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Un nome, un destino. Toccherà a Napolitano ricucire le due Italie?

di Zenone di Elea
RdS, 10 Maggio 2006

Un nome, un destino. Toccherà a Napolitano ricucire le due Italie? Questo scrivevamo lunedì pomeriggio. Ora possiamo togliere il punto interrogativo, sì, toccherà proprio ad un napoletano, Giorgio Napolitano – eletto oggi, 10 maggio 2006, undicesimo Presidente della Repubblica Italiana – accompagnare questo paese attraverso la revisione dell’architettura costituzionale prossima ventura.


Toccherà a lui, questo compito,  e lo svolgerà secondo la sua sensibilità e il suo stile, ma è lo stesso compito che sarebbe toccato a chiunque altro, D’Alema o Letta che fosse.


Un compito gravoso, denso di ostacoli e di incognite, già ne vediamo le prime avvisaglie nelle modalità della sua elezione. La Lega Nord, uscita a pezzi dalle ultime elezioni, ha puntato i piedi costringendo tutta la CdL a fare quadrato contro la elezione a presidente di Giorgio Napolitano.


In questi giorni – se si escludono leghisti e Mastella – nessun politico o analista politico tra quelli che ci è capitato di ascoltare o di leggere ha citato il referendum sulla devolution, come prossimo scoglio politico, tutti si proiettavano verso le amministrative.


Non sono certo le amministrative ma il referendum, molto più della scelta dei presidenti della Camera, del Senato e della Repubblica e delle stesse elezioni politiche ultime, il vero punto di svolta di questo paese.


Ci ritroviamo infatti


Certo la politica è l’arte del possibile, si potrebbe anche prevedere un “facciamo finta di niente” da entrambi gli schieramenti per non caricare di significato politico il referendum – e questo potrebbe far comodo a diverse forze sia a destra che a sinistra. Ovviamente per la Lega però sarebbe un suicidio politico e non lo permetterà.


Sia che passi sia che non passi il referendum, l’architettura istituzionale di questo paese verrà rivista a fondo prima o poi.


Si tratta di un passaggio storico inevitabile:


La divisione politica uscita dalle urne rispecchia grosso modo la divisione socioeconomica del territorio nazionale, tirare in ballo le eccezioni del centro nord (zone rosse sviluppate controllate dal centrosinistra) e quelle del sud (come Puglia e Sicilia dove ha prevalso politicamente il centrodestra) non cambia per nulla i termini della questione.


Questa divisione politica estremizzerà lo scontro e richiederà soluzioni.


Secondo noi le soluzioni, nonostante il profilo morale del nuovo Presidente della Repubblica, non prevederanno affatto una rivisitazione della storia patria, anzi si tireranno i remi in barca.

Nel senso che si cercheranno strategie per rinsaldare i traballanti vincoli tra il nord e il sud del paese.

E questo compito, per una strana ironia del destino, toccherà proprio ad un napoletano: Giorgio Napolitano.


In bocca al lupo, Presidente! Anche se è il compito che le vorremmo affidare noi sarebbe un altro: una operazione di verità sulla formazione di questo paese, per rifondarlo su nuove basi.




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Fonte:
https://www.camera.it/

Il Presidente Giorgio Napolitano

GIORGIO NAPOLITANO è nato a Napoli il 29 giugno 1925.


Laureato in giurisprudenza all'Università di Napoli, dove nel 1942 fa parte di un gruppo di giovani antifascisti e comunisti, aderisce, nel 1945, al Partito comunista italiano e si impegna nella costituzione del movimento studentesco dell'università e sul piano nazionale. È particolarmente sensibile ai temi della politica meridionalista e partecipa al movimento per la rinascita del Mezzogiorno. Segretario delle federazioni comuniste di Napoli e Caserta, è responsabile della commisione meridionale del Comitato centrale del PCI, di cui diviene membro a partire dall'VIII congresso (1956).


Dopo il X congresso del PCI entra a far parte della Direzione nazionale del partito. Negli anni 1976-79 è responsabile della politica economica del partito e dal 1986 dirige la commissione per la politica estera e le relazioni internazionali.


Dal luglio del 1989 è ministro degli esteri nel governo-ombra del PCI. Dopo il congresso di Rimini aderisce al Parito democratico della sinistra e fa parte della direzione e del coordinamento politico.


È eletto deputato per la prima volta nel 1953 ed è successivamente sempre riconfermato. Dal 1981 al 1986 è presidente del Gruppo comunista e dal 1989 al 1992 è membro del Parlamento europeo.

Il 3 giugno 1992 è eletto Presidente della Camera dei deputati.


Nella XII legislatura fa parte della Commissione affari esteri, è membro della delegazione NATO e Presidente della Commissione speciale per il riordino del settore radiotelevisivo.


Nella XIII legislatura è Ministro dell'interno e per il coordinamento della protezione civile del Governo Prodi.




Fonte:
https://www.claudiocaprara.it/

Napolitano, 80 anni di riformismo eretico

di Pasquale Cascella

E la cravatta? È insolitamente con la camicia sbottonata, Giorgio Napolitano, nel suo ufficio di presidente della Fondazione Camera. La cravatta è poggiata sul largo tavolo di lavoro, ben piegata accanto a un mucchietto di foglietti zeppi di appunti scritti con la solita grafia minuta, senza soverchie correzioni. Sulla soglia degli 80 anni - li compie oggi - Napolitano ha finalmente deciso di raccontare e raccontarsi. Si accinge a consegnare all’editore non il classico saggio politico, ma un testo di ricordi e riflessioni. Su una elaborazione politica riformista per lungo tempo considerata un’eresia nel partito in cui ha militato da sempre, tra svolte, arretramenti, strappi, trasformazioni. E su una utopia personale che si può solo che definire realista. Può cedere al racconto autobiografico ora che Piero Fassino gli ha reso da una tribuna congressuale il riconoscimento che, forse, nessun altro dirigente del vecchio Pci ha ottenuto in vita. Di essere stato, cioè, il «compagno che aveva avuto ragione prima».


Quel giorno, a Pesaro, Napolitano era visibilmente commosso. Ma non è rimasto appagato. Anzi, da allora si è mostrato, se possibile, ancora più inquieto, assillato dai nodi che restano da sciogliere nel divenire della maggiore forza della sinistra italiana, tormentato dalla «insuperata duplicità» tra il riformismo praticato e il riformismo dell’identità. «Io stesso - confida - ho mostrato di sottovalutare quella duplicità e i limiti che ne derivavano nel formarsi di una cultura di governo che pure si venne affermando già nel Pci nei lunghi anni dell’opposizione. Posso aver mostrato di sottovalutarla quando, pronunciandomi a favore della svolta nel novembre del 1989, sostenni che “il Pci era diventato da tempo una cosa diversa dal nome che portava”, che il problema era quello di “liberarsi fino in fondo da quel che era sopravvissuto di un vecchio involucro ideologico”. È vero che eravamo diventati una “cosa” sempre più simile ai partiti socialisti e socialdemocratici europei, ma le radici del “vecchio involucro ideologico” erano rimaste più nel profondo di quel che sembravo sostenere. E quindi, il fare i conti con la storia del Pci, il collocarci senza riserve e con posizioni capaci di incidere nell’area del socialismo democratico europeo avrebbe dovuto significare impegnarci molto seriamente per acquisire le forze del partito e la nostra area di opinione a una visione riformista conseguente, approfondendo nodi essenziali».


È un capitolo che un riformista come Napolitano non può considerare scritto una volta per tutte: «Oggi riformista non è più una mala parola tra i Ds, come lo era stato a lungo nel Pci. Anzi, è difficile trovare un esponente dei Ds che non si consideri e dichiari riformista. Ma i problemi di una piena accettazione di questo orizzonte e di una convincente definizione del riformismo in questo tempo storico è tutt’altro che risolto».


Non si smentisce, insomma. Ma la sua storia, politica e personale, è meno scontata di quel che appare. Livia Turco ha appena raccontato, nel libro I nuovi italiani, come aveva fatto fronte a certi pregiudizi, diffusi persino nel suo ambiente familiare, sulla legge sull’immigrazione firmata proprio con Napolitano allora ministro dell’Interno: «Ho cercato di convincere mio padre - ha scritto - che, se io potevo essere una sciagurata sentimentale, lo stesso era impensabile di una persona seria, severa e rigorosa come Giorgio Napolitano». L’interessato sorride dell’artificio comunicativo: i caratteri dei due, in effetti, non potrebbero essere più speculari.


Nulla a che vedere con quel certo stereotipo nei confronti del quale Napolitano non nasconde più il suo fastidio personale: «Tanto per cominciare, quando mi sono avvicinato e iscritto al Pci, a Napoli nell’ormai lontano 1945, fui spinto, ben più che da qualsiasi scelta ideologica, da un senso di rivolta morale. Uscivamo da una guerra distruttiva, eravamo nel pieno di una occupazione militare. Io ho cominciato a fare politica così, dal basso, tra antiche miserie e nuove speranze. La mia formazione politica è avvenuta a contatto con il mondo delle fabbriche, delle sezioni, dei quartieri, dei paesi della provincia, tra la gente del popolo. Tanti volti, tante voci sono rimasti nel mio ricordo, facendo per 43 anni il parlamentare di Napoli: 38 anni alla Camera e 5 al Parlamento europeo, E certamente non avrei potuto superare i momenti duri e amari, né affrontare tutti i pesi del lavoro politico e i sacrifici imposti anche alla mia famiglia, se non avessi mantenuto e rinnovato un legame umano e non solo aridamente politico, se non avessi ricevuto affetto e sostegno in un compito sentito come irrinunciabile».


Tiene, Napoletano, a sgombrare il campo da un equivoco: «Che per essere popolari e non apparire freddi, distaccati, algidi, si debba per forza fare concessioni alla demagogia». Non ne ha mai fatte, ed è sottinteso che non ha alcuna intenzione di cedere adesso a quel vezzo. «Mi è capitato di dire qualche volta che non c’è niente di più facile che prendere applausi, di sollecitare consensi alzando i toni del discorso e sfuggendo al dovere della verità e del rigore. Certo, per non aver ceduto alla demagogia posso aver pagato il prezzo di non essere circondato da entusiasmi, ma francamente non ne sono pentito». Assicura, Napolitano, che non è questione di traguardi personali mancati. Anzi: «Ho raggiunto traguardi cui mai avrei potuto, in partenza, aspirare». Coordinatore nazionale del Pci, presidente del gruppo dei deputati comunisti, presidente dell’assemblea di Montecitorio, ministro dell’Interno, presidente della Commissione Affari costituzionali al Parlamento europeo: «Penso che sia stato speso bene qualsiasi impegno controcorrente purché politicamente lineare e coerente». Non sempre compreso, a dire il vero. Non ne ha mai parlato, prima, Napolitano: lo fa adesso solo perché ha visto in qualche saggio storico citato il verbale di quella riunione della Direzione di fine estate del 1981 in cui manifestò «divergenze, considerate improprie, sul rischio di un ripiegamento integralista del partito». In occasione dell’anniversario della morte di Palmiro Togliatti aveva richiamato, in termini implicitamente polemici, la linea ispiratrice del vecchio capo del Pci con cui sembravano confliggere le ultime posizioni di Enrico Berlinguer. Quelle che, impugnando la questione morale («che pure aveva un suo fondamento»), miravano a legittimare la cosiddetta «diversità» e, quindi, a delegittimare tutti gli altri partiti democratici, rinunciando a sfidare Craxi su indirizzi e comportamenti effettivamente riformisti. «Fui messo sotto accusa - avverte Napolitano - non solo per le forme di quell’intervento, ma chiaramente per la sostanza delle posizioni da me espresse».


Un’occasione persa, per acquisire in tempo ancora utile un metodo democratico nella dialettica interna del Pci? E perché i riformisti, che pure costituivano larga parte del partito e assolvevano a responsabilità di primo piano, non si organizzavano come la sinistra di Pietro Ingrao che, anche da posizioni di minoranza, andava affermando la propria egemonia culturale? Se a Napolitano pare «eccessivo» parlare «di organizzazione e cultura egemonica per altre tendenze e personalità», non ha però esitazioni nel riconoscere che la sua generazione - «quella di Gerardo Chiaromonte, di Luciano Lama, di Emanuele Macaluso, e mi fermo qui» - si è lasciata «frenare oltre misura dal vecchio assillo dell’unità del partito, in momenti essenziali, ad esempio all’indomani dello strappo con il comunismo realizzato in Unione sovietica della fine del 1981, quando sarebbe stato necessario trarre tutte le conseguenze, abbandonare gli antichi tabù, scegliere nettamente la prospettiva socialdemocratica europea». Si chiede, però, se «muovendosi più nettamente, attraverso un raggruppamento riformista più esplicito e organizzato, si sarebbero potuti ottenere i risultati voluti o non piuttosto determinati rischi di rottura».


La rottura è intervenuta ed è diventata irreversibile con la scissione di Rifondazione, dopo l’89, il crollo del muro di Berlino, la svolta dal Pci al Pds prima e ai Ds poi. Di qui a dire che l’approdo sia compiuto, per gli eredi del Pci, ce ne corre. «Non si è riusciti a dare vita a un Partito socialista democratico di stampo europeo capace di raccogliere un consenso sufficientemente ampio per farsi protagonista di una democrazia dell’alternanza. Ma ciò non toglie che la nostra collocazione nell’Internazionale socialista sia valida e all’altezza dei tempi, purché la si faccia vivere con uno sforzo accresciuto di qualificazione culturale, di afflato ideale e di dinamismo politico». Ma l’Ulivo non è un ripiego. Non per Napolitano che da tempo crede all’incontro tra le storie e le culture delle grandi tradizioni politiche popolari e i diversi (comunista e socialista, cattolico, laico e repubblicano) riformismi italiani. «Bisognerà verificare - dice - se un più approfondito confronto creerà le condizioni per una confluenza tra i partiti che oggi aderiscono alla Federazione dell’Ulivo.

Ma, intanto, i Ds debbono fare serenamente la loro parte di forza del riformismo socialista europeo, senza rimpiangere forzature dimostratesi impraticabili come quella della lista unitaria alle politiche del 2006, e senza nemmeno innervosirsi per certi annunci di competizione da parte della Margherita. Ai Ds tocca sprigionare tutta la loro capacità di analisi e di proposta rispetto ai problemi del paese, tutta la loro capacità di visione del futuro dell’Italia e dell’Europa. Più facciamo questo, come si diceva una volta essendo unitari anche per due, unitari per tutti, più conquisteremo consensi nell’elettorato e nella società e meglio potremo contribuire al consolidamento dell’Ulivo e al successo del centrosinistra».


Il tempo è volato. Napolitano indossa la giacca e lascia intendere così che adesso deve proprio andare. E la cravatta? La piega ulteriormente e se la infila in tasca. Se lo può permettere a 80 anni.














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