Dai quartieri più degradati alle “zone bene” della città: un viaggio nelle contraddizioni di Napoli, tra la miseria causata dalla Camorra, l’indifferenza e la voglia di normalità.
Quando parte da piazza del Plebiscito, via Toledo è
un’elegante strada napoletana, illuminata dalle luci
natalizie,
affollata da gente carica di pacchetti che ha l’aria di chi
è a caccia di regali. Sui motorini i ragazzi hanno quasi
tutti
il casco in testa. Ma, d’altro canto, la zona è
presidiata
da polizia e carabinieri, che proprio su questa strada hanno il loro
comando provinciale.
Via Toledo sale per diversi chilometri verso nord e, dopo aver cambiato
il nome due volte e, gradatamente, anche l’aspetto
– sempre
meno ordinato e più popolare –, conduce fino al
Parco di
Capodimonte. Da lì una serie di scalinate si arrampica sulla
collina. C’è poi un sottopassaggio, che fora la
terra
così come i mucchi di siringhe lì disseminate
hanno
forato le vene di chissà quanti ragazzi. Questo è
un
luogo ideale “per farsi”. È buio,
riparato dalla
pioggia che, in giornate come questa, rendono Napoli simile a Milano.
È lontano dai presidi degli agenti di polizia,
giù, in
basso, nel centro città. Chi passa di qui non fa caso a chi
si
buca. Non fa caso a niente. Si fa i fatti suoi, nel rispetto di un
detto che il popolo partenopeo attribuisce al suo idolo,
Totò:
«Mio nonno campaie 100 anni perché si faceva i
c…
suoi».
Un cancro da estirpare. Quando arriviamo in Viale dei Colli Aminei,
dove dobbiamo incontrare don Tonino Palmese, prete in prima linea nella
lotta alla Camorra, la pioggia si fa più intensa. La cima
del
Vesuvio si imbianca di neve e, più a sud, il fiume Sarno si
ingrossa, pronto ad esondare.
«Volete sapere cos’è Napoli? Napoli non
è
una, è tante. Non è solo quell’icona
della miseria
che viene descritta dai giornali», comincia a spiegarci
subito
don Tonino. «Per farsi un’idea di quanto sia ricca,
abitata
da persone benestanti, basta guardarla dal mare di notte. Tutto quello
che si vede illuminato, da capo Posillipo fino a Margellina e al rione
Chiaia, è tutta ricchezza. Ci sono bellissime ville sul
mare,
case lussuose che affacciano i loro terrazzi su uno dei golfi
più belli del mondo. Ogni lampadina che illumina il cielo di
notte significa parecchi miliardi di vecchie lire.
C’è poi
la Napoli della media e bassa borghesia, a Capodimonte e Colli Aminei.
Ci sono la Napoli del Vomero e dell’Arenella, della media
borghesia composta da professionisti e da magistrati, la piccola
borghesia di insegnanti di Furigrotta, c’è
Bagnoli, a
tradizione operaia, che ora, dopo la chiusura dell’Italsider
e la
realizzazione della Città della Scienza è
destinata alla
riqualificazione».
«Napoli soffre di grandi contraddizioni e di una grave
patologia
chiamata Camorra», prosegue don Tonino. «Ma la
realtà, anche dei quartieri più degradati,
è molto
complessa. Persino Secondigliano e Scampia, che vivono in questo
periodo un grande disagio, sono per la maggior parte abitati da persone
oneste che si oppongono, come possono, alla logica dei clan. Di loro,
dei loro sforzi per contrastare la Camorra, si parla troppo poco. E
così anche molti napoletani finiscono per credere che quelli
siano quartieri persi, off limits, abitati soltanto da camorristi. La
gente vuole credere che basti tenersi lontano da Scampia, Secondigliano
e dagli altri bronx della città per essere al sicuro. Poi
capitano gli omicidi degli innocenti, come quello di Silvia Ruotolo
(vedi box a fianco, ndr.), di una mamma che teneva per mano il suo
figlioletto di cinque anni, o di Annalisa Durante, freddata a
quattordici anni a Forcella mentre chiacchierava con le cugine sotto
casa. E solo allora molti scoprono la vera faccia della Camorra.
È cinico dirlo, ma servono delitti come quelli per svegliare
le
coscienze della gente e spingere la società civile a
ribellarsi:
la Camorra non uccide gli innocenti “per sbaglio”,
semplicemente non si cura della vita di nessuno. Forse fino agli anni
Cinquanta e Sessanta, la Camorra poteva essere ritenuta, almeno
nell’immaginario popolare, un’organizzazione che
proteggeva
i diritti dei poveri e si sostituiva allo Stato nel rendere giustizia
alla gente, anche nelle piccole diatribe di vicinato. Ma questa Camorra
soffoca Napoli, e di questo si stanno rendendo conto i napoletani, che
prendono sempre più coscienza di una verità: la
Camorra
è un cancro che va estirpato. Questa convinzione va
sostenuta
fino in fondo da parte delle istituzioni. Napoli deve convincersi di
potercela fare, non solo con le forze dell’ordine, ma con la
diffusione della cultura della legalità come cibo quotidiano
di
cui nutrirsi».
Normalità, evento eccezionale. La cultura della
legalità
come pane quotidiano, insieme alla pizza, alla sfogliatella e alla
mozzarella di bufala. Un boccone di educazione alla legalità
a
scuola, uno in un ufficio, un altro in televisione e, come un
caffè alla fine di un pranzo – che nessun
napoletano si
farebbe mai mancare –, sul quotidiano che entra in casa,
anche se
è soltanto quello sportivo, ma che racconti di uno sport
pulito,
con partite non truccate e atleti che non si dopano.
«La stampa e la televisione potrebbero davvero fare qualcosa
di
buono. Ma io non ne ho una buona opinione», dice don Tonino.
«Sia nella critica che nell’elogio, i media hanno
sempre un
approccio sbagliato, condizionato da un elemento deviante: la
demagogia, la ricerca di sensazionalismo. Mi ricordo quando nel 1994 la
città si risanava per il G7 con gli interventi attuati da
Antonio Bassolino, allora sindaco. Si parlò del
“Rinascimento” di Napoli, si magnificarono la
pulizia di
alcuni quartieri e di alcune spiagge. Ma, intanto, da altre parti il
degrado avanzava nell’indifferenza dei media troppo occupati
a
presentare una Napoli all’avanguardia, lanciata verso il
futuro.
La realtà era un’altra: in alcune zone si stava
semplicemente tornando alla “normalità”.
La
normalità della vita in un quartiere degradato rappresenta
un
grosso traguardo che sicuramente va elogiato. Ma, forse, bisognava
ricordare che raccogliere l’immondizia dalle strade,
pattugliare
un quartiere a rischio, rendere più vivibile una piazza
sgombrandola da centinaia di auto parcheggiate senza ordine alcuno
significa soltanto passare dalla sub-normalità alla
normalità, significa ridare ai cittadini il loro diritto di
vivere un quartiere, una città come semplicemente succede
altrove, a Milano, a Venezia o a Roma. Quando si ripristina la
vivibilità, non si può e non si deve parlare di
miracolo,
di un evento straordinario. La legalità non deve mai
apparire
come un fatto eccezionale».
La voglia di normalità è un sentimento diffuso a
Napoli.
Ce ne parleranno più o meno tutte le persone che
incontreremo: i
familiari delle vittime di Camorra o della delinquenza comune, i
cittadini dei quartieri a rischio, i commercianti, i ragazzi che
vogliono fare musica, divertirsi e stare con gli amici senza
preoccuparsi di capitare nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Grazie di avermi solo rapinato». «La
stampa commette
per contro un errore anche quando enfatizza le negatività di
Napoli», rincara la dose don Tonino. «Si parla del
disagio
di questa città solo nei termini dei crimini di Camorra,
solo
quando si sparge del sangue, forse perché i morti fanno
titolo.
Uno scippo, il furto di un motorino, il pizzo che un commerciante deve
pagare non fanno notizia, ma nella nostra città sono
all’ordine del giorno. Questa è la mostruosa
“normalità” che meriterebbe titoloni sui
giornali.
Sono soprattutto i piccoli soprusi quotidiani che, impensabili altrove,
qui capitano quasi a tutti, consegnando il controllo del territorio
alla criminalità organizzata».
Nel servirci una sua specialità, un pizzaiolo del rione
Sanità ci ha raccontato con il sorriso sulle labbra quello
che
gli era successo poche ore prima: un rapinatore gli aveva ordinato di
consegnargli l’orologio minacciandolo con un coltello. Lui se
l’è sfilato, poi, quando l’altro se ne
stava
andando, si è sentito di ringraziarlo per non avergli fatto
del
male. «Certo che non l’ho denunciato. Tanto a che
serve?
L’orologio non me lo ritrova nessuno, io sto bene ed ho una
storia da raccontare ai miei clienti».
Razzismo e demagogia a nozze. Mentre riflettiamo su questo aneddoto
della realtà napoletana, don Tonino prosegue con la sua
denuncia. Senza peli sulla lingua.
«A costo di essere attaccato da tutte le parti politiche io
sostengo con forza questa mia convinzione: a Napoli, come in tante
parti del Sud del mondo, i razzismi di destra e le demagogie di
sinistra si sposano perfettamente. I quartieri ghetto, Scampia, il
Bronx di San Giovanni a Teduccio, i quartieri dei
“deportati” (Pomigliano d’Arco e
l’area
vesuviana) sono stati il frutto del compromesso tra destra e sinistra.
A destra andava bene ghettizzare la gente più emarginata; a
sinistra andava bene creare progetti urbanistici utopici come le Vele,
che inseguivano il sogno impossibile, studiato a tavolino, di creare
edifici-comunità dove la gente si sarebbe incontrata in un
progetto di vita comune e solidale. Hanno invece creato dei lager
dell’illegalità, ad uso e consumo dei clan
camorristici.
Le Vele di Scampia, senza mezzi termini, andavano abbattute. Ieri, non
domani. Storicamente la classe dirigente napoletana e i suoi uomini di
cultura hanno sempre fatto “la rivoluzione” stando
nei
salotti. Ora gli intellettuali a Napoli tacciono, si tirano fuori,
forse consapevoli degli errori da loro commessi guardando i problemi
dall’alto dei loro quartieri bene, senza mai volersi davvero
sporcare le mani per capire, prima di mitizzare, una realtà
che
non conoscevano da vicino. Perché non
c’è nulla di
folkloristico nel trovare sul pianerottolo di casa un check point della
Camorra che controlla chi entra e chi esce o nel crescere i propri
figli nel degrado tra siringhe e rifiuti e topi. Napoli come
Calcutta».
L’allegra miseria. Il “pacco”,
l’arte di
arrangiarsi e di gabbare con furbizia lo Stato, gli abusivismi edilizi,
il contrabbando di sigarette, l’immondizia per le strade, il
caos
del traffico, l’infrazione di qualsiasi norma del vivere
civile
nel nome della creatività partenopea sono stati spesso il
biglietto da visita con il quale artisti e intellettuali napoletani
hanno presentato con compiacimento la loro città. Come se
quelle
“simpatiche mascalzonate” fossero qualcosa di cui
vantarsi,
qualcosa che in fondo la rendeva speciale,
“l’ultima
metropoli plebea”, come la definì Pasolini, che di
Napoli
amava l’allegra miseria.
Nei salotti bene c’è forse sempre stata la
convinzione che
la Camorra non li riguardasse, che fosse un affare tra clan e che dai
loro business si potesse persino trarre qualche beneficio, come
comprare sigarette di contrabbando o borse di Luis Vuitton o Gucci
contraffatte. Nei quartieri borghesi partenopei, in fondo,
c’era
lo stessa considerazione della Camorra che poteva avere chi vive nel
nord d’Italia e si sente al sicuro: delitti e morte, soprusi
e
intimidazioni, sono qualcosa che non li riguardano.
C’è
voluto un omicidio in un quartiere bene, ritenuto da sempre estraneo
alla violenza dei clan, per “svegliare” la
borghesia
napoletana, per farle capire che non era così.
Uccisa per sbaglio. Era l’undici giugno 1997. Silvia Ruotolo
era
appena uscita da casa, sulla salita Arenella, nei pressi del Vomero,
per accompagnare a scuola il figlio Francesco, di cinque anni.
Alessandra, la sua bimba di dieci anni, la guardava dal balcone
allontanarsi con il fratellino per mano, come ogni mattina. Sembrava
tutto tranquillo, tutto normale. A Napoli, però, come dice
don
Tonino Palmese, la normalità è una conquista e
non un
diritto. E così in un momento scoppiò
l’inferno.
Qualcuno sparò all’impazzata.
L’obiettivo era il
boss Luigi Cimmino. Quaranta proiettili volarono dappertutto, ferendo
un ragazzo e uccidendo sul colpo Silvia: una madre modello, di un
“quartiere bene”, cadeva vittima di una guerra di
Camorra.
Vicino a lei giaceva senza vita anche il boss Luigi Cimmino.
«Quel giorno mi sentivo nervoso e non riuscivo a capire
perché» racconta Lorenzo Clemente, marito di
Silvia.
«Poi ho ricevuto una telefonata da un’amica che
abitava nel
nostro palazzo. Mi ha detto, concitata, di tornare a casa, senza
spiegarmi nulla. Non riuscivo nemmeno a immaginare che una cosa del
genere potesse essere accaduta alla mia famiglia. Fino a quel momento
le storie di Camorra erano lontane dalla mia vita e dai miei pensieri,
come se appartenessero ad un altro mondo. Questo genere di cose non
sembra riguardarci finché non ci tocca da vicino. Correndo
verso
casa pensavo ad un incidente domestico, a qualcuno che si fosse sentito
male. Questo era tutto il male che potevo immaginare ci fosse
riservato. Appena arrivato alla salita Arenella, mi sono reso
conto che era successo qualcosa di tremendo. C’era tanta
polizia.
Ho sentito dire che c’erano due deceduti. Ho visto lo
zainetto di
Francesco per terra e mi sono sentito morire. Da allora, da sette anni,
mi chiedo: “Perché è
successo?”. E ancora non
ho trovato una risposta».
Basta parlare qualche minuto con Lorenzo per capire quanto sia grande e
perbene l’anima sana di Napoli. Lorenzo ha gli occhi che
luccicano ancora quando parla di quella mattina che ha rubato la vita a
Silvia. A volte incespica con le parole nello sforzo continuo di non
farsi vincere dall’emozione. Vuole farci capire quello che
gli
hanno portato via per “sbaglio”, per niente. Vuole
farci
capire, senza equivoci, il motivo della sua rabbia. Che non
è
l’odio né la voglia di vendetta per chi ha ucciso
una
parte importante della sua vita.
Fa più paura la vittima dell’assassino.
«È
stato stroncato un progetto di vita. Silvia era la mia compagna,
così diversa da me. Per questo mi manca tanto non poterle
chiedere su ogni argomento: “Tu cosa ne pensi?”.
Non riesco
mai ad immaginarmi cosa mi risponderebbe lei, per me sempre
così
imprevedibile. Solo Francesco e Ale mi danno la forza di andare avanti,
quando mi prendono le mani e cercano di non farmi sentire solo. In casa
nostra da quando è morta Silvia non è
più entrata
la parola “mamma”. Nessuno la pronuncia
più. Ognuno
di noi ha forse troppa paura delle emozioni che potrebbe scatenare
negli altri. In presenza dei miei figli chiamo perfino mia madre
“nonna”, per non far sentire loro che io ho
qualcosa in
più, qualcuno che alla loro età sarebbe
giusto
avere. Ho tanta rabbia ancora. Rabbia perché i fatti di
sangue
continuano a ripetersi. Proprio in questi giorni mi sono riletto gli
articoli su Silvia. Sono la fotocopia di quelli che si scrivono adesso.
Allora arrivarono a Napoli 400 agenti di rinforzo come soluzione a
tutti i mali di Napoli. Ora, in seguito ad altro sangue per le strade
di Napoli, di agenti ne hanno mandati 350. Fra poco tutto
tornerà come prima».
«Gli assassini di Silvia sono stati tutti presi e
condannati», prosegue Lorenzo. «La stampa ha
seguito con
particolare attenzione il processo e, quando qualcosa di strano stava
per succedere, c’era sempre qualche giornalista che se ne
occupava. Così dovrebbero lavorare i media: seguendo sempre
le
vicende fino alla loro conclusione, per non lasciare mai sole le
vittime e chi ricerca con loro la giustizia. Purtroppo capita di rado.
L’omicidio di mia moglie è stato
un’eccezione, un
caso di serie A. Ai tempi del processo, Sandro Ruotolo, cugino di mia
moglie, era inviato di “Samarcanda”. Si
è ovviamente
dato molto da fare per seguire personalmente il caso di Silvia, ma
anche molti colleghi gli hanno dato una mano a tenere viva
l’attenzione sul nostro caso. Tutti hanno dato il
massimo,
anche gli avvocati difensori dei sicari di mia moglie, che si sono
comportati in modo ineccepibile facendo il meglio possibile per i loro
clienti, ma rispettando anche me e la mia famiglia. Per questo
trattamento particolare da parte della stampa ho ricevuto numerose
telefonate di minaccia: “Basta, o ti daremo un altro motivo
per
uscire di nuovo sui giornali! Falla finita con tutto questo parlare ai
giornalisti”. Hanno dovuto mettermi la scorta sotto casa, 24
ore
al giorno. La gente del mio palazzo sembrava non gradire la
loro
presenza. “Ingegne’, ma stammo
tranquille?”. Mi
chiedevano se potevano stare tranquilli. Ecco quello di cui si
preoccupava la gente: di non essere coinvolta nei nostri guai. Io la
capisco. È la paura che a volte rende crudeli. Ma
è
pazzesco pensare che per molti il pericolo fosse rappresentato da me e
dai miei figli e non da quelli che ci avevano fatto e ancora potevano
farci del male. Quando c’è stata la sentenza, ho
pianto.
Un giornalista mi ha chiesto: “È
soddisfatto?”. Di
che cosa dovevo esserlo? Di aver constatato una
realtà del
genere? Il ragazzo che sparò a Silvia aveva 27 anni. Era
già entrato e uscito dal carcere diverse volte. A lui
c’era chi metteva una pistola in mano e diceva:
“Vai e
uccidi”, con la stessa facilità con cui io posso
dire a
mio figlio: “Vammi a prendere un bicchier
d’acqua”.
Per lui era la normalità andare a colpire uno del clan
avversario. Non si è nemmeno reso conto del crimine che ha
commesso. Nessuno di quelli riconosciuti colpevoli e condannati
all’ergastolo ha la più pallida idea di quello che
ha
fatto. È per questo che ho pianto ascoltando la sentenza.
Durante il processo mi sono reso conto della realtà
drammatica
in cui viviamo qui a Napoli. Noi vittime e anche quelli che sparano e
le loro famiglie. È l’ignoranza che arma la mano
degli
assassini».
Sembra di sentire le parole di Cristo sulla croce:
«Perdonali,
Padre, perché non sanno quello che fanno».
È una
croce pesante quella che a Napoli porta sulle spalle, ogni giorno,
tanta gente onesta, come Lorenzo.
Gli uomini (e le donne) di
Camorra non sono i nababbi che ci si
potrebbe immaginare: vivono tra oggetti di lusso ma in case fatiscenti,
braccati da nemici e forze dell’ordine, prigionieri nei
propri
rioni. La loro invulnerabilità è fatta solo di
paura e
omertà.
Stiamo parlando con l’agente alla reception del Comando
provinciale dei carabinieri quando un gruppetto di donne ci viene
incontro. È da quando siamo arrivati che parlano a voce alta
con
il carabiniere, ma non siamo riusciti ancora a capire il motivo per cui
si trovino lì. Entrano ed escono dalla stanzetta
d’attesa,
come fossero a casa propria. Per questo, in un primo momento, pensiamo
che siano delle impiegate del posto. Il carabiniere le invita poi a
sedersi, in silenzio. Allora, forse, sono lì per una
denuncia.
«Siete giornalisti? Voi venite sempre qui a Napoli per
parlare
delle cose brutte. Le cose positive proprio non le volete
vedere!» si sfoga una di loro rivolgendosi a noi con tono di
sfida. Potrebbero essere di qualche associazione di volontariato.
Potrebbero essere lì per raccogliere fondi per qualche opera
buona. «Se è successo qualcosa di buono,
perché non
ce lo raccontate?» chiediamo ingenuamente. Ci basta poco per
capire che cose belle da raccontare quelle donne non ne hanno.
«Mio marito è stato arrestato questa notte.
L’ho
saputo dalla televisione. Nessuno ci dice dove lo hanno portato.
Nell’arresto gli hanno spaccato una spalla. E lui
è
malato. Ha bisogno delle medicine per il rigetto, perché
è un trapiantato di fegato».
Nell’imbarazzo dell’agente di turno, le donne ci
fanno
accomodare nel salottino d’attesa del commissariato.
«Dovete raccontare dell’ingiustizia che stiamo
subendo.
Nessuno ci vuol dire dov’è mio marito.
L’abbiamo
chiesto alla polizia e ci hanno mandato qui, dai carabinieri. Ora ci
vogliono mandare di nuovo dalla polizia. E intanto mio marito rischia
di morire. Nessuno si preoccupa di fargli avere le medicine salva-vita
di cui ha immediatamente bisogno».
Fine della vacanza. Basta il nome dell’arrestato per capire
che
il marito della donna non è vittima di
un’ingiustizia o di
un errore giudiziario. Ma forse, come ci aveva spiegato Lorenzo
Clemente, vedovo di Silvia Ruotolo, lei è convinta che sia
proprio così, che tutto quello che ha fatto il marito sia
stato
per il bene della famiglia, degli altri membri del clan e di tutta la
gente onesta a cui dava da vivere con le imprese
“pulite”
avviate con i proventi delle attività camorristiche.
Vincenzo Mazzarella, “Vincenzo ’o pazzo”,
marito
della signora che siede al nostro fianco nella stanzetta
d’attesa
dei carabinieri, è un uomo di spicco qui a Napoli, capo del
clan
che porta il suo nome e del cartello camorristico Mazzarella-Misso (che
opera nei rioni Forcella, Maddalena e in altri del centro storico e a
San Giovanni a Teduccio) contrapposto all’Alleanza di
Secondigliano. A 48 anni, oltre ad essere stato il mandante di numerosi
omicidi contro il clan avversario di Paolo di Lauro (in questo periodo
interessato anche da una faida interna per opera degli
“scissionisti”), controlla tra l’altro il
giro delle
scommesse clandestine, che in due anni gli hanno fruttato circa 10
miliardi di euro.
Vincenzo ’o pazzo era latitante da novembre, quando i
magistrati
avevano emesso un ordine di arresto internazionale nei suoi confronti
per associazione di stampo mafioso, riciclaggio e altri reati.
È
stato arrestato nel parco di EuroDisney dalla polizia francese in
un’operazione in collaborazione con la Dda (Direzione
distrettuale antimafia) napoletana e con la squadra mobile di Caserta e
di Napoli.
Vincenzo godeva di regime di libertà vigilata al quale si
è sottratto «quasi certamente grazie a compiacenti
rapporti collusivi», scrive il procuratore aggiunto Felice Di
Persia, coordinatore della Dda napoletana, «verosimilmente
avvertito che, il 2 novembre, stava per essere emessa dal Tribunale di
sorveglianza di Napoli la misura di sicurezza
dell’assegnazione
ad una casa agricola».
Parenti serpenti. Le donne di Camorra vogliono il nostro numero di
telefono, vogliono darci il loro di casa, a Forcella.
«Abbiamo
tante cose da dire, la nostra versione dei fatti» ci dicono
prima
di uscire per tornare dalla polizia nella speranza di ottenere notizie
del loro eroe catturato. Non si vorranno invece più fare
sentire
da noi. Forse il nostro mensile non è adatto allo scopo.
Forse
semplicemente hanno trovato altri canali per far arrivare a Vincenzo i
loro messaggi.
A noi invece sarebbe piaciuto capire di più chi sono le
donne di
Camorra che insultano e sputano sulle forze dell’ordine. Ci
sarebbe piaciuto vedere com’è la loro vita, cosa
c’è dietro quell’arroganza che le fa
scendere in
piazza a protestare in massa quando i loro mariti vengono arrestati per
crimini orrendi. Ma forse nelle loro case non c’è
altro
che un gran vuoto. Vuoto di cultura e di valori. Assenza totale della
visione di un’alternativa a quanto credono essere la migliore
vita vivibile e che invece è un inferno.
«Mia madre è partita» ci dice una voce
al telefono
quando cerchiamo la signora Mazzarella per quell’appuntamento
a
cui sembrava tenere tanto. Forse a rispondere è quella
figlia di
Vincenzo che ha sposato l’erede di un altro capo clan del
quartiere di Forcella, un Giuliano, parente di quel Salvatore che si
è fatto scudo con la piccola Annalisa Durante.
Gabbie semi-dorate. Sono questi gli “uomini
d’onore”
della Camorra visti da vicino. Uomini che se la fanno sotto e si
nascondono dietro una ragazzina.
Si sarebbe portati a immaginare che, con tutta la loro ricchezza, si
permettano una vita da nababbi. Invece la maggior parte di loro
è in carcere o latitante. Ma persino quando godono della
libertà, la loro vita si svolge all’interno di un
carcere
che è il loro quartiere, dal quale non escono per non
correre il
rischio di essere uccisi dai sicari degli altri clan. Quelle madri che
protestano contro la polizia accettano la logica del clan: che il
proprio bambino possa venire crivellato dai colpi di un sicario senza
troppi scrupoli. Basterà poi una vendetta per lenire il
dolore.
«I maggiori boss della Camorra sono tutti in
carcere» ci
spiega Aldo Policastro, magistrato impegnato nelle indagini sul crimine
organizzato, «e molte delle loro mogli fanno le donne di
servizio, vanno a lavare i pavimenti. La vita di un capo clan e della
sua famiglia si svolge dentro un ghetto. Nessuno di loro, come invece
capita ai capi siciliani, si permette vacanze a Montecarlo, ville in
Sardegna, viaggi in America o nei paradisi tropicali. Nessuno di loro
manda i figli a studiare all’estero. I figli dei camorristi
sono
sempre più spesso analfabeti. Nessuno si gode davvero la
vita.
Al massimo si permettono di arredare con lusso le proprie case, che
comunque da fuori sono fatiscenti. Nelle case dei capi Camorra ci sono
televisori al plasma, frigoriferi a tre ante, enormi vasche per
l’idromassaggio. Solo qualcuno di loro ha la villa sul mare,
ma
solo nella sua area di competenza, magari a Sorrento. Vale la pena di
chiedersi: “Chi si gode davvero gli ingenti introiti dei loro
business?”. Sono soprattutto gli imprenditori
“onesti” finanziati dalla Camorra, i colletti
bianchi,
avvocati, commercialisti che mettono in piedi le imprese pulite con le
quali i camorristi investono i proventi ricavati
dall’illegalità. Nelle mani di queste persone
perbene il
denaro non puzza più di morte».
Movimento tra le macerie. «La Camorra si propone come uno
Stato
nello Stato» prosegue Policastro. «Non
c’è
quartiere di Napoli e della provincia che non abbia il suo clan di
riferimento. Qualsiasi attività lecita svolta da persone
normali
ha un suo corrispettivo nelle mani della Camorra. Dai piccoli ai grandi
business c’è sempre un clan che controlla il
settore. Sono
ben radicati anche nel business musicale: finanziano i dischi ai neo
melodici napoletani, alcuni di grande successo. Prima i commercianti
pensavano che bastasse pagare il pizzo per stare sicuri e poter gestire
senza altri rischi la propria attività. Ora cominciano a
rendersi conto che la Camorra sta soffocando le loro
attività.
Come possono sostenere la concorrenza di chi ha accesso a ingenti
quantitativi di soldi da riciclare? È concorrenza sleale. La
Camorra può proporsi negli appalti, in qualsiasi settore, a
prezzi che nessuna impresa onesta può offrire.
A Napoli, in piena crisi economica, girano tanti soldi. Il costo delle
case è salito alle stelle. La gente è disoccupata
o ha
lavori precari. Eppure il mercato immobiliare tira. Chi compra, con
quali soldi? Può investire denaro solo chi ne ha. In questo
periodo i clan stanno investendo nel settore movimento-terra e
nell’intermediazione commerciale, nella grande distribuzione.
Sono settori in cui non serve un grande know how, come per mettere in
piedi una fabbrica. Stanno arrivando anche al Sud i grossi centri
commerciali. Con dieci anni di ritardo rispetto al Nord Italia. Ma
perché proprio adesso che tutto sembra morire? Proprio
adesso
che Napoli va alla deriva, diventa sempre più marginale in
tutti
i settori, con una squadra di calcio, amata e con una tradizione alle
spalle, in serie C, senza più nemmeno una banca sua,
perché il Banco di Napoli, tra i più antichi
d’Italia, è stato comprato dal San Paolo di
Torino».
Potere orizzontale. Aldo Policastro ci spiega la differenza tra la
Camorra e Cosa Nostra. «Cosa Nostra ha una struttura
verticistica. C’è un boss che detiene il potere e
il
controllo sugli altri, che propone le strategie, che decide la politica
e il comportamento da tenere. La Camorra è composta da tanti
capo clan, nessuno in realtà con un potere sugli altri.
È
dagli anni Ottanta, con la sconfitta di Raffaele Cutolo, che grazie
alle coperture politiche aveva affermato la sua egemonia, che non
esiste più, come per altro non era mai esistita prima, una
cupola camorristica. Ogni clan si limita al controllo dei suoi rioni di
competenza, senza mai invadere il territorio di altri. A volte fanno
alleanze che poi si spaccano. A volte si fanno degli sgarri o delle
“guerre” per definire le aree di competenza. Ma non
si
può mai parlare di scalata per il comando generale. Non si
può nemmeno parlare di legami tra la Camorra e la politica.
Vi
sono clan camorristici che stringono alleanze con Cosa Nostra. Ma in
questo caso è la seconda a dettare le regole del
gioco».
Giganti d’argilla? Tommaso Buscetta definiva la Camorra
«un
clan di quattro bastardi e balordi che spadroneggia sui
poveracci». Forse, è pericolosa proprio per
questo.
Perché le vite dei suoi uomini, anche quelli dei suoi
vertici,
sono tutte “a perdere”. Per quattro soldi si spara
e si
muore. Senza rimorsi, senza rimpianti. Senza progetti per il futuro. Si
accumula denaro e si diventa potenti come giganti dai piedi di
terracotta. Spietati come pochi, ma anche fragili. Così ci
appare la Camorra vista da vicino. Ci sembra che possa bastare una
spinta un po’ più decisa per mandare tutto in
frantumi. Ma
perché, allora, non succede?
«Ce lo chiediamo spesso anche noi» dice Aldo
Policastro.
«È forse soltanto una questione di atmosfera.
Negli anni
dal 1994 al 1997 la Camorra forse ammazzava di più, ma si
era
creato un clima di speranza, c’era la consapevolezza di
potercela
fare a sgominarla. Mai come allora ai cittadini era stata offerta una
prospettiva. Ora si è persa la speranza.
C’è una
mancanza di attenzione al Meridione. Non c’è
alcuna
politica di sostegno alle fasce più deboli. Se
l’Italia
tutta è in crisi, qui la si sente di più. Gli
omicidi a
catena di questo ultimo periodo hanno rimesso Napoli sulle prime pagine
dei giornali. Anche gli arresti in massa di camorristi degli ultimi
giorni, in seguito ai delitti, hanno destato sospetto tra la
popolazione. Gli arrestati erano tutte persone già note alla
polizia. La gente si è chiesta: “Ma
perché non li
avete presi prima, perché li avete lasciati scorrazzare
impunemente?”. Gli arresti sono sembrati una mossa
pubblicitaria
per la politica e non la dimostrazione di una seria volontà
da
parte delle forze dell’ordine. Quando si parla di
omertà
da parte dei cittadini onesti spesso non si dice che un padre di
famiglia ha paura di andare a fare una denuncia perché non
si
fida della polizia, teme che il suo nome venga in qualche modo reso
pubblico e così finisca sulla lista delle persone da punire.
Il
cittadino onesto sa che spesso può andarci di mezzo la sua
famiglia».
Fa più rumore un albero che cade... Aldo Policastro dal
vecchio
tribunale ci accompagna al nuovo Centro direzionale, non lontano dal
carcere di Poggioreale. «Spostare il palazzo di giustizia
–
dice – è stato indubbiamente positivo. Il
territorio del
Castel Capuano, nel quartiere Forcella, era controllato dai clan che
facilmente potevano insidiare i loro uomini dentro al tribunale. Ora
per loro è più difficile avere accesso agli
uffici dei
giudici che indagano, alle aule.
Per fortuna a Napoli sta succedendo anche qualcosa di positivo, come la
nascita e il consolidamento di associazioni antiusura, del consorzio
per la gestione dei beni confiscati, le attività dei maestri
di
strada, come Marco Rossi Doria, che cercano di offrire un futuro
diverso ai bambini. A Napoli stanno prendendo avvio una serie di
attività per il recupero del territorio. E poi ci sono loro,
le
persone perbene che abitano nei quartieri degradati. A loro si dovrebbe
dire: “Lei sta a Scampia e non delinque? Allora le dobbiamo
dare
una medaglia”. Sono tante le persone che meriterebbero dei
riconoscimenti. Forse il punto è soprattutto questo: non
lasciarle sole».
Scampia e Secondigliano, zone off limits presidiate dai clan, capitali
di spaccio di droga e delinquenza. Qui non succede nulla senza che il
boss di turno ne sia informato. I cittadini tacciono, rassegnati.
Qualcuno però si rimbocca le maniche...
Camminare per Napoli a piedi è come percorrere le tappe di
una
via Crucis. Non c’è quartiere che non abbia la sua
vittima
innocente di Camorra o di una delinquenza senza senso. A Margellina
è stato accoltellato Francesco Estatico, 18 anni. Era un
sabato
sera e pare che il sedicenne che lo ha ucciso, incensurato, garzone di
bottega, abbia detto che aveva guardato con troppa insistenza la sua
fidanzatina. In Corso Umberto, Claudio Taglialatela, 22 anni, ex
ausiliario dei carabinieri, è stato ucciso per un cellulare.
Il
suo assassino, Arturo Raina, è stato poi trovato impiccato
con
un lenzuolo nella sua cella a Poggioreale. Paolino Avella
morì
cadendo dal motorino a San Sebastiano al Vesuvio, alla periferia di
Napoli. Stava scappando dagli aggressori che volevano rubargli lo
scooter. A Forcella è caduta Annalisa Durante, al Vomero
Silvia
Ruotolo. Gigi Sequino e Paolo Castaldi muoiono nel quartiere Pianura,
freddati perchè scambiati per sicari di un clan opposto.
Fabio
de Pandi, 11 anni sta tornando a casa con la sorellina al rione
Traiano. Anche lui capita nel mezzo di un regolamento di conti tra due
clan rivali. Un proiettile lo raggiunge alla schiena e lo uccide. E poi
c’è Nunzio Pandolfi, due anni, assassinato con il
padre
Gennaro, pregiudicato, in un appartamento del rione Sanità.
È nel corso del suo funerale che il parroco don Cesare
Rapullino
lancia un’esortazione ai fedeli:
“Fujetevenne”.
Fuggite via.
Luigino Cangiano, dieci anni, sta giocando con gli amici nei pressi
della stazione centrale quando la polizia e degli spacciatori si
fronteggiano a fuoco. Un proiettile lo fredda. Maurizio Estate venne
ucciso nel rione Chiaia per aver tentato di impedire che un passante
venisse rapinato. Ma la lista potrebbe continuare. Ricordiamo, tra gli
altri, Giancarlo Siani, il giovane collaboratore del
«Mattino» alla cui memoria dedichiamo la rivista su
cui
scriviamo, ucciso sulla salita che ora porta il suo nome per aver
scritto un articolo di troppo contro la Camorra.
Non è certo una città normale questa Napoli che
si abitua
a vedere morire tanti innocenti. «Ma ora i clan
più
potenti non stanno in città, sono in periferia,
provincia»
ci dicono in molti. Il male è sempre altrove. E qualcosa
staccato da noi, che non ci appartiene.
A.A.A istituzioni cercansi. «Volete andare a Secondigliano e
Scampia? Siete matti, noi di Napoli non sappiamo nemmeno dove
stanno». Quei quartieri sono l’altrove per ogni
napoletano
del centro e degli altri rioni. È proprio questo che in un
incontro in una scuola non lontana dalle famigerate Vele ha
chiesto una ragazza al sindaco Rosa Russo Iervolino: «Ma noi
non
siamo napoletani?».
Scampia e Secondigliano andrebbero presidiati giorno e notte da tutti i
napoletani, per non lasciare sola a combattere contro la Camorra la
gente che li abita.
Secondigliano è molto diverso da Scampia. «Fino a
metà degli anni Ottanta era una fucina di
attività.
C’era la Banca popolare di Secondigliano, c’erano
circoli
culturali e sportivi, imprese artigianali per la lavorazione del baco
da seta e del cuoio, mulini e pastifici. C’erano un
giornalino
locale, cinque cinematografi e un teatro, c’erano locali dove
i
giovani potevano fare musica e mettere in piedi gruppi. Anche io avevo
la mia rock band. Ora non c’è più
niente, si
è persa l’identità. Si è
voluto che tutto
morisse, così quel vuoto è stato riempito da
altri, i
clan che si sono impossessati del territorio», spiega Emilio
Lupo, psichiatra che si dà un gran da fare per ridare anche
attraverso il suo lavoro un’anima e una coscienza alla Napoli
più degradata. «Ora si sta cercando di recuperare
terreno.
Alcune associazioni stanno tentando di rimettere in piedi qualche
iniziativa che lanci un segnale positivo al quartiere. Mi sembra
però che manchi quel coordinamento, quella visione che
può partire solo dalle istituzioni e dalla politica. Non
serve
costruire una scuola nuova se poi non si investe nelle
attività
che si fanno dentro, non si mettono nei posti degradati insegnanti in
grado di portare avanti dei programmi di lavoro efficaci. È
più importante quello che si fa in una scuola, il tempo
pieno,
le attività extra scolastiche, che costruire una cattedrale
nel
deserto per poi abbandonarla a se stessa. Il disagio a Napoli
è
diffuso. Non appartiene né ad una classe sociale
né ad un
rione. A volte il problema Napoli si affronta con troppi salamelecchi.
Qui è necessario schierarsi, in maniera chiara. Non bisogna
semplificare una realtà che è complicata. Napoli
nel suo
complesso è un grande scrigno con centinaia di associazioni
che
lavorano bene sul territorio, a volte rischiando anche la pelle. Ma
hanno bisogno delle istituzioni che le valorizzino nel loro complesso.
Non è una questione di soldi. Ci vuole soprattutto la
volontà di affrontare il “problema
Napoli” nella sua
globalità, con serietà e senza cercare successi
effimeri
per conquistare qualche voto elettorale».
Premiato sulla carta. Corso Secondigliano conduce fino al suo carcere,
un’imponente struttura in cemento armato alla sua
estremità nord. Ed è proprio il carcere che segna
il
limite di Scampia, noto come il quartiere 167, dal numero della legge
sull’edilizia popolare in base alla quale è nato.
Forse
sarebbe stato meglio un aborto terapeutico, perché questo
rione
è un brutto ghetto che assomiglia troppo al carcere che ha
di
fronte. Nessuno ci vuole portare a visitare le Vele e così
passiamo in macchina di fronte alla peggiore di tutte, quella rossa. Le
Vele – costruite dall’architetto Franz di Salvo,
che
continua ad avere riconoscimenti da altri architetti che hanno visto
questo obbrobrio solo sul plastico – negli anni Settanta,
quando
furono costruite, erano sette. Recentemente (1998, 2000) due di esse
sono state abbattute, dopo che è stato ufficialmente
riconosciuto da vari esperti che «così come si
presentano
gli edifici non rispondono ai basilari principi di
abitabilità» (relazione di Uberto Siola, del
dipartimento
di progettazione urbana della facoltà di architettura
dell’università di Napoli). Le Vele sono il
simbolo di
quello che non andrebbe mai fatto: costruire mostri architettonici del
genere (non si riesce nemmeno a sapere quante persone abitino a
Scampia, sicuramente oltre il doppio delle 43.980 censite nel 1991) in
una zona ad alto rischio camorristico, senza prevedere alcun presidio
del territorio da parte delle forze dell’ordine (solo nel
1997
è stato aperto un commissariato di polizia), senza avviare
attività commerciali (i primi mercati rionali sono stati
organizzati da un paio di anni), senza presidi medici, farmacie, luoghi
di incontro, non può che rappresentare un regalo prezioso
per la
Camorra.
Scampia è la centrale principale di smercio di droga di
tutta la
provincia di Napoli e di quelle limitrofe. Le Vele sono il
più
grande supermarket italiano di stupefacenti: eroina, cocaina, e anche
gli ultimi ritrovati della chimica. I prezzi sono i migliori
d’Italia.
Quelli che erano stati costruiti come box, anche tre, quattro piani
sottoterra, sono diventati appartamenti che i più miserabili
hanno occupato. Anche i ballatoi sono occupati da famiglie che non
saprebbero dove altrimenti andare. Quasi il 14 per cento dei nuclei
familiari che abitano in questi palazzi abbandonati al degrado
è
composto da più di sette membri.
«Anche in quel degrado la maggior parte della gente
è
perbene, lavora da mattina a sera per portare del cibo in tavola e
sfamare i propri figli» ci spiega Carlo Sagliocco, che per
volontariato allena ed è vicepresidente della scuola di
calcio
di Scampia. In macchina ci porta a visitare il suo quartiere.
«Guardatevi intorno. Sapete qual è la domanda che
vi
dovete fare? Di cosa ha bisogno un quartiere normale, dove nasce un
bambino normale? Bene tutto quello di cui un quartiere ed un bambino
hanno bisogno non si trova qui a Scampia. Scampia è
abbandonata
a se stessa. Gli uomini della Camorra qui sono solo un pugno, eppure
riescono a controllare quasi centomila persone perbene. I padri e le
madri non hanno paura per se stessi, ma per i loro bambini. Le minacce
sono continue. Noi qui sappiamo bene che certe cose non le possiamo
fare. Nessuno ci protegge. Ma c’è tanta voglia di
legalità e di normalità. C’è
tanta voglia da
parte della gente di riappropriarsi del territorio».
Un calcio alla malavita. La scuola di calcio per i bambini di Scampia,
nel suo piccolo sta cercando di fare qualcosa. Tra i 250 bambini
iscritti molti vengono dalle Vele, alcuni sono figli di camorristi. Nel
campetto di calcio nessuno ha la pretesa di allenare futuri campioni.
La prima ambizione è quella di divertire.
C’è il
ragazzino obeso che forse non riuscirà mai a segnare un
goal.
C’è quell’altro che ha un tocco magico
nei piedi. Ce
ne sono tanti altri che vengono qui perché è
bello
ritrovarsi in uno spazio comune. No, la scuola non allena campioni. Il
suo compito è molto più importante: formare degli
uomini.
«Il nostro scopo è proprio questo. Attraverso le
regole di
un gioco insegnare il rispetto per se stessi e per gli altri. Vogliamo
far capire che è bello vincere quando si gioca con
lealtà» spiega Tonino Scampia, presidente della
scuola.
«I bambini sono la cosa più bella di questo
quartiere. Se
riesci a creare un dialogo con loro, sono tutti uguali, non ci sono
più figli di boss o del clan e figli della gente perbene.
Vogliamo offrire a tutti un’opportunità di vita
normale.
Se un adolescente può scegliere, se gli si offre
un’alternativa alla strada alla pistola, al coltello, alla
delinquenza, sono convinto che difficilmente seguirà la
strada
della Camorra, anche se gliela segnalano i suoi genitori. Il desiderio
di tutti è essere felici, non la morte».
Check point per entrare in casa. Anche a San Giovanni a
Teduccio
esistono due realtà. Una è quella quasi identica
alle
Vele di Scampia, il Bronx, regno del clan dei Formicola, in via Taverna
del Ferro. L’altra sono le scuole piene di
attività e vita
che stanno proprio lì di fronte, la scuola alberghiera e il
liceo, che farebbero invidia anche a studenti di Milano. E
c’è poi anche il parco Troisi dove Teresa De Sio e
Pierluigi Diaco hanno organizzato l’antivigilia di Natale il
concerto “Napoli legale”, con la
partecipazione di
numerosi artisti, come Piero Pelù, gli Almamegretta, Enzo
Gragnaniello, Dori Ghezzi, Peppe Barra, Mauro Pagani, Sal Da Vinci,
Bisca e molti altri ancora. «Abbiamo voluto essere presenti
in
questo quartiere problematico e decentrato, ma che fino ad oggi
è ancora una sacca di resistenza contro la
criminalità,
per dare un segno tangibile di vicinanza a chi si batte contro il clan,
alla giovane popolazione napoletana, maggiormente esposta al rischio di
diventare serbatoio di manovalanza per la Camorra e per chiedere
insieme a loro alle istituzioni di rispettarne il diritto di
lavoro» scrive Teresa De Sio in una lettera aperta ai
napoletani.
Bisogna essere vicini ai giovani napoletani. Come Michele Langella,
diciannove anni, dei giovani della sinistra di San Giovani a Teduccio.
È lui che ci porta a visitare il suo quartiere. Ci promette
che
quando torneremo ci farà salire fino a casa sua,
lì nel
Bronx. «Sopra di me abita il boss Formicola. Per arrivare al
mio
appartamento si devono passare dei posti di controllo. Gli estranei non
sono fatti passare» ci spiega. «Il penultimo e
l’ultimo piano delle case del Bronx sono abitate dagli uomini
della Camorra. Loro hanno due piani, sotto c’è la
zona
giorno, sopra quella notte. Le loro case sono belle. La mia
è
modesta e non posso portarci gli amici come vorrei. I loro figli hanno
auto e moto grosse. Io ho una vecchia Panda. Ma loro con i loro mezzi
da cinquantamila euro possono fare solo il giro del quartiere. Io posso
andare dovunque nel mondo. Loro sono ricchi, ma sono prigionieri qui
dentro. Io posso avere dei sogni ed un futuro. Loro possono solo
sperare di non essere uccisi o di non finire in carcere».
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