuì sull'animo di Carlo Alberto e sull'esito della congiura, determinando nel campo settario, dapprima, un dualismo che poscia dovea cambiarsi in guerra civile (1).

Riunioni, intanto, si tenevano in Alessandria, specie dal reggimento de' Cavalleggeri del Re. Il 6 marzo tatto era pronto; non restava che combinare il movimento col Principe di Carignano. Non ci dilunghiamo su tali trattative, oramai rischiarate da una varia e abbondante letteratura, prò e contro il contegno del principe. In quella aera stessa a Carlo di San Marzano, al Santarosa, al cav. di Collegno, al conte Lisio, Carlo Alberto, cui nulla fu nascosto, dette il suo consenso, e il Santarosa gli strinse la mano con la franchezza d'un libero cittadino.

Il giorno 7 fu da' congiurati stabilito il piano seguente: «»Il conte di Santarosa e il cav. di Collegno avrebbero passata la notte sull'8 presso il principe per essere pronti 8. recarsi con lui all'Arsenale alle ore cinque. All'alba Collegno con ufficiali d'artiglieria e del reggimento doveva impossessarsi della cittadella ove era di sede reggimento stesso, indi passare il Po e pigliare posizione Monte dei Cappuccini che domina la città. Il reggimento Cavalleggeri del Re da Pinerolo, i Dragoni della Regina

(1) Dopo l'abdicazione scortò i Sovrani a Nizza. La regina Maria Teresa che di lui sospettava, in un momento di vivezza lo rimprocciò che volesse essere il loro Lafayette - «ma non ne avete i talenti». Combatté a Novara contro i costituzionali. Cfr. Manno. ibid., p. 104 n.

Dopo i casi del '21 con patente del 1° dicembre 1821 fu dispensato da ulteriore servizio e costretto a rimanere nella sua villa di Trenzano in cortese esilio.

Notevole ch'egli fu richiamato a' regi favori nel 1839, nello stesso anno, cioè, che Carlo Alberto scrisse la famosa relazione A. M. D. G., da lui confermata in una memoria speciale.

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da Vercelli, e Piemonte Reale dalla Venaria dovevano accorrere; si dovevano arrestare Thaon di Revel, il generale Venangon ed il maggiore Montezemolo. Regis ed Ansaldi si sarebbero impadroniti della cittadella d'Alessandria.

Ma la aera del 7 Carlo Alberto dichiarava a San Marzano ed a Collegno che ritirava la sua parola, e così venivano in gran fretta ritirate le disposizioni date per l'insurrezione. Egli, nello stesso giorno del 7, aveva avuto colloquii con Cesare Balbo e col generale Gifflenga; tutti e due avevano confessato che nulla era pronto per una entrata in campagna. Persuadeva gli ufficiali d'artiglieria a ritirarsi dalla congiura e tutto rivelava al ministro della guerra. Nello stesso giorno il re si ritirava a Moncalieri, accompagnato dallo stesso Principe di Carignano, che subito dopo mezzogiorno ritornava a Torino. Nella mattina dell'8 moveva lagnanze contro i congiurati d'essersi troppo presto smarriti, e d'aver abbandonata l'impresa. Nella sera dello stesso giorno, in un altro colloquio col Santarosa, col San Marzano e col conto San Michele, colonnello de' Cavalleggeri Piemonte, a quanto afferma il Santarosa «scelse per sé una parte più riservata, non somministrò più tutti i mezzi che erano in sua mano, diede bensì come il giorno 6 il suo consenso alla rivoluzione piemontese».

E ciò era un tranello, perché nella stessa sera, mentre in un'adunanza di congiurati ogni misura veniva presi, Carlo Alberto invece disponeva le cose in modo da rendere ineseguibile qualunque movimento a Torino. Ciò conosciuto da' congiurati nel giorno 9, furono in fretta spediti contro di lui; ma era troppo tardi.

Nello stesso giorno il conte San Michele co' Cavalleggeri Piemonte marciava da Fossano a Moncalieri. Il giorno 10 la cittadella d'Alessandria si sollevava al grido di Castituzione di Spagna. In Alessandria stessa si costituiva una Giunta di Governo, formata di Carbonari, che inalberavi il vessillo tricolore e intestava i suoi atti in nome del Regno d'Italia.

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A Torino il giorno 11, a San Salvario, un trecento

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ingraziarsi il nuovo Sovrano, e preparare la sua difesa; mentre d'altra parte, non voleva del tutto romperla col partito liberale.

Alla deputazione lombarda, che per consiglio del Site Marzano, s'era presentata al reggente per chiedere che passasse il Ticino, assicurando esser pronta Milano a prendere le armi, fornir queste le fabbriche bresciane, ventimila animosi veterani napoleonici essere apparecchiati a raccogliersi ed ordinarsi, - Carlo Alberto promise di riferire alla Giunta.

Ma poscia richiamati privatamente la sera due messaggeri, confermò quanto il La Tour avea loro detto a Novara: - se l'Austria assalisse il Piemonte, difenderebbe; ma, per prendere l'offensiva, mancano armi, viveri, soldati -; e li congedò aggiungendo: «Speriamo nell'avvenire».

Il 21 marzo, con un atto di grave simulazione, dopo aver assicurato i capi del movimento e nominato Santarosa a ministro della guerra, Carlo Alberto, a mezzanotte, abbandonava Torino, e per ordine del re si portava a Novara. donde per un altro ordine del 27 marzo si recava immediatamente in Toscana.

Quella partenza aggravava di molto la situazione; lasciava lo Stato in completa guerra civile, quasi volendoli far ricadere tutta la responsabilità sul Santarosa, intoni al quale si formava d'un tratto il vuoto immenso dell'abbandono.

De' generali incaricati, Bellotti richiamato in servizio dalla rivoluzione sì ritirò co' regi a Novara, CiraveJ promosso, non si fece vedere; Gifflenga ed altri correi al campo de' fedeli; i soldati provinciali chiamati aotj armi si sbandavano; i soldati ammutinati disertava bande e ritornavano alle loro case. Molti fuggivano, il Prìncipe della Cisterna e il marchese di Prie. Savoia, Nizza si dichiaravano pel re; le popolazior glaciali.

L'Austria mandava sue soldatesche; tutto era

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CONCLUSIONE

Le due rivoluzioni del 1820 e 1821, nel Napoletano e nel Piemonte, finirono come doveano finire, facendo buon giuoco alla politica austriaca. Infatti, se all'Austria dopo il 1815 non era riuscito di realizzare completamente le sue mire ambiziose sull'Italia; nel 1821, innanzi al trionfo del principio legittimista, essa dovea apparire come la salvatriee del legittimismo e dell'ordine, e l'arbitra delle cose italiane.

Dal 1815 al 1820 essa avea saputo cosi bene soffiar nelle sètte e tessere tale una rete d'intrighi settarii che dovea riuscire difficile a' singoli governi di liberarsene da soli. E così facendo era riuscita a sorprendere tutte le fila di quel movimento, e avea avuto modo cosi d'intervenire all'ultimo momento e farla da padrona. Davvero che bene avea detto il Consalvi, che l'Imperatore d'Austria ne sapeva delle cose d'Italia più degli stessi principi italiani.

Né torto del tutto, sebbene nemico dichiarato alle sètte, aveva avato il Foscolo, considerandole come causa tra le prime della servitù dell'Italia,

«Non il ferro straniero potrà disfarle; né le reprimerà, se non quando le avrà tutte avvilite; frattanto le istigherà a desolare per mezzo di esse l'Italia» (1).

(1) Cfr. Della servitù dell'Italia, Discorso 1, in fine. Edi. Lemonnier.

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E veramente, dal 1820 la repressione delle sètte e dello spirito settario fu il programma di e l'Austria s'impone per asservire del tutto l'Italia, dopo averne asserviti i governi.

Il Mettermeli scriveva al conte di Bombe dea, ambasciatore austriaco in Firenze: «Sarebbe in effetto un abbandonarsi a pericolose illusioni ove sì credesse che lo spirito rivoluzionario, che ha generato i sovvertimenti di Napoli e del Piemonte aia rimasto al tutto annientato da' nostri successi militari. Il male non è che compresso, ma esiste in tutta la sua intensità; ed ove non si voglia trar vantaggio dalle attuali favorevoli circostanze per sradicarlo compiutamente, non tarderemo a vederlo rialzare 0 capo, e a riprendere la sua operosità perniciosa».

E suggeriva a' governi italiani di non lasciarsi sfuggire il tempo favorevole per agire con sicurezza di buon esito.

«Veggano pertanto d'avvantaggiarsi della prossimità delle nostre truppe per assalire vigorosamente ne' loro Stati lo spirito rivoluzionario, e per estirpare questo male che rode la loro amministrazione, e mina la loro esistenza».

Fin da' primi giorni della rivoluzione napoletana l'Austria dichiaratasi subito contro era apparecchiata ad intervenire. Già ai primi di dicembre del 1820, avea richiamato l'attenzione del governo sardo sulle mene de' Carbonari, e ciò avea ripetuto ne' primi di gennaio del 1821. In quel turno di tempo avea pure segnalato alla polizia pontificia una società segreta in Roma, denominata le Braccia, e succeduta a' Carbonari. A sua richiesta venivano fatti alcuni arresti nello Stato della Chiesa, e mandava intanto 2000 uomini di presidio ad Ancona, offrendosi inoltre d'intervenire nelle Romagne, ove colla recrudescenza di delitti politici s'era pronti ad insorgere. Ma il Consalvi eluse le speranze austriache, rigettando l'offerta, ed assicurando che a purgare lo Stato Pontificio dalla lue rivoluzionaria avrebbe lo stesso governo provveduto.

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E veramente s'iniziò dal 1821 quella processura che trascinandosi fino al 1825 immortalò nell'infamia il nome già noto del Cardinal Rivarola. Nel 14 settembre del 1821 ad istanza di varii sovrani veniva pubblicata la bolla Ecclesiam contro la Carboneria. Premettendo che questa promulgava l'indifferenza religiosa, la ribellione e l'assassinio, ai scomunicava chiunque vi fosse ascritto o in qualunque modo la favorisse. Ingiungevasi quindi a tatti sotto la medesima pena di denunziare a' superiori coloro che alle società medesime fossero appartenuti o appartenessero.

Nel 18 maggio 1821 veniva dalla Corte speciale di Venezia pubblicata la sentenza contro i trentaquattro imputati della congiura carbonarica di Fratta, e di lì a non molto, nel 10 agosto, la sentenza contro Pellico, Maroncelli e compagni. Nelle rivelazioni dolorose di quegli accusati, era, o tale sembrava, il maggior vilipendio delle sètte, nonché de' settarii.

Nel dicembre dello stesso anno su denunzia d'un Carlo Castiglia, fratello di quel Gaetano che tanta parte avea avuto alla congiura de' Federati, furono arrestati il Confalonieri ed altri compagni della Federazione, e le condanne che ne seguirono, sembrarono d'aver del tutto distrutto ciò che fu creduta illusione delittuosa di quanti eran nemici del pubblico bene. E sull'esempio austriaco si modellarono gli altri Stati d'Italia, esagerando in ferocia ed in vergogna.

In Modena, quel duca, con Notificazione del 20 settembre 1820 iniziava la persecuzione contro coloro che facevano parte della carbonarica o di qualsiasi altra setta, e tra gli altri arrestati fu anche allora Giro Menotti. La persecuzione giungeva al parossismo per opera di un Giulio Besini, direttore di polizia, e d'un avvocato Zerbini, inquisitore del famoso tribunale statario, istituito in Rubiera nel 1831.

In Parma e Piacenza si seguiva lo stesso sistema; in Piemonte, alcuni pochi de' rivoltosi erano puniti coll'estremo supplizio, ma molti altri erano condannati a pene minori,


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o privati degli onori e degli uffici; molti infine esulavano miseramente, taluni de' quali, dice il Cibrario, fior d'ingegno e d'onestà.

A garanzia della reazione politica, il Metternich nel 1822 proponeva agli Stati italiani un Supremo Magistrato d'inquisizione, simile a quello di Magonza, e con sede a Modena. Tutti aderivano; il governo pontificio fu il solo che, pur non essendo da meno degli altri, ma più furbo degli altri, volle riserbarsi libertà d'azione, e rispondeva di lodare il principio ma temere l'opposizione de' cardinali formalisti.

Infine a cancellare interamente ogni traccia settaria ai volle infrenare lo spirito de' tempi colle solite pastoie, anch'esse ritornate di moda, del pietismo religioso. E cosi, come altrove, per il buon esempio si richiamava in vigore anche pel Lombardo-Veneto un'ordinanza austriaca del 1808 colla quale si faceva obbligo a' delegati provinciali ed ai loro officiali, ai municipalisti e a tutte le altre superiorità locali di qualsivoglia denominazione, d'assistere, ne' giorni di domenica e di festa, al pubblico divino officio parrocchiale nella chiesa primaria della rispettiva città o Comune, e da luogo distinto. E questo intervento doveasi eseguire con tutta la divozione voluta dalla religione, onde potesse servire d'esempio agli altri sudditi.

E così finiva quel periodo di rivoluzione a cui l'Italia s'era preparata con efficace lavorio settario, e finiva nella più amara, ma non sconfortante delusione, A rannodare le fila recise dal mal esito dell'insurrezione napoletana e piemontese fu spedito con lettere dell'Angeloni, il francese Alessandro Andrvane, emissario del Gran Firmamento, diacono straordinario della società de' Sublimi Maestri Perfetti. Ma, anch'egli scoverto, fu arrestato e condannato, e così pure questo tentativo, come l'altro della Lega Europea nell'Italia Meridionale dovea abortire, fornendo maggior esca infiammabile alla persecuzione che, id seguito, col cardinale Rivarola, nel 1825, in Romagna, e

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con Del Carretto, nel 1828, nel Cilento, dovea oltrepassare ogni sentimento d'umanità e di giustizia.

E si credette così di aver dato il colpo mortale alle sette.

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Nel 1821, la Carboneria passò d'Italia in Francia (1), e a quella francese si modellarono e s'orientarono i Carbonari

(1) Verso il 1820, ad iniziativa di due giovani, il Buchez ed il Flottard, insieme a due altri, Bazard e Ioubert, fu fondata in Parigi la Loggia massonica, sotto il nome «Gli amici della verità», con carattere del tutto politico, ma che visse breve tempo. Mentre, innanzi alla camera si discuteva la legge elettorale, che costituiva una violazione della Costituzione, quei massoni nel 19 agosto 1820 tentarono contro il Parlamento un colpo di mano, che andò fallito, tentato un processo contro la Loggia, due membri d'essa, Ioubert e Dugied, costretti a espatriare, si rifugiarono in Napoli, ove furono nizìati Carbonari. Soffocata la rivoluzione napoletana, Dugied, di ritorno a Parigi, propose ad alcuni de' suoi antichi fratelli d'introdurre anche in Francia la Carboneria. Fondatori ne furono Buchez, Gazard, Flotard, Limpérani, Carriol, Sautelet, Guinard, Desloges, Gìgaud, Ronea seniore, Corcelles figlio e lo stesso Dugied. Furono redatti gli Statuti, preceduti dalla seguente dichiarazione: «La forza non costituisce il dritto, ed i Borboni essendo stati riportati gli stranieri, i Carbonari si associano per rendere alla Nazione francese il diritto di scegliere il governo che più le conviene». Il piano d'organizzazione era il seguente.

Un'Alta Vendita, composta de' soprannominati, si costituì a Parigi con a capo il Lafayette. Essa rappresentava il Comitato di direzione dì azione, e da essa dipendevano direttamente le Vendite Centrali. La formazione di queste avveniva nel seguente modo. Due membri del Comitato avendo trovato un adepto, s'intendevano con lui, e, senza rivelare la loro qualità, convenivano di fondare una Vendita. L'adepto era nominato presidente; l'uno degli iniziatori sensore, L'altro deputato. Officio di quest'ultimo era di corrispondere col comitato, ossia coll'Alta Vendita, lasciando credere al presidente che tal Comitato non era che un grado superiore dell'Associazione; il censore invece controllava i lavori della nuova Vendita.

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nari italiani che fecero, noi 1831, la rivoluzione del Centro. E come la rivoluzione di luglio del 1830 dette il crolla alla Carboneria in Francia, così i moti del 1331 rappresentarono l'ultima sua vitalità in Italia.

Questi tre capi s'aggiungevano diciassette affiliati, ciò che portava il numero de' membri a venti. Questo gruppo, cosi costituito, formavi una Vendita Centrale. Due de' suoi membri, operando nello stesso modo, formavano una Vendita particolare di prim'ordine, la quale, seguendo lo stesso sistema, dava vita ad una Vendita, particolare ordinaria, permettendo così di moltiplicare il numero delle aggregazioni inferiori senz'attirare l'attenzione delle autorità.

A meglio comprendere tale organizzazione, s'immagini un albero a rovescio: il tronco è l'Alta Vendita, i rami sono le Vendite Centrali, i ramoscelli le Vendite particolari di primo ordine, bottoni o le gemme le Vendite particolari ordinarie.

Una organizzazione identica, ma con nomi diversi per eludere la vigilanza della polizia, fu introdotta nell'armata. L'Alta Vendita fu appellata Legione, le Vendite Centrali coorti, le Vendite particolari ordinarie manipoli.

Era vietato ad ogni carbonaro d'affiliarsi ad altra Vendita che non fosse la sua originaria, e ciò per impedire che un membro scovrisse e rivelasse i segreti della setta. Ogni affiliato, per esser pronto ad agire, era tenuto a fornire d'un fucile e di cinquanta cartucce. In tal guisa si mirava a ricovrire la Francia d'una moltitudine di piccoli corpi d'armata, che, al segnale d'una direzione invisibile, si sarebbero d'ogni parte sollevati per scacciare i Borboni.

La Carboneria francese partecipò agli affari di Colmar, di Semur, di Befort e della Rochelle ed a tutti i tentativi d'insurrezione ch'ebbero luogo durante gli ultimi anni della restaurazione. Locuzione de' quattro sergenti della Rochelle le diede la prima scossi; d'altra parte il numero delle Vendite era cresciuto in tal numero, che l'Alta Vendita si lasciò sfuggire le Vendite filiali, senza poter imprimer loro direzione alcuna. Da ciò risultò che tutte le opinioni politiche ostili all'ordine delle cose esistenti avevano trovato asilo e protezione nella Carboneria. Vi erano Vendite repubblicane, bonapartiste ed orleaniste, tutte miranti alla rivoluzione, ma prive d'unità d'indirizzo. Quest'anarchia portò gradatamente la dissoluzione della Società. Solamente quando scoppiò la rivoluzione di luglio 1830, gli avanzi della Carboneria s'incontrarono con le armi

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E spari, non per opera certamente di governi congiurati a farla sparire; ma spari, perché non avea più ragione desistere. Anche in Italia le sètte - e sètte nel significato politico e morale - aveano ornai fatto il loro tempo, e anche in Italia aveano

alla mano ovunque era a combattersi e contribuirono molto al successo ed al consolidamento della rivoluzione.

Dopo il trionfo di Luigi Filippo che distrasse la rivoluzione dal suo vero indirizzo, si costituì co' residui dell'antica Carboneria, ma senza averne la stessa organizzazione segreta, la Società degli amici del Popolo, che più tardi si fuse con quella de' Diritti dell'Uomo e del Cittadino. La prima esistenza di questa Società fu politica; ma le persecuzioni, di cui divenne bersaglio, la obbligarono a mutarsi in segreta. Già la parto più spinta de' soci avea molto tempo prima subito questa metamorfosi, costituendosi sotto il nome di Società d'Azione. I Cavalieri della Fedeltà, associazione segreta composta dì legittimisti, tentarono, verso quest'epoca, senza verun successo, di essere ammessi a far causa comune con la società repubblicana. Intanto quest'ultima s'estese in tutti i dipartimenti, ed in Lione aggregò a sè le società de' metuellistes, de' ferrandiniers, degli uomini liberi, ecc. Tutte queste Associazioni cooperarono, a Parigi, a Lione ed in altri dipartimenti alle rivolte di aprile e maggio 1832.

Su' loro avanzi poi formaronsi in Parigi la Società delle Famiglie (1834), quindi quella delle Stagioni (1836), che prese parte attivissima agli avvenimenti del 12 e 13 maggio 1839.

Finalmente l'invasione delle idee sansimoniane e del sistema Fourier appiccicatesi a' repubblicani, diede origine ad altre società segrete, con carattere socialista, che vennero denominate de' Comunisti, Lavoratori, Egualitari, ecc.

In questo movimento primeggia la figura dì Filippo Buonarroti, che, prima del 1830, aveva avuto gran parte nel movimento rivoluzionario, e aveva messo in relazione i Carbonari italiani coll'Alta Vendita Universale di Parigi; dopo il 1830 rimase a capo della Carboneria francese, ma dandole un carattere cosmopolita e facendosi il centro del movimento sociale rammentato.

Il Buonarroti, patriarca della Nuova Carboneria, teneva in mane, secondo il Blanc, le redini della propaganda rivoluzionaria, né ammetteva altra iniziativa se non nella Francia, donde il moto repubblicano sarebbe dovuto irraggiare nelle altre partì d'Europa, E figliale di tale Carboneria fu la Giovine Carboneria de' Veri Italiani, fondata in opposizione alla Giovine Italia, e causa non prima del dissidio tra il Mazzini e il Buonarroti.

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rappresentato ciò che esse in tutti i tempi debbono rappresentare negli inizi della vita d'un popolo.

Ma, a proposito, che rappresentarono le sètte nella vita italiana?

A questa dimanda si schermirono dal rispondere i giudici inquisitori, o vi risposero considerando i settarii come i nemici implacabili dell'Altare e del Trono. Ed erano nel vero. D'altra parte, ohe rappresentavano allora Altare e Trono!

A questa seconda dimanda quei signori li, servitori untuosi dell'Altare e del Trono, non erano in grado dì rispondere; e credettero perciò una cosa naturale, distruggendo i settarii, di distruggere le sètte e d'annullare cosi un periodo di storia, che d'esse s'era naturato. E nella mania di distruggere, non discussero nulla.

Si, è vero, i settarii furono i nemici implacabili dell'altare e del trono, quando, cioè, altare e trono, in un connubio di ferina morbosità carnale, rappresentavano un ingombro d'immoralità e di tirannia ad ogni libera espansione de' popoli. E gli schiavi d'allora, per necessità delle cose, alla forza della tirannide opposero la potenza delle sètte; delle sètte, cioè, che, non potendosi in altro modo, doveano rappresentare il simbolo misterioso del nuovo; doveano nel simbolo rappresentare l'anima de' tempi; doveano rappresentare in embrione il popolo dell'avvenire; doveano rappresentare l'inizio della nostra vitalità collettiva. Ecco tutto.

Né è possibile concepirle e definirle altrimenti. A noi viventi ancora nell'orbita di quei tempi, anche lontani, non è dato di ritrarre la vera espressione di quel periodo di storia, che attinge tutta la sua vitalità alle fonti sotterranee delle sètte. Noi siamo come coloro che, trovandosi in mezzo all'orchestra, san distinguere suon da suono, nota da nota, e segnano il tempo e la misura; ma non sono in grado di seguirne in tutta l'interezza l'armonia generale e di rilevarne la nota predominante.

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Non è dato a noi di comprendere la voce formata da mille voci e mille che confuse s'elevano da una folla confusa di popolo, ove anche noi ci troviamo.

Ecco perché quelle sètte rappresentano ancora qualche cosa che forse possiamo spiegare, ma non definire; una forza misteriosa che scorre, freme nelle fibre indolenzite del popolo italiano; una forza che vivifica un corpo fin allora insensibile, che lo scuote, lo sveglia. In una parola, rappresentano il risveglio.

Chi può definire il risveglio d'un popolo fin allora diviso, abbrutito, annullato, che sente d'un tratto nel seno il palpito d'una nuova vita, d'una nuova gioventù? Chi sa definire il risveglio della natura in una festa di sole, di canti, di fiori, nel ridestarsi di desiderii compressi, di palpiti nuovi, di sogni d'amore, in quell'abbandono di balda sicurtà che spinge alla vita l'aquila e la rondinella, l'uomo e la bestia, il bruco ed il serpe, tutti pervasi da un dio che anima tutto e letifica tutto: la primavera?

Ed è tale quel periodo di nostra storia; ed è la primavera italica, nella quale tra lo scintillio delle coccarde tricolori, tra lo sventolare delle orifiamme, tra i pegni innalzati al sole della libertà, al gran dio dell'uguaglianza umana, germina e si feconda la speranza dell'avvenire. E in nome di quell'avvenire passano ratto a mille a mille figure palpitanti di vita; e tra esse, sublimi figure di martiri, di pensatori, di poeti; e tra esse figure d'ignoti pionieri della libertà, d'ardimentosi cospiratori; e tra esse, losche e ributtanti figure di traditori, di rivelatori, di confidenti, di speculatori, d'assassini.

Si chiamino pure massoni, giacobini, carbonari, guelfi, adelfi, federati, calderari, sanfedisti, concistoriali. Sian pure armati l'un contro l'altro. Che importa? Lottatori tatti: perché la lotta è indice di vita, e gl'Italiani son risorti alla vita, ed altro campo alla lotta non è dato che quello misterioso delle sètte.

Appunto nelle sètte è il germe della vita d'un popolo,

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e le sètte ne rappresentano il primo affermarsi nel sentimento. Ed è quel sentimento, plasmato nel simbolo, che dalle intime latebre d'una società ancora amorfa assurge alla luce del sole, espressione irrequieta, multiforme, sia pure morbosa, di vitalità che deve effondersi. Vitalità che ritrae le impressioni del momento, le esigenze di un ambiente ancora nello stato di formazione, di preparazione e di lotta.

Ecco perché quei martiri, quei pensatori, quei poeti, quegli ardimentosi cospiratori, quei volgari confidenti, quegli assassini sono figure che nel rapido loro passare attestano il sentimento del risveglio, ma non sono, ciascuna per sé, il risveglio stesso. Ancora la selezione non è avvenuta, né l'amalgama è compiuta.

Ognuna di quelle figure è un attimo, una forma, un segno, una espressione tra mille e mille, quanto perfetta si voglia, di quel risveglio; ma nessuna d'essa può essere mai la personificazione dì quell'ambiente ancora in formazione. Ecco perché s'è parlato di sètte, e non di settarii, come quelle che ritraggono la vera essenza de' tempi, che deve impersonarsi non nel singolo settario, ma in un tipo comune, che nella vita reale di quei tempi non esiste né può esistere.

Gli antichi a rappresentare i lontanissimi tempi d'una vita in formazione e in contrasto, d'una lotta tra il bene ed il male, tra la luce e le tenebre, tra il diritto e la forza, tra il progresso ed il regresso, fecero astrazione di ogni particolare e impersonarono quei tempi nella sola espressione di vita collettiva, ch'è possibile in tal caso: nel mito. Così favoleggiarono di Prometeo che invola il fuoco al cielo per comunicarlo a' mortali. Giove per vendicarsi lo fece inchiodare da Vulcano sul Caucaso, ove un avvoltoio dovea divorargli il fegato rinascente per 30 mila anni, finché non fu liberato da Ercole, Così ne' secoli avvenire, quando il tempo avrà fatto astrazione de' particolari e degli individui, allora la nostra rinascita si personificherà anch'essa nel mito.

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Allora dal simbolismo delle sètte balzerà fuori il Prometeo del nostro risorgimento in cerca della luce. Nella trilogia del gran dramma italico sarà il lottatore che primo osò sfidare i fulmini del Giove austriaco. Prometeo italiano sarà legato sullo Spielberg, e a lai l'aquila grifagna divorerà il fegato rinascente...

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Ecco perché distruggendo i settarii non era possibile distruggere le sètte. Il Foscolo vedeva l'ostacolo più grave dell'Indipendenza nelle infinite sètte, che smembrano, come egli dice, la Dazione italiana; ma, pur vivendo egli stesso in un ambiente ove non era dato a lui di scorgere il vero significato di quelle sètte e il simbolo ch'esse rappresentavano, aggiungeva: «Il rimedio vero pel futuro sta nel riunire in una sola opinione tutte le sètte». Egli considerava rimedio ciò ch'era una conseguenza che derivava naturale dalla cosa stessa. Del resto, era proprio lui a rimangiarsi il suo grido di guerra: «A rifare l'Italia bisogna disfare le sètte»,

Le sètte non possono essere distrutte; esse, invece, materiandoei di vita reale, spariscono, è vero, ma per evolversi in agenti di vita reale consentanei a' tempi. Le sètte spariscono per dar vita allo associazioni educatrici. L'anima delle sètte è il sentimento plasmato nel diritto; l'anima delle associazioni è il principio plasmato nel dovere. Le sètte formano il tipo individuo, materiato di bene e di male, di virtù e d'errori, che ha la coscienza d'un diritto. Le associazioni formano il tipo collettivo, il cittadino, compenetrato de' suoi diritti e de' suoi doveri,

E veramente, dopo il 1830, come in Francia, cosi avvenne in Italia; e fu Giuseppe Mazzini (1), il primo in Italia, a sentire questa necessità de' tempi.

(1) Fu il Mazzini a dare il colpo mortale alla Carboneria italiana. Si fece ad essa iniziare verso il 1828; perché «io era allora - egli dice (I. 53) - impotente a tentare cosa alcuna di mio e mi si affacciava una congrega di uomini,

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Senza dubbio fu gran merito del Mazzini l'aver trasportata la quistione Italia nel campo de' fatti, compenetrandola nella sua dottrina democratica,

i quali inferiori probabilmente al concetto, facevano ad ogni modo una cosa sola del pensiero e dell'azione, e sfidando scomuniche e pene di morte, persistevano distrutta una tela, a rifarne un'altra. E bastava perché io mi sentissi debito di dar loro il mio nome e l'opera mia». Se ne distaccò dopo i moti del Centro; né qui riportiamo i giudizi non poco severi ch'egli ha contro la Carboneria. «Vasto e potente corpo, ma senza capo; associazione alla quale non erano mancate generose intenzioni, ma idee, e priva non del sentimento nazionale, ma di scienza e logica per ridurlo in atto. Il cosmopolitismo che una osservazione superficiale d'alcune contrade straniere le avea suggerito, ne avea ampliato la sfera, ma sottraendole il punto d'appoggio».

A' tempi del Mazzini «la Carboneria era cosmopolita nel senso filosofico della parola; non vedeva sulla terra che il genere umano e l'individuo; e individui, non altro, erano per essa i suoi membri... Figli idolatri della Rivoluzione francese, quegli nomini non oltrepassavano le sue dottrine. Cercavano per l'uomo, per ogni uomo la conquista di ciò ch'essi chiamavano suoi diritti: diritti di liberti ed eguaglianza, non altro. Ogni idea collettiva, e quindi l'idea - Nazione, era per essi inutile o - quando la giudicavano dal passato - pericolosa» (v. 13).

D'altra parte il Mazzini non può negare che a l'eroica educatrice costanza degli affratellati e il martirio intrepidamente affrontato avevano grandemente promosso quel senso d'eguaglianza ch'è ingenito in noi, preparate le vie all'unione, iniziato a forti imprese con un solo battesimo uomini di tutte le provincie e di tutte classi sociali, sacerdoti, scrittori, patrizi, soldati e figli del popolo».

Dopo il 1821 la Carboneria italiana, o meglio la Carboneria romagnola, si modellò su quella di Francia, e dipendeva dall'Alta Vendita Universale di Parigi. Si costituì in Vendite nazionale e in Vendite centrali, o dicasteri, per ogni Stato, le quali erano alla loro volta composte di Vendite d'apprendisti e di Montagne di maestri. Cinque Maestri e due Apprendisti bastavano a formare una Vendita centrale.

Dopo il 1831 i residui della Carboneria italiana, perdendo il carattere nazionale, risentirono di quel cosmopolitismo, che il Buonarroti aveva impressa alla Carboneria francese.

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secondo la quale il sentimento fu plasmato nel principio, il diritto nel dovere, la libertà dell'individuo nella libertà della patria, E così, conseguenza naturale, alle sètte multiformi - perché multiformi sono i sentimenti - dovea succedere l'Associazione educatrice ed assimilatrice di tutti i sentimenti italiani.

Tale associazione fu nel campo de' principii la «Giovane Italia»,

Anche la Gran Vendita della quale divenne Pontefice Buonarroti cambiò il titolo d'Universale in quella di Cosmopolita.

Il Mazzini fa in relazione, ma per poco, col Buonarroti, come la Giovine Italia con la Giovine Carboneria de' veri Italiani, filiazione della Carboneria, francese dopo il 1831. A proposito della, questione italica e sui modo di risolverla scoppiò violento dissidio tra i due uomini, e che non poco contribuì all'insuccesso della Spedizione di Savoia.

Eppure quel dissidio non fu la conseguenza del contrasto tra due caratteri diversi e due volontà opposto. Senza apparire, quel dissidio trascendeva dalla questione italica e dalle intenzioni dei due cospiratori. Fu l'inizio d'una lotta di principii che più gravemente si delineò e si accentuò tra il Mazzini e il Mari; fu lotta di due scuole diverse, riassumenti tutta la vitalità e l'attività della, moderna Epoca Sociale: - la Scuola Democratica e la Scuola Collettivista; lotta che dura tuttavia e che durerà ancora.

Non è compito nostro di parlare d'esse; ma è lecito domandarsi:

- Quale di questo due scuole è destinata a trionfare?

- Si compenetreranno per forza d'assimilazione e per necessità degli eventi di fronte al comune pericolo?

- Si escluderanno a vicenda?


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APPENDICI

APPENDICE I.

Poesia e Massoneria

L'argomento meritava bene una ricerca vasta e paziente,, che tagliando corto co' più schifiltosi pregiudizi avrebbe certamente contribuito a far meglio conoscere un cantuccio appartato della vita italiana d'altri tempi. A quanto sappiamo, non è stata fatta finora, ed è male; perché in quel cantuccio appartato le nuove idee presero dapprima consistenza e sì vennero maturando e rivelando, sia pure alla fioca luce delle candele e tra lo sguaiato formalismo di misteriosi salamelecchi.

La critica moderna, che tanto s'è sbizzarrita a rimettere alla luce del sole la vita di certe accademie, ha disdegnato di farlo. Avrebbe senza dubbio scoverto un'altra accademia; ma sotto la lustra di quell'accademia lì avrebbe rinvenuto la sola vita possibile di quei tempi, per quanto appartata essa fosse.

Certamente all'influenza misteriosa della Massoneria va riferito quel risveglio inaspettato dello spirito italiano nel secolo XVIII. E fu tale l'influenza che il timorato abate Muratori non ebbe ritegno di riferir sulla sètta, sebbene se ne schermisse. Anche inconsciamente le opere degli scrittori rispecchiarono il programma, religioso, politico, sociale, della Massoneria di quei tempi, che gli stessi governi dovevano agevolare ed attuare in parte.

Né la stessa poesia fu scevra dì tale influenza. A tale proposito salta subito agli occhi un fatto singolare che va rilevato.

Nell'Italia settentrionale la manifestazione poetica ebbe, nella seconda metà del secolo XVIII, un carattere sociale e politico, che s'impersonò nel Goldoni, nel Gozzi, nel Farini, nell'Alfieri.

Il Monti, per non ricordare l'aulico e inzuccherato Metastasio, rappresentò, nell'Italia centrale, tutto il camaleontismo della vita politica italiana, durante la rivoluzione e il dominio francese. Nell'Italia meridionale, invece, tale manifestazione mancò od è sconosciuta.

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Eppure nella vita meridionale il risveglio intellettuale non mancò e fu più accentuato. La manifestazione poetica ci fu; ma ebbe un carattere tutto proprio. Si determinò fin d'allora una corrente dì poesia che chiameremo settaria e ch'ebbe il massimo sviluppo nel 1820 con Gabriele Rossetti. E nel mondo settario bisogna appunto ricercare il poeta che, nella seconda metà del secolo XVIIII, ritrasse, meglio d'ogni altro, la natura, il carattere, le aspirazioni del popolo meridionale.

Il poeta della Massoneria.

Era l'abate Antonio Ierocades. Di lui così parla un contemporaneo (1):

«Nel 1790 essendo in collegio uom conobbi che col molto adoprarsi nella diffusione della Massoneria divenne oltremodo famoso. Quale allor lo vidi panni ancora vederlo...».

«In un giorno del cocente mese di luglio, datosi fine al desinare, nelle ore lunghe e noiose che seguono il mezzodì, intrattenendone a diporto, scorsimo un tale che da in su la vii affacciandosi per un finestrino dentro la nostra camera, mise con voce affannata verso noi queste parole: giovinetti soccorrete di un po' di acqua l'ardente mia sete. Tonto provvidimo al suo bisogno; e ne affollammo a guatarlo dappresso; tanto ne parve singolare la sua figura. Di mezzana statura; macilente della persona: nell'età che piega alla vecchiezza, era di placidissima fisonomia; e con una tale dolcezza negli occhi e nelle parole che ne ispirava indicibile affetto.

Vestiva a nero; aveva laceri e polverosi gli abiti, ed il cappello; e sotto al braccio tene sdrucita ombrella dì tela incerata fatta a riparar dalla pioggia, con che invece dovea schermirsi dal sole.

Ne disse: siate amanti dello studio e della patria; e con maniere avvenevoli da noi accommiatossi. Lo seguimmo degli occhi tiri che non si dileguò, e nel camminare che faceva ci avvedemmo esser zoppo».

(1) Rodinò Racconti storici (in Archivio sturino delle Provincie Napolitane) anno VI fasc. 2 e seg.

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Eravamo tutti curiosi di apprendere chi mai si fosse, tanto ne rimanemmo meravigliati. Ma giunta l'ora in che aprivausi le scuole, nel recarvisi un de' nostri precettori tutta fu in grado di soddisfare la nostra brama. Ne raccontò che facendo sua vìa, accortosi di quell'uomo, il quale disteso dormiva sui gradini all'uscio dì una baracca, fatto dell'ombrella guanciale; se gli approssimando, tosto il riconobbe, essendo che gli era concittadino: e che punto non sorpreso, assai conoscendo i suoi cinici costumi, dopo che l'ebbe desto dal sonno, lo si aveva menato a casa, per provvederlo di vestimenti e di ogni altro bisognevole, e che

era quegli il dotto Abate lerocades, il quale tornato di corto da Marsiglia, arrivava fra noi, proveniente da Napoli, percorsa viaggiando a piedi la distanza dì oltre a trecento miglia,...».

«Ierocades, famoso per dottrina, quanto di poi il divenne per colpevole debolezza, comecché figlia di moltissimi strazi, con sommo zelo occupandosi a diramare nel regno, secondo il toltone impegno in Francia, la Massoneria; condottosi in Calabria, al pari che in altre città, allor fondò una Loggia in Catanzaro».

Antonio Ierocades nacque a Parghelia in Calabria, il 1° settembre 1738. La sua vita coincide quasi del tutto col periodo di tempo che, dalla fondazione della monarchia borbonica nel Regno, si prolunga sino alla seconda fuga de' Borboni in Sicilia ed al cominciare del decennio militare.

Consacratosi alla Chiesa, o per vivere men dipendente, o per ovviare i rigori di una ingiusta fortuna - dice un suo biografo - si abbandonò ad una vita quasiché stoica, ed aliena dal consorzio ordinario del mondo.

Non per tanto fu stimato e tenuto in gran conto da' migliori del tempo, da Genovesi, Pagano, Cirillo, Filangieri.

Le sue poesie lo resero popolare e fu chiamato l'Orfeo della Massoneria. Né sfuggì alle persecuzioni, quando la Massoneria napoletana si mise in urto con la Corte Borbonica.

- 3-

Fu imprigionato una prima volta per certe composizioni che egli cantò su' bastimenti francesi del Latouche nel 1792 cfr. Croce, Studi, ecc, p. 237), e mandato a penitenza in un convento: una seconda volta, nel 1795, fu imprigionato nel Castel dell'Uovo, ed ebbe la debolezza di fare rivelazioni che compromisero parecchie persone (cfr. Rossi, ibid.). Nel 1733, imprigionato una terza volta, fu mandato in esilio in Francia. Tornato nell'agosto del 1801, fu relegato in altro convento, e morì il 18 novembre 1805,

Caratteri della poesia del Ierocades.

Il dottor G. Capasso, in una dotta ed interessante monografia (1), cosi lo definisce: «Il Ierocades fu un dotto dello stampo de' nostri vecchi di un secolo fa, cui, se mancava li scienza del tempo presente, non facevano però difetto, né li dottrina, nè la sicurezza delle conoscenze. Ad ogni modo non gli si può negare un merito speciale, che gli da diritto a qualche riconoscenza de' posteri....»,

E il Capasso giustamente osserva che «il Ierocades, colla sua natura, col suo ingegno, colla sua vita, rappresenta una qualità caratteristica del popolo napoletano, nella seconda metà del secolo XVIII: quell'apatico rassegnarsi in una contemplazione di bene e di prosperità senza dolori; di un cielo eternamente sereno, riflettente, come in immenso specchio, l'azzurro della vita; e, nello stesso tempo, la irrequietezza, che non lascia? posare gli animi; quel quasi presentimento d'una prossima, radicale trasformazione della vecchia società; quel cercare affannosamente una forma in cui adagiarsi, per raccapezzarsi e prepararsi all'avvenire: il mare, calmo alla superficie, ma sconvolto, al fondo, dagli elementi, che, irrompendo, dovevano poi produrre il gran cataclisma».

(1) Dott. GAETANO CAPASSO: Un Abate massone del Secolo XVIII, Parma, Tip. Firmi e Pellegrini, 1887. - Vi sono aggiunti altri due importanti studi biografici: Un Ministro della Repubblica Partenopea, VINCENZO DE FILIPPIS, Un Canonico letterato e patriota, GREGORIO ARACRI.

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«Né la poesia del nostro Abate manca della qualità propria a quella società, la musica. Il Ierocades, anima profondamente musicale, fu detto, e, sotto un certo aspetto, fu anche, l'Orfeo del suo tempo. E, se, a differenza dell'antico, non si trasse dietro le pietre e le piante, al suono della lira, fu però capace di sollazzare per mezzo secolo il popolo più avido di piaceri, che si conosca. Nel che va precipuamente ricercato il posto eminente che gli potè conseguire in un'epoca e in mezzo ad un popolo che pure fu capace dì dare al mondo gli eroi della Repubblica Partenopea e,

laquo;Questo abate aveva dentro di sé qualche cosa dell'ingegno e dell'animo di Pietro Metastasio, Ma la natura, che gli largì spontaneità, potenza di facoltà percettiva e trasformati va e forza di assimilazione, negogli invece ciò di cui fu all'altro più che prodiga: intuito largo, sicurezza di esecuzione, plastica finezza e perfezione d'immagini, poter moderare fantasia ed immaginazione, e, diciamolo pure maggior fortuna e corte aulica».

Opere del Ierocades.

Al giudizio del Capasso nulla dobbiamo aggiungere. Il Ierocades appartiene alla schiera de' precursori, e di questi ha tutti i difetti e tutte le virtù. Nella sua vita come nelle sue opere, e un certo che di quel misticismo che si riscontra ne' messianici, ne' millenari, e in quanti sono infatuati in un miraggio di vita che li trasporta lontano, lontano dalla realtà. E tal miraggio era allora nella idealità de' principii massonici.

Compose il poema Paolo o dell'Umanità liberata, pubblicato la prima volta nel 1783, e dedicato a Re Ferdinando. Potrebbe - dice il Capasso - chiamarsi l'epopea della Massoneria, i cui principii espone leggermente velati dalla veste poetica; e ad esso servono d'introduzione gli altri scritti dell'Autore.

Paolo non è l'apostolo convertito di Damasco, ma il poeta stesso, foriero della luce massonica, che, sola, può liberare l'umanità. Tutti i simboli e le pratiche della sètta sono nel poema ricordati: descritte le logge (canto V):

- 3

78 -

Pietro vede in cielo il modello del tempio (canto XI) non manca il segno di convenzione, per cui si riconoscono Pietro e Paolo, e questi è riconosciuto da' fedeli; per guisa che il poeta esclama:

…..........o dì beato e caro!

Quando l'amico, al segno a lui sol noto,

Riconosce l'amico, al volto ignoto. (Canto X).

L'opera che lo rese popolare fu la Lira Focense, raccolta delle migliori sue poesie di sensi massonici, la quale divenne come il codice per gl'iniziati a' misteri. Dovette esservi indotto dal vederle ricercati, di continuo, e da molti.

«La Lira - dice il Capasso - ha stretto legame col Paolo: «le cerimonie le pratiche dell'Ordine si descrivono, in questo, sotto forma di profezie, in quella mediante canzonette».

«La Lira Focense - dice l'editore (1) - e stata generalmente accolta; specialmente da coloro, che ne intendono la dottrina senza abusarne. La Germania ha lo Schiller in questo genere, ma prima di Schiller i Veri illuminati dell'uno e dell'altro emisfero celebravano la Lira dell'italico Orfeo Antonio Ierocades... Se non è più sublime di Schiller, egli ba certamente maggior unzione di lui. E perciò piacque soprammodo a' Saggi di Francia, d'Inghilterra e di Fìladelfia».

Narra l'Autore, nella prefazione, che della famosa, emigrazione de' Focesi in Marsiglia «oltre le memorie scritte, e un avanzo degli orientali costumi, si legge, da un antico scrittore rapportato, un Codice rituale e liturgico, in cui si trovano registrate molte canzoni, che sono quasi tutti Inni, Peani, Ditirambi, Litanie, contenenti le Orgie, o le Feste di Bacco».

E soggiunge: «Ne' due miei viaggi, fatti nell'anno 1771 e nell'anno 1784 in Marsiglia, vidi e lessi quel Codice, e con l'aiuto di saggi amici venni a penetrare lo spirito di quelle canzoni liturgiche.

(1) Se ne fecero parecchie edizioni. Ho presente «La Lira Focese - dell'Abito Antonio Ierocades - ristampata per aura dì Antonio Calabritti - Prof.ne R. Lic. Mil.» Ha la data massonica di Milano 5809 (1809).

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Piena la mente delle idee d'onesta allegrezza, ho scritto molte e varie canzonette sullo stesso argomento, e cantandole ancora con la tazza e con la cetra in mano, ho sollevato l'altrui, e l'animo mio dalle cure fatali del Secolo» (1).

Saggio di poesie del Ierocades.

1. Il Regno di Bacco (2).

Di Bacco nell'imperio

Sorge l'antica età;

Risente ognun nell'animo

La BUE felicità.

Di Bacco al dolce

L'amor, e l'amistà

Rendon di novo agli uomini

L'antica libertà.

Divisa in cento popoli,

Per leggi, o per pietà,

Porta un giogo aspro e misero

L'oppressa umanità.

Non è sicuro il debole,

Il forte in dubbio sta:

La tema vicendevole

La pace ingrata fa.

Il mondo è un tetro cartcere.

La vita è crudeltà;

Ogni dover collidesi,

O premio alcun non ha.

Ma Bacco ì lacci scioglieci,

E l'alma verità

Discende a noi dall'etere,

Né più si estinguerà.

Nel nostro Tempio sfolgora,

Né mai si smorzerà

La face inestinguibile.

Che il volgo non vedrà.

Qual arca fra le nuvolo

Il nostro Tempio andrà,

E la tempesta orribile

Non mai l'immergerà.

Quando su monte stabile

Sue basi innalzerà,

Salvo da rei pericoli

Al mondo si aprirà.

La terra, un Padre, un Principe,

Un Nume solo avrà:

E il bel figliuol di Semele

In ciel si adorerà.

Ecco il Baccante intrepido

Dal Tempio partirà,

E con l'ardente lampada

Pel mondo scorrerà.

Il vaso salutifero

In braccio porterà,

E il suo liquor, che inebbria

Sulle alme spargerà.

Intanto l'uman genere

Raccolto formerà

Di tutti i vasti Imperli

Una fedel città.

Sia questo il bel principio

Che alfin ci condurrà...

Beviam, beviam, che libero

Bevendo il cor si fa.

Coro

Beviam, beviam, che libero

Bevendo il cor si fa.

(1) Oltre il Paolo e la Lira Focense il Ierocades scrisse: Il saggio dell'umano sapere, dettato a' suoi scolari nel 1759 e pubblicato nel 1768; - l'Esopo (1777). - Le parabole dell'Evangelo (1782), - Gli Inni d'Orfeo (1785) - Le Odi d"Orario (1787). - Gli Inni della Chiesa (1787). - Le Oodi di Pindaro (1790). Sono ricordati: Il Quaresimale e il Cantico de' Cantici, la Scuola Pitagorica, gli Amori di Fileno e Nicee, è il Seminarista calabrese (anonimo).

(2) Lo stesso Ierocades dava l'aria per la musica.

- 380 -

2. BRINDISI

Questo è il bicchier di Bromio,

E della libertà!

Beviam: ritorni all'animo

La sua felicità.

La vita è breve, e rapida,

Qual onda, al mar sen va.

Face e piacer non ha.

De' giorni miei nel termine

A me che resterà?

Quell'ombra, e quella polvere,

Che nulla alfin si fa, Rinascerò nel vortice

Della necessita.

Ma qual nell'altro secolo

La vita mia a ara ?

Della futura età,

Vanne e nel fondo immergiti

Dell'alta eternità.

Quel nappo, e quella cetera

Se il buon Lieo mi da;

A Giove non invidio

La sua tranquillità.

.'.

Chi vuoi saper del mondo

Il genitor? E' il vino.

Lo spazio? E' il borbottino,

Che voto mai non è. Chi serba un cor giocondo

Chi sempre e beve, ed ad

Altro di più non brama.

Ha tutto il Mondo in sé.

.'.

O bella Nice

Sai chi è felice?

Il Nume, e il Re,

Se notte, e giorno

Col fiasco intorno

Beve con te.

3. LA COSMOGONIA.

Dell'Universo il Codice

Nel Tempio appeso sta.

E' sua custode e vindice

L'eterna Verità.

Al saggio è intelligibile,

Oscuro al reo profan.

Ma suo seguace e suddito

E' il mondo, e il germe uman

Fisi (1) di qua, che regola

De' corpi il gran destin.

Di là le menti Temide (9)

Conduce a miglior fin. Mi ascolta, o saggio giovane,

E scrivi in mezzo al cor

Con chiare note e semplici

La legge, e il suo valor.

Dal nulla nulla facciasi.

L'ente non può perir.

Ma le sostante possano

L'una nell'altra agir.

Muova veloce ogni essere

Verso il ano centro il pie,

Ogni sostanza attraggasi

Con vicendevol fé'.

(1)

La natura

(2)

La giustizia


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- 381 -

La forza sia centripeta

Nell'Universo inter;

La forza eia centrifuga,

Eguale al suo poter.

Ogni ente impenetrabile

Regga all'altrui furor.

Negli urti vicendevoli

Sol ceda a chi è maggior.

Sia la sostanza inabile

A moversi, e a posar:

Dì tutto suscettibile

Possa l'un l'altro far.

Ogni sostanza generi

Secondo il suo valor:

E regni al mondo Venere,

Regni nel mondo Amor.

Il mondo ornai sospendasi

Tra il vivere e il morir:

Né cominciar mai veggasi.

Né veggasi finir.

Si sciolga, e ricompongasi

Ogni ente, ch'è mortai;

E sempre sia medesimo

Il mondo universal.

Di Fisi il grande imperio

Ha qui fissato il fin.

Or ti dirò di Temide

Il Regno, ed il confin.

Quell'Ente necessario

Tu devi venerar,

Che questa immensa macchina

Sempre dal nulla far.

A lui tu dei dirigere.

Con tutto il tuo poter,

Del corpo e dello spirito

Il moto ed il pensier.

Da lui dipende, e reggesi

Con legge sempre egual.

La immensa e indissolubile

Catena universal.

Quindi a te stesso volgere

Tu debbi il tuo vigor;

E cura aver dell'anima,

Cura del corpo ancor.

Conservati, e propagati

Secondo il tuo desir;

E cedi al fato stabile

Di fare, e di soffrir.

Se mai tu nasci suddito,

Non ribellar dal Re.

Se mai tu nasci Principe,

Governa e gli altri, e te.

I dritti ancor degli uomini

In tutto dei serbar;

E ciò che a te medesimo.

Agli altri dei tu far.

Dovunque vuoi tu vivere.

Nel bosco, o alla città.

Serba le leggi, e il premio

Spera di tua bontà.

Culpa non è, che restasi

Priva del giusto duol:

Non vi è virtù, che languida

Si giaccia, e oppressa al suol.

Ma credi tu che termina

La vita nostra qui?

La morte il gran principio

Sarà d'eterno di.

Da lui dipende, e reggesi

Ah serba la pietà.

Se vuoi goder con l'animo

La tua felicita.

Lascia a chi vuol l'imperio

D'illustre servitù.

La Verità te domini,

Te regga la Virtù.

Se tu sei ili Cosmopoli

Fedele abitator,

A queste leggi immobili

Volgi la mente, e il cor.

4. L'Epilogo.

Ecco siam giunti al termine,

Il Tempio è già fondato,

Otto colonne stabili

L'han già di terra alzato.

Sull'Ara un Nume scorgeai,

Che in placida armonia,

Entrate, esclama, o giovani,

AI tempio di Sofia. Non k di Creso, o di Attalo

Questo il palagio augusto.

Né della Diva d'Efeso

Il Tempio assai vetusto.

Ad innalzar piramidi

Qui non sudò l'Egitto.

Gli alti obelischi il barbaro

Non trasse qui sconfitta.

- 382 -

Nè dell'oppressror Dardano

L'asilo è qui de' Numi.

Segua ogni gente libera

Sue leggi e suoi costumi

Dell'Universo immagine

E' il Tempio mio verace.

Della Datura il genio

L'empie d'eterna pace.

Qui si conserva il codice

Della immutabil legge,

Che Fisi sia, sìa Temide,

E il Regno, e il bosco regge.

Scrisse in tal Tempio Romolo

Le leggi un di di Marte,

Qui di pietà Pompilio

Un di vergò le carte.

Là nella vetta empirea,

Dall'una all'altra spera,

Mille astri, e mille immagini

Vedrai tra giorno e sera.

Son mondi quei? L'imperio

Qual è di quelle terre':*

Vi è Giove là coi fulmini?

Son liti là, son guerre?

Scendi, e saette, e nuvole

V'è tra la terra, e il cielo.

L'etra or si raggruppa, or sciogli

A far il caldo, u il gelo.

Qui la colomba involasi

Del fiero nibbio all'ira.

Il rosignuolo è querulo,

Il cigno canta, e spira.

Or ve' la terra inospite

Cinta l'antica selva

Han qui la stessa origine

La pianta, l'uom la belva?

Ma un cacciator intrepido

Corre all'altrui ruìna,

E sbosca il monte ombrifero,

E scende alla marina.

Alza le mura il debole

Incontro al furbo, e al forte.

La tema vicendevoli;

Ferma dell'uom la sorte.

Qui da' suoi vecchi cardini

Spesso si scuote il suolo.

Or piova fiamme, or grandini,

Or trema, or arde il polo.

Cade Cartago, e innalzasi

Sulle sue basi il soglio.

Pria vacillante e povero,

Nel sacro Campidoglio.

Là rozzo l'uom, qual albero

Inculto, giace, e vìve

O in grotte inaccessibili,

presso a verdi rive.

Qui l'uom, non più terrigena,

Lascia le patrie sponde.

E sciolto il voi, qual li

Vanne a volar per l'ombra

Ecco una terra incognita

Diversa di costumi.

Ove non sono i Principi,

O son Tiranni, e Numi.

Ma chi può in breve esprimersi

L'universal Natura

Che corre in suo compendio

Vi chiuse in queste mura?

Addio compagni impavidi

Figli ed amici, addio

Vi lascio impresso all'anima

E lUomo, e il Mondo, e il Dio.

Se mai vi offesi, io chiedovi

Pietà, non che perdono,

Son dì Sofia discepolo,

Ma un uomo ancora io sono.

5. La Preghiera.

I nostri voti armonici,

Ascolta. Fabbro eterno,

Delle alme invitte e libere

Tu veglia al gran governo.

Da te comincia l'opera,

In te finisce, o Nume.

Noi siam tue e belle immagini,

Se in noi non manca il lume.

Nel giorno, o fra le tenebre,

Il nostro Tempio accendi.

Dal volgo ignaro e stupido

Il popol tuo difendi.

Questo è di saggi un popolo,

Che al Ile non son rubelli.

Vantan la stessa origine,

E son fra lor fratelli

- 383 -

O Nume immenso e provvido

Mostrati a noi sereno.

Tu sei nel mar, nell'etere,

Tu sei del giusto in seno.

È stolto e temerario

Chi, gonfio il cor d'orgoglio

Su l'inocente e il misero

Erge lo scettro, e il soglio.

Deh vieni armato, o Giudice,

E sgombra il cieco inganno.

Il Regno tuo deh vendica

Dall'oppressor Tiranno, Ma il Re, che vive, e domina

Con le tue sante leggi,

Ch'è Padre più, ohe Principe,

Ma il nostro Re proteggi (1).

L'Europa è una Repubblica

Di Re, fratelli, e amici.

Cerca ciascun la gloria

Di far i suoi felici.

O fortunati secoli!

O vera età dell'oro!

Delle virtù benefiche

O ricco, o bel tesoro!

Ite, Compagni, e agli animi

Spargete ornai la luce:

Ne' casi, e ne' pericoli

Un Dio vi è mastro, e duce.

6. La Patria.

Io cerco la mia Patria,

E non la trovo in terra

In mezzo al reo disordine

Tutto è tumulto e guerra

Più non governa Temide.

Irene già sbandita.

Serve alle genti Eunomia

Di favola erudita.

Siede sui trono il principe

Per dominar fastoso,

E non per far de' sudditi

La gloria, e il bel riposo.

Ministri sono i perfidi

Suoi lusinghieri amici

Che soli in tanto popolo

Son ricchi, e s on felici

Il contadin consumasi

Nel suo travaglio ogni anno

E in frutto alfin ricavane

La povertà, l'affanno.

Il pescatore la lacera

Sua rete alfin raccoglie,

E torna al suo tugurio

Fra i gemiti, e le doglie Altri col suo navillo

Viaggia pellegrin

Ed o tra sirti naufraga

torna più meschino.

E quei che tra le nuvole

Immerge il guardo attento,

Qual premio mai riportane

Del nobìl suo talento?

Veggo il figlìuol d'Apolline

Temprar sua dolce cetra,

E al suo bel canto armonico

Venir gli Dei dell'etra.

Chiuso in angusta camera

Tra l'onta, e tra l'oltraggio,

Vive di speme e spasimi.

Premio crudel del Saggio.

Ahi la virtù, che gli animi

Sola beata ben,

O ai trascura, o il barbaro

Li vuol di morte rea.

La libertà, che nascere

Nella Città si vide,

Or serve alla Tirannide,

Nè più festeggia e ride.

(1) E nel «L'Amor della Patria» il poeta rilassano e giacobino cosi inneggiava a re Ferdinando» :

Torna ormai l'età dell'oro:

Dalla mensa andiamo (ti coro

Cadde l'empio cadde il barbaro.

All'abisso il reo sen va

Viva e ragni il gran Fernando,,

C'ba per noi la legge e il brando.

E ritorni ormai la Patria

Alla sua tranquillità,

De' giorni vostri al termine

L'eternità vi addita,

Che, nel morir, lo spirito

Passa di vita in vita

- 384 -

E i Numi? E i Numi indomiti

Della virtù seguace,

Del conflagrato Imperio

Che il germe umano oppresse.

Oh Patria! Oh nome amabile

Ora odiose nome!

Hai ben ragion di avellerti

Per tuo dolor le chiome.

Correte, o gente libera,

Della virtù seguace,

Aristoclea domandavi

La libertà, la pace.

Conciliate gli animi

De' suoi sdegnati amanti;

pure a morte dategli,

Impavidi e costanti.

7. LA LIBERTÀ.

Il monda giace

Nella barbarie.

Non c'è più pace,

Non libertà.

Il cieco errore

Con le sue favole

Spense l'amore

Dell'onestà.

Non più le selve

I mostri albergano.

Regnati le belve

Nella Città.

Natura langue,

Spento il bel genio.

Nuota nel sangue

L'Umanità.

Altri sull'armi

Fonda l'imperio.

Altri su i carmi

Della pietà.

Fra due catene

II corpo, e l'animo

Sospira il bene

Che mai non ha.

Di quei, che freme

Tra le dovizie,

A' fianchi geme

La povertà.

Dov'è quel lume,

Germe d'Apolliue?

Mendace Nume

L'ha spanto già.

Ragion, coraggio

Mancati, qual nuvola

Che il chiaro raggio

Sgombrando va.

Alme ingannate,

Tra il cieco popolo

Invan cercate

Felicità.

Più non s'accende

Tra tante tenebre

Mente, che intende

La verità.

Il Tempio interno

Su, su, riaprasi,

Il Fabro eterno

Ci aiuterà.

Questo strumento

Della grand'opera,

II pavimento

Stabilirà

Poi con misura

L'altro adoprandoei

L'eccelse mura

Solleverà

Allor che ti tetto

Col terzo formasi,

Di gioia il petto

Ci colmerà.

Oh quanto è vaga

L'augusta macchinai

Contenta e paga

L'alma sarà.

Di tanti amici,

Che qui convivono,

Saggi e felici

La Società

Non mai per anni,

Non mai per secoli,

Né per inganni

Mancar potrà.

Se nasce eguale^M

Dall'alta origine

Ogni mortale

Per ogni età;

Virtù, che sola

Fra noi distinguasi,

In questa scuola

Germoglierà

- 385 -

Che se non nasce

Dal vero merito,

Ma dalle fasce

La Nobiltà;

Pregio e valore

Col proprio spirito,

Col proprio core

Si acquieterà.

Tacete ornai.

Si apre l'Empireo,

Della beltà.

Oh! dolce speme,

Tu ci fai scorgere

L'idea del bene,

Che al cor ci sta

L'alma concordia;

L'alta vendetta

Non tarderà.

Sien nostra guida

Fede e silenzio

Sia scorta fida

La libertà

Coro

Per noi si vendichi

La libertà


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Vincenzo Monti frammassone.

Potremmo estendere la ricerca ad altri poeti e cantori dei misteri e delle cerimonie massoniche; ma non vogliamo, né possiamo dimenticare chi tenne incontrastato il dominio, ne' suoi tempi, del Parnaso Italiano, e come il camaleonte della favola seppe pure ritrarre tutte le più lievi sfumature e il vario cambiar d'ambiente: Vincenzo Monti,

Poeta del governo e istoriografo del Regno Italico, il Monti fa anche frammassone. Né questo poteva mancare agli altri titoli - abate, cittadino, cavaliere - che successivamente determinarono e colorirono la spensierata volubilità di pensare del sommo poeta, e la grande abilità d'adattarsi ad ogni sorta d'eventi.

Diventò giacobino in ammenda d'aver cantato, a modo suo, la morte d'Ugo Basville. Scrisse allora al Salfi la famosa lettera di ritrattazione che fu pubblicata il 18 giugno 1797 nel Termometro politico di Milano, dallo stesso Salfi diretto. E come se ciò non fosse sufficiente, scrisse pure un'ode alla Libertà, in cui si è detto:

Ma tua pianta radice non pone

Che su' pezzi d'infrante corone;

Né ai pasce di fresche rugiade.

Ma di sangue, di membra di Re.

- 386 -

Non c'è d'atterrirsi; questo del Monti era giacobinismo fatto a parole soltanto; quel giacobinismo che sotto l'Impero dovea trasformarsi in massonismo. Ed usiamo la brutta parola come quella che ritrasse la forma più raffinata di servilismo alla potenza del gran padrone, in Francia e in Italia. L'essere massone era allora una necessità, un dovere imprescindibile d'ogni cittadino che si rispettasse e volesse essere rispettato. La raffica della reazione aveva tutto spazzato, e all'eroismo de' martiri del 1799 era succeduta l'impostura di non pochi, servi umilissimi de' Francesi.

Certamente sarebbe una meraviglia se il Monti non fosse stato massone, Apparteneva, a quanto sembra, alla Loggia milanese Reale Eugenio, che, insieme colle altre - l'lmperial Carolina, Reale Augusta, Real Gìoseffina, - anche nel nome attestava fin dove s'era spinta l'adulazione.

Anzi, per la solenne inaugurazione della Reale Eugenio ebbe il Monti l'alto ed invidiabile onore di comporre la Cantata di circostanza, che a titolo di curiosità qui riproduciamo.

L'ASILO DELLA VERITÀ (1).

IL MISTERO. Vieni, Diva infelice.

Vieni. In questo a profani occulto asilo

Ti ricovra, o respira

In securtà. Qui l'ira

Giunger non può de' tuoi nemici. A tutti

Ignoto resterà che qui s'asconde

Col tacente Mistero

La non tacente Verità.

LA VERITÀ. Che parli?

Io tua compagna? e che comune io teco

M'abbia l'ospizio? Noi sperar. Nemica

Ti fui, lo sono, e lo sarò. Tu cerchi

L'ombre; io la luce. Tu mostrar non osi

La fronte; io temo di celarla. Or dunque

Lasciami, o Nume tenebroso. Invano

Riunir t'argomenti

Mistero e Verità.

(1) Esiste nella Biblioteca Nazionale V. E. di Roma.

- 387 -

IL MISTERO.

T'accheta e senti.

So che avversa mi sei; non io per questi

T'ebbi men cara, augusta Dea. né mai

Ti nocqui io no; che l'opra mia soventi

Anzi ti giova; e tu noi sai. Coperta

Dell'arcano mio velo

Tu diventi più bella; e spesso, il credi,

M'hai vicino, mi tocchi, e non mi vedi.

Ma tacciasi di questo. Altri pensieri

Chiede il tuo stato. Una crudele in terra

Ti dan perpetua guerra

L'Ignoranza, l'Error, l'Orgoglio, e il cieco

Amor di me medesimu, e quell'orrendo

Mostro a tutti tremendo,

Che Fanatismo ha noma, arbitro antico

Degli umani intelletti. Ognun ti teme,

Che puro ti riceva. Or ecco; in questi

Alla mia fe' commessi

Taciturni recessi io t'offro, o Diva,

Altari, e culto, e sicuranza, e petti

Di te bramosi e di te degni, Inoltra

Là dentro il passo, e scorgerai se vero,

Se svelato ti parla oggi il mistero.

Qui le virtù più belle

Han trono, incensi ed ara;

Qui dispogliar s'impara

Da vili affetti il cor.

Eterna dalle stelle

Qui piove un Dio la luce.

Non Dio tiranno e truce.

Ma tutto Dio d'amor.

LA VERITÀ.

Di stupor mi riempi,

generoso mio rivai. Ha quali

Sono dunque i mortali

Di tanto ben privilegiati.

IL MISTERO. I figli

Dell'eterno Architetto.

IL MISTERO. I figli

Dell'eterno Architetto.

LA VERITÀ. Basta così; quel detto

Mi fa tutto palese. Addio; ti resta

Tu con gli alunni del compasso; io corro

Altro esito a cercar

IL MISTERO. Fermati, ascolta...

LA VERITÀ. No lasciami: altra volta

Intervenni chiamata

Ai mistici consessi

Di questi oscuri illuminati, ed ebbi

Di che pentirmi. Orsù; conosco anch'io

I lor travagli, so che sono; addio.

Dell'arcano altare al piede

Geni labbro in sacro accento

Mi giurò silenzio e fede,

Ma scordossi il giuramento

Più d'un labbro e mi tradì.

Porse il petto al santo amplesso,

E amor vero ognun promise;

Ma l'orgoglio i cuor divise,

E il fratel più volte oppresso

Dal fratello, oh dio! perì.

IL MISTERO. Vero parlasti, austera Dea; ma quale

Degli umani istituti

- 388 -

Ottimo sempre sì mantien? Tu

DI prudenza talor forse non varchi

I prescritti confini? e per soverchio

Zelo del Giusto non ti veggo io spesso

Cangiata in vizio? Ma garrir che giova?

Entra, e i tuoi torti a prova

Conoscerai. V'aprite, eccelso porte

Del negato a profani

Mistico tempio; e voi brandite, o figli

Della luce, le spade, e coll'alzate

Punte in croce onorate

La Dea del Ver, che viene.

Si spalancano le porte del Tempio, e comparisce il Coro delle Virtù che si avanzano giubilando incontro alla Verità.

LA VERITÀ. Oh ciel! son io

Fuor di me stessa? o quelle,

Che là veggio, son pur le mie sorelle?

CORO DELLE VIRTÙ Vieni, aspettata

Delle bell'anime

La gioia è ingrata,

Se va lontana

La Verità.

LA VERITÀ. Oh cercate da me gran tempo in vano

Care sorelle. Egualità, Costanza,

Cortesia, Temperanza.

Beneficenza, Libertà! Dunqu'io

Dopo tanto desio

Vi ritrovo e v'abbraccio? Oh dolce incontro!

Oh me felice! Ma qual sorte amica

Fuggitive e disperse

Vi riunì, v'aperse

Questo asilo di pace?

UNA DELLE VIRTÙ Un Dio, che sempre

Per noi fia Dìo. Leva lo sguardo, e mira:

Eccolo.

LA VERITÀ. Oh vista? e non è quello il volto

D'EUGENIO?

- 389 -

UNA DELLE VIRTÙ E desso. Su l'augusta fronte

Della fraterna stella.

Non vedi il raggio balenar? Sbandite

D'ogni parte e tradite, Ei ci raccolse

Tutte intorno al suo solito, Ei ne permise

L'aver culto e seguaci; ed è suo dono

Se, LUI nostro ORIENTE e nostro Duca,

Questo Tempio abitiamo e questa Luce.

LA VERITÀ. Oh magnanimo, oh degno!

Ch'ogni buono l'adori!

UNA DELLE VIRTÙ E non slam sole

Al regale suo fianco. Altre sublimi

Lo circondano a gara

Generose virtù, che la profonda

Or l'insegnano dì Stato

Difficil arte.

LA VERITÀ. Ed io fra tante, io sola

Esclusa rimarrò?

UNA DELLE VIRTÙ Sgombra il sospetto,

Noi medesme al suo piede

Ti guideremo. Ei chiede

Di te pur sempre, e ti desira, e contro

Le lusinghe e gli inganni

Che circondano i troni Egli ti spera

Sua compagna, sua scorta e consigliera.

LA VERITÀ. Si: quel cor d'udirmi è degno,

E a quel core io parlerò.

IL MISTERO. E agl'iniqui il tuo disegno

Io fedel nasconderò.

LA VERITÀ. Dunque pace, o Dio Mistero.

IL MISTERO. Dunque pa

ce, o Dea del Vero.

A DUE. Senza velo, e senza sdegni

Fra noi regni l'amistà.

UNA VIRTÙ. L'almo Sole del grande Architetto

Su la fronte d'Eugenio risplenda:

UN'ALTRA VIRTÙ. Per l'augusto Fratello diletto

Ogni petto di gioia s'accenda;

TUTTI. Il fragor delle palme battute

A Lui porti la terza salute,

E il possesso d*un*alma si cara.

Sia la gara di tutte Virtù.

APPENDICE II.

La società de' Giacobini a Napoli

In una sera dell'agosto 1793, si adunarono a Posillipo venti persone, le quali, dopo dì aver cenato, presero ed esaminare la legge organica della loro Società, che il Laubergh aveva preparata, e che, salvo poche modificazioni, non differiva gran fatto dall'altra che regolava l'associazione di Marsiglia.

Sono ricordati come presenti, oltre al Laubergh, D, Nicola Celentano, D. Michele De Tommaso, D. Filippo Lustri, D. Rocco Lentini, D. Annibale Giordano, illustre professore di matematiche, ma perverso di cuore, Carlo Antonio Del Giorno, suo discepolo nella scienza e nella perfidia, D. Andrea Vitaliani, D. Giovanni Letizia, Flaminio Massa, Antonio Vitale (alias San Giovanni di Dio), Raffaele Nitti, Stanislao Melchiorre, Giambattista De Falco, Michele Vaccaro, G. B. Mazzarella, Antonio Nardo e Vincenzo Guigliotti. Ignorati i nomi degli altri due.

La Società fu detta Sans compromission, e dividevasi in piccoli gruppi che con parola allora di moda dicevansi clubs. Essi erano di quattro specie: elementari, de' deputati, elettorali e club centrale, che presiedeva a tutti.

I clubs dei deputati avevano una esistenza del tutto precaria, servendo solo da comizi elettorali, e scioglievansi appena fatte certe elezioni, a differenza dì tutti gli altri, che erano permanenti nella società.

I clubs elementari, cosi detti perché rappresentavano gli elementi di quell'organismo sociale, costituivano la parte, dirò cosi, più periferica di esso e non avevano numero prestabilito, potendosi moltiplicare innesti clubs indefinitamente secondo richiedeva l'estensione dell'intera Società.

I componenti però di ciascuno di essi non potevano passare il numero di undici, e quando un altro si presentava per esservi ammesso, il club scindevasi in due, di sei ciascuno.

- 391 -

Dal che si rileva che i componenti ciascun club elementare non potevano essere meno di sei, né più di undici.

Il club elementare sceglieva fra i suoi un presidente, un deputato ed un segretario, cui spettava di raccogliere anche le oblazioni volontarie che ciascun socio avesse creduto di fare.

Tali cariche erano a tempo determinato, nè si potevano altrimenti conferire, che per maggioranza di suffragi raccolti nel proprio club. Il presidente poi, se alcun candidato si presentava per essere ricevuto giacobino nel club, gli assegnava due fra gli antichi affiliati che col nome di commissari elementari dovevano esaminare la vita e la condotta politica del nuovo arrivato, scrutarne l'indole e riferirne.

Il deputato copriva la carica più importante del club elementare. Egli, a preferenza dello stesso presidente, aveva il diritto di oltrepassare la soglia della propria chiesuola e stendere lo sguardo poco più in là degli altri. E però di questa carica erano rivestiti i più fervidi repubblicani, gli affiliati che più degli altri avevano dato prove non equivoche di loro attaccamento alla Società. In date epoche, ovvero quando il bisogno il richiedeva, i deputati si riunivano in gruppi di non oltre undici di loro e costituivano i clubs dei deputati, il cui scopo unico era la elezione dei commissari dei deputati, da non confondersi coi commissari elementari più sopra ricordati.

I commissari de' deputati, qualunque ne fosse il numero, riunivansi a loro volta in quattro clubs che dicevansi elettorali, perché avevano l'alta missione di scegliere fra loro stessi i membri del club centrale. Ma anche dopo espletata la elezione del club centrale non si scioglievano, come quelli dei deputati, ma restavano non solo quale mezzo di comunicazione fra il centrale e i deputati, ma anche per sovvenire di loro consiglio i membri del club centrale, vigilando alla loro sicurezza e tenendo d'occhio i deputaci, come richiedeva l'interesse generale dell'associazione.

Il club centrale era unico, indipendente e superiore a tutti. I suoi membri erano solo conosciuti da pochissimi fra i più altolocati giacobini e restavano ignoti a tutti gli altri.

- 392 -

Gli ordini erano direttamente impartiti dal centrale ai commissari, né punto per iscritto, ma verbalmente, oppure per segnali anteriormente convenuti. I commissari li manifestavano nel medesimo modo a' propri, deputati, e questi ai singoli clubs elementari, cui spettava eseguirli ciecamente.

Il candidato trovato idoneo da' commissari elementari, entrando nel seno dell'associazione, aveva il doppio obbligo di tenere un discorso d'occasione alla presenza de' suoi compagni di club, e di prestare il giuramento, salvo il caso di appartenere a qualche loggia massonica.

Giuravasi, stendendo la destra sulle armi, di esser pronto a mettere la vita per la liberazione della patria, di odiare la tirannia, di combatterla e di non rivelare a chicchessia i nomi i segreti della setta.

Nel discorso manifestava la sua fede politica, i suoi sentimenti e le sue speranze sui futuri destini della Società. Finiva quasi sempre in declamazioni contro il governo assoluto che li opprimeva, contro il re, contro i suoi ministri, ed invocando la libertà, l'eguaglianza, la fratellanza di tutti i popoli fra loro.

La società si propose un programma di moderazione, ma presto si sciolse, quando coloro che volevano la rivoluzione, gli amatori dì repubblica, passarono a far parte di un'altra associazione secreta, che non avea nulla di comune coi Giacobini, ma fu formata di essi.

Capo de' dissidenti era l'orologiaro D. Andrea Vitaliani (con dannato a morte nel 1799) e la novella associazione presa nome di club rivoluzionario dal proposito che avea di effettuare la rivoluzione nel regno. Ma sullo scopo ultimo della rivoluzione non si andava d'accordo, onde nuova scissura.

Quelli che voleano la repubblica restarono con Vitaliani, e il loro club si disse Romo; quelli invece che miravano ad ottenere libere istituzioni, anche sotto la medesima dinastia, pas sarono sotto il vessillo di Rocco Lentini, e il loro club s'intitolò Lomo. (

Sulle vicende del processo, cfr. Rossi, ibid., e CROCE, Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799, Roma, Loescher, 1897 - Appendice: I Giacobini Napoletani prima del 1799, Note, p. 235 e segg,

).

APPENDICE III.

La Carboneria

In questi ultimi tempi sono stati pubblicati interessanti lavori che trattano direttamente o indirettamente delle sètte, e ne hanno pubblicato gli statuti e i catechismi. Ricordo: Luzio, Il processo Pellico-Maroncelli, ecc., Milano, Cagliati, 1903.

- Memorie sulle Società segrete dell'Italia meridionale e special mente sui Carbonari. Trad, dall'inglese di Anna Maria Cavallotti, Roma Milano, Soc. Dante Alighieri, 1904. Spadoni, Sette, cospirazioni e cospiratori nello Stato Pontificio all'indomani della restaurazione, ecc. Torino-Roma, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1904.

Le poche notizie sulla Massoneria sono abbastanza monche ed isolate nel Luzìo e nello Spadoni. Gli statuti e i catechismi della Carboneria, meno lievi differenze, sono nell'uno e nel l'altro gli stessi del processo di Macerata, Lo Spadoni inoltre pubblica importanti documenti sulla Società dei Guelfi, e sui Fratelli seguaci dei protettori repubblicani.

Le Memorie sulle Società segrete dell'Italia meridionale e specialmente sui Carbonari, che pure contengono documenti di non poca importanza, riguardano più che altro quella parte della Carboneria meridionale, che, facendo centro a Salerno, tentò nel 1820 un movimento scismatico contro l'Alta Assemblea Carbonarica residente a Napoli.

Di ciò s'è parlato, e a complemento delle notizie pubblicate nel testo credo di riportare da' catechismi e dagli statuti tutto ciò che riesca a dare una idea chiara e completa di quella Carboneria meridionale, della quale, come fu notato, nelle altre regioni d'Italia s'ebbero filiazioni talvolta bastarde.

Catechismo dei Visitatori.

G. M. - Donde venite, mio B... C... Via...?

Vi». -Dalla mia Forn.. ove travaglio,

- Per dove, vi dirigete?

- Per questa B..,, onde essere illuminato nei TT... (travagli) della Carboneria.

- Da qual disegno particolare siete stato spinto a trasferirvi nella nostra B...?

- Per avere l'onore di visitarvi, per fuggire le passioni, che mi urtano, e per perfezionarmi nei TT... del nostro R... O...

- Che cosa ci portate dalla vostra Forn...?

- Porto meco alquanto materiale da Foro... che vi offro, legna, foglie, e terra, per unirmi a voi, e coadiuvarvi, per quanto posso, nel costruire, otturare e cuocere quello acceso in questa vostra B...

- Accettiamo con piacere le vostre fraterne offerte. Non ci recate altro?

- Gli augurii di felicità perenne, salute ed amicizia di tutti i BB... CC... di questa illuminata Famiglia, come pure il desiderio di avere un posto fra Voi,

- Accrescendo sempre più LI nostro trasporto, vi è accordato. B...C... M.., (maestro) di C. (cerimonie), fatelo collocare ne' posti riservati a' BB... CO... VV...

Catechismo d'Apprendista Carbonaro.

- Mio B... C... di dove venite?

- Dalla mia Foresta.

- Ivi quali sono le vostre occupazioni?

- Ad ogni impegno raccolgo materiale da Forn(ello).

- Che cosa ora ci arrecate?

- Gli auguri di lunga felicità - Salute, amicizia e fratellanza.

- Dove siete stato ricevuto?

- Su di un pannolino bianco in B(aracca) d'Ord(ine) regolata,

- Per dove passaste?

- Per mozzo d'un Forn..., fra l'urto degli spini e il rumor di

fronzute piante; su di ardente fuoco, e sopra d'un Pugn(ale) col quale ho dovuto combattere.

- In che modo?

- Venni bendato, ma vestito decentemente.

- Fosti obbligato a de' viaggi?

- Signorsi. Ne ho fatto tre; uno per la rovinosa Foresta; il secondo pel fuoco, e il terzo sul pugnale.

- Qual simbolo vi offri il 1°?

- Attenzione e vigilanza in evitare i pericoli, cui va soggetto l'uom virtuoso, il Carbonaro.

- 395 -

- Il 2°?

- Ch'essendo in pericolo l'Ordine, e la Patria, non debbansi curare, per liberarli, gli stessi ostacoli, che minacciano la morte.

- Quindi, che altro osservaste?

- Tuttavia bendato, condotto in Baracca, diedi il mio nome, cognome, età, patria, religione, qualità civili e domicilio.

- A che erano addetti quegli che vi rigenerarono?

- A maneggiare legna, terra e foglie.

- Che indicano questi tre oggetti?

- Non potersi divenire alla carbonizzazione senza prepararsi quei materiali da Fornello.

- Penetrato in Baracca, quali altre richieste vi furon fatte?

- Inginocchiato su d'un pannolino bianco colla gamba sinistra e con un pugnale diretto al mio cuore, e colle mani incrociate sulla collezione delle leggi del nostro Rispettabile Ordine, prestai il giuramento del grado: fui poscia sbendato: quindi istruito dei SS. (segni), T (tatto) e PP. (parole).

- Datemi i SS...?

- Osservate (L'esegue; Cfr. in seguito).

- Le parole?

- L'ignoro in parte: datemi però la prima, per rispondervi con la seconda

- Il Toccamento?

- Eccovelo (L'esegue).

- Qual'è il simbolo del Tronco?

- Indica il Cielo, che colla sua volta ci copre e ci difende. Indica anche la rotondità della Terra, che nella sua superficie chiude tutti i BB... C... che vi sono sparsi.

- Su del Tronco che oggetti avete osservati?

- Sette basi ben ordinate.

- Quali sono?

- Un pannolino bianco, l'Acqua, il Fuoco, il Sale, le Legna, la Croce e le Foglie.

- Qual è il simbolo di tutte queste basi?

- Il pannolino bianco è la candidezza dei costumi de' BB... CC...

Dell'Acqua con la quale ci siamo lavati nell'epoca del battesimo, la fraterna unione.

Del Fuoco la carità fraterna accesa inestinguibilmente ne' petti de' CC.

Del Sale la forza d'allontanare la putredine ne' corpi animali; la forza in noi d'impedire la corruzione ne' nostri lumi.

Della Croce, che senza travagli, non si perviene alla virtù, ad imitazione del N... G... M... D... U... onde renderci felici.

Delle Legna. il materiale da Fornello per facilitare la carbonizzazione: dippiù l'unione e la fortezza del nostro Ordine.

Delle Foglie, per otturare il Fornello, covrire i difetti degli al, le maldicenze e gl'insulti de' pagani.

- Che altro vi rimarcaste?

- Della terra ammonticchiata: una Corona di spine bianche, un gomitolo di filo di lino, alcuni nastri, l'Esciantillon e la scala

- A qual uso si destina la Terra?

- Per covrire il Fornello; è questo il simbolo della severità dei segreti per i misteri del nostro Ordine.


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- 396 -

- La Corona di spine?

- Profondo rispetto alla Virtù, Religione, ed al nostro Governo. E' questo il simbolo d'allontanare dalla nostra mente anche il pensiero cattivo.

- Il Gomitolo del filo?

-

La catena mistica, l'unione indissolubile di tutti i BB... CC, sino alla morte.

- I tre nastri?

-

Il distintivo, l'abito dei BB... CC." CC...

- Ditemene il colore?

- Qual è il simbolo dell'1°?

- Il carbone del Forn..., o la F...(fede).

- Del 2°?

- Il fumo del Carb..., o la S... (tperanea).

- Del 3°?

- Il fuoco acceso nel Forn... o la C... (carità).

- Informatemi del 8... d'Appr...?

- La Scala, che testé vi ho segnato.

- Come si tagliano i materiali da Foro...?

- A becco di flauto, a Zeppa, ad Esciantillon.

- Che dinota l'Esciantillon?

- Il segnale de' BB... CC... La Pertica de' Carb... per dimenare il fuoco nel Forn..., ed in noi forma il simbolo di quello strumento per svolgere nel nostro cuore il fuoco della C..., per non farlo giammai estinguere.

- A qual altro uso viene anche addetto?

- A segnare le abitazioni de' BB... CC..., ed ogni altro punto necessario nelle emergenze di bisogni.

- Siete dunque Apprendente Carbonaro?

- Per tale son riconosciuto da tutti i BB... CC...

- Che tempo è indispensabile perché uno sia dichiarato appr. C...?

- Il giro di nove TT... (travagli).

- Sotto la direzione di chi travagliano gli apprendenti?

- De' MM... (maestri).

- Chi è vostro Padre?

- (Eleverà gli occhi al Cielo).

- Chi vostra Madre?

- (Guarderà la Terra).

- Dove sono i nostri BB... CC...?

- (Girerà la testa in tutti i punii).

- Che denota il cappello in B...?

- Il Fornello coverto.

- A quale oggetto pratichiamo il Tatto?

- A conoscere i CC... e scoprire i Pagani.

- Qual è lo scopo della Carboneria?

- Di educar l'uomo, renderlo virtuoso e socievole.

- Qual bene offre la Carboneria?

-

Di veder personificata la virtù, e trovare ovunque uomini onesti, pii, amici, e che fraternizzano fra loro. Son questi appunto i CC,,,

-

Siete voi dunque i B... C... C...?

-

Per tale mi riconoscono nell'Ordine e ne fe' gloria.

- 397 -

Quadro simbolico della Carboneria.

La spiegazione del quadro simbolico veniva fatta dall'oratore.

- Caro mio B... C... tutto ciò che osservate non è materiale come a voi apparisce, ma allegorico e relativo alle norme che devono esercitare da' BB... CC... CC...

La natura nel formare l'uomo lo volle libero; i sacrosanti doveri di questa libertà verso se stesso, verso i suoi simili, verso la patria dovranno fra corrispondere l'uomo al fine che la natura ebbe nel formarlo, nel vederlo cioè immedesimato coi suoi fratelli, comunicare con essi i suoi piaceri, dividere i travagli, e rendersi equilibrato coll'intiera creazione, onde esaltarsi al più sublime grado della virtù. Infelicemente rimasero deluse le sue più belle speranze. Il più forte usurpò i diritti del più debole, l'impotenza della forza fu supplita dall'astuzia, sursero le cabale, gli odii, i tradimenti. Gli inganni; la superstizione corse a porre l'ultima mano al totale esterminio.

Crollò il più sublime oggetto della creazione. La natura restò avvilita. L'uomo divenne il più vile schiavo delle sue infami passioni; la ragione però signora dell'animo umano non lasciò di sollevare taluni suoi contemplatori alli principii delle cose, ad indagare i segreti veleni della generale corruzione. Declamarono essi per richiamare al sentiero delle virtù l'umanità traviata, ma sorda questa alle lor voci ne aborri le sagge ammonizioni.

Instancabili costoro per ottenere il loro intento immaginarono delle segrete Società, che con l'assiduità de' loro travagli, accostumandosi all'esercizio delle virtù, avessero potuto educare i traviati mortali e ridurli alle loro vedute. Consacrarono le loro fatiche all'immortale divinità e a' figli diletti della natura; si avvalsero de' suoi stessi prodotti, per formare de' misteriosi simboli atti a penetrare i cuori de' traviati pagani, e ad uniformarli a quel principio corrispondente al fine della creazione.

L'Ordine Sacro della S... C... è una di queste società, che unite formano il sublime seggio della Virtù.

Dopo questo esordio si passava alla spiegazione dei seguenti simboli:

1) Il Sole ò l'astro benefico che illumina e vivifica tutto il creato; che diradando il fosco tenebroso velo della notte risplende nelle Foreste ed invita con trasporto di gioia i Buoni Cugini Carbonari al Sacro Travaglio della Carbonizzazione.

2) Il Tronco dell'Albero simboleggia la superficie della terra e la vita che ivi si svolge. Ci fa ricordare il Cielo che egualmente ci copre, e che ci rammenta essere eguale a' nostri bisogni ed ai

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nostri interessi. Le sue radici indicano la sua stabile fermezza, capace di resistere a qualunque urto; mentre le verdeggianti fronde significano ch'esso non invecchia giammai e si rinnova sempre.

Come i nostri progenitori, perduta l'innocenza, coprirono le loro vergogne colle frundi;; così debbonsi nella depravazione universale covrire i difetti de' nostri consimili col compatimento e col perdono.

3) Il pannolino bianco rammenta che come il lino di cui è formato, acquista candidezza e fattura mediante la macerazione ed il continuo travaglio; cosi per divenire puri e candidi bisogna costantemente soffrire e lavorare. Ricorda che come esso ci raccolse nel' l'esser dati alla luce, cosi nell'istante che siamo rigenerati alla virtù, di nuovo ci accoglie.

4) L'Acqua è per appena nati alla luci

5) Il Sale, destinato dalla natura a preservare ciò che è corruttibile, è il simbolo della virtù stessa, che non solo non si corrompe ma preserva dalla corruzione

6) La Corona di spine bianche, se portata sul capo tiene immobili gli uomini e li rende cauti nell'evitare le punture delle sue spine; tenuta innanzi al pensiero, rappresenta per il Carbonaro la fermezza nello sfuggire le punture del vizio e della menzogna.

7) La Croce vi annunzia i travagli, le persecuzioni, la morte; minaccia tutte le orgogliose depravazioni contro coloro che non aspirano alla virtù. Ci ricorda i dolori, le persecuzioni, la morte ch'ebbe a soffrire il nostro Gran Maestro Gesù Cristo, il perfetto tra i perfetti BB... CC..., che soffri volentieri la morte per avviarsi a sì sublime cammino.

8) La Terra è quella che ricopre nella eterna oblivione i nostri corpi, e noi con essa ci ricordiamo di dover tenere nel nostro cuore celato e sepolto il segreto del Riapett... Nostr... Sacr.,. Ord.,., ch'è il più importante emblema del nostro istituto, contro cui i dichiarati nemici della virtù ci tendono insidie. Essi arrivano al l'orribile punto di traviamenti! da temere delle nostre adunarne, l'origine del loro ravvedimento, della loro felicità. Se penetrassero il nostro segreto avrebbero in mano i mezzi di attaccarci e saremmo nella necessità di sostenere un disuguale conflitto per l'imprudenza di chi non sa custodire il segreto.

9) La Scala è quella che serve ai Carbonari ne' loro materiali travagli, e rappresenta il progresso che si svolge a gradi; perchè alla virtù non si giunge che a stenti e gradatamente.

10] Le Legna affastellate sono li stessi Carbonari, stretti ìa unione di pace. Esse sono pure il materiale per il sublime fornello dei nostri travagli. In questo i Carbonari si carboniitano. cioè ri purificano alle fiamme di verace carità, in modo da innalzarsi e tendere all'altezza del sublime seggio del G... U... D... U...

11) I Nastri sono i principali attributi della E... C... T suoi colori ci dimostrano la fede simboleggiata dal nero, ch'è il carbone, la carità denotata dal rosso, ch'è il fuoco, e la speranza, emblema del celeste, é il fumo del nostro angusto fornello. Essi servono di abito ai BB... CC... per far loro sempre ricordare queste sublimi virtù.

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12) Lo Esciantillon è il distintivo del nostro E... O...; esso va annesso negli abiti dei BB... CC..., e nelle campagne sta situato nelle vicinanze delle loro abitazioni. La sua forma è regolarmente recisa, acciocché non si equivochi nel riconoscerlo. Tra i materiali carbonarici corrisponde alla pertica che serve a dimenare il fuoco nel fornello.

18) Il gomitolo di filo è quello che tega ed unisce nel misterioso legame di pace carità ed unione, unico oggetto delle mire de' BB... ce...

14) La zappa, l'accetta, la pala sono gli strumenti di cui ci serviamo ne' nostri travagli.

15) I chiodi della Crocefissione ricordano le acute punture del dolore. Pertica e chiodi intrecciati rappresentano la missione del Carbonaro, perché egli s'avvezza al dolore tenendo nel suo cuore sempre acceso il fuoco della virtù.

Dignitari ed uffiziali indispensabili per formare il Corpo perfetto dì una Famiglia Carbonarica.

1. Gran Maestro Titolare - 2. Gran Maestro Onorano - 3. 1° Aaaistente ed Aggiunto - 4. 2° Assistente ed Aggiunto 5. Oratore ed Aggiunto - 6. Segretario ed Aggiunto - 7. Un 1° Eaperto - 8. Un 2° Esperto - SI. Un archivario G. Bollo e suggelli - 10. Maestro di cerimonie - 11. Censore 12. Tesoriere - 13. Economo - 14. Elemosiniere - 15. Ospitaliere 16. Un 1° Preparatore - n. Un 2° Preparatore - 18. Un 1° Maestro di Banchetto - 19. Un 2° Maestro dì Banchetto 20. Covritore -21. Deputato, o più presso la Dieta del Dicastero.

Dignitari ed uffiziali necessari nelle ricezioni.

1. G. Maestro - 2. 1° Assistente - 3. 2° Assistente - 4. Oratore - 5. Segretario - 6. Maestro di Cerimonie - 7. Esperto - 8. Tesoriere - 9. Preparatole - 10. Covritore.

Segni. Tatto, parole.

A complemento del Travaglio d'inizi Bilione il G... M... comunicava i segni, il tatto e le parole di 1° grado.

Scala d'Apprendente. - Cogli ossequi voi potete annunziarvi come C... Leverete la mano dritta sul vertice del vostro omero che la regge. Strisciata giù per la parte del petto, ne raderà limite verticale. Questo segno cosi eseguito è da noi detto Scala di Apprendente, cioè segno del vostro grado. Sì potrà questo medesimo segno offrire col cappello. Verrà preso colla stessa mano le cui dita distribuite su e giù della falda dritta, serberanno l'or dine che siegue: Sottostarà il pollice alla falda, alta di cui parte superiore poggeranno stretti fìa essi l'indice,

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il medio, l'anulare e il mignolo. Tosto volerà il medio elevato, impugnandosi alla forma del cappello, tolto il quale verrà parimenti strisciata giù pel petto.

Sovvenzione per sussistenza. - Nel modo già detto bisogna togliersi il cappello. Aperto, sarà presentato allo sterno. Si covre al petto la bocca della forma, e si porta celermente al sito di prima, cioè di nuovo aperto. Indi, o sarà restituito alla testa, oppure consegnato al braccio sinistro, od al disotto dell'ascella, similmente aperto.

Soccorso alla vita. - Eseguita la Scala violentemente si farà volare la mano dritta chiuda in pugno, alla parte del cuore, verso del quale impugnato il pollice, batterà si cioè uno isolato, e due affrettati.

Tatto e bacio. - Al vicendevole avvicinamento i due BB... CC... congiungevano le destre, e si faceva scorrere il dito medio lungo l'antibraccio inferiore, a sei linee di distanza dall'articolazione della palma. Quivi si descriveva un cerchio, nel di cui centro si battevano tre colpi, cioè uno isolato, e celeri i due altri coll'accennato dito. Quindi seguiva il bacio di rito. Il primo regolare era scoccato poco giù dalla gota sinistra, gli altri due cadevano giù dalla destra.

Prima però bisognava poggiare le mani sinistre sugli omeri dà diritta, in modo di abbracciarsi.

Parole sacre, mensile e semestrale. - Situato col B... C..., col quale intendete comunicare nella guisa dianzi espressata, il più accorto richiederà: Siete voi Carbonaro? Si risponde; Io non so né leggere né scrivere; datemi però la prima, ch'io vi darò la seconda.

Dirà l'istante: F...(fede). Il ricbiesto: S,..(speranza);. La terza parola veniva profferita con vicendevole esplosione di fiato, sillabandosi C=r t=(Ca-ri-tà). Ma poiché degli agenti dell'abborrito dispotico potere fu attaccato il nostro R...O,. si credè utile all'ultima parola C... l'aggettivo S..(sincera) senza punto alterarsi la norma di comunicazione già esposta.

La P.. mens... e la semestr..., vengon di presente emesse dalle Alte VV.. regionali, comunicate ai rispettivi Dicasteri per passarsi alle Vendite della comunione. Stanno in oggi esse in luogo delle SS... (sacre);, dovendosi in in conseguenza riporre fra i misteri più occulti, e gelosi del nostro O... voi ne osserverete la religiosità, a pena di esser riguardato, come spergiuro, operando il contrario... Formate di due voci, perciò separatamente saran comunicate nella catena mistica, od allorquando si penetra in B... Colui che ignora siffatto parole non potrà appellarsi B... C... organizzato.

Distintivo, ossia abito dei BB... OC... CC... - Ogni B...C.. deve vestite un decente distintivo del grado. Nel corso de' Trav.,. verrà sospeso alla parte sinistra dell'abito, sulla parte del cuore. Sarà un pezzo di legno, lavorato a cilindro, o di olmo, o di ulivo, o di sanginello, nelle estremità tagliato a becco di flauto, fregiato di tre nastri, cioè di color nero, celeste-bleu, e rosso, cui verranno attaccate poche fila di sottile lino tiiam.'O. Simbolico e misterioso è questo distintivo, detto ancora abito de' BB,..CC... CC...

Il nastro nero simboleggia il carbone, ci ricorda la prima parola sacra, F...(fede), e ci prescrive, che ciecamente a' misteri del nostro O... dobbiam prestare fiducia. DaI celeste-bleu ci si risveglia la nozione della seconda parola sacra. S...(speranza). E' questo il colore indicativo del fumo del carbone, mercé del quale ci auguriamo di pervenire alla sede de' Virtuosi.

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Il rosso risultante dallo stesso carb... acceso, essendo il mistero della terza parola sacra C... (carità), c'insinua di tenerla sempre viva nostri cuori. Dippiù, alludono le fila di lino bianco all'unione misteriosa di tutti i BB... CC.. sparsi sulla terra; lo stretto legame che indissolubilmente fra loro ti congiunge; e finalmente il pannolino, su del quale genuflessi furono battezzati e chiamati alla rigenerazione.

Infine simboleggia quel pezzo di legno, da noi chiamato Esciantillon, la pertica de' nostri avi carbonari, della quale facean uso per segnare le loro BB... e per dimenare ne' materiali TT... il fuoco nel Fornello, onde non si estinguesse per qualunque circostanza.

Indica perciò in noi il distintivo de' CC..., e che portandolo sospeso nei simbolici TT... al nostro abito sul cuore, ce ne dobbiamo servire per svolgere il sacro Fuoco di carità, che sempre acceso deve essere nei nostri petti.

L'arma, che imbracciano ne' TT... è un pugnale, simbolo dell'Acc... de' primi Carbonari. Coll'acc... essi si travagliavano legname nelle For... della Scozia, ove volontariamente si erano ostracismati, per carbonizzarlo, vivere collo smercio, da virtuosi, e liberi per isfuggire cosi le calamità della Tirannide del Reame di quell'epoca.

Con questo pugnale, allusivo a quei travagli, noi siam tenuti di radere, per quanto è possibile, i vizi, che possan prender piede in noi, e per fomentare soltanto il fuoco di carità da riguardarsi in estinguibile nei nostri cuori. Con questo pugnale è punito lo spergiuro, il vile traditore, dichiarato pianta velenosa delle nostre Foreste.

Batteria. - Consisteva in tre colpi: uno, cioè regolare ed isolato, affrettati gli altri due. Per es.; Ta-ta, ta. Gli avvantaggi (applausi) erano considerati sotto lo stesso aspetto della batteria, e venivano eseguiti strisciandosi violentemente le palme della mano.

Segno nella firma. . .. - Era questo il segno di soscrizione dei CC... in grado d'apprendente. Poiché la nostra Società vien permanentemente basata sulla virtù e sulla Religione, ne risulta in conseguenza d'esser sostenuta da un primo anello, col quale strettamente attacca. Figlia delle dottrine di Gesù Cristo, G... M... D... U..., esige un'alta stima, un profondo rispetto. Cosi costituita non è vacillata giammai, né potrà vacillare sino alla consumazione dei secoli. Essendo dunque Cristo il Rettor de' BB... CC... è del nostro perfetto dovere imitarlo nelle virtù, conformando le nostre azioni alla sua suprema volontà. Godiamo inoltre d'un Protettore. E' egli S. Teobaldo, la di cui festività ricorrendo nel 1° giorno di luglio, richiede perciò da noi un culto solenne.

Giova ai CC, che venga nobilmente questo giorno festeggiato, coll'adempirsi particolarmente a tutti gli atti cristiani, e che il R. (rito) prescrive. Niuno perciò se ne potrà risparmiare.

Colui che non è rivestito del grandioso carattere di B.. C... vien chiamato pagano,=cieco,= lupo. All'opposto del Carbonaro ch'è denominato Persona Sacra. Trovandosi per caso un pagano tra una brigata di CC., il più avveduto dì costoro lo farà distinguere con le espressioni tecniche dell'O... Qui ci piove, qui ci fa fumo.

Quindi è che ognuno di essi sarà moderato ne' suoi discorsi.

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Ricezione di secondo grado.

Nel passaggio al 2° grado, cioè di maestro, l'addobbo era quello d'una Corte di giustizia, ed era detta Camera d'Onore.

Il novizio era il malfattore Cristo, e la Corte era così formata! - il G.,. M... era Pilato. De' due Assistenti il 1° faceva da Califas, il 2° d'Erode. L'oratore fungeva da avvocato officioso, e il segretario da cancelliere. Capo di guardie era l'esperto, e padrino il maestro di cerimonie, mentre gli altri maestri Carbonari rappresentavano il popolo dei Giudei.

(Il Padr... benderà l'app.. traendolo fuori del luogo, ov'era chiuso, vestito di abito del grado, cioè colla decorazione, e cor... di Sp... in testa. Lo farà, camminare a passi smisurati per la folta e rovinosa for... Avvicinato all'uscio della C... busserà da App... secondo il R... di 1° gr... e se ne darà avviso al Fres... il quale risponderà):

Pilato. - Chi è questo di questo temerario che osa turbare i sublimi Tr... di questo Collegio? (si avvisa dal 1° Consigliere al 2° dal quale si passa la voce al Covr... e da questi indi al Padrino).

Padr. - E' un App... che ambisce al passaggio al g... di M... (si avvisa come sopra).

Pil. - Interatevi con quale ragione inoltra la sua domanda per essere dichiarato M...? (ritorna la risposta nel modo divisato).

Padr. - Per avere esattamente adempito ai doveri di 1° grado, e per dei buoni servizi resi all'ordine (si fa giungere la voce come sopra).

Pil. - Informatevi del suo nome e cognome. (Adempie il Padr... frattanto il Segret... stende il costituto).

Pil. - Introducetelo. (Entrato nella C... coll'assistenza del padr... e Prepar... vien presentato al Presid... il quale gli toglierà l'abito e la cor... che depositerà sul Tronco. Indi si informerà delle basi del catechismo del suo g... per conoscerne il profitto. Finalmente gli dirà).

Pil. - B... C... App... Con qual disegno tu ambisci il grado do M...?

Novizio - Per rendermi perfetto nelle virtù sublimi (dopo poco istanti replicherà).

Pil. - B... C... Le pruove dateci in g... d'App... non ci banno convinto, che tu ti saresti reso un tempo simile a. Noi: ond'è d'uopo che ci dii delle nuove, delle prime più assicuranti. Deciditi. Le pruove sono in questo luogo, ed al cospetto di un Collegio di nomini virtuosi e liberi. Pronunzi dunque le tue sincere determinazioni. (Il Novizio risponderà).

Pil. - Dalle risposte abbiamo conosciuto il tuo nobile disegno. Dimmi però. Ti senti forza bastante di discendere, anche col pericolo della morte, con sofferenze a de' martirii di quello stesso peso, cui fu esposto Gesù Cristo? (ov'è contento di eseguire quanto gli propone il Pres... si dirà al Padr... e Prep...).

Pil. - Conducetelo al Monte degli Ulivi. (Il Prep... a gran paesi lo condurrà fra gli Ulivi, ove verrà situato genuflesso e supplichevole, colle mani levate al cielo, indi il Padrino gli farà prof ferire la preghiera che siegue).

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Nov. - Eterno Padre! Ove le pene che io debbo soffrire possan essere utili al genere umano non vi supplico, che sian da me trasferite e risparmiate ma desidero ardentemente che vanghino duplicate, si accelerino, e che eia fatta la tua, la mia volontà! (Dopo un decreto tempo ai dirà al Pres...).

Prep. - Pilato. L'uomo ha sete.

Pil. - 1° Cons". Fategli bere il calice delle amarezze, ligatelo quindi, e conducetelo a me (l'Esp... l'esegue. Indi si fa passare la voce).

Pil. - Chi è questi che mi presentate così affumato?

Cap. delle G. - E' un sedizioso denunziato. E' stato da Noi sorpreso, mentre fra tanti miseri predicando, seminava massime impure per eccitare il popolo alla rivolta. Dei suoi scellerati precetti, costoro stessi ne sono testimoni.

Pil. - Ma di che Egli è colpevole? Di che viene accusato?

Popolo. - Come insorgente, rivoltoso e sollevatore di popolo, che per regnare dispoticamente ed abbattere la nostra religione si fa credere Dio vivo, ed osa manifestare che opera per supremo volere. Perciò Noi l'accusiamo, onde venghi rigorosamente punito.

Pil. - Il reato offre grave interesse, lo non posso in affare tanto rilevante risolvere solo. Conducetelo perciò a Caifas (viene eseguito).

Cap. delle G. - Pilato vi fa presentare questo malfattore, onde previa la conoscenza dei suoi delitti, colle nostre testimonianze venghi giudicato, secondo le nostre leggi.

Caif. - Di che viene Egli incolpato?


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Popolo. - D'insorgenza, di sollevazione di popolo per essere creato Re. Ed è perciò che si fa chiamare Dio vivo, e vantasi operare per supremo volere.

Caif.' - E' pur troppo vero che dai rapporti pervenutimi, dal processi) compilato sul suo conto, e dai vostri dotti, è Egli con vinto di alti misfatti. Io ti credo però risultanti da imbecillità, che gli viene letta sul viso. Conosce però Pilato che la punizione È di pieno dritto del Sovrano. In conseguenza presentatelo ad Erode. Ma prima, dimmi sciagurato, son veri i delitti che ti si imputano?

Novis. - Lo asserite Voi per calunniarmi.

Popolo. - Lo sentite come bestemmia, e come insulta la nostra onestà? Caifas, non vi rimane alcun dubbio. Ama essere di Noi il dispotico Re. Conviene perciò giudicarlo con tutto il rigore delle leggi ad esempio.

Caif. - Popolo caro. Sappiate che questo ò un imbecille, un inetto, un uom da niente. Guardatelo, e ve ne convincerete. Quindi è che le imputazioni dateli, laddove anche fossero esistenti, non mi fanno grave peso. Ma, quando m'ingannassi, la conoscenza e la punizione di tai delitti è riservata, vel ripeto, assolutamente al Sovrano. Per cui lo condurrete ad Erode (Vorrà eseguito spingendolo a smisurato cammino).

Cap. delle G. - Erode, Caifas vi spedisce questo malfattore per giudicarlo, ch'Egli suppone pazzo. Così però non è. I suoi delitti sono gravi, di uomo astuto, e debbon dichiararsi di Lesa Maestà.Importa dunque che si giudichi ai termini delle nostre leggi. E' questo il voto del popolo, che merita essere appagato. Deliberato quindi sul suo destino.

Erode. - Esponetemi con precisione i suoi reati.

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Cap. delle G. - Colla rivolta macchinava farsi dichiarare Re dispotico del nostro popolo, e sovvertire le nostre leggi. Sicché i stato a Voi inviato per essere punito esemplarmente. D'altronde vi prevengo ch'Egli è reo confesso. Dal processo rileverete i testimoni, che nel giudizio lo convinceranno.

Erode. -Uomo, è vera l'imputazione che ti si è data?

Noviz. - Voi tutti lo asserite per calunniarmi!

Pop. - Lo sentite come insulta? Noi domandiamo irremissibilmente la di Lui crocefissione.

Erode. - Popolo. Serenatevi. Temperate il caldo. Anche a me sembra matto. Assicuriamoci, miei cari, se Pilato lo riconosce anche per tale. Conduceteglielo perciò (si esegue).

Cap. delle G. - Erode vi rinvia quest'uomo, onde lo menate a giudizio, come meglio stimate (è mostrato al popolo).

Pil. - Il Principe ha restituito a me l'uomo accusato per essere giudicato come io stimassi. Mi conviene però interrogarne Voi, affinché mi consigliate cosa debba farne.

Pop. - Che sia giudicato conformemente alle leggi, come sedizioso.

Pil. - Non è dulia giustizia giudicarlo prima di sentirsi, rispondi, tu?

Noviz. - Gesù Nazareno Re dei Giudei.

Pil. - Questi è pazzo! Poiché tu sei Re ti piaccia fregiarti degli abiti distintivi della Dignità. Cap. delle G.. vestitelo di una tunica bianca. Imponetegli la Corona di spine, e fregiateli la destra di canna per scettro (Si esegue. Indi si mostra al popolo per 2a volta).

Pil. - Egli é burlato! Ho adottato questa misura per punire la di Lui sciocchezza da Voi definita per misfatto. Popolo, siete contento?

Pop. - I suoi delitti son ben diversi. Finge imbecillità, mentre è che per tale tratto di malizia particolarmente, noi provochiamo un castigo più grave.

Pil. - Poiché non siete convinti della verità, e persistete nella vostra ostinazione, denudatelo, ligatelo alla colonna, e flagellatelo, poscia lo condurrete a me. Si esegue. Pilato in questa posiziona lo mostra al Popolo per la 3a volta).

Pil - Credo che siete soddisfatto. Ecco l'uomo.

Pop. - No. Domandiamo istantemente che vada a morte. Che sia crocifisso, pena comminata dalle nostre leggi contro i malfattori della sua classe.

Pil. - Popolo mio caro! Io ho adempito a quanto m'imponeva il dovere. Non sono abilitato d'inoltrarmi al di là. A mio credere Stimo convenienti e bastanti la pene, ed i martirii, cui é stato sottoposto, e le ingiurie inferiteli. Voi d'altronde non contenti, avete contro lo stesso provocata la morte. Debbo quindi avvertirvi che sono i miei poteri limitati, e se pronunzierò la condanna di morte, è perché io vengo interessato dalla vostra ostinazione. Pria però di rimetterlo al vostro arbitrio, mi ai rechi dell'acqua per purificarmi, acciò il sangue dell'innocente, non sopra di me, ma su dì Voi, e vostri figli richiami tutti i mali in conseguenza dei torti e delle ingiustizie, alle quali assolutamente siete impegnati di assoggettarlo. Abusivamente dunque, e per appagarvi, nonostante che

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denigro il mio onore, emetto la sentenza di morte. - (Pilato, lavatesi le mani, pronunzierà la sentenza dì morte, che verrà scritta dal Seg.. indi segnata sarà letta al Pop... L'Asp... fra questo confuso, portando sulle spalle la croce, verrà condotto insino al Calvario, ove tutto viene dispoato per metterlo a morte, e mentre ascenderà la scala, il Pop... griderà per implorargli la grazia della vita. Se gli accorderà. Fatto discendere dalla Scala, Pilato si diffonderà sulla fermezza di spirito addimostrata nell'abbracciare il supremo supplizio, pel desio di sublimarsi nella virtù, e di avere superato gli ostacoli incontrati nel di costei disastroso sentiero, per cui riguardati, come nuovi titoli, han sollecitata all'app... la ricompensa, cioè l'aumento del salario. Ritiratosi al suo posto il Prep... gli succederà il Padrino. Lo farà inginocchiare sul panno lino ali oggetto preparato innanzi si Tronco per prestare il giura mento; indi Pilato disvestendosi della tunica, dirà);

Pil. - Siete pronto di dare un secondo giuramento? (Ove il Novizio risponda affermativamente, verrà sbendato dal Pad... stenderà la mano destra sulla Croce, sovraimposta a due acc... incrociate, sostenendo impugnato al cuore colla sinistra un pugnale. Da questo momento si riprendono i nomi di Pres... e Consig..., i nomi sacri del grado, e si batterà da M...

Pres. - Miei BB... OC... ordinatevi (Ogni B... C... situerà la mano all'ordine, e colla sinistra sosterrà elevata l'acc... che arma).

Pres. - B.,. C... (al novizio) pronunziate con me il secondo giuramento, come avete promesso.

Giuramento.

«Io NN. giuro e prometto questo Crocefisso, G... M... D... U... sulla mia parola d'onore, e questo ferro punitore dei spergiuri di guardare scrupolosamente i sublimi segreti della R... C... Di non appalesare mai i segreti di App... ai pagani, né quelli di M... agli App...; come ancora di non iniziare alcuno, né di fondare alcuna V... senza permesso delle Gerarchie Carb... che ne hanno la facoltà, in un numero giusto e perfetto. Di non scrivere, nè incidere i segreti suddetti: di soccorrere tutti i miei BB... CC... di non attentare all'onore delle loro famiglie. Ed ove diventassi spergiuro,; desidero che il mio corpo venghi fatto in pezzi, indi bruciato, e il cenere che ne risulta sparso al vento, acciò il mio nome sia in esecrazione a tutti i BB.,. C... sparsi sui due Emisferi. Così Iddio mi sia d'aiuto».

(Indi il Pres. prende l'Acc... ed imponendogli sulla testa l'Esciant... sostenuto dalla sinistra, discenderà alla consueta invocazione proclamandolo M...).

Pres. - A G.... D... G... M... D... U.. E... D... S... T... P... D... O... sotto gli auspizi dell' A... As... regolarmente costituita nel Forn... Carb... di., e dell'A... V... regionale, sedente nell'O... Cent... di.,.; e per i poteri di cui son rivestito, da questo A... Coll... sotto il T... Dist... io fo, nomino e consagro l'App... NN... Maestro C... col godimento dei privilegi annessi al grado. (Vibra quindi i cinque misteriosi colpi sull'Esciantillon impostogli sulla testa, coll'Acc...

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Lo farà levare: lo bacierà chiamandolo col dolce nome di B... C... M... Alla parte sinistra dell'abito gli sospenderà l'Esciant.. e lo vestirà coll'abito del grado, indi procederà alle seguenti istruzioni relative ai SS... TT.,.)

Segni, tatto e parole di 2° grado.

La mano all'ordine e saluto. - Si poggerà la dritta sull'omero sinistro, e sarà strisciata, sino all'anca destra. Con questo segno ai saluta. Si risponde, tagliandosi orizzontalmente la regione del ventre con il limite interno anche della mano diritta. Nella prima guisa si dispone la mano, allorché i BB... CC... MM... (maestri) sono invitati nella camera d'onore dimettersi all'ordine.

Segni di sovvenzione. - S'intrecciano le dita delle mani, le quali saranno poggiate sul petto per breve tempo. Indi cosi disposte si faran volare sul pube, colle palme rivolte all'insù. Potrà fare anche uso de' SS... del 1° grado, quando si è fuori de' travagli.

Tatto e bacio. ~ Si congiungono le mani dritte come nel 1° grado: si stende il dito medio sull'antibraccio; si descrive un cerchio, e segnandosi una croce nel mezzo, come se si vogliono tirare due diametri, saranvi battuti cinque colpì coll'indicato dito, cioè, odo regolare-isolato, due precipitati e due altri isolati. Ta-ta, ta=ta ta.

Il bacio verrà scoccato come la batteria sulla parte del viso designata nelle istruzioni del 1° grado. I due ultimi baci però saran dati sulla parte destra, in concorso dei due accelerati.

Parole sacre, mensile e semestrale. - O...(onore), V... (virtù), P,., (probità). Son queste le parole sacre. L'antica mensile è contenuta nelle due voci O... (ortica), F.., (felce). Ma poiché dalla Polizia dell'assoluto Potere eran conosciute, fu perciò che vi si unirono delle nuove. Alla sacra restò attaccata l'aggettivo Perfetta; alla mensile, ossia motto d'ordine O... F..., vi fu aggiunta la voce Mirto. Il modo di comunicarsi è quello stesso stabilito pel 1° grado.

Ma richiamati quindi gli affari Carbonarici all'unità, alla vera organizzazione, e fissate le varie gerarchie, alle enunciate parole sono succedute in oggi la mensile o semestrale, che vengon rilasciate dalle Alte Vendite Regionali alle Vendite della Comunione, le quali sì faran circolare con un Esciantillon periodico, d'onde è che debbono essere tenute e guardate, come golosi alti misteri. Chi l'ignora non potrà dirsi certamente Carbonaro perfetto ed organizzato.

Distintivo. - Il colora del distintivo del B... C... M... è quello stesso che decora l'Apprendente. Il solo Esciantillon distingue essi. Pel primo sarà costrutto dì metallo bianco; all'opposto del 2' che lo porterà di legno. Dippiii incollerà il Maestro una fascia de' nostri mistici colorì, cogli estremi tagliati a zeppa. Ad essi vi sarà attaccata una coccarda di nastro bianco. Penderà la fascia a traverso del petto, e del dorso in modo che gli estremi resteran congiunti, e poggiati sopra la testa del femore di dritta.

Batteria. - Sarà di cinque colpì. Uno regolare, isolato, due scellerati, ed altri due regolari, come vi ho istruito per il tatto.

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Il segno nelle sottoscrizioni sarà di cinque puntate di penna, chiuse in mezzo a due linee tirate di traverso

…..

oppure

Nota. - Nella Carboneria romagnola «l'arredo d'un Carbonaro in un grembiale di seta a tre colori, nero, turchino o rosso; in una mantelletta nera col cappuccio attaccato che ricopre tutta la testa; in tre fettuccie dello stesso triplice colore attaccate ad un cilindretto non però orizzontale, e tagliato. Vi era una fascia tricolore la quale però s'indossava da chi aveva una carica nella Vendita».

Segni e parole secondo i costituti processuali.

Secondo il Maroncelli (Luzio, ibid. 357), le parole erano effettivamente per i Carbonari meridionali Onore, Virtù, Probità; quelle dì passo Felce ed Ortica, non comuni, com'egli dice, al primo e secondo grado, ma speciali per quest'ultimo, cioè di maestro.

A proposito del giuramento lo stesso Maroncelli ricorda (ibid, 394) ohe la formula del giuramento era contenuta nel segno del grado medesimo. E siccome nel grado d'apprendista il segno era di stri sciare con ambe le mani dalla sommità degli omeri fino al ventre, ed attraversarlo, cosi la formula del giuramento di 1° grado era di serbare fedeltà e segretezza sotto sommissione di avere il ventre lacerato in caso di manifestazione, il ohe viene indicato dal segno, grado di maestro, porta il segno, se non fallo - aggiunge il M. - di replicare tre volte il segno medesimo dell'apprendente, e irta la triplicata protesta che si fu anche in parola di essere posto ad avere il ventre lacerato. E' termine però di ogni giurameato, sì nell'uno che nell'altro grado, che il corpo sia abbruciato in caso di tradimento, e le ceneri sparse al vento, ed il proprio nome esposto per tre mesi alla colonna infame in tutte le Vendite.

Per la Carboneria settentrionale è ricordato (p. 321, n.) che la parola sacra di 1° grado, dopo essere stata diverse volte cangiata, consisteva negli ultimi tempi nelle voci Forza, Salute, Coraggio, che ai dovevano pronunziare a vicenda, e le parole di passo erano Costanza, Perseveranza.

A pag. 334 (ibid.) è riportata altra parola: Cofita, cioè Coraggio, Fiducia, Talento, e quella del Gran Maestro «Libertà vendicata».

Le parole di Maestro erano Valore, Virtù, Pietà, e quelle di passo: Fede, Carità.

Gli alti gradi Carbonarici

(dagli Statuti)

Nelle Costituzioni generali dell'Ordine era detto: - L'Alta e potentissima assembla riconosce nove soli gradi, e cioè: I. Aprendisti - II. Maestri - III. Cavalieri di Tebe - IV. Discepoli - V. Apostoli VI. - Evangelisti VII. - Patriarchi VII. - Arcipatriarchi IX. - Potentissimi Arcipatriarchi.

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I due primi gradì si chiamavano Simbolici; dal III al VI, Sublimi; dal VII al IX, Assemblaici.

Riconosce i diversi gradi dalle decorazioni seguenti: - L'Apprendente con sei nastri appesi al petto, dei quali due neri, due azzurri e due rossi; vi sarà appeso un esciantillon di legno. - I maestri da una fascia pendente, composta da striscie nere e rosse. All'estremità una nocca nera dalla quale pende un esciantillon di metallo bianco.

Il Cavaliere di Tebe si riconosce da un cordone a collana composto de' tre colori; nell'apice una nocca bianca. Bisciù: una spada. I Discepoli da un cordone bianco a collana, orlato di nero, avendo all'estremità una nocca nera. Bisciù: una tomba di metallo dorato. Gli Apostoli da un cordone bianco a collana, orlato... Bisciù: una croce di legno dorato s' di cui estremi le lettere E A A A (Europa, Asia, Africa, America); nel mezzo un cerchio nel di cui centro la lettera B, ai tre bracci inferiori le lettere P. A. (?) Gli Evangelisti dalla fascia come gli apostoli; ma all'apice vi sarà una croce a bracci eguali di color crema. Bisciù: medaglia di metallo argentata, sostenente un'aquila dorata con corona dentata. I Patriarchi con cordone verde a collana a quattro angoli, li orli ricamati con piccolo festone di spica in argento. Bisciù; on triangolo d'argento circoscritto da un cerchio; nel mezzo un pugnale con due mani unite come in giuramento. Gran stivali neri con sproni d'argenta, abito bleu a petto tondo; sotto abito bianco, cappello bordato, coccarda de' colori carbonarici; guanti gialli e sopraguanti neri.

L'Arcipatriarca, con una collana come il Patriarca, un orlo ricamato come sopra in argento, l'altro con un piccolo festone d'alloro in oro. Bisciù: una medaglia dorata, nel centro una mezza colonna sulla quale un teschio; in faccia alla colonna un ramo d'alloro ed una spada, legati insieme da un nastro; nella base della colonna le iniziali I. D. P. Il vestito come quello di patriarca, ma i finimenti in oro ed argento, sproni dorati, I PP... Are... Patr... con lo stemma dell'Ordine sul cuore, quale consiste in un sole che spande generalmente i suoi raggi sopra di una croce. Della croce non si osserveranno che i quattro estremi fatti a triangoli equilatero lettere E. A.A. A. Dalla spalla diretta al fianco ude sciarpa dai grandi fiocchi d'oro; abito bleu a sottoabito bianco, spada con cappello bordato con sei gran piume al cappello, due nere, due azzurre e due rosse. Gran guanti gialli. Nocca dei colori carbonari.

L'Alta e Potentissima Assemblea riconosce i Patriarchi, gli Arcipatriarchi e i Potentissimi Arcipatriarchi con un nuovo nome detto di guerra. Deve però corrispondere l'iniziale di detto nome all'iniziale del proprio cognome pagano. Accorda loro di più la custodia di una nuova città, la di cui lettera iniziale corrisponde all'iniziale del proprio nome. Accorda a ciascuno dei PP... un bollo di figura rettangolare in cui vi sarà impresso il proprio nome di guerra, il grado e la sua città.

Agli A... PP.. un bollo rotondo segnato nella circonferenza inferiore il nome di guerra e grado; nella semicirconferenza superiore il nome della città che regola da reggente o da onorario; nell'aia il simbolo di propria elezione.

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A tutti i PP... AA... PP... un simile bollo, ma nell'aia avranno tutti per loro caratteristica esclusiva un sole, una fiera, ed un numero d'ordine che caratterizza li 72. tal numero si estrae a sorte nell'iniziarsi d'una A... P... Ass...

Quelli PP,.. reggenti che saranno decorati del grado dell'Arcipatr... avranno un solo bollo come gli Arcipatriarchi, ma vi sarà espressa anche la dignità di Patr... reggenti (a capo di provincie o di dipartimento).

Dal «Regolatore della Camera Sublime» si possono ricavare altre notizie sugli alti gradi.

PRIMO GRADO SUBLIME (3° G°).

Cavalieri di Tebe.

1) Batteria:..... sei battute.

2) Parola di passo: Samos Ulisses.

3) Toccamento: S'incrociano tra loro delle mani dritte d'ambìdue i cavalieri, in modo che le rimanenti dita guardino il basso. In questo modo incrociate le mani si portano in avanti e dietro.

4) Parola sacra: …..... e si pronunzia sillabando dai due cavalieri.

5) Applauso; Sei strisciate, che ai danno da sopra in sotto colla pianta della mano dritta sulla sinistra.

6) Saluto: Si porta la mano dritta aperta sul cuore, dove ai batte un colpo; indi si cala la mano indicando toccare l'impugnatura della spada.

7) Segnale d'ordine: La mano all'impugnatura della spada.

8) Titoli: Il Presidente si chiama Eccellentissimo Cavaliere. I due Assistenti: Cavalieri 1a e 2a Guardia. I Cugini si chiamano Cavalieri. Gli Ordoni: Fila.

9) Decorazioni. Il Presidente avrà alle spalle in alto il Delta, infocato dipinto in figura triangolare. Ai piedi l'Occhio della Sapienza; ai due lati, ma al disopra, vi saranno alla dritta la Luna, ed alla sinistra il sole illuminato. Il Presidente avrà innanzi sei lumi situati direttamente. Ciascuna delle Guardie ne avrà tre. Il Segretario e l'oratore uno per cadauno.

10) Il Cordone sarà una fascia tricolore e con una piccola Spada attaccata all'estremità di quello con un nastro color bianco, portandosi appeso al collo (1).

(1) Sovra altre particolarità di questo grado, cfr. in seguito le notizie ricavate dal processo contro i Cavalieri Tebani o Cavalieri Europei Riformati.


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SECONDO GRADO SUBLIME (4° G°)

Discepoli

1) Batteria:......... (3. 1.3.) dati col pugno.

2) Parola di passo: S.... o... l... g... m... a...

3) Toccamento: S'incrociano tra loro le dita delle mani dritte de' due discepoli, come ancora quelle delle mani sinistre, indi si (accop)piano l'une sulle altre, in guisa da formare un coverchio. In questo modo situate sì portano dall'alto in basso, forzando ili chiudere una tomba.

4) Parola Sacra:. 0... G... A... e si dà sillabando all'orecchio.

5] Applauso: Sette colpi dati colla mano dritta sulla spalla sinistra e coll'ordine stesso delle bussate. Un tal modo d'applaudire denota tutto.

6) Saluto: S'incrociano fra loro le dita d'ambo le mani formando un gruppo, indi si portano in direzione della spalla dritta, ma un poco più innanzi, inchinandosi poi un poco la testa sullo stesso lato. Ciò dinota tutto. Indi con la mano dritta aperta si batte la mammella dritta, e colla sinistra contemporaneamente 1 segna voler cingere un panno da coprire le pudenda.

7) Segno d'ordine. La mano dritta aperta sulla mammella dello stesso lato, e la sinistra anche aperta sul pube.

8) Titoli. Presidente, il capo. Gli Assistenti: Discepoli 1° e 2° Guardia. I cugini: discepoli. Gli Ordoni si chiamano Turme.

9) Decorazioni. La Camera foderata di nero. Alle spalle del Presidente il Delta, come nel 1° grado. Il Sole e la Luna come nel 1° grado, oscurati, Ai piedi del Presidente l'Occhio della Sapienza illuminato. Sotto il Delta sette lumi a cera disposti come nella batteria. Innanzi al Presidente un lume in una cassetta nera trasparente; simili innanzi alle due guardie. Un lume a cera innanzi all'oratore, ed un altro innanzi al Segretario. Sul lato sinistro una gran Croce con un lenzuolo afflosciato sospeso. Innanzi ai Presidente, su di un'ara, brucerà il fuoco sacro.

10) Il Cordone sarà bianco con profili neri, con una piccola urna nera con profili d'oro attaccata all'estremità di quello con un nastro nero, portandosi appeso al collo.

TERZO GRADO SUBLIME (5° G°).

Evangelisti (1).

1) Batteria:......... (3. 3.3.) dati col pugno.

2) Parola di passo: B.... G... A... L...

(1) Ho trascritto tali notizie così come sono nel «Regolatore». Ma a quanto sembra, dev'esserci un errore, perché il 3° grado sublime che qui è riferito agli Evangelisti deve riferirsi invece agli Apostoli, come apparisce dalle notizie innanzi riportate su tu tale grado. Il «Regolatore» continua riportando gli Statuti generali (pag. 18). Nello stesso volume, Statuti della Carboneria- Rivoluzione del 1820, nell'Archivio di Stato di Lecce, in foglio a parte (39) si trovano enumerati gli altri gradi, tralasciati dall'estensore del «Regolatore». Non è riportato il IX o III Assemblaico, quello cioè dei Potentissimi Arcipatriarchi.

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411 -

3) Toccamento: Colla mano dritta si tocca il ginocchio dell'Ev... in atto di far forza a sollevarlo, e difatti lo solleva un pochetto.

4) Parola sacra; P... a... s... b... e... m... p... e... r.,. v... o... b... i... s..., dandosi alternativamente all'orecchio.

5) Applauso. Nove strisciate di mano date nel modo indicato nella batteria. In ogni terza battuta la mano dritta si troverà in aria ?' ?' ?' , battendosi contemporaneamente il piede dritto in terra.

6) Saluto. Colla mano dritta sì segna un poco sulla dritta all'altezza dell'omero una gran Croce, indi s'innalza la stessa mano, additando di portare una bandiera, e contemporaneamente si batte a terra col piede dritto.

7) Segno d'ordine. Come la seconda parte del saluto.

8) Segno di soccorso. La mano dritta si porta al disopra della testa in modo che il dito minimo e l'anulare reatino chiusi, il pollice ed il medio distesi orizzontalmente e l'indice in alto.

9) Titoli. Sublime Presidente, il capo. Evangelista 1° e 2* guardia, i due assistenti. Gli altri. Sublimi Cugini Evangelisti, gli Ordoni, Emisferi.

10) Decorazioni. La Camera foderata di bianco ed illuminata da cornocopii con candele a cera. Alle spalle del sublime Presidente il Delta infocato, avendo a ciascun lato tre stelle dipinte. A' piedi l'occhio della Sapienza. Sul tronco uno splendore a tre braccia avendo in ogni braccio nove candele a tre a tre. Un Evangelo aperto con un pugnale al di sopra. Ciascuna delle Guardie uno splendore a tre braccia avendo in ogni braccio tre lumi a cera. Uno innanzi all'oratore, ed uno innanzi al Segretario. Li due Ordoni, quello illuminato dalla Luna, si chiama Emisfero del Nord, quello illuminato dal Sole, Emisfero del Sud. Il Sole e la Luna saranno illuminati. Il Presidente, siede al centro degli Emisferi. Nel mezzo vi sarà una gran Croce color di terra, avendo nel centro un cerchio nel cui mezzo la lettera iniziale della parola di passo.

Nelle braccia laterali ed inferiori vi saranno le iniziali della parola sacra, e negli estremi le iniziali de' nomi delle quattro parti del mondo. Più innanzi un'ara, dove sarà affissa la bandiera dell'Ordine.

11) Il Cordone sarà bianco, profilato rosso, dall'estremità del quali e pende un'aquila d'oro colla medaglia nel centro. Sulla fascia vi saranno ricamate in nero le lettere iniziali della parola sacra cioè un P. alla dritta, l'S. alla sinistra, il V. nell'angolo inferiore con una croce fra le gambe di quello, e finalmente la lettera iniziale della Parola di passo nella parte che corrisponde al collo. L'aquila sarà attaccata al Cordone con un nastro rosso.

SETTIMO GRADO.

Buttata, ooo ooo ooo, o (3.3.3.1.).

Segno per riconoscersi. Si porta la mano dritta in direzione della bocca, ed in qualche distanza; indi col pugno chiuso si lascia il solo indice eretto verticalmente.

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Toccamento. Si prenda il dito mìnimo della mano dritta del C... e s'intreccia con quello della propria, formando due anelli, e ciò in segno di legame.

Parola Sacra, Silenzio. Costanza.

Parola di passo. Tarquinio Superbo.

Applauso. ?' ?' ?'

PRIMO ASSEMBLAICO (7° Grado).

Buttata, o o o o o o o

Segno d'ordine. In piede e la mano dritta Bai cuore.

Segno per riconcedersi. Si situa la mano dritta in modo che il pollice tocchi la bocca, ed il minimo il cuore. I restanti che guardino la palma della mano.

Toccamento. Si prendono scambievolmente la mano dritta forzandola alquanto come per confermare un giuramento.

Parola sacra. L... (libertà) 0... M... (morte).

P.C.: Vendetta.

Parola di passo. Bruto.

Applauso. o o o o o o O a tempi eguali, ma con differenza, che le prime sei battute si daranno palma contro palma, e la settima in atto di dare una pugnalata alla mano sinistra.

SECONDO ASSEMBLAICO (8° GRADO).

Bussata. oo o, con differenza che i due prÌD)i colpi si danno* pugno chiuso ed il terzo con la palma della mano.

Segno d'ordine. La mano sinistra aperta orizzontalmente denotando eguaglianza.

Segno per riconoscersi. La mano sinistra a pugno, ma con il pollice eretto e la dritta a guisa di sciabola, quale abbatte il pollice e mette a livello le altre dita, aprendole orizzontalmente.

Toccamento. Ciascuno con la mano dritta impugna la propria spada, e con la sinistra tocca il cuore dell'A... P... cui dà il toccamento.

Parola Sacra, Forza.

P. C. Trionfo della Patria.

Parola di passo. Federico II.

Applauso. Con la mano dritta si danno due pugnante sulla palma sinistra, indi si batte una volta palma contro palma. Tutti e tre i colpi a tempi eguali.

Gli alti gradi carbonarici secondo le risultanze processuali della polizia austr.

A proposito degli alti gradi trovansi le seguenti no tizi sunto della requisitoria salvottiana (Cfr. Luzio, ibid, p. 330)

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«Dapprima e fino agli arresti dei Carbonari delle Marche, pare che la Carboneria non avesse conosciuto che i tre gradi summentovati....»

«In appresso però, mercé quelle riforme che si credette necessario d'introdurre, onde, come ci sembra, eludere le investigazioni dell'autorità superiore, si crearono, pare nel Regno di Napoli (dove la Carboneria ebbe il suo nascimento, e probabilmente anche il suo centro) cinque gradi superiori a quello de! gran maestro. Il quarto col titolo di deputato al gran maestro dell'eguaglianza. Il quinto col titolo di assistente al consiglio del gran maestro della eguaglianza».

«Il sesto col titolo di primo compagno al gran maestro dell'eguaglianza. Il settimo col titolo di Alta Luce. L'ottavo col titolo di gran Patriarca».

«Il Confortinati (1) fu quegli che ne faceva cenno il primo nel suo costituto politico; ma spacciandosene egli stesso creatore per meglio coprire quel carattere di carbonaro elevato, che voleva avere falsamente assunto nel suo viaggio da Pesaro a Bologna nell'ottobre 1817, non poteva la Commissione essere pienamente sicura sull'esistenza di questi gradi maggiori, quantunque lo rendesse probabile la deposizione (però monca) di Munari».

Tale circostanza fu - aggiunge la requisitoria - legalmente dimostrata con una copia perquisita nell'abitazione di Pietro Tosi e trascritta dagli statuti carbonici Foresti, a cui erano stati dati dal Tommasi, che a sua volta li avea avuti dal Confortinati.

Essa contiene la nuda indicazione di questi cinque gradì, non accompagnata dal loro significato, dai giuramenti, ecc.: descriveva però le decorazioni.

«Il terzo grado non aveva più la decorazione; della quale faceva cenno lo scritto comunicato dalla Polizia; dessa consisteva in un cordone rotondo di seta nera con croce di metallo, con corona di spine nell'intersecazione, appesa al collo; sciarpa da dritta a sinistra, celeste, orlata di nero con due foderi all'estremità sul fianco sinistro, in uno dei quali vi è uno stile, nell'altro una carta simboleggiante gli statuti».

«Il quarto grado aveva una sciarpa da diritta a sinistra con due tableaux, separati all'estremità nel fianco sinistro. Il primo rappresenta la testa di Bruto con uno stile alla sinistra della testa. Il secondo rappresenta Bruto abbracciato colla donna della libertà. Tengono entrambi la mano sinistra sulla loro spalla dritta, e il dito medio della mano diritta sul cuore».

«Il quinto grado aveva un cordone rosso e nero appeso al collo con tableau di metallo nero rappresentante il gran maestro dell'eguaglianza (Sant'Ubaldo), che calpesta col piede diritto la testa del leone; sciarpa da diritta a sinistra, rossa, orlata di nero con tableaux sul fianco sinistro di metallo bianco e giallo, rappresentante Astrea, che tien colla mano diritta Bruto, e nella sinistra ha le bilance in atto di presentargliele. Bruto unito ad Astrea,

(1) A proposito del processo Foresti-Solera-Orohoni, il Luzio (ibid. p. 22) ricorda cotesto Confortinati, prestigiatore e fisionomista, che spacciandosi per riformatore della Carboneria, commise innumerevoli ciurmerie in tutta Italia, speculando sulla credulità dei B. C.

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colla mano sinistra tiene nella destra uno stile imbrandito, ed è sostenuto sotto il braccio destro dalla libertà, che lo guarda con uria di impero, a cui Bruto corrisponde con aspetto di fermezza e d'ilarità.

«Il sesto grado portava un cordone nero appeso al collo con tableau di metallo giallo, rappresentante il gran maestro dell'eguaglianza, che tiene sotto il piede tre teste, cioè dell'orso, della tigre e del leone. Sciarpa nera da diritta a sinistra con tableau di metallo giallo, rappresentante il busto di Bruto, che ha già con ficcato lo stile nella testa del leone, che gronda sangue. Bruto guarda con compiacenza due figure decorate da maestri e gran maestri, accennando loro coll'indice della mano sinistra la testa del leone già trafitto e dalle medesime è guardato del pari.

«Il settimo grado aveva un cordone bleu appeso al collo con tableau di metallo giallo rappresentante un carro trionfale tirato da quattro cavalli bianchi guidati da un genio. In piedi sul carro vi è Bruto unito col dito medio della mano sinistra al dito della destra di Astrea, che colla sinistra gli ha già consegnato le bilance, e Bruto le tiene nella sua destra. Alla parte destra di Bruto vi è la libertà, che lo tiene abbracciato col braccio sinistro, e col dito medio della mano diritta gli accenna le teste dell'orso, della tigre e del leone già trafitte, ai toro piedi giacenti. Spirano gioia e trionfo i loro volti.

«La decorazione dell'ottavo ed ultimo grado appellato gran patriarca consisteva in un cordone bianco appeso al collo con tableau di metallo bianco, rappresentante il gran maestro della eguaglianza che tiene nella mano sinistra gli statuti e li consegna al gran patriarca, che resta alla sua destra.

«Il gran maestro dell'eguaglianza ha la mano diritta stesa ed aperta, ed in atto di ascendere al cielo a travagliare nell'alta vendita delle vendite. E involto in una nube fin sopra la cintura, ed è circondato da maestri e gran maestri.

«Il Confortinati indicava anche i segni e le parole del quarto e quinto grado, di cui voleva essere stato il creatore egli stesso.

«Diceva essere di sua sola invenzione le parole del quarto grado: Bruto invendicato: morte; e aver attribuito al quinto le parole che senti da Caporali e Bonini, Carbonari elevati di Cesena: Patria sarai vendicata».

Bisogna ammettere che questi ed altri particolari non sono che ciurmerie del Confortinati.

I Cavalieri di Tebe (3° G°).

Riporto dalle «Conclusioni, ecc.», dell'avvocato generale, nella causa contro De Mattheis e Compagni (Napoli, 1830) le seguenti notizie che riguardano i Cavalieri Tebani, ovvero, com'erano detti, i Cavalieri Europei riformati (Cfr. 2° parte. Documenti, 120 e segg.).

Secondo il processo istruito nel 1822 dallo stesso De Mattheis, i settari non aveano smesso, anche dopo la caduta della costituzione, il pensiero della rivolta.

«La rivolta formava la piena di tutti i loro desideri!, e forte si dolevano di non poterla più oltre ottenere dai mezzi della Carboneria, l'arcano di cui era già palese nei trivii e totalmente smascherato.

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«Che riforma quindi li venne in mente per soddisfare al disegno, la fecero, convertendo la Carboneria suaccennata in una Società di altro conio, e ad essa dieron nome di Setta dei Cavalieri Tebani, ossia Cavalieri Tebani riformati».

......................................................................................

«Che l'organizzazione di questa novella associazione scioperata ne divide gl'individui in tante differenti sezioni, delle quali gli uni non possono, che per particolari confidenze, prendere in cognizione quelli dell'altra.

«Che ha ogni sezione il proprio capo, s tutti i capi poi formano, uniti insieme col titolo di Cavaliere d'ordine, un così detto concistoro, del quale è capo uno, che fa chiamarsi col nome di Gran Presidente».

............................................................................................

«Che la cerimonia la quale di ordinario rispettivamente ne avevano ad uso era:

«Far chiamare fuori d'aspettativa in loro presi a portar le anni, e per lo più che fosse apparti Carboneria.

«Sorprenderlo coll'invito di doversi ascrivere ad una nuova e bella Società, quale dicevano di essere quella dei Cavalieri Tebani, ovvero dei Cavalieri Europei riformati.

«Farlo inginocchiare, e leggergli qualche cosa su di una carta supposta regolarmente pel di loro catechismo.

«Dargli poscia il giuramento, talora sulla carta stessa, od altre volte sopra di un pugnale fra due candele accese colla formola: =Alla libertà, alla morte.

«Iscriverne l'atto coll'inchiostro, o col sangue cavato dal dito medio di una mano del candidato, e mediante la punta dell'istesso pugnale su cui giuravasi.

«Imparargli per parola di passo, e quella sagra = Filomene - Tebe= Sumus (sic) Ulisses = Al cimento, alla morte, per ogni nove pulsazioni col pollice della mano dritta, prendendo la dritta, ancora del loro compagno, e contrassegnando l'ultima con una battuta di piede su della Terra; la imposizione della dritta sulla mammella sinistra con discenderla in giù, come in atto di trar la spada, e per parola di soccorso infine dietro un colpo dell'istessa dritta sul proprio cappello, le inique voci = Santo Diavolo.

«Avvertirlo a stare pronto colle armi per prenderle subito che fosse stato il maturo da fare la rivoluzione contro il proprio sovrano.

«E licenziarlo poi con esiggere su tutto la promessa del segreto a pena di morte.

«Che acciò in caso d'intercetto nulla avesse potuto capirsi dì che scrivevasi. il carteggio della Setta andava combinato con gergo: le lettere A. E. I. O. U, erano convertite in D. G. K. Q. L., cosicché D. leggersi avesse dovuto in luogo di A,, G. per E., K. per I., Q. per O., e Z. per U., e viceversa»


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Anche nelle Memorie sulle Società Segrete dell'Italia Meridionale e specialmente sui Carbonari, trad. dall'inglese di Anna Maria Cavallotti - Roma-Milano, Soc. Edit. Dante Alighieri, 1904 - è ricordato il terzo grado (1), cioè quello de' Cavalieri Tebani.

«Scopo di questo terzo grado ed ordine è di procurare informazioni concernerti i segni e parole sacre conosciuti e compresi da uomini di differenti nazioni sull'intiera superficie del globo, verso est ed ovest, verso mezzogiorno e mezzanotte».

«La Vendita rappresenta una grotta nell'interno d'un monte. In un angolo una rustica urna porta l'iscrizione:

«Qui giace l'eroe».

«L'assurda storia di queste eroico personaggio è raccontata ai nuovi membri subito dopo la loro iniziazione, con queste parole (2):

«Filippo il Macedone, avendo con un poderoso esercito intrapreso a soggrocare [soggiocare) la gran città di Tebbe (Tebe) in Boezia (Beozia), fu dai valorosi cittadini dì questi contrade ai confini del loro territorio con tutta la forza che poterono radunare [combattuto?] animati però dal deciso sentimento, o di salvare la patria, o di morire, e l'essere per loro Duce il Gran Filo melo, cittadino cognito per le sue virtù - la disgrazia volle che ad unta del loro coraggio, furono oppressi, rotti e sbaragliati; il gran guerriero Filomelo essendo rimasto con altri bravi cittadini circo per quanto poté di far conoscere a (contro) Filippo le me mire; ma prima di portarsi all'attacco vedendo che alcuni vili Tebbani si erano dichiarati dalla parte de' Macedoni e che cerca vano colle loro mani delle ritorte, il Gran Filomelo pensò acciò non si conoscessero gli Eroi di comunicargli de' segni e parole; ed attaccando la seconda volta il tiranno, ma con più infelice successo della prima, furono rotti e vinti. Vedendo Filomelo la sua cara patria in potere di Filippo andiede a darsi una morte gloriosa precipitandosi da un'alta rupe et fini da prode qual visse i giorni suoi, inculcando prima di morire agli amici dì tenere ce lati i segni e la parola, e che si aumentassero, e spargessero per tutto il globo, terreno, e dì essere decisi di fare la guerra alla tirannia, alla falsa opinione ed al pregiudizio.

«Ed inde il Gran Maestro li communicherà i segni e la parola sagra, ecc »

Anno Carbonarico e Feste.

L'Anno Carbonarico incominciava il 1° luglio e terminava il 30 giugno. Il 1° luglio avveniva l'installazione delle cariche e si celebrava la festa di San Teobaldo in tutte le Vendite, con travagli di masticazione (banchetti).

«Il Potentissimo Consiglio, il Consiglio Provinciale, il Consiglio Dipartimentale, la Camera Evangelica e quella Sublime celebra vano 5 feste, e cioè: due nei solstizi e due negli equinozi; la quinta nel giorno dell'istallazione dell'Alta Potentissima Assemblea.

(1) Travagli del 3° grado. Lo stile è pessimo, e il senso per la maggior parte va indovinato,

(2) Il traduttore inglese riproduce anche il testo Italiano così come si legge qui.

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Inoltre veniva pure celebrata la Cena mistica nel Giovedì Santo. A quanto sembra quest'ultima era facoltativa e ricorda la Cena mistica celebrata da uno degli alti gradi massonici.

laquo;Travagli di masticazione. - Erano di rito nelle feste summentovate; ma ve ne potevano essere di straordinarii.

Erano obbligatorii i seguenti avvantaggi o brindisi. Il primo in onore di San Teobaldo perché intercedesse presso il G... M... D... U... a favore dell'ordine. Il seconda in onore dell'Alta Assemblea; il terzo allo zelo e all'attaccamento dei BB... CC... presenti; il quarto ai BB... CC... maestri di Cerimonie e di Banchetto per aver ben diretti i Travagli di masticazione; il quinto ai visitatori; il sesto infine a tutti i BB... CC... sparsi sulla Terra.

I catechismi contengono altre norme d'indole generale, che non vale la pena di riportare.

Diritti di ricezione. Nessun diritto di ricezione era stabilito per il Potentissimo Arcipatriarca. L'Arcipatriarca pagava ducati 8 (duc.= 4,25) per il grado e ducati 3 per il diploma, e se si trattava anche di ricezione altri ducati 8, e grani 60 a benefizio dei poveri.

Il Patriarca: ducati 6 per il grado, 3 per il diploma; e se si trattava anche di ricezione altri ducati t), e grani 40 pei poveri.

L'Evangelista: ducati 3 - L'Apostolo: ducati 2,40 - Il Discepolo: ducati 2 - Il Cavaliere di Tebe: carlini 15 - Il Maestro: carlini 12 - L'Apprendista: ducati 8.

Età. - Potentissimo Arcipatriarca; età 33 anni - Arcipatriarca: 30 anni - Patriarca: 28 - Evangelista; 26 - Apostolo: 26 - Discepolo: 24 - Cavaliere di Tebe: 22 - Maestro: 21 - Apprendista: 19.

Gergo Carbonarico.

Bottiglia = marcia.

Bicchiere = vano,

Forchetta = rastrello.

Cucchiaio = pala.

Coltello = accetta.

Pane = .

Vino = buona carbonella.

Aceto = acre carbonella.

Sale = terra bianca.

Pepe = terra nera.

Acqua =cattiva carbonella.

Piatti = cofani.

Lumi = stelle.

Salvietta = bandiera.

Tovaglia = sindone.

Mangiare = masticare.

Le vivande= materia da fornello

Bere = avvicinarsi il vano al fornello

Liquore = ottima carbonella.

Dolci = ottimi carboni.

Sedia = carretta.

Formaggio = dura carbonella.

Fiori = odorosi carboni.

Denaro = metallo

Foglia di ricezione = da

pagarsi per la ricezione.

Sacco delle proposizioni =Scatolo ove si mettono le proposte.

Sacco di beneficenza = Scatole

per la beneficenza.

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Travaglio funebre.

Infermato appena un B... C... è all'obbligo l'ospitaliere d'informarne subito il G... M... della Fam... cui appartiene. Costui, dopo averlo visitato paganamente, dovere intrinseco, ed essenziale ai BB.., CC..., disporrà che venga assistito dall'Osp... con assiduità fino all'esito della malattia.

Ove sia misero verrà soccorso di tutto il bisognevole.

Nei momenti di gravezza, matterà al sicuro l'ospital... Certif..., Dip... e ogn'altra carta relativa, come pure la decorazione.

Trapassato appena, ne farà rapporto al G...M..., il quale convocata la Fam..., procederà alla Fun... cer... Si aprono i TT... - Otto BB.., CC... MM.... compresi gli Ass... in unione del G...M.., Or... e Seg... si trasferiranno in unione di ministri della religione presso la casa del defunto B... C... e lo processioneranno insino alla Chiesa,- Quivi assisteranno, durante le pagane cerimonie - Rientrano in B... e si aggiorna l'adunanza pel dì seguente pel trapasaato. - Si chiudono i TT... col S... R...

Raccolta la Fam..., apertisi i TT... si chiama l'appello. - Si nota mancante il B... C... si fan riscontrare gli atti dal Seg..., e si conosce non esservi avviso in iscritto, giusta l'art. 2 delle obbligazioni nella propria B... (1).

S'invita l'esperto di osservare, ove fosse disperso nella For... Quivi, dopo le più minute ricerche, lo chiamerà per ben tre volte - rientrato in B..., riferirà di non averlo ritrovato.

Tanto eseguito, sorge dal suo posto il B... C... Ospit..., e dopo essergli stata accordata la parola narra la morte del B... C... che si crede mancante, in comprova presenta al Tr... le ricuperate carte e decoraz...

Là per là, costruito verrà il Tumulo nel centro della B... a forma di triangolo isoscele, alla di cui testa vi sarà piantata la croce, a fronte del Tr..., dalla quale penderà l'Eac... con i nastri, e sulla cassa saran disposti gli oggetti del grado.

Agli angoli del Tumulo vi saran accesi tre lumi smorti, annunzianti lutto.

Frattanto il G... M.. informerà la famiglia del tristo avvenimento, e l'interesserà a prestare attenzione nel celebrarsi la cerimonia.

Sarà cantato il Miserere e il De Profundis.

Il G... M... Or... e Seg... formeranno ii primo coro, e il secondo verrà creato dagli ass... e resto della Fam... Indi discendesi alla visita del cadavere, che si finge chiuso nella cassa, posta alla sommità del Tumulo.

Ogni B... C... è obbligato di girare intorno al letto del mortoro.

Giunto al punto d'onde è partito, si approssimerà alla cassa, sulla quale incrociando le mani, vi chinerà la testa in segno di tristezza. Per alquanto tempo piangerà la sventura del B..., recitando le requie, secondo 0... bacerà tre volte sulla stessa cassa e ai ritirerà al suo posto.

Nella cerimonia sarà serbato l'ordine seguente;

G... Maestro Tit... ed Onor...

1° Ass... Tit... ed Agg.... - 2° Ass... Tit... ed Agg...

Oratore ed Agg... - Segretario ed Agg...

1° Esperto - 2° Esperto.

(1) Stabiliva che in caso d'assenza di un B... C... sì dovesse prevenire il B.. C... Segr...

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Archiv... Guarda Bollo e Sugg... - Maestro di Cerimonie.

Censore - Tesoriere - Economo - Elemosiniere - Ospitaliere.

1° Preparatore - 2° Preparatore.

1* Maestro di banchetto - 2° Maestro di banchetto.

Covritore.

Rimarrà il Tumulo in B... por altri due TT... consecutivi, nel corso de' quali avrà luogo la medesima cerimonia.

Nell'ultimo poi, ogni B... C... porterà seco delle foglie d'alberi colte nella For... Allorché girerà le spanderà sui diversi punti del feretro.

Consumato un tal atto il G... M... inviterà il B... C... Or... a pronunziare l'oraz... fun...; ed in questa sola emergenza verrà accordata la parola indistintamente a tutti i BB... CC. per parlare analogamente.

Adempito a tanto, dal G... M... verran designati tre BB... CC... del rango del defunto, anche se fosse dignitario od uno delle Luci per rilevare il piedestallo del Tumulo per trasportarsi nella For... onde sotterrarsi l'urna, nel modo, ohe siegue, sarà regolata la cerimonia.

Precederà il G... M.,. affiancato dagli Ass..., suoi collaboratori, Presso ciascun di costoro seguirà l'ordone corrispondente chiuso quel del 1° dal Segr... e dall'orat...

Insino alla tomba con flebile lentezza sarà recitato di bel nuovo il Deprofundis. Estratta l'urna dalla cassa, contenente copia di tutti i pezzi della Seg..., sarà buttata dentro la Tomba cavata nel seno della terra, benedetta coll''Esc... Si ritornerà in B... col medesimo ordine. Indi saran chiusi i TT...

Per nove consecutivi Trav... starà vuoto il posto del trapassato.

La sua carretta (sedia) verrà coverta di velo nero. Dopo i fatali testé stabiliti, si scoprirà, e il velo verrà sospeso nella parte dei BB... CC... defunti par futura memoria. Tutti i registri della Fam... si osserveranno, sul carbone tratto dal Fornello ed espolito, relativo alla iniziazione vi si marcherà il giorno della morte.

Il prodotto intiero risultato dal Sacco di Beneficenza nel corso dei nove TT... andrà a beneficio di persone pagane, della classe dei miseri. Ove la famiglia pagana dell' estinto sarà bisognosa, verrà preferita in tali largizioni, e le verrà fissato un mensile soccorso a misura delle circostanze della cassa finanziera della Fam... finché altri mezzi non la chiamerà a nuova risorsa.

E questo il momento nel quale debbesi sviluppare intenso fraterno amore, onde rilevare quella virtù, che domina i cuori dei BB... ce... CC... - L'insensibile in tali avvenimenti mostrerà di quanta poca lode sia degno.

Obbligazioni generali.

1) Non parlar mai di Religione, ammenoché della sua nobiltà- Né tampoco contro i costumi.

2) Profonda riserva nei misteri dell'Ord..., trattati nei consessi di Fam... - Più rigorosa coi pagani.

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Parola sacra: Pbronesis Giustizia - Significa: Prudenza. - Andria sofiosina (sophrosina) - fortezza temperanza.

Parola di passo: Pistis Alpis (Elpis) - fede speranza.

Parola di soccorso: Elaos Electus, - Significa: Aiuto misericordia.

3° Grado. Gran Principe.

Il toccamento è lo stesso, si descrive uno zero, coll'indice, e si da sette colpi palma con palma.

Parola sacra: Philotheus. Significa: Amante di Dio. - Philanthropos. Amante dell'uomo. - Philopatris. Amante della patria.

Parola di passo: Dona (?) - Theo - Lode a Dio.

Parola di soccorso: Eusebia - Pietà - Soccorso.

L'oggetto È la difesa della Chiesa e del Papa, ristabilimento, della famiglia Borbonica, l'inesorabile inimicizia a' Carbonari e Massoni. Dovendosi prendere giuramento sopra Cristo in croce, ed un pugnale che li sorte in mezzo alle braccia.

Ho trascritto il documento, con tutti i suoi errori, così come trovasi nell'Archivio di Lecce (fasc. cit.). Da esso apparisce senza dubbio, che la Riforma della Carboneria sotto gli auspici della SS. Trinità risale a' tempi anteriori al ritorno de' Borboni; s'innestò su quella de' Trinitarii, e lo stesso giuramento de' Calderari lascia comprendere ch'essa fosse tutt'una con questa setta.

GIURAMENTO DEI CALDERARI (cfr. Memorie sulle società segrete, ecc. op. cit.).

«Io, N. N. prometto e giuro sulla Trinità, suprema direttrice dell'universo, su questa Croce, e su questo ferro punitore degli spergiuri, di vivere e morire nella Fede Romana Cattolica Apostolica, e di difendere col mio sangue questa religione e la Società della Vera Amicizia, i Calderari, alla quale sto per appartenere. Giuro di non offendere mai nell'onore, nella vita o proprietà, i figli della Vera Amicizia. Prometto e giuro a tutti i Cavalieri, Veri Amici, ogni possibile soccorso che mi sia dato prestare. Giuro di non iniziare alcuno alla Società prima di essere giunto al quarto grado. Giuro odio eterno ad ogni Massone ed ai suoi atroci protettori, come a tutti i Giansenisti Materialisti (Molisti?), Economisti ed Illuminati.

- 423 -

Giuro, a prezzo della mia vita, di non ammettere nessuno di loro nella Società dell'Amicizia. Infine giuro che, se per iniquità o leggerezza divenissi spergiuro, acconsento alla perdita della vita, come punizione del mio errore; ed indi ad essere bruciato. Possano le mie ceneri sparse al vento, servire d'esempio ai figli tutti dell'Amicizia sparsi sul mondo intero. E cosi m'aiuti Dio per la felicità dell'anima mia ed il riposo della mia coscienza».

Questo era il giuramento di 1° grado, nel quale il Calderaro conservò, come nella Riforma della Carboneria ecc., il titolo di Amico Cavaliere, e la parola sacra era: Perfetta Amicizia.

APPENDICE V.

La "Lega Europea"

Nelle carte riguardanti i fatti di Laurenzana e di Calvello del 3 febbraio 1822, troviamo le seguenti notizie su tale Società.

1) Copia d'un diploma,

LEGA EUROPEA

Sezione del Mezzogiorno Dipartimento di Napoli

Il Comitato Centrale d Organizzazione.

Commissione: p. il Sig. Carlo Mazziotti cittadino del territorio del Regno di Napoli, Prov. di Basilicata, Comune di Cal vello, sotto il nome emblematico di MARCO BRUTO:

L'autorizza eseguire le istruzioni di organizzazione preventiva nella Provincia di Basilicata pel risultamento delle Leghe Comunali e Provinciali ed a dirigere i comuni sforzi della Nazione alla libertà, indipendenza italica:

L'autorizza similmente ad organizzare nella stessa Provincia il suo Comitato Provinciale e quelli Distrettuali di organizza zione e darci direttamente conoscenti risultamenti per le misure di approvazione:

L'autorizza finalmente a poterci spedire altri Patriotti della stessa Provincia attivati veramente allo spirito, ed alla morale della Libertà, per poterli poi direttamente autorizzare con simili Commissioni, per dove converrà o no in un centro comune fissare la Potenza della Rivoluzione e della Libertà Nazionale.

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In Napoli li 12 dicembre 1821. Anno secondo della Lega.

Il Segretario del Comitato Centrale; Collatino. - Il Presidente del Comitato Centrale; GIUNIO BRUTO.

Registro n. 101.

E aggiunta la spiegazione dell'emblema: a In mezzo delle firme un emblema in forma circolare col sole alla parte di sopra, un'aquila sotto cadente sopra de' fulmini, alla destra dell'aquila un Galluccio, ed alla sinistra il fascio di verghe, finalmente al di sotto de' fulmini la fenice che sorte dal fuoco, dalla quale escono da' due fianchi due braccia che impugnano lo stile, nel quale si legge il motto «Post fata resurgo». Su del sole una mano che xiaisce due rami d'alloro che partono dalle mani delle due braccia».

2) Memorie sulle notizie raccolte di San Marco in Lamis per mezzo di...

La setta Europea, sotto la denominazione di Campo di Marte, venne istallata in San Marco in Lamis da un tal Rocco Cbieppa Positanese in tempo delle passate frenesie dell'anno 1820. - n primo che si aggregò fu Saverio Totta, e quindi Francesco Saverio La Porta, di San Marco in Lamis, dimorante in San Severo.

Costruì, come dilettante di pittura, formò in un foglio grande di carta, l'emblema, cioè, una grotta, avanti la di cui porta un Toro, da un lato un gallo, ed al di sopra una donna ignuda, dinotanti il primo fortezza, il secondo vigilanza e la terza libertà.

Copiò ancora dì suo carattere le istruzioni di tale setta, e ricevé da Saverio Totta ducati sei per tale oggetto.

Pochi individui vi si unirono, perché quasi tutti erano aggregati alla setta Carbonarica. Accaduti de' disgusti fra D. Nicola Gabriele e D. Donato de Theo nel mese di agosto di detto anno, cominciarono a formarsi in partiti. Il Saverio Totta si aggregò a quello del de Theo, il quale essendo stato tolto da Gran Maestro della Carboneria, si rivolse all'altra setta Europea, e li tirarono buon numero d'individui, travagliando quasi di continuo per formare numero maggiore.

Entrati maggiormente in stizza i due partiti non lasciarono d'inveire fra loro, giacché rispettivamente intenti a dispotizzare su gli affari pubblici e privati, ecc.

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Colpi nell'entrare ne' luoghi di recezione:

- Cinque colpi alla porta, cioè: uno prima, due accelerati e due altri appresso.

Comanda nell'interno:

- Chi vive? - Tell (1).

Entrato si davano cinque passi, cioè il diritto avanti e si portava il ministro all'istessa direzione. Sì restava colle palmi delle mani poggiate lateralmente alle cosce.

Parola sacra: Eguaglianza - Libertà - Giustizia.

Si proferisce separatamente, cioè quello che domanda attende la prima risposta: Eguaglianza e dice Libertà, e quindi uniti: Giustizia.

Parola semestrale: Tell.

Segno di riconoscimento: La palma della mano aperta alzata alla direzione dell'occhio diritto, e si dice: A me, bravi Elvetici.

Segno di soccorso: La mano dritta aperta sul cuore, col dito grande alzata alla direzione alla direzione del mento.

3) Da altro rapporto del 1823.

Tale infame setta (Società Europea) è organizzata sulle teorie militari per cui i capi vanno indicati coi nomi di Comandanti Capo, 1° e 2° Consigliere, Capitano Relatore. - 1° e 2° Capitano. - Aiutante di campo. - Quartier Mastro, e Guardi bolli, e suggelli. - Il luogo delle nome di Campo di Marte. Gli individui che ne dipendevano dicevansi Fratelli. Erano divisi in Uffiziali, e Legionarii, e dovevano essere armati.

Cinque passi militari, ed un portale d'armi era la funzione che si richiedeva nell'entrarsi.

Gli uffiziali erano decorati d'una fascia tricolore, che pendeva orizzontalmente al collo con iapada, ed i legionarii lo erano con una sola zigarella rossa posta nella stessa guisa, e con baionetta. Nel luogo delle unioni eravi un quadro, ohe dimostrava una caverna, con entro un Toro, sopra un Gallo, al fianco destro una Donna seduta ad un macigno, ed al sinistro un uomo

(1) Qualche intesa dovea esistere tra questa setta e quelle delle Romagne, appunto nel 1821.

Nella Società degli Illuminati, di cui si parla nei processi politici) di Romagna (Cfr. DEL CERRO, ibid. p. 83), le parole di passo erano Chiroga (il noto generale spagnuolo della rivoluzione del 1820) e Guglielmo Tell.

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dritto, avente nelle mani una verga: sotto poi eranvi de' Tamburi, Cannoni, ed una bandiera tricolore, sulla cui asta un cimiero ed una accetta. Tra questo l'emblema della libertà, qual era lo scopo di tale Società.

Allorché i campioni di questa infame unione volevansi conoscere si davano cinque colpi col pollice destro sulla prima giuntura del destro dell'altro compagno, cinque baci, e si facevano un segno tirando la mano sinistra orizzontalmente dalla spalla destra al fianco sinistro. Il segno di soccorso era la mano destra al cuore, tenendo il dito pollice diviso dalle altre quattro dita, che rimanevano strette. La loro parola sacra era: Libertà. Uguaglianza, Giustizia; quella di soccorso: A me, bravi Elvetici!

APPENDICE VI.

Bolli massonici e carbonarici

I bolli che qui riproduciamo costituiscono una vera rarità del genere, per numero, per varietà, per importanza storica; parecchi sono anche d'una bontà di fattura che difficilmente si riscontra in lavori di tal fatta.

Appartengono tutti alla Calabria, e ne fu artefice un D. Giuseppe Lupi di S. Pietro d'Amantea, massone e carbonaro, che, per amore al natio loco, visse e morì nell'ignoto, rifiutando di portarsi a Napoli ove certamente avrebbe lasciato traccia di sé nell'arte del bulino.

Molti de' calchi da me riprodotti sono conservati presso i suoi discendenti, e con essi qualche lettera d'ordinazione.

I simboli in essi rappresentati sono tratti da' catechismi massonici e carbonarici, e ne' capitoli relativi ne abbiamo data la spiegazione.

Nella Storia della Massoneria del Clavel, è riportato, dal traduttore, un elenco incompleto di 97 logge massoniche, esi stenti nel 1813, e dipendenti dal Grande Oriente di Napoli.

Le logge calabresi ricordate sono le seguenti: 1. Bagnara, Virtù trionfante, 2. Belmonte, Monte d'Avete (Arete). 3. Belvedere Marittimo, Figli del silenzio. 4. Castrovillari, Scuola di Costumi. 5. Catanzaro, Umanità liberale (liberata), 6. Colosimo, Mamertini, 7. Corigliano Calabro, Figli della stella tutelare, 8. Cosenza, Gioacchino L 9. Ibid., Pitagorici Cretensi (Cratensi) 10. Mongrassano, Alunni d'Archimede, 11. Monteleone, Filantropia

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Ipponese. 12. Nicastro, Filantropia Numistrana (Filantropi Numistrani). 13. Paola, Alunni di Pitagora. 14. Pizzo, Allievi di Salomone, 15. Reggio, Perfetta Armonia. 16. Ibid., Virtù. 17. Rossano, Federazione Achea. 18 Stilo. Colonna Venetria. 19. Tropea, Costanza Erculea.

Parecchie di coteste logge sono pare ricordate ne' bolli.

I - Bolli Massonici.

1. - Il Figlio del propag.. di luce alla Valle di Mormanno.

E un bollo capitolare di Rosa Croce (grado XVIII). I simboli in esso rappresentati, come il pellicano e la croce con la rosa appartengono a tal grado. Ogni provincia massonica, a meglio regolare la catena gerarchica de' gradi, era divisa, secondo l'antico rito due Valli, sedi appunto di tali Capitoli od Officine superiori.

La loggia esistente in Mormanno aveva nome il Mentore.

2.

- La R.'. (=Rispettabile) (=Loggia)

La fraternità Nepetina all'Oriente di Amantea. (Antic. Clompeia, Lampetia, Lametia, da cui Lamentia, Amentìa, Amantea. Erron. Nepetia)


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Prefazione

Pag. V

Introduzione. -

Il Compagnonaggio medioevale e le società segrete.

Capitolo I. - Caratteri speciali del Compagnonaggio. » 8

Capitolo II. - Le corporazioni murattiane privilegiate e le origini della moderna Massoneria » 14

Capitolo III. - Massoneria e Carboneria in Francia nel secolo XVIII » 22

Capitolo IV. - La Massoneria in Italia e le costituzioni muratone del 1750 » 32

Capitolo V. - Massoneria e Giacobinismo in Napoli » 46

PARTE I.

Libro I. -

La Massoneria

Capitolo I. - Massoneria e Carboneria; loro caratteri differenziali. » 63

Capitolo II. - II 1° Grado massonico e il fondamento morale della Massoneria » 74

Capitolo III. - La leggenda del Tempio e il secondo grado massonico » 80

Capitolo IV. - L'assassinio d'Hiram ed un poema massonico » 89

Capitolo V. - Funerali massonici e travaglio di masticazione » 121

Libro II. -

Carboneria.

Capitolo I. - II 1° Grado carbonarico Pag. 137

Capitolo II. - II 2° Grado carbonarico e la passione di N. S. Gesù Cristo » 159

Capitolo III. - Confronto tra gli alti gradi massonici e quelli carbonarici » 171

Capitolo IV. - Costituzione della Carboneria » 183

Capitolo V. - Scopi politici della Carboneria » 192

PARTE II.

Libro I. - La

rivoluzione carbonaria del 1820 in Napoli.

Capitolo I. - Governo e Sette nel Napolitano » 201

Capitolo II. - Origine de' Calderai-i e persecuzioni contro la Carboneria- » 210

Capitolo III. - La caduta del Murat e la restaurazione Borbonica. » 213

Capitolo IV. - Organizzazione militare della Carboneria » 231

Capitolo V. - La rivoluzione napoletana del 1820 » 239

Capitolo VI. - Perché cadde la rivoluzione napoletana » 251

Capitolo VII. - La, reazione e gli ultimi tentativi carbonarici nel Napoletano » 264

Libro II

.-La cospiratone italica contro l'Austria nel 1821.

Capitolo I. -La restaurazione nello Stato Pontificio e sua influenza nel movimento settario » 277

Capitolo II. - Le sette nello Stato Pontificio e il tentativo di Macerata » 287

Capitolo III. -La Costituzione latina ed i progetti del governo toscano » 302

Capitolo IV. - Governo e sètte nel Lombardo-Veneto e loro caratteri diversi » 310

Capitolo V. - I Carbonari nel Lombardo-Veneto e i Filadelfi del Piemonte » 322

Capitolo VI. -- La drammaticità della storia piemontese e i Federati italiani. » 334

Capitolo VII. - II pronunciamento militare del Piemonte » 345

Conclusione » 356

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Appendice

I. -

Poesia e MassoneriaPag. 373

»

II. -

La Società de' Giacobini a Napoli . » 390

»

III.-

La Carboneria » 393

IV.-

Riforma della Carboneria sotto gli auspicii della SS. Trinità » 421

raquo; V. -

La Lega Europea » 424

»

VI. -

Bolli massonici e carbonarici » 428








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