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Fonte:
https://www.lucanianews24.it/

Potenza, il saluto del governatore della Basilicata De Filippo 

al Presidente Napolitano

2, Ottobre 2009

Signor Presidente della Repubblica,

Senatore Colombo,

Autorità,

Signore e signori,

il Sud è sotto scacco. E non parlo solo della filigrana di cattive parole con cui giorno per giorno si alimenta il pregiudizio antimeridionale con le scosse di un pensiero geografico unico, ma di una incalzante deriva di rotta a cui è sottoposto il suo corso, con tutto il campo aperto delle sue possibilità e del suo sviluppo, delle sue cittadinanze e dei suoi diritti.

Quanto sia grande questo cono d’ombra è facile e triste poterlo cogliere. E’ quasi una drammatica scoperta dello zero, nella pancia, certe volte, addormentata e pigra di uno Stato sempre meno italiano e con una scala ormai declinata al massimo risparmio su territori regionali, troppo colpevolmente lasciati indifesi dinnanzi ad un tempo difficile e pieno d’insidie.

Eppure la fatica del Sud e la sua distanza dalla modernità non possono essere soltanto l’effetto di queste cause. Anche le meccaniche riduzioniste della spesa pubblica e le passioni liberiste della dissolvenza finanziaria non basterebbero a darci un racconto compiuto di quanto possa essere lungo e terribile questo sforzo.

Sappiamo che ci sono ferite ancora aperte e perfino cadute di responsabilità che fanno arrossire una certa politica, impolverata da quei cattivi pensieri con cui, certe volte, dal Sud si può lavorare anche contro il Sud.

Per questo, Signor Presidente, non possiamo che apprezzare il suo monito a favore di un nuovo impegno e di una maggiore virtù del Sud. Lo ha detto bene sin dal giorno del suo insediamento, nel discorso che ha pronunciato al Parlamento. Ha parlato delle Regioni che “diventano un asse obbligato del rilancio complessivo dello sviluppo nazionale anche per la loro valenza strategica”. Quanta forza in queste parole e quanta buona sveglia per rilanciare la capacità vera e positiva della politica, contro gli alibi di chi ancora riesce ad alimentare la retorica delle ombre, frenando il nuovo corso del Mezzogiorno con discorsi d’indolenza e di rarefazione.

Ma dentro questo rifiuto al gioco di specchi e di travestimenti del Sud, s’intravede già una riscossa. Le sue parole di denuncia e di stimolo, Signor Presidente, ne sono il segno più autorevole che affida a tutti noi come una nuova responsabilità che non può essere più disattesa dalla politica e dallo Stato. E nonostante la rassegna infinita d’anatemi e di pregiudizi giunga a noi in alcuni frangenti, il Mezzogiorno, sono sicuro, saprà resistere ed anche cambiare. Perché il Sud non è una terra di solitudini, ma di solidarietà ed eccellenze, con un unico ed obbligato legame con il suo destino: quello della libertà.

Per queste ragioni, nemmeno la più potente lente d’ingrandimento sulla retorica dissipatoria e quella delle acrobazie gattopardesche con cui, in genere, si giudica il Mezzogiorno, potrà alleggerire la portata civile e la tensione etica di un impegno dello Stato che ancora deve raggiungere, dopo centocinquant’anni, l’unità e l’indivisibilità del Paese.

La porta stretta delle abitudini e quella meno cedevole ai cambiamenti non resisterà, ne sono sicuro, ad un vero meridionalismo democratico che vuole valorizzare il patrimonio nascosto delle eccellenze dei nostri giovani, della creatività artistica e della produzione imprenditoriale di questo Mezzogiorno così ricco e così inedito. E’ qui che l’Italia può ritrovare spinte competitive, passioni europee, vocazioni mediterranee e dare adesione a quell’efficace riformismo iniziato con la stagione del pensiero di Fortunato, di Nitti, di Lacava.

Naturalmente, Signor Presidente, non spetta a me illustrare i grandi meriti e la visione lucida e carica di libertà che ha saputo possedere il pensiero meridionale anche in tempi bui. Piuttosto la straordinaria frequentazione umana e politica, che Lei ha avuto di uomini come Gerardo Chiaromonte, Le hanno dato il senso di quanta energia si può dotare la nostra Regione.

Ma c’è un anche altro lucano, tra i tanti, che ha saputo portare il buon nome del Mezzogiorno fino ai confini del mondo, nel cuore aperto della democrazia americana e nella cerchia del pensiero di Hannah Arendt. Forse per un’affinità mai negata o quasi per una complicità geografica di cognomi e di vite, di cui alcune volte e così tanto opportunamente s’incarica il destino, c’è un altro Chiaromonte ad attraversare la piega moderna del nostro territorio. Un intellettuale che seppe ispirare più di una pagina della pensatrice di secolo, Hannah Arendt, facendo crescere quella generazione della New Left americana che ha fatto esplodere una nuova idea di libertà e di democrazia, oggi nelle mani di Barack Obama.

Quello tra Gerardo e Nicola Chiaromonte, Signor Presidente, è un confronto quasi cartografico sui terreni segreti della politica e dell’amore verso il Mezzogiorno che ci provoca positivamente ad impegnare, senza nessuna facile sosta, la strada del riformismo e di nuovi adagi.

Allo stesso modo ci sarebbe non poco da imparare da quelle pagine di rischio e di amore incondizionato per i nostri territori che Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Pietro Lacava, Ferdinando Petrucelli della Gattina, Giacinto Albini, Emanuele Gianturco e molti altri ancora hanno saputo donare al nostro tempo d’incuria e di superficialità. E chi avesse intenzione e passione di circoscriverne le storie, le strade, i territori limitrofi, dove hanno posato il loro pensiero, ne uscirà profondamente cambiato, almeno dai pregiudizi che una certa stampa interessata ed antitaliana somministra maldestramente al Paese.

La Basilicata, Signor Presidente, non si china indietro alla sua storia più buia, chiedendo assistenza e lamentando la sua infelicità come una colpa degli altri. E se è vero che questa storia è dentro quel divario tra Nord e Sud, incommensurabile e tra i più antichi del mondo, non si è arresa alle troppe fatalità assegnate dal destino. Ha saputo, invece, rivendicare un suo particolare profilo di riformismo e di legalità. Si, di legalità. Mettendo la sua identità regionale al servizio di una diversità del Mezzogiorno, forse scomoda, troppo scomoda per i pensieri corti ed antinazionali di certa politica.

La Basilicata che ha ospitato i grandi padri della cultura europea: da Pitagora a Orazio a Federico II, simboli della sapienza, del piacere della libertà e del senso dello Stato ed è giunta fino alla coscienza inquieta dell’Italia ed al cuore dell’Europa con il carisma di Emilio Colombo ed il sangue versato dai suoi soldati di pace, Filippo Merlino ed Antonio Fortunato.

La Basilicata che vuole investire sulla qualità democratica del suo progetto di governo. L’innovazione, l’Università, i centri della ricerca, il talento delle giovani generazioni, l’ambiente, il sostegno ai redditi delle famiglie, il rafforzamento di competitività delle imprese, la cittadinanza solidale ai cittadini meno fortunati.

La Basilicata che ha lavorato in direzione delle riforme, rinnovando il suo assetto pubblico (Apt, Alsia, Comunità Locali, Asl) per ottenere risparmi e servizi più efficaci, a tutto vantaggio di un nuovo e più moderno rapporto tra amministrazione, cittadini ed impresa. Quel campo elefantiaco della pubblica amministrazione che è stato l’effige più negativa della storia del Mezzogiorno. E pur facendo manovre finanziarie di sviluppo e di equità sociale, ha saputo mantenere in perfetta linea finanziaria i suoi conti, come rilevato dalle agenzie internazionali che ne hanno certificato l’accostamento di rating alle Regioni forti del Paese. Stessa positiva fama si è conquistata nell’utilizzo dei fondi comunitari.

Eppure il tempo in cui abbiamo agito, Signor Presidente, non è stato dei più facili. E’ stato un tempo di resistenza, vissuto quasi ad oltranza. Un tempo in cui la Basilicata ha tentato di rispondere positivamente alle sue questioni principali. Alla crisi congiunta dell’apparato produttivo ed industriale; al carico d’inchieste giudiziarie ed alla curvatura mediatica che su di esse ha insistito con pagine d’attacco; alla perdita occupazionale e di fiducia; alla caduta verticale dei salari e dei redditi; all’imbroglio sulle accise petrolifere ed all’esproprio governativo della titolarità delle nostre risorse territoriali. Ed ha dovuto lottare perfino contro il grimaldello del federalismo fiscale e con il suo rischio di riduzione dei diritti costituzionali d’istruzione ed assistenza sociale, di mobilità democratica e di salute. Inoltre ha levato la sua voce istituzionale contro lo spacchettamento finanziario operato sui FAS per ripianare debiti municipali e spesa corrente.

Mai, Signor Presidente, nel corso della sua storia regionale, neanche in quella più complicata per la difesa e l’integrità del suo territorio, la Basilicata ha dovuto lottare così tanto, mettendo a dura prova la sua tenuta di futuro e di speranza. E nonostante tutto ha fatto il possibile e si è lanciata, senza alcuna timidezza, per un nuovo corso del Mezzogiorno, rendendo più veloci e trasparenti le procedure e provando a costruire distretti produttivi per filiere agroalimentari, tecnologiche-spaziali, ambientali.

Per questo la Basilicata ha avuto un impatto recessivo meno marcato e grave rispetto ad altre aree del Paese. Nell’ultimo anno ha registrato perfino una capacità espansiva della propria realtà economica, confermata da indicatori congiunturali indipendenti. Lo stesso studio della divisione retail di Unicredit, segnala che la Basilicata, le Marche, il Piemonte, la Lombardia ed il Veneto dovrebbero essere le economie regionali più rapide ad uscire dalla crisi.

Ma sappiamo che tutto questo potrebbe anche non bastare. Oltre le buone intenzioni e gli sforzi della Basilicata e delle Regioni occorre una dimensione di impegni che solo lo Stato può assicurare per un ciclo stabile di sviluppo di tutto il Mezzogiorno. Senza polemiche, lo direi anche sottovoce, serve più Stato nelle ferrovie, nella grande viabilità, nell’Università, nella ricerca, nel lavoro.

Signor Presidente, sono consapevole che da sempre sono temi vicini alla sua voce istituzionale. Ed è un bene per il nostro martoriato e bellissimo Mezzogiorno avere la sua fedeltà e la sua lealtà. Un bene per la politica democratica che si leva dai territori regionali. Un bene per il Paese, la Basilicata e per tutti i lucani.

Solo pochi giorni fa, Giuseppe Galasso con grande sguardo meridionalista ed in un formidabile articolo ha ben evidenziato il senso della questione meridionale e del suo rapporto con quella nazionale. In prossimità dall’uscita della crisi, scrive, “è indispensabile che non risulti maggiore lo scarto tra il livello di sviluppo, la dotazione d’infrastrutture e di servizi, le capacità e le potenzialità economiche e tecniche dell’Italia nel suo insieme in un mercato mondiale sempre più affollato di temibili concorrenti”.

Il Sud è stato disorientato in molti incroci nella sua storia. Alcuni non avevano segnaletica. Non portavano nessuna direzione. Erano un insopportabile luogo di attese e di fatalismi. Ma chi si è spinto oltre questa approssimazione sa che c’è un’altra Europa, un’altra Italia, un altro Mezzogiorno, fatto di sobrietà, di tanta luce e di determinazione.

E’ questa la nuova strada da intraprendere. Il nuovo salto da compiere, perché siamo a Sud, Signor Presidente e ne siamo fieri.

Vito De Filippo

Presidente della Regione Basilicata


Ecco la sintesi storica del dramma meridionale scritta recentemente da una grande artista, Eugenio Bennato, e cantata durante la notte bianca dell'agosto 2009 a Rionero in Vulture.

NINCO NANCO

1859, muore il vecchio re Borbone

e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione.

E’ il momento di approfittare di questo vuoto di potere,

di quel regno in mezzo al mare difeso solo dalle sirene.

E u Banco ‘e Napoli è l’ideale per rifarsi delle spese,

per coprire il disavanzo della finanza piemontese.

E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare

e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce può stare,

e Ninco Nanco deve morire perché si campa potesse parlare

e si parlasse potesse dire qualcosa di meridionale.

E lo Zolfo di Sicilia e i cantieri a Castellammare

e le fabbriche della seta e Gaeta da bombardare.

E’ l’ideale che fa la guerra, una guerra dichiarata

per vedere chi la spunta tra il fucile e la tammurriata,

e tammurriata è superstizione, questa storia deve finire

e qui si fa l’Italia o si muore e Ninco Nanco deve morire.

E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare

e il Sud è terra di conquista e Ninco nun ce può stare.

E Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare

e si parlasse potesse dire qualcosa di meridionale.

E per sconfiggere il brigantaggio e inaugurare l’emigrazione

bisogna uccidere il coraggio e Ninco Nanco è meglio che muore.

Perché lui è nato zappaterra e ammazzarlo non è reato

e dopo un colpo di rivoltella l’hanno pure fotografato.

E la sua anima è già distante, ma sul suo volto resta il sorriso,

l’ultima sfida di un brigante: “Quand’è bello morire acciso”.

E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare

e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco non ci può stare.

E Ninco Nanco deve morire perchè si campa putesse parlare

e si parlasse potesse dire qualcosa di meridionale.

E Ninco Nanco da eliminare e se lui muore chi se ne frega,

sulla sua tomba neanche un fiore, sulla sua tomba nessuno prega.

E Ninco Nanco da eliminare, che non si nomini più il suo nome,

sia maledetta la sua storia, sia maledetta questa canzone.

E fila, fila la lana a sette soldi la settimana,

E fila fila il cotone a cinque soldi pe’ lu padrone.

E Ninco Nanco deve morire perchè si campa putesse parlare

e si parlasse potesse dire qualcosa di meridionale.




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