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Il Presidente Ciampi scrive al Mattino
Un vecchio articolo di Zitara su Napoli

 

In alto, i collegamenti alla lettera di Ciampi al Mattino di Napoli e ad un vecchio articolo di Zitara. Vuol essere il nostro contributo al dibattito sulla "emergenza Napoli" (non la prima e neppure l'ultima, purtroppo) che in questi giorni ha scomodato fior di commentatori, opinionisti, politici, sociologi, economisti.

Un accostamento il nostro, politicamente 'blasfemo', tra il garante dell'unità nazionale qual è il nostro Presidente checchè se ne dica o si pensi ed un vecchio teorico delle due Italie qual è Nicola Zitara.

Il tema è Napoli, ex capitale del Regno delle due Sicilie, oggi città maledetta dove torna a risuonare non senza motivo il grido di Edoardo De Filippo: FUJETEVENNE!

Secondo noi, solo uno scatto di orgoglio dei Napoletani potrà creare quella tensione ideale necessaria per voltare pagina definitivamente. Questo avverrà solamente se si imboccheranno strade nuove sia in termini di rappresentanza, che di prospettive, il che non vuol dire obbligatoriamente andare in direzione delle due Italie come prospetta l'amico Zitara.

Di sicuro questa Italia andrebbe rifondata partendo, stavolta, da Sud magari anche attraverso una operazione-verità sulla formazione dello Stato Nazionale.

Utopia?

A noi, ogni tanto, piace sognare.

Il Presidente ha promesso di invitare a Napoli altri capi di stato? Bene. I Napoletani hanno bisogno di scelte di questo tipo, per risalire la china, non di retorica patriottarda.

Webm@ster

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Fonte:
Scritti di Zitara - 1997

Napoli, la nostra capitale*

© 1997 Nicola Zitara


Non porto il mantello a ruota, e - ahimè - non fo il notaio, ma tutte le volte che ho l'opportunità di passare un giorno o una settimana a Napoli, ne sono immensamente felice. Nei ricordi familiari, Napoli era la città per antonomasia, la capitale, se non più quella politica, certamente la capitale culturale e commerciale.

Il luogo del lavoro, del divertimento, dell'apprendimento. L'avo e il nonno vi avevano avuto la sede centrale dei loro affari a partire dai tempi forse felici di Francesco I, fino a quelli sicuramente amari di Umberto I.

Una generazione dopo l'altra, i maschi della famiglia vi hanno studiato: chi medicina, chi ingegneria. Una generazione dopo l'altra, qualche volta, si sono seduti al Gambrinus, sono andati a San Carlo, hanno passeggiato per via Caracciolo, si sono riforniti di novità librarie da Fiorentini o da Pironti, hanno comprato da Caflish una pastiera o una guantiera di sfogliatelle da portare a casa, in provincia, per la festa dei figlioletti o dei nipotini.

Nonostante l'espropriazione garibaldina, cavouriana, sabauda, depretisiana, giolittiana, mussoliniana, Napoli conservata, più che il profumo di un capitale, la vitalità: il monopolio dell'industria pastaia, dell'industria conserviera, della grande canzone, del caffè chantant, del sole, del mare, l'identità gioiosa della vera italianità, la solida architrave dell'ultima porta di casa prima di lasciare in nave l'Italia, il primo colore della terra nativa, per chi rimpatriava. Poi Napoli è morta. Gli umori che fluivano verso di lei spontaneamente, vennero dirottati. Era scritto, doveva morire, perché le capitali, o sono capitali o muoiono.

Parigi e Londra sono rimaste capitali, il livore sabaudo, la meschinità piemontese, la fame padana di prede l'hanno fatta scalare al livello di Cuneo. La prima metropoli del mondo moderno è stata degradata a metropoli del sottosviluppo. E Napoli ha pagato senza chiedere il resto, l'errore commesso ottocento anni prima, rifiutando Manfredi, mozzando la testa a Corradino, aderendo alla politica del papato romano.

Poi le scadenze sono sopravvenute a catena. Ha pagato a Roma, ha pagato a Milano, e anche a Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze e persino a Modena, i debiti che aveva già estinto. E dopo aver pagato, è ancora in debito. D'altra parte, neppure per un momento ha voluto dichiarare bancarotta. Ha preferito rateizzare il debito all'infinito, fino al giorno del giudizio. Fingere, idealizzando il proprio suicidio con il balordo ausilio di don Benedetto, ridendoci sconsolatamente sopra con Scarpetta, illudendosi di universalizzare l'umana sconfitta con Eduardo, finalmente scompisciarsi con Totò....se fumarono a Zazà... Dove sta Zazà, compagna mia...

È morta filosofando, cantando, ridendo, piangendo dietro il battente socchiuso del portone di casa. E canta ancora, da morta. Canta il museo bassolinesco, anzi il presepe pidiessino, popolato da quattro milioni di pastori venuti da antichi secoli, con i loro stracci ridipinti a nuovo e le loro voragini.
Noi eravamo. Siamo stati. Fummo.

Le mie figlie non hanno voluto studiare a Napoli. La conoscono appena. La vita è altrove, anche se la pizza è napoletana, e anche se la pizza ha unificato il mondo. Americani, giapponesi, tedeschi, milanesi siedono a mangiare moderne pizze in moderne pizzerie. E bevono Coca Cola. Il più mondiale dei trust monopolistici si è allenato con il minuscolo artigiano del vicolo. Ce la farà Mac Donald's a metterlo in soffitta?

Ce la farà. Renzo Arbore, la canzone, la pizza; San Martino illuminato a giorno, che chiude l'orizzonte serale; il Maschio Angioino, i tronfi re di pietra sulla facciata del Palazzo Reale, la targa marmorea sul muro cadente della casa del filosofo.

Per una volta nella ancora nella vita, vago per questa San Gregorio Armeno dilatata da Bagnoli a Pozzuoli, in cerca di un popolo. Ma è chiaro che questi vecchi pastori rimpannucciati, mangiando solo pizza, di cui non macinano la farina, piglieranno lo scorbuto. Anzi, già ce l'hanno.

O Napoli torna capitale, o muore.

 

Nicola Zitara


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Il golfo di Napoli
NO WAR!**
 
* Il testo è di NICOLA ZITARA, il titolo è nostro [Webm@ster].
** L'immagine ci è stata gentilmente fornita da brigantino:
https://www.brigantino.org/

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"Signore, perdonate! Questa è la mia patria"

Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), Viaggio in Italia, 1787.

«Arrivammo ad una sommità e ci mostrò la più larga distesa del mondo.
Napoli, in tutto il suo splendore: le case allineate per più di un chilometro lungo la spiaggia,
promontori, lingue di terra e pareti di roccia; poi le isole, e dietro tutto questo il mare;
era una vista meravigliosa. «Un canto orribile, o piuttosto un esultante grido di gioia del ragazzo
che ci seguiva, ci spaventò e disturbò. Piuttosto arrabbiato, lo richiamai: non aveva mai ricevuto
un rimprovero da noi, era sempre stato un buonissimo ragazzo. «Per un po'non si mosse;
poi mi batté leggermente sulla spalla, e spingendo tra noi due il braccio destro,
coll’indice teso, esclamò: "Signore, perdonate! Questa è la mia patria"».



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