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https://xoomer.virgilio.it/lavorodiricerca/

MULTIVERSUM MERIDIONALE

 di Antonio Chiocchi  



1) Allo stato attuale delle cose, riaprire una discussione sul Sud e sul meridionalismo deve necessariamente contenere ed esplicitare, già in premessa, un multiverso di linee di discontinuità.

Una prima discontinuità va rimarcata avverso le tradizioni moderne e contemporanee del pensiero meridionalista, nelle loro varie componenti e/o "scuole", per lo più impastoiate in limiti di "culturalismo", "positivismo", "antropologismo", "statalismo", "autonomismo", "economicismo", "progressismo", "sviluppismo" e via discorrendo. Una verifica per tutte: le analisi condotte, in questi ultimi due decenni, sulla mafia, la camorra e la 'ndrangheta hanno palesato in pieno il riduzionismo con cui gran parte dell'analisi storico-politica e cultural-filosofica meridionalista ha solitamente guardato il Sud, costringendolo in un orizzonte di esperienza angusto, mutilato coattivamente della sua complessità e assimilato tendenziosamente a simbolo/segno di arcaicità, arretratezza e violenza, quintessenza della carenza di "spirito pubblico".

Una seconda discontinuità va dislocata avverso i codici del pensiero politico moderno e i filoni filosofici della modernità che, con il loro far perno su postulati assoluti e su categorie fondamentali (se non "fondamentaliste"), hanno preteso di valere come "universali" interpretativi, escludendo dall'ambito della comunicazione politica, sociale e culturale tutto ciò che - come il Sud - non si lasciava intercettare dai loro selettori. L'ideologia del progresso scientifico e sociale, della razionalità e neutralità dello Stato e della scienza, delle virtù e dell'efficienza dell'industrialismo e del mercato è stata elevata a codice di classificazione e per il suo tramite si è proceduto alla delegittimazione simbolico-materiale del Sud, in quanto "campo normativo" altro dai criteri della razionalità scientifico-politica e paesaggio altero a confronto dell'uniformità industrialista.

Una terza discontinuità va orientata avverso i codici del pensiero politico contemporaneo e i filoni filosofici della contemporaneità che, pur puntualmente denunciando l'insensatezza delle "grandi narrazioni", hanno aperto una serie di fratture incongrue tra il "sincronico" e il "diacronico", tra il "locale" e il "globale", tra il "materiale" e "l'immateriale", tra l'"ora" e il "domani", tra il "qui" e "l'altrove". Esseri umani e cose sono stati infeudati sotto l'imperio della "datità bruta" che altro non è se non il "potere brutale" dei forti, fuori da ogni possibilità di libertà, di svolta, di liberazione. Il Sud non poteva qui essere "visto" e "ascoltato", proprio per la sua "alterità costituzionale".

Una quarta e ultima discontinuità va insediata avverso i futuribili senza speranza disegnati dall'amministrazione tardocapitalistica della storia e dell'esistente. Desertificazione etico-sociale, miserie apocalittiche e sofferenze debordanti ogni umano patire si saldano perfettamente in un disperante scenario "post-metropolitano", entro cui lo scorrere dell'attimo è cinicamente finalizzato alla inibizione della produzione della "ricchezza collettiva possibile" e della "felicità pubblica", dovendo poteri complessi redistribuire e riallocare saperi sempre più articolati e beni sempre più evoluti nelle mani di neo-oligarchie predatrici.

Il Sud è il "prodotto coattivo" di una complessa dialettica storica e, al tempo stesso, "reagente attivo" contro la sua tentacolarità. Ha giocato e gioca la sua identità a più facce su crinali mobili, perennemente in bilico tra ribellione e sottomissione, scacco e resistenza, soccombenza e fuga, servitù e libertà, conformismo e rivoluzione, incessantemente attraversato, modellato e squassato da questi contraddittori campi di tensione.

 

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2) Il rilancio del dibattito meridionalista deve, allora, segnare un particolare "punto zero" dell'elaborazione, del confronto e delle prassi.

Particolare, perché deve occupare uno spazio doppiamente vuoto: da un lato, il terreno lasciato variamente vacante dal pensiero politico, dal pensiero filosofico e dal pensiero meridionalista della modernità e della contemporaneità; dall'altro, il deserto delle prospettive del presente.

Particolare, perché, pur ereditando un patrimonio culturale, politico e filosofico alto (basti qui fare cenno alla triade Campanella/Bruno/Vico), si trova a dover reinventare strumenti di analisi, categorie interpretative, orizzonti politici, referenti culturali, firmamenti di senso etc.

Non sono solo banalmente mutati i tempi.

Il patrimonio delle migliori tradizioni meridionaliste presenta delle linee di insufficienza che vanno discoperte e superate. La critica che la tradizione alta del pensiero meridionalista ha inoltrato alla modernità, sin nel farsi costitutivo di questa, ne coglie, sì, le aporie interne e le pulsioni di onnipotenza, ma non ne valica gli orizzonti, risultando, anche per questo, soccombente al suo cospetto.

Analogo e ancora più difficile è il compito che si para innanzi a noi.

La critica della contemporaneità non può limitarsi alla confutazione delle sue sfere di ingiustizia e di indigenza. Deve essere capace di pensare, produrre, costruire e sperimentare itinerari che nello spazio comunicativo immettano campi di socialità, percorsi di "agire collettivo" e di "agire individuale" altri e non soggiacenti ai codici e ai poteri complessi della contemporaneità; non circuiti dai riti dell'elitismo, ormai cruda sostanza della democrazia politica occidentale; non obnubilati dalla fascinazione sprigionata dal monetarismo e dal mercatismo; non appiattiti nel confronto/scontro con i dispositivi del comando statuale.

Questo è tanto più vero per il Sud.

Urge aprire passaggi di un cammino che, muovendo dalla "refrattarietà" meridionale ai codici della modernità e della contemporaneità, sappia appropriarsi di un altro linguaggio della politica, dell'etica e della socievolezza, per una coniugazione felice ed inedita dei "diritti di eguaglianza" e dei "diritti delle differenze" con la "complessità sociale" e l'"eterogeneità ambientale".

Nello specifico meridionale, ciò va pensato e costruito all'intersezione di tutti quei flussi relazionali e comunicativi che rendono il Sud eguale e, insieme, differente dalla pluralità dei mondi e dei linguaggi con cui soggettivamente entra in contatto o con cui si trova oggettivamente connesso.

Un discorso radicale sul Sud è, oggi più che mai, discorso che trascende il Sud, pur dovendosi qui allocare e impiantare. Ma ogni discorso locale, nel crogiolo inestricabile di differenza e identità che precipita in uno stato di perenne sommovimento il "villaggio globale", si estroflette verso universi esterni che pure introietta passivamente o metabolizza criticamente.

Un discorso radicale sul Sud non è il discorso della rivoluzione; ma, più modestamente, un tassello ineliminabile entro il più generale esperimento e la più generale esperienza della trasformazione radicale dell'esistente.

Il Sud come non ha acriticamente importato modelli assolutistici, così non può - e non vuole - prometeicamente esportare modelli universalistici. Il paradigma della "rivoluzione meridionale" ci trasmette ora il "discontinuo dorsiano" della critica delle macrounità (lo Stato, la democrazia, i grandi movimenti collettivi); non già una semantica politica all'altezza della contemporaneità.

Proprio in ragione della denegazione della sua complessità millenaria, il Sud non può assurgere a modello (della miseria o della felicità, a seconda del punto di vista dell'osservatore); né può essere agito come grimaldello per scardinare l'equilibrio soffocante capillarizzato e ricalibrato dai poteri complessi della contemporaneità.

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3) Si tratta di avviare esperienze/esperimenti che individuino, precisino e allarghino progressivamente i temi della discussione e i sentieri da battere in tutte le direzioni che il rigore, la passione e la forza inventiva saranno capaci di proporre o soltanto evocare.

Occorre reimparare a guardare e ripercorrere il Sud. Solcarne palmo a palmo le infinite e contraddittorie lande; ascoltarne le voci sopite; interrogarne le brucianti sconfitte; rielaborarne le molteplici conquiste, "salvandole" dal limbo dell'incompiutezza a cui la storia le ha condannate.

Più che parlare del Sud o al Sud, occorre parlare dal Sud.

Da qui occorre continuamente partire e ripartire. Qui invariabilmente occorre far ritorno.

Il discorso va dipanandosi e intrecciandosi dalla condizione di meridionalità; non più dalla questione meridionale, qualunque sia il giudizio storico e di merito che della "questione meridionale" si voglia dare oggi.

Partire dalla condizione di meridionalità significa ricercare le forme di un sentire, di un agire e di un comunicare che rompano le gabbie dell'oppressione e dell'isolamento, della frustrazione e del ripiegamento, dell'autoammutolimento e dello sradicamento.

Non basta parlare del Sud a chi meridionale non è. Ancor prima, è necessario "ricostruire" intimità ed empatia tra Sud e meridionali.

La condizione di meridionalità è una condizione di cattività, di spaesamento e acre destrutturazione simbolico-culturale. Parlare dalla condizione di meridionalità vuole dire rompere le catene che rendono stranieri in casa propria. Le parole e gli atti che non riescono in questa intenzione non costruiscono linguaggi nuovi, ma si limitano ad asseverare gergalità aliene.

Nell'epoca del disincanto, della tecnica, della complessità, della frammentazione e anomia sociale, della globalizzazione etc., lo sradicamento meridionale è entità/evento affatto particolare. Manufatti simbolici e sedimentazioni storiche successive hanno come disegnato una "seconda natura" del Sud che appare a tutti più vera della "natura prima". Da qui promana la pioggia dei luoghi comuni sociologici entro cui è stato costretto il Sud.

È necessario inseguire e disoccultare il dialogo serrato, il conflitto acuto e mai risolto che è andato dispiegandosi tra la "natura prima" e le "nature seconde" del Sud. In questo incontro/scontro si è costantemente giocata la questione dell'identità, dell'assetto dei poteri, delle forme della rappresentanza politica, delle modalità di organizzazione del consenso, delle gerarchie urbane e delle autonomie locali nel Sud.

I volti veri del Sud non sono mai stati - e meno che mai lo sono oggi - tutti interni alla "natura prima" e/o alle "nature seconde". È sempre stata l'interazione conflittuale tra "natura prima" e "natura seconda" che ha "modellato" il Sud, in un senso o nell'altro. Gli esiti di tale interazione conflittuale vanno scandagliati, con l'avvertenza che non possono essere congelati una volta per tutte in codificazioni lineari.

Lo scandaglio è ininterrotto e più volte attraversa gli stessi punti, secondo visuali di osservazione diverse. Importante è qui il cammino inesausto nel corpo vitale del Sud; importanti qui sono gli interrogativi inoltrati al Sud e le domande che il Sud ci restituisce, costringendoci a ripensamenti e opzioni radicali.

Un discorso meridionalista che non batta queste piste di ricerca non sarebbe in grado di parlare al proprio Sé originario e attuale; a maggior ragione, non potrebbe coltivare l'ambizione di parlare all'Altro.

 

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4) Parlare oggi dalla condizione di meridionalità impone un avvio obbligato: partire dagli e parlare degli anni '70. Non solo per tutto quello che essi sono stati per il Sud e per l'economia-mondo capitalistica; ma per tutto ciò che hanno significato, a livello planetario, nella ridefinizione di tutti i sistemi di potere, di produzione, di comunicazione e nella rielaborazione di tutti i codici e le categorie di espressione/rappresentazione della vita medesima.

Gli anni '70 non sono stati soltanto il decennio dell'efflorescenza dei nuovi movimenti sociali e della rivoluzione negli stili di vita, nei costumi e nelle opzioni politiche ed etiche. Essi hanno, altresì, veicolato un radicale mutamento delle forme di potere, delle strategie di controllo sociale, delle modalità di estrazione del plusvalore, dell'allocazione e del governo dello spazio urbano.

Data agli anni '70 il processo di tridimensionalizzazione integrata dell'economia-mondo, procedente attraverso deindustrializzazione selettiva del "centro", industrializzazione della "periferia", terziarizzazione delle economie avanzate. Costituisce, questo, l'atto di nascita delle economie della globalizzazione che esplodono con la "rivoluzione microelettronica" e la videodigitalizzazione delle strategie decisionali e comunicative. Del pari, qui sta il punto di innesco della planetarizzazione di nuovi sistemi di comando imperiale, sottratti ai vincoli e alle rigidità della produzione di massa.

I movimenti sociali degli anni '70, in buona parte, sono il "prodotto" precipuo di questa "grande trasformazione"; ma ne costituiscono, altresì, la critica. Essi la pressano e la condizionano fruttuosamente, ma ne vengono anche messi all'angolo e zittiti.

Entro questo scenario globale, per il Sud, gli anni '70 rappresentano il punto/limite in cui entra in crisi il disegno straordinario degli anni '50. Il progetto/processo di industrializzazione dall'alto, avente come suo motore mobile lo Stato, viene meno e mostra, senza più nessun velo ideologico, il suo basso profilo epistemologico ed operativo. Tre, fondamentalmente, le linee di cesura: (i) la verticale caduta di tensione del concetto stesso di sviluppo, accentuata dalla crisi energetica del 1972-74 e del 1976-78; (ii) il crepuscolo malinconico dello Stato imprenditore eretto e messo in opera negli anni '60; (iii) l'irruzione sul teatro dell'azione politica e della scena simbolica di un "terzo attore" decisionale: le Regioni, istituite nel 1970.

Se "piano del capitale" v'è mai stato al Sud è stato quello dello sviluppo a mezzo dello Stato ed è irreversibilmente entrato in crisi negli anni '70, già dal lato degli aggregati macro e microeconomici, dei meccanismi della decisione politica e della razionalità amministrativa. La resistenza e la refrattarietà meridionali hanno fatto il resto; ma hanno anche subito la crisi del modello, così come prima ne avevano patito la "messa in piano".

Già questi scarni accenni chiariscono a sufficienza che ben particolare è stato, nel Sud, il rapporto di implicazione tra Stato e mercato, tra sistema politico e produzione/redistribuzione della ricchezza.

Nella tradizione di pensiero liberale e nella lettura che dello sviluppo capitalistico essa ha fornito, il mercato funge quale meccanismo centrale della riproduzione della ricchezza e della redistribuzione dei redditi e, nel contempo, è vettore di formazione, riproduzione e stratificazione delle classi. Nel Sud, dal 1945 sino a tutti gli anni '60 e parte dei '70, queste funzioni sono surdeterminate dallo Stato. Il che svela la politicità estrema e il carattere autoritativo del "piano del capitale" dello "sviluppo a mezzo dello Stato".

Non appare, quindi, strano che nel Sud la crisi dello Stato e il fallimento del "piano del capitale" si siano riverberati con effetto immediato sul mercato, la società e la politica, inducendovi profonde lesioni destrutturatrici.

Nel Sud, con la crisi del modello di sviluppo statalista, mutamento sociale, mercato, forme della politica e della democrazia, relazionalità sociale sono divenuti caratteri e fattori di disaggregazione sociale. Il mutamento del regime di scambio e della forma-mercato, nel passaggio dalla dittatura fascista alla repubblica democratica fino al terminale degli anni '70, ha significato, per il Sud, un surplus di mutamenti socio-culturali e una verticalizzazione estrema delle decisioni politiche, da cui è conseguita una profonda destrutturazione dei costumi e degli stili di vita. Le condotte e i circuiti del legame sociale si cortocircuitano: va in scena lo slegame sociale.

Nei sistemi sociali e culturali meridionali, così fortemente destrutturati, disaggregati e destabilizzati, l'unica ipotesi di collante viene incarnata dai networks clientelari, specializzati nella mediazione di potere e nella redistribuzione delle risorse pubbliche, in quanto unico anello di collegamento tra "centro" e "periferia" ed elitario elemento di coesione di sistemi locali frammentati.

Stanno scritte già qui le ragioni di quella particolare connessione confliggente e, insieme, cooperativa tra poteri criminali e circuiti politico-istituzionali che ha violentemente caratterizzato gran parte della storia del Sud in questi ultimi due decenni.

5) Negli anni '80, il ceto politico meridionale entra in crisi, con il blocco dei trasferimenti finanziari, sopravvivendo solo un decennio alla crisi del modello di sviluppo straordinario del Sud. La questione della crisi della soggettività meridionale, invece, è più complessa e storicamente più articolata.

Il tema della soggettività meridionale, più di ogni altra problematica meridionalista, rinvia, però, ad un nodo di analisi che resta preliminarmente da chiarire: la relazione tra Sud e modernità/modernizzazione. Sull'argomento, l'indagine meridionalista ha, spesso, acriticamente fatto propri il determinismo economico e gli schemi evoluzionistici variamente coniugati dalle scienze sociali.

In linea generale, le scienze sociali hanno postulato un concetto di modernizzazione come transizione lineare da forme e modi di vita tradizionali a forme e modi di vita moderni. La realtà storica mostra il contrario: forme di comportamento e relazioni sociali tradizionali si amalgamano con le moderne strutture di mercato e retroagiscono su di esse. L'habitat della tradizione e l'habitat della modernità si connettono e danno luogo a forme e relazioni nuove, entro cui muta sia il senso originario della tradizione che quello della modernità. La presunta purezza cristallina delle strutture di mercato viene, così, contaminata e rideterminata dalle persistenze della tradizione; e viceversa.

L'amalgama di tradizione e modernità produce delle specifiche strutture e congiunzioni di significato, i cui cicli di esistenza, espressione e comunicazione descrivono esperienze ed eventi storici discontinui. Non è, insomma, una logica razionale e predicibile che muove la storia, rendendo materia inerte la società e abbassando al rango di oggetti i raggruppamenti socio-umani. Modernità e tradizione vanno sempre investigate dando ragione della complessità delle catene di interdipendenze relazionali, umane e sociali che si sviluppano senza posa tra di loro. Le forme di stratificazione, integrazione ed esclusione sociale sono sempre il risultato mobile delle catene di interdipendenze tra multicentricità della tradizione e multicentricità della modernità.

Applicando questi schemi di lettura al Sud - e segnatamente alla soggettività meridionale - si deve concludere: le scale del conflitto sociale e culturale non si redistribuiscono secondo una direzionalità dicotomica (modernità ad un polo; tradizione all'altro); bensì si introvertono, diffondono e metabolizzano lungo una raggiera di tensioni interne.

La "catena migratoria", nel ciclo che va dagli anni '50 agli anni '60, è uno degli eventi più rilevanti di questa dialettica non lineare, con il suo riversare significativi effetti di mutamento sugli inputs e sugli outputs della struttura sociale e delle reti comunicative. La sua razionalità è orientata tanto alla "resistenza passiva" alla modernizzazione capitalistica quanto al trapianto - positivo e contaminante - delle radici dell'identità originaria nel territorio altro dell'accumulazione capitalistica avanzata, nei confronti di cui saltano per aria tutti i diaframmi socio-economici e i confini culturali. Non è, certo, un caso che ritroviamo gli emigranti meridionali come protagonisti attivi delle lotte operaie italiane degli anni '60 (da P.zza Statuto sino a tutto l'autunno caldo) e nelle lotte dell'operaio multinazionale in Europa, a cavallo degli anni '60 e '70. L'esodo meridionale è stato simultaneamente segno/simbolo di uno scacco e di una eccedenza di senso.

La sussunzione reale delle forme, delle culture e dei comportamenti tradizionali nelle strutture mature della produzione e del mercato è quanto meno di "puro", univoco e totalizzante sia dato immaginare. Tutte le identità che entrano in gioco si intercondizionano, agendo e subendo rilevanti variazioni di senso. L'immobilismo politico e la mobilitazione sociale della soggettività meridionale si plasmano ed erompono dal livello articolato di tale processualità complessa.

Così stando le cose, è tanto vera l'ipotesi/evento che vede le strutture economiche del mercato inserite nei rapporti sociali quanto l'altra che registra l'inserimento dei rapporti sociali nelle forme economiche. Nel caso del Sud (ma non solo del Sud), le due forme di inserimento convivono. Questa l'anomalia: il salto all'economia di mercato (la "grande trasformazione" descritta da Polany) coabita con la persistenza di rapporti sociali non organicamente funzionali alle gerarchie e ai valori delle strutture e delle forme del mercato, ma non per questo liquidabili come "residui feudali".

Il "piano del capitale" dello "sviluppo a mezzo dello Stato" e la fluidificazione diffusiva dei networks clientelari, all'incrocio degli anni '70, ben esprimono i caratteri dell'anomalia meridionale. Ancora di più: qui si concentra, ad un denso livello di combinazione, la crisi incrociata della forma-Stato, della classe politica e della soggettività meridionale.

Dal 1945 a tutti gli anni '70, il territorio sottostante alla crisi della soggettività meridionale pullula di reti di coalizioni parentali, amicali e clientelari, le quali costituiscono una sorta di catena di "gruppi di interessi" in proiezione verso i "gruppi di pressione", a loro volta, sospinti e schiacciati verso le élites politiche locali e nazionali. Le azioni politiche e le strategie comunicative di tali reti coalizionali non solo si sovraimpressionano alla razionalità economica e alla razionalità politica, ma surrogano le funzioni delle istituzioni pubbliche, della relazionalità sociale e dell'"agire collettivo".

Prende conseguentemente luogo una modalità di legame sociale e di ordine politico di secondo grado. La "naturalità" dello slegame sociale oggettivamente determinatosi trova una soluzione autoritativa nella ricombinazione soggettiva del nesso Stato/mercato, modellato secondo patterns di pianificazione e di comando ponenti al loro centro non tanto la razionalità economica e la legittimazione politica quanto esigenze di egemonia culturale e imperativi di controllo politico-sociale. Surdeterminate risultano tanto le funzioni del mercato che le funzioni dell'impersonalità statuale. Ciò consente di superare la sindrome hobbesiana della "guerra di tutti contro tutti", ma inabissa in vortici tempestosi la questione della legittimità e della sovranità.

La crisi della soggettività meridionale misura direttamente la crisi della legittimità e della sovranità e diventa un dato inquietante, laddove nel Sud (e in Italia) non si mette mano a forme di legittimità e sovranità aperte, situate al di là dei limiti, dei paradossi e delle controintenzionalità del gioco democratico.

Combinandosi con intensi processi di disgregazione e destrutturazione socio-culturale, la crisi della legittimità e della sovranità ha, nel Sud, messo capo ad accese forme di conflittualità sociale. Anche qui gli anni '70 costituiscono un crinale di svolta.

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6) Dai secondi anni '40 agli anni '70, la soggettività meridionale ha dato vita a cicli di conflittualità diffusa che sono, contestualmente, effetto e contraltare del disegno di ricomposizione sociale pilotato dallo Stato.

Le rivolte contadine, il banditismo, il separatismo, i movimenti di occupazione delle terre, i movimenti di lotta per il salario, per il lavoro e per la casa, i movimenti per le autoriduzioni, i movimenti femminili, le ribellioni urbane e la conflittualità tra municipalità nascono in questo cono d'ombra.

C'è un elemento che ha attribuito a tali cicli di conflittualità caratteri particolari e che merita di essere adeguatamente sottolineato.

Nel secondo dopoguerra, la polarità relazionale tradizione/modernità che si va irradiando al Sud si innesta su una "base sociale" che vede velocemente accumularsi le condizioni della transizione dal capitalismo primario della libera concorrenza al capitalismo sviluppato. Il che - come già mostrato vent'anni fa da G. Germani nelle sue analisi sulle classi sociali in America Latina - ammette un transito simbolico-culturale di primaria importanza: dal primato dell'etica della produzione si trascorre al primato dell'etica del consumo. L'etica produttivistica lascia il posto all'etica consumistica. Nel Sud, avviluppato dal meccanismo dello "sviluppo a mezzo dello Stato", rete ed etica dei consumi trovano garanzia nella tutela statuale. Giova ricordare che, nella situazione della contemporaneità, siffatta variabile recupera e rielabora sincretismi della cultura greco-romana, proliferati a lato e dopo la Magna Grecia, secondo i quali - come è largamente noto - il lavoro è sinonimo di schiavitù, situandosi la libertà politica e la creatività poietica nelle sfere del non-lavoro.

La conflittualità sociale meridionale si va dislocando su tale frattura, da cui è, in un certo senso, prodotta: suo obiettivo principale non è "più produzione", ma "più consumi"; meglio ancora: maggiore tutela sul fronte della redistribuzione dei beni. Sua controparte, allora, non è il sistema sociale delle imprese e nemmeno sono le gerarchie del sistema di fabbrica; bensì direttamente il nesso di comando Stato/mercato che governa, al Sud, l'assemblamento delle sfere della produzione con quelle del consumo.

Le stesse occupazioni delle terre dei secondi anni '40 e dei primi anni '50 si inscrivono in questa dinamica. E non è un caso che, con la riforma agraria del '57, esse approdano non a una "società contadina" organizzata su basi capitalistiche avanzate quanto ad un assorbimento della "campagna" nei meccanismi di stratificazione sociale e costruzione del consenso risultanti dalla triangolazione Stato/mercato/élites locali.

Le strutture di significato della conflittualità sociale meridionale non poggiano sul produttivismo; piuttosto, sono riconducibili a tensioni di tipo fortemente identitario e civico-politico. I cicli di conflittualità sociale degli anni '70 sono quelli maggiormente tipicizzati in questa direzionalità di senso.

Nell'oltrepassamento delle strettoie del produttivismo e del lavorismo sta la terribile modernità della conflittualità sociale meridionale. Qui, del pari, la sua estrema fragilità.

Etica del consumo, identitarismo e propensioni civico-politiche non si convertono in autodeterminazione sociale. Si situano, piuttosto, in un rapporto di sovraesposizione sia rispetto ai meccanismi di produzione della ricchezza (stretti nel nesso Stato/mercato) che nei confronti delle sfere della giustizia distributiva (governate dal nesso Stato/élites locali), da cui reclamano maggiori beni materiali e immateriali, senza mai attaccarne e modificarne l'architettura strutturale.

La destrutturazione delle strategie statuali, mercatistiche e clientelari non si prolunga mai in destrutturazione dei poteri statuali, mercatistici e clientelari, col risultato che la conflittualità sociale resta perennemente sospesa a mezz'aria. L'obiettivo specificamente mancato è la coniugazione del mutamento sociale e culturale sul terreno della coagulazione di nuovi diritti, istituzioni pubbliche non più invasive, forme di agire non più depotenziate ed evacuate dalla tutela consumistica assicurata dallo Stato.

L'ammutolimento della soggettività meridionale negli anni '80 e '90 nasce da questi limiti endogeni, intorno cui il venir meno delle condizioni esogene della garanzia statuale dei consumi costruisce terra bruciata. Ma lo zittimento della conflittualità sociale negli anni '80 e nei '90 non è esclusiva prerogativa del Sud, per quanto il silenzio meridionale abbia irriducibili motivi di origine e incommensurabili forme di espressione.

Il silenzio e la sconfitta dei movimenti è un tema che va sottoposto a ispezioni interne tanto diversificate e capillari quanto animate da una strategia cogente che restituisca senso e ragioni alle lotte e alle speranze di un'epoca, disvelandone, nel contempo, l'inadeguatezza e i limiti insormontabili. Di nuovo, partire dalla condizione di meridionalità vuole significare andare alla ricerca del proprio Sé, per aprire da qui il dialogo con l'Altro.

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7) Silenzio della soggettività, tracollo del ceto politico, inaridimento dell'habitat socio-economico sono i principali elementi di contesto del paesaggio meridionale negli anni '80 e '90.

In questa cornice, ben presto i paradigmi della soggettualità meridionale, dello sviluppo autocentrato etc. hanno palesato tutto il loro corto respiro. Se è vero che, a fronte dell'implementazione delle politiche meridionaliste dell'intervento straordinario, il Sud non può essere più assunto come "unità di sottosviluppo", appare fin troppo chiaro che i processi di "autopropulsività industriale" registrati, sul finire degli anni '70 e il principiare degli '80, in regioni come l'Abruzzo, il Molise, la Puglia e, in misura più circoscritta, la Campania mancano di tenuta strategica.

In particolare, sono drammaticamente sprovvisti proprio dei requisiti endogeni sui quali, su base capitalistica avanzata, può decollare un'ipotesi di "sviluppo autosostenuto": valgano esemplificativamente le carenze in tema di innovazione tecnologica, di ricerca e sviluppo, di formazione professionale, di servizi avanzati alle imprese, di accentramento/decentramento delle decisioni, di elasticizzazione funzionale del rapporto impresa/ mercato, di recezione della qualità differenziale della domanda di merci e beni, di integrazione attiva nelle economie della globalizzazione etc.

Negli anni '70 e '80, i poli di iniziative industriali endogene non presentano i requisiti dell'integrazione produttiva nel mercato nazionale e internazionale; non appaiono funzionalmente diversificati; non danno luogo ad economie di scala omogenee. Conseguentemente, non sono in grado di creare economie esterne che fungano da effetto e causa di trascinamento dell'insediamento di nuove imprese.

Per contro, l'insediamento operato dal capitale esterno non è agente di "fertilizzazione industriale", in quanto le strutture produttive realizzate non creano opportunità per nuovi sviluppi e nuovi investimenti. Più che rispondere alle esigenze e alle dinamiche socio-territoriali dei sistemi locali, i poli di insediamento esterno obbediscono alla razionalità strumentale di interessi esogeni.

E dunque: persino (o, forse, meglio: soprattutto) a livello di "sviluppo autopropulsivo" dobbiamo registrare la refrattarietà meridionale ai codici della modernità e della contemporaneità. Nel volgere di pochi anni, in perfetta coerenza, i processi di autopropulsività industriale del Sud entrano in dissolvenza.

Degli anni '70 resta da cogliere, nel Sud, la rottura materiale avvenuta dei princípi di unità e globalità su cui, negli anni '50, si esercita la teoria/prassi dell'intervento straordinario. Le stesse scienze sociali sono costrette a registrare la caduta di vigenza degli schemi ermeneutici dell'intervento straordinario: la presupposta invarianza della condizione meridionale viene disarticolata, per linee interne, dall'insorgenza di variabili locali estremamente differenziate. E tuttavia, la ricerca scientifica e politico-sociologica rimane avvinghiata ai miti e riti dell'industrialismo e del post-industrialismo, mettendosi alacremente a disegnare la mappa di un diverso (e improbabile) modello di sviluppo industriale per il Sud.

Pur regredendo dall'idea di Stato-piano (intorno cui nasce la Cassa) e dal principio di univocità e globalità (intorno cui si sviluppa l'intervento straordinario), classe politica e cultura dominanti non riescono a prendere commiato dalla razionalità economico-politica industriale che si intende, all'infinito, applicare all'habitat meridionale, nonostante il crollo del sistema delle partecipazioni statali, vera struttura portante del processo/progetto di industrializzazione del Sud.

Gli anni '80 e '90 si avvitano attorno alle speranze deluse e alle scorie degli anni '70.

Già all'inizio degli anni '70, si assiste alla paralisi della legislazione meridionalista, con cui si blocca l'intervento pubblico nel Sud, senza disporre e neanche intravvedere soluzioni alternative all'orizzonte. Nemmeno il ridisegno dell'intervento straordinario tentato con la legge 64 del 1986 supera questa impasse; anzi, la ratifica e cristallizza in via definitiva.

Il depotenziamento delle politiche meridionaliste degli anni '80 diparte da qui; da qui diparte la loro riduzione a mera redistribuzione di risorse, svincolata da ogni ipotesi di sviluppo industriale.

Prende qui forma una processualità socio-politica doppiamente caratterizzata: da un parte, si contrae vistosamente il volume dei trasferimenti finanziari verso il Sud; dall'altra, una massa decrescente di risorse viene canalizzata verso le aree sociali e geografiche che esibiscono il più elevato tasso di protezione politica. Quanto più si riduce il volume dei trasferimenti finanziari, tanto più si contrae l'area della protezione politica; tanto più entra in crisi il ceto politico meridionale che aveva costruito la sua identità e il suo potere quale mediatore e regolatore politico-sociale.

Gli anni '80 e '90 ereditano non solo l'enorme carico di problemi non risolti dei decenni precedenti, ma si trovano ad assistere impotentemente alla deflagrazione accelerata degli effetti disgregativi a loro collegati. Tutti i centri delle politiche meridionaliste e i loro molteplici attori entrano in uno stato di crisi comatosa che non tarda ad implodere, producendo una sorta di vuoto pneumatico agonizzante, senza vie di uscita.

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8)Negli anni '80 e '90, il dissolversi dello schema di ricomposizione/regolazione sociale in opera nel trentennio precedente rende possibile avvertire il carattere multidimensionale della crisi del Sud e delle politiche meridionaliste.

Vediamone, in sintesi, l'ordito complesso e intrecciato.

Con il venir meno dello Stato-piano (Stato come operatore macroeconomico), entra in crisi la forma di governo dello sviluppo. Con il tracollo del sistema delle partecipazioni statali, entra in crisi il ruolo dello Stato imprenditore (Stato come operatore microeconomico). Conseguentemente, i selettori e i centri decisionali dello sviluppo economico-politico non riescono più a fungere quali regolatori del mutamento sociale e degli stili di vita.

La crescita smisurata della domanda sociale impatta un vuoto di autorità e legittimità, tanto al centro quanto alla periferia. Il sistema fluidificatore Stato/mercato/élites locali come non riesce più a regolare e razionalizzare i meccanismi della redistribuzione, così non sembra capace di governare il mercato del lavoro e i circuiti della legalità; tantomeno appare in grado di offrire codici condivisi alle trame dell'agire socio-culturale e cogenti motivazioni ai soggetti collettivi e individuali. Ciò intenziona una proliferazione di conflitti afasici, tratto inquietante e terribile del Sud degli anni '80 e '90.

Incompiutezza, instabilità, pulviscolarità, precarietà, rattrappimento delle condotte di senso, immiserimento estremo dell'agire pubblico e dello spazio privato e disidratazione diffusiva delle identità divengono il contrassegno della soggettività meridionale e, per molti versi, costituiscono l'istantanea in movimento del Sud di oggi. Il surplus di mutamento che percorre il lungo ciclo che va dagli anni '50 ai '70, imploso nelle sue strutture di significato ed esploso nelle sue modalità di espressione, lascia libero il campo ad un annichilimento dell'humus sociale e ambientale e ad uno spossamento degli slanci vitali. Un quadro di sorda disperazione convive con brame di felicità assoluta, costantemente frustrate.

Ad agire non sono unicamente il "trauma della modernità" e lo "shock del futuro", ma anche il rifiuto istintivo, poco convinto e disarticolatamente praticato di consegnarsi all'abbraccio mortale della modernità e della contemporaneità. Non può essere, quindi, il post-industriale lo spazio perspicuo del Sud. Anzi, è il Sud che costringe a ripensare le categorie dello spazio/tempo.

Dalla "landa desolata" che è diventato oggi il Sud si levano voci, suoni e immagini di speranza. Le macerie messe spietatamente in mostra non nascondono più niente all'occhio e al cuore. Dove il dolore è estremo ed estremo l'urlo del silenzio, ridiventa possibile penetrare intensamente le fibre essenziali della vita; rielaborare le strutture dei tempi e degli spazi esistenziali e storici; cercare un altrove per la società, la storia, l'agire pubblico e la felicità privata. Cultura ed arte meridionali sono già oggi tra le poche cose vitali circolanti nell'avvilente panorama che ci circonda.

Il multiversum meridionale, mai come ora, si configura come una geografia dei desideri estirpati e negati, dei diritti promessi e mai concessi, delle occasioni mancate che, in sembianze nuove e non ancora ben chiare, tornano a ravvivare l'orizzonte. Apprezzarlo significa non ricercare ancore di salvataggio in macrosoggetti, depositari di prometeiche ipotesi di liberazione; e nemmeno in microfigure sociali diffuse, portatrici di strategie di libertà minima. Il multiversum meridionale è uno dei luoghi caldi della metamorfosi dei linguaggi della prassi politica, della comunicazione sociale, della dialogica umana e della creazione poietica. Ci invita, perciò, a scavare più in là degli orizzonti tracciati dai movimenti sociali degli anni '60 e '70.







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