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Webm@ster - 16 Novembre 2006

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Fonte:
https://www.lostraniero.net/ - Numero 73 - luglio 2006

“Gomorra” o la verità della parola        

di Costantino Cossu

Il porto. Sta dentro la città, non è città. Luogo separato. Separatezza che pulsa come un cuore. Lì più che altrove si comprende. Da lì bisogna cominciare. Dal porto di Napoli si apre il racconto, come se si sbarcasse in una terra che si vede per la prima volta. Solo così lo sguardo può diventare parola, narrazione. “Gomorra” di Roberto Saviano (Mondadori) solo incidentalmente parla di camorra. La delinquenza organizzata è una figura dell’atroce ansia di dominio che anima un mondo ben più vasto, nello spazio e nel tempo, di Scampia e di Secondigliano.

Nel porto entrano le merci: “Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli”. “Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura”. Senza quelle mura fatte di merci la città semplicemente non esisterebbe. Racconta, Saviano, di come le merci entrano nel porto. 

In silenzio e velocemente. Tutto deve avvenire nel minore tempo possibile e lasciando meno tracce possibile. Migliaia di container scaricati sulle banchine, camion che escono dopo controlli veloci. La registrazione alla dogana non dice quasi nulla di ciò che effettivamente accade. L’ordine si fonda sull’omissione. Il dominio si regge sul silenzio. Questo s’impara nel reticolo senza forma del porto. 

Le merci impongono il loro ordine, ma lo fanno discretamente, senza clamore, in fretta. Un ordine non gridato, semmai sussurrato. Come le voci dei commercianti cinesi. Uomini fantasma, gente che non devi vedere, presenze che non devi notare. Portare alla luce significa mettere tutto in pericolo, c’è il rischio che le regole saltino.  “Euro, dollaro, yuan. Ecco la mia triade”. 

Triade  come malavita organizzata? Xian Zhu, l’imprenditore cinese di Saviano, dice che il gioco è più largo, che l’orizzonte di senso dentro il quale stanno i boss che sparano e  che uccidono è più vasto. “Nessuna ideologia, nessuna sorta di simbolo e di passione gerarchica. Profitto, business, capitale. 

Null’altro. Si tende a considerare oscuro il potere che determina certe dinamiche e allora lo si ascrive a un’entità oscura: mafia cinese. Una sintesi che tende a scacciare tutti i termini intermedi, tutti i passaggi finanziari, tutte le qualità d’investimento, tutto ciò che fa la forza di un gruppo economico criminale”.

“Gomorra” dentro tutti i passaggi intermedi, invece, entra, con l’esattezza di un reportage giornalistico che cita nomi, spiega logiche, descrive mappe di alleanze, ragiona sulle cause di conflitto tra bande concorrenti. Nessuno meglio di Saviano ha fatto sinora questo lavoro. Per avere informazioni altrettanto dettagliate l’unico modo possibile è andarsi a leggere gli atti delle inchieste della magistratura napoletana sugli ultimi vent’anni di camorra. 

Si scoprono, leggendo “Gomorra”, i nessi che legano l’economia legale con quella illegale, si vede l’ intreccio che tiene insieme l’economia assistita di tanta parte del Sud d’Italia con la produzione di reddito garantita dalle attività illegali, si tocca con un’ evidenza estrema la continuità tra un sistema di valori tradizionali, contaminato e corrotto dal contagio televisivo e mass mediatico, e il codice di significati che muove l’azione degli affiliati alle organizzazioni malavitose. 

Lavoro prezioso, nel quale però non si esaurisce affatto il libro di Saviano. “Gomorra” ha altri due livelli di lettura, che ne fanno qualcosa in più, differente da un reportage sulla camorra e sul suo impero economico.

Al primo dei due livelli abbiamo già accennato. Il libro di Saviano dice di una genealogia: “Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli”. Passa, dal lembo di terra che separa l’indefinito del mare dalla struttura della città, non la spiegazione di cos’è la camorra (non solo), ma la spiegazione di cos’è l’universo di senso dentro il quale sta la camorra. Lo slittamento spaziale e temporale, rispetto a Napoli e alle sue periferie, è evidente. “Davanti agli dèi si afferma soltanto chi si sottomette senza residui. 

L’emergere del soggetto è pagato con il riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti. Di fronte all’unità di questa ragione la divisione tra dio e umano appare davvero irrilevante. Come signori della natura, dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. 

La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando”. Ci si scuserà questa lunga citazione dalla “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, ma essa ci è venuta alla mente appena abbiamo aperto “Gomorra”, appena abbiamo letto le parole di Hannah Arendt messe in epigrafe: “Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza”.  

Comprendere cosa significa l’atroce significa andare ben oltre Napoli e i suoi boss. Saviano è stato capace di farlo. Partendo da uno sguardo in qualche modo originario, uno sguardo che fissa il mostro e ne coglie la verità. Il mostro non è la camorra. è una cultura che, dalle mitologie omeriche sino al razionalismo e allo scientismo, fonda sulla separazione dell’umano dal resto del reale l’inveramento, nella concreta prassi storica, di rapporti diseguali tra gli individui e tra genere umano e natura. Qui sta la radice dell’atroce, una radice culturale che ha alimentato di sé un intero percorso di “civilizzazione”. 

Le maschere di Ciruzzo ’o milionario, di ’O scellone, di Punt’e curtiello nascondono, e insieme svelano, un universo di codici comune, la norma di tutte le norme, il “riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti”. Le maschere della tragedia napoletana non sono diverse dall’atroce shakespeariano, Carmine Alfieri ’O ’ntufato è parente strettissimo di Re Lear. Ecco perché, chiudendo il libro di Saviano, si ha la percezione di essere andati molto aldilà di un semplice percorso di conoscenza dei termini sociologici del fenomeno camorra. 

“Gomorra” disegna uno scenario tragico, ha della tragedia la potenza esplicativa totale. Una schiera foltissima di personaggi viene adunata da Saviano sul palcoscenico della rappresentazione. I capi e le capesse dei clan, i gregari, i pentiti, la gente dei vicoli del ventre molle di Napoli, i giovani. 

Due parole bisognerà spenderle per i ragazzi di Napoli, sin dalla nascita gettati dentro – tanti almeno di loro – a un mondo che non prevede vie di fuga. L’“emergere del soggetto”, l’individuo astratto principio e termine di ogni cosa, si traduce, nelle loro vite, in un vuoto pressoché assoluto di socialità. Ogni rapporto, d’amicizia, d’amore, diventa funzionale all’affermazione di un sé che si misura solamente in termini di dominio, il possesso funzionale al dominio. 

Il fatto che tutto questo prenda le forme di una sottocultura criminale è del tutto secondario. è contenuto. Ciò di cui “Gomorra” ci parla è il contenitore. Il grande atroce modello storico di una ragione senza più corpi, senza più natura.

Un altro testo che ha cominciato a suonarci nelle orecchie non appena iniziata la lettura di “Gomorra” è “Il mare non bagna Napoli”. Quant’è costato a Anna Maria Ortese aver detto che Napoli era figura di un orrore ben più grande dei confini della città, oggi lo sappiamo. Lei diceva quand’era difficile capire. Lo sguardo della Ortese è simile a quello di Saviano. Uno sguardo che non giudica niente di ciò che guarda, e però insieme giudica tutto. Giudica andando oltre. Oltre Napoli, oltre le convulsioni di una civiltà nella sua fase estrema. 

Giudica intera una civiltà. E se ci è concesso di proseguire nel gioco dei rimandi, ad altri due indagatori di tracce profonde ci ha richiamato “Gomorra”: Ottiero Ottieri e Paolo Volponi. “Donnarumma all’assalto”, “L’irrealtà quotidiana”, “Corporale” e “Le mosche del capitale” sono testi che raccontano l’oggi svelando dentro il presente la persistenza dell’onda lunga di una cultura, di un codice, che comincia ben prima dello stesso pensiero borghese, per tornare a Horkheimer. Testi che dicono, come quello di Saviano, di una genealogia.

“Gomorra”, quindi, giudica. Vorremmo sottolinearlo questo verbo, giudicare. Scrivere come in un giudizio. Sta qui il terzo livello di lettura del testo di Saviano. Citiamo: “Io ho le prove. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano… Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola, che ancora può valere quando sussurra ‘è falso’ all’orecchio di chi ascolta le cantilene in rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità”. 

Siamo assediati da narratori convinti che il mondo ormai coincide con un immaginario mediatico privo di senso, privo di ogni rintracciabile verità. è una letteratura della fuga, che si nasconde dietro il paravento dell’irrealtà per alzare bandiera bianca. Cresce una generazione di scrittori arresi. Scrittori che hanno smesso di giudicare perché uno stuolo di pessimi maestri ha insegnato loro che avere un punto di vista  sulla realtà storica è sommamente disdicevole, che non si può fare letteratura se si ha la pretesa di giudicare.  

Quell’“io so e ho le prove” che evoca Pasolini è detto da un giovane scrittore non arreso che pur nella sua fragilità crede nella “verità della parola”. Dove “verità della parola” non sta solo per possibilità di seguire il tracciato dato da un ordine del discorso unico e pervasivo, come in chi scrive secondo quanto editor comandano. 

“Verità della parola” sta nella possibilità di interrogare il reale in nome di qualcosa che al reale non si ferma, lo eccede, lo nega. Saviano sta dentro un filone che della letteratura fa il campo della nostalgia del totalmente altro. L’unica letteratura che non si sia venduta e che con la verità –  questa parola scivolosa che fa paura  agli arresi – conservi ancora un rapporto.












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