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Fonte:
https://www.nazionenapulitana.org/

I cosiddetti "Padri del Risorgimento"erano proprio 'na vranca 'e fetiente

di Gabriele Marzocco

Il Presidente Ciampi sta tentando in tutti i modi, con una patetica e ripugnante respirazione bocca a bocca, di tenere in vita l'agonizzante leggenda del Risogimento, usando tricolori e Inni di Mameli come inutili medicine per un malato comatoso.

Noi non ci lasciamo commuovere. Del Risorgimento non c'è proprio niente da salvare: per le finalità che si prefiggeva (sconvolgere la vita dei popoli d'Italia, abbattendone le tradizioni culturali e religiose; asservirli alla politica accentratrice dei Piemontesi ed al potere spietato della borghesia "compradora" senzapatria), per le modalità in cui si è realizzato (guerre d'aggressione, bombardamenti spietati, massacri crudeli, leggi speciali, tribunali militari, fucilazioni senza processo, plebisciti truffaldini) e per i personaggi da vera galleria dell'orrore che l'hanno portato a termine, e che ci sono stati presentati come eroi invincibili ed insuperabili: Garibaldi ('o nzallanuto), Cavour ('o nfamone), Vittorio Emanuele II ('o rre cafone).

Ma "le opere d'iniquità non durano in eterno".

Ed eccoci a ricordare, per i nostri lettori, di che pasta erano fatti gli artefici del Risorgimento, i cosiddetti "Padri della Patria" (non certo della nostra), usando in buona parte le parole di un piemontese, presidente del Sindacato nazionale dei giornalisti: Lorenzo Del Boca (Maledetti Savoia, edizioni Piemme, Casale Monferrato 1998).

Garibaldi ('o nzallanuto). "Un babbeo". Senza attenuanti. Maxime du Camp, scrittore francese e camicia rossa di complemento, non riconobbe a Garibaldi alcuna intelligenza politica. "Provava un certo vigore davanti all'ostacolo solo perché poteva investirlo come un cinghiale arrabbiato".

Giuseppe Mazzini, in una lettera a Giacomo Daniele, non esitò a sostenere che "Garibaldi, quanto a coerenza di idee, è una vera canna al vento".

Denis Mack Smith lo considerò "rozzo e incolto". E Indro Montanelli lo giudicò "un onesto pasticcione". Ma anche la sua onestà è una pura leggenda, come vedremo più avanti.

Tracagnotto e con le gambe corte, veniva descritto come un gigante alto otto piedi. E si giurava che, dopo ogni combattimento, si scuoteva la giubba per far cadere le decine di palle di fucile che l'avevano colpito senza ferirlo.

Questo nobile cavaliere dell'ideale ebbe la delicatezza di chiamare il suo asino "Pio IX" e di definire il Santo Papa Mastai Ferretti "un metro cubo di letame": eleganze da vecchie carogne massoniche (era infatti un "pezzo grosso" della massoneria). Era un tipo del tutto eccezionale, anticonformista, si trattasse di idee politiche o di religione, di abitudini personali o di abbigliamento. Per qualche anno si vendettero le camicie alla Garibaldi, i mantelli alla Garibaldi, il cappellino alla Garibaldi.

Piacevano i panni di eroe intraprendente che, da solo si era cucito addosso: come i protagonisti dei romanzi d'appendice. Appassionato eppure senza legami sentimentali troppo consolidati. Antesignano delle proteste socialiste e, tuttavia, dichiaratamente favorevole alla dittatura.

Garibaldi cominciò a cacciarsi nei guai nel 1834, nel tentativo di partecipare ad un moto insurrezionale di Genova. Né lui né i suoi amici avevano idea di come si potesse organizzare una cospirazione efficace e si trovò in fuga sulle montagne travestito con gli abiti da contadino che una fruttivendola gli regalò. Passò la frontiera francese e fu arrestato, fuggì e rischiò una seconda volta l'arresto. Il Piemonte lo condannò a morte.

Nel 1835 arrivò in Brasile. A Rio de Janeiro, con due compaesani, si lanciò in un'impresa di trasporti, che fallì poco dopo: non aveva testa per gli affari.

Altra era la sua vocazione. In una notte di luna piena, con sei compagni, rubò una nave ormeggiata nel porto. I pochi marinai di guardia furono gettati in mare e l'eroe prese il largo per continuare la sua battaglia. Combatté per tre anni contro il Brasile tentando di aiutare Bento Gonçalves che si era proclamato governatore della provincia meridionale, il Rio Grande do Sul, avviando una sua personale guerra per conquistarsi un trono. Fu arrestato e finì in prigione.

Dal 1843 al 1848 combatté contro l'Argentina. Anche qui è difficile comprendere le ragioni della contesa fra i possidenti dell'Uruguay e il generale Rosas; Garibaldi assaliva le navi e le depredava.

I suoi soldati, sedicenti liberatori, piombavano sui villaggi con la foga dei conquistatori, allettati dai vitelli delle loro stalle e dalle donne delle loro case. Un giorno entrò in un magazzino di stoffa, rubò una partita di tessuto rosso destinato a cucire i grembiuli dei macellai, i "saladeros", e fece imbastire le nuove uniformi. Con addosso una camicia rossa, quella banda di teste calde diventò un piccolo esercito: la "legione italiana". Non hanno lasciato un buon ricordo, ed ancora oggi Garibaldi da quelle parti è considerato un bandito: il bandito dei due mondi.

Giornalisti francesi ed inglesi cominciarono a diffondere in Europa la leggenda dell'eroe veloce e impavido, coraggioso e altruista. Garibaldi in Sud America trovò anche il tempo di fare il negriero, come ha confermato lo storico Giorgio Candeloro in un'intervista su La Repubblica del 20 gennaio 1982: "Garibaldi, un po' avventuriero, un po' uomo d'azione va in Perù; e [nel 1852] come capitano di mare, prende un "comando" per dei viaggi in Cina. All'andata trasportava guano (depositi di escrementi d'uccelli che si trovano nelle isole al largo del Perù), al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la chiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po' da negriero". Nel 1848 aveva partecipato alla "prima guerra d"indipendenza". Alternava le cariche a cavallo con quelle sotto le gonne, con identico spirito di conquista. Non stette a badare se erano mogli di amici e non si preoccupò che gli venissero attribuiti una dozzina di figli fra legali, mezzi legali e illegittimi.

Un giorno, quando era ancora in Sud America, a bordo della nave Rio Pardo, vide con un cannocchiale il viso di Anita. Decise che doveva essere sua. Peccato che Anita fosse sposata a Manuel Duarte, un calzolaio; ma Garibaldi non si arrese per così poco. "Un uomo - confessò, infatti, l'eroe - mi invitò a entrare: sarei entrato senza invito". "Vidi la giovane! Tu sarai mia!" E, probabilmente, per conquistare il cuore di Anita, fu necessario ammazzare lo sposo. Il povero calzolaio protestò? Tentò di reagire? Cercò aiuto per affrontare il rivale? Un giorno non lo videro più in paese e le ricerche non ebbero esito. Anita seguì Garibaldi sul battello e vissero come marito e moglie. Con qualche rimorso postumo il Generalissimo sentenziò: "Se vi fu colpa, io l'ebbi intera, e vi fu colpa". Per uno che aveva fatto il ladro di cavalli ed il mercante di schiavi, era poca cosa.

Ma poi toccò a Garibaldi di trovarsi cornuto. Nel 1859 aveva avuto un'avventura con Giuseppina, figlia illegittima del marchese Raimondi; Giuseppina qualche tempo dopo si presentò all'eroe con l'addome appena ingrossato. Niente paura. L'eroe cnosceva le regole di comportamento di due mondi e le nozze furono programmate per il 24 gennaio 1860 nella cappella privata della villa della famiglia Raimondi. Garibaldi già era impaziente di partire per la luna di miele, quando a guastare la festa arriva un biglietto scritto probabilmente dal conte Giulio Porro Lambertenghi: a mettere incinta Giuseppina non era stato Garibaldi, ma un garibaldino, Luigi Càroli, nelle grazie della marchesina. La donna non ebbe il coraggio di negare; l'eroe si limitò a schiantare una sedia per terra (tutti pensavano che l'avrebbe spezzata sulla schiena della fedifraga, ma Garibaldi era un gentiluomo...) e se ne andò via.

Qualche mese dopo eccolo a capo della spedizione in Sicilia. Senza le corna di Garibaldi è difficile pensare ad un'Italia unita: come immaginare l'impresa dei Mille con un Garibaldi fresco sposo? Poco prima Nizza, la sua città, era stata ceduta da Vittorio Emanuele II alla Francia: ma lui, invece di andare a liberare la sua città dai Francesi, correva a "liberare" la Sicilia e il Sud dal napoletano Francesco II...

All'impresa dei "Mille", sponsorizzata dalla Gran Bretagna, partecipavano Nino Bixio, pezzo grosso della loggia massonica Trionfo Ligure e l'avvocato Francesco Crispi (futuro colonialista e un po' forcaiolo); anzi di avvocati ce n'erano 150, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri; 60 vennero definiti "possidenti"; neanche un contadino. Quasi tutti scappavano da qualcuno o da qualcosa: mogli abbandonate, amanti infuriate, figli illegittimi, conti da regolare con la giustizia e non sempre per ragioni politiche.

I due vapori Piemonte e Lombardo non furono affatto "rubati" (come d'altra parte era loro costume) dai garibaldini, ma furono acquistati con un regolare certificato di vendita firmato, controfirmato e arricchito con ogni genere di garanzie fidejussorie. Il proprietario, Raffaele Rubattino, si fece dare tutte le garanzie che il debito sarebbe stato onorato dagli uomini dei servizi segreti piemontesi. Bisognava fare "l'Italia unita", ma non rimetterci neanche una lira!... Il governo piemontese era consapevole e responsabile del progetto d'invasione nel Regno delle due Sicilie: non soltanto sapeva, ma, in qualche modo, era parte attiva nell'approntare la spedizione.

Non ci sarebbe stata conquista del Regno delle Due Sicilie se non si fossero unite le convenienze inglesi con quelle della mafia meridionale e se, gli uni e gli altri, non avessero finanziato e soccorso il movimento insurrezionale. Non per il tricolore né per la causa dell'unità di un paese. Semplicemente perché il loro interesse non era più compatibile con la monarchia dei Borboni: occorreva scalzare dal trono quei re per sostituirli. Con chi non aveva molta importanza.

La sua "onestà" è una pietosa frottola: era un pitocco, come tutti gli accattoni. Nel 1874 il figlio primogenito, Menotti, chiese ed ottenne, grazie anche all'intervento di papà, un prestito di duecentomila lire (un miliardo e trecento milioni di lire, pari a 671.394 euro!) dal Banco di Napoli, l'ex Banco delle Due Sicilie. Garibaldi garantì personalmente la restituzione del debito. Sta di fatto che i soldi non furono mai restituiti, e la banca, probabilmente per qualche intervento dall'alto, rinunciò definitivamente ad incassare.

Nel maggio 1875 Garibaldi rifiutò fieramente il cospicuo vitalizio di centomila lire (mezzo miliardo, pari a 258.228 euro) annue accordatogli dal governo; l'anno successivo, però, accettò il dono nazionale di un milione e la pensione di 50.000 lire annue (prelevate dalle casse dello stato a riempire le quali contribuiva soprattutto il sudore dei contadini, meridionali e non, sui quali gravava ancora, fra le tante, la famigerata tassa sul macinato...). Queste non sono insinuazioni, ma è tutto documentato nel bel libro di Erminio de Biase L'Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie, pubblicato da Controcorrente.

Ebbe un sussulto di resipiscenza, quando, in una lettera ad Adelaide Ristori, scrisse: "...non rifarei le vie del Meridione, per timore di essere preso a sassate".







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