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LA CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO DUODECIMO
VOL. IX.
DELLA SERIE QUARTA
ROMA
Via del Seminario 123.
1861.
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Pag. 108


Regno Delle Due Sicilie. 1. Per quali fatti s'incorra la pena di essere fucilato immediatamente; bando atroce del Gen. Pinelli — 2. L'anarchia trionfante nel Regno; dichiarazioni del partilo repubblicano — 3. Scompiglio politico ed amministrativo, dimostralo dai diarii del Governo —. Il Farini Luogotenente Reale a dispetto del Cavour — 5. il Re Vittorio Emanuele in Sicilia; come vi siano amali i Piemontesi e i nuovi governanti — 6. Imposture contro i Vescovi — 7. Scissure tra i Cialdiniani e i Garibaldini — 8. Fatti di guerra sotto Gaeta; generosità di Francesco Il verso i suoi nemici; protettorato efficace della Francia.

1. Nel corso del Dicembre non eflettuaronsi nel Regno né i portenti militari né le meraviglie politiche e civili che gli araldi della rivoluzione già venivano strombazzando ai quattro venti. Ma, per contro, moltiplicaronsi oltre ogni speranza le manifestazioni schiettissime intorno al valore ed alla sincerità del plebiscito, intorno all'entusiasmo sempre crescente di quei popoli pei nuovi ordini pubblici, intorno al loro amore ferventissimo pei nuovi governanti, e intorno alla stupenda concordia e perfetta felicità onde son beati i redenti napolitani. Noi ci rechiamo a dovere di accennarne le prove, ricavandole tutte dai diarii del Governo e x. del partito, al quale gl'Italiani vanno debitori di tanto bene. Ecco in prima un documento ufficiale degno di somma considerazione.

«Il maggior generale comandante le truppe ordina: 1. Chiunque sarà colto con armi da fuoco, coltelli, stili od altre armi qualunque da taglio o da punta, e non potrà giustificare di esservi autorizzato dalle autorità costituite, sarà FUCILATO IMMEDIATAMENTE. 2. Chiunque verrà riconosciuto di avere (sic) con parole, con denari o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere, sarà Fucilato Immediatamente; 3. EGUAL PENA sarà applicata a coloro che con parole od atti ESULTASSERO LO STEMMA DI SAVOIA, il ritratto del re olà bandiera nazionale italiana. Il maggior generale Ferdinando Pinelli». Cosi si trattano gli italiani dai Pascià del Piemonte.

Avvertasi bene che il Pascià Pinelli non è per nazione Vandalo., Saracino o Tonchinese; ma sì Italiano, anzi di sensi italianissimi. Il fucilare immediatamente, per fatti di quella natura che i fulminati da codesto bando, è un saggio della civiltà che vuoisi regalare all'Italia. Il bisogno poi di ricorrere a tali mezzi mostra che proprio per {spontaneo voto dei popoli il Regno delle Due Sicilie fu ammesso all'onore di diventare provincia piemontese sotto lo scettro del medico Farini. Per ultimo i bandi del Pinelli hanno ancora il vantaggio di chiarire quanto bene s'apponesse il La Moricière pareggiando la moderna rivoluzione all’Islamismo; e quanto saviamente il Gen. Goyon reduce da Parigi, alli 18 Settembre, si congratulasse co’  suoi soldati perché l'Imperatore, permettendo loro di difendere il Pupa a Roma dai campioni d'Italia, non lasciava loro nulla che invidiare ai francesi mandali a castigate i Drusi e domare gli Annamiti. Solo ci rincresce che il Pinelli minacci cosi di sfrondare i ben meritati allori al Fanti ed al Cialdini, che finora in questo pregio di cavalleresca virtù aveano mietute le più belle palme.

2. «Il malcontento generale va crescendo ogni giorno sia nel popolo che nell'armata meridionale. Regna sempre l'anarchia nel più ampio significalo, e le pattuglie di birri e compagnia sono sempre in giro». Così leggesi nel Diritto, n. ° 331. Ed anche più particolareggiato nel n.° 342: «La prima volta che percorsi le strade di Napoli credetti di trasognare. Una turba di popolo guidala da alcuni soldati borbonici mi attraversò il cammino e mi voleva obbligare a gridare Viva Francesco II. Mi ero appena tolto dalle loro mani. quando vidi trasportare in una barella un Bersagliere piemontese che non dava più segni di vita per colpi e ferite ricevute, chi diceva da un soldato borbonico, chi da un garibaldino. Altrove vidi un individuo in mezzo a due carabinieri sardi, e chi lo diceva un ladro, chi un borbonico colto sul punto che gridava: morte a Vittorio Emmanuele. Da una immensa folla uscivano tutti i gridi insieme: Viva Garibaldi, Viva Francesco II, Viva Vittorio Emanuele. Insomma disordine, anarchia completa; niuna sicurezza né della roba nè delle persone; assassini! e furti in pieno giorno. Tale è lo stato a cui ridusse Napoli in cosi breve tempo il Fariniano malgoverno». Per altra parte la Patrie, in un momento di sincerità, si lascia scappare dr bocca che: «L'alta società è scontenta del fare freddo e sopraffattore dei piemontesi; i lazzaroni insorgono da tutte le parti e gridano Viva Francesco II». La ministeriale Perseveranza confessa che «le turbolenze e i disordini vanno sciaguratamente crescendo. A Cervinara, comune di circa 7,000 abitanti, un duemila contadini armati assalirono la guardia nazionale, la disarmarono e la dispersero, abbatterono il busto di Vittorio Emmanuele, lacerarono le bandiere tricolori, e sostituirono l'immagine di Francesco II e le bandiere borboniche. Una colonna di garibaldini vena» spedita colà e odo che abbiano molto infierito». Sottosopra le stesse cose avvennero, in meno d'un mese, in 62 ira città e borgate, con acerba rappresaglie, arresti e fucilazioni per ischiacciare il movimento, secondo la frase dì moda nei diarii dell’annessione.

Nientemeno colorito è il quadro che si vede nell'anione. «Nelle provincie la reazione di qua e di là si fa largo dappertutto. Spontaneamente gli armati del borgo vicino restato fedele si precipitano su quello insorto, e la repressione diventa violenza, e la giustizia si cangia in vendetta. Porta le armi chi vuole; assassini, ladri, soldati sbandati sono i primi ad adottare la coccarda tricolore o la camicia rossa e guai all'onesta gente!... Un galantuomo non può viaggiare che facendosi accompagnare da una mano di armati; perciò le campagne sono corse da malviventi che rubano, ricattano, devastano... Il malessere è dappertutto, il malcontento dovunque.... Egli è certo però che un' insurrezione saravvi; che vi parteciperanno tutti, ciascuno col proprio disegno». E il disegno dei garibaldini ci è dichiarato in una corrispondenza del Morning Post in questo modo: «Adesso noi dobbiamo cacciar via dall'Italia i Borboni, poi cacceremo via i Tedeschi e da ultimo conquisteremo la Sardegna e l'annetteremo all’Italia, altrimenti non potremo mai formare un' Italia unita». Se poi questo latino non fosse abbastanza chiaro, cerone la chiosa riferita dal birillo, n. f 342. «Un mese ancora dell'amministrazione che ci governa dalla venuta del Re in qua, e noi saremo a ricominciare contro Vittorio ciò che facemmo contro Francesco. Noi non abbiamo fatto che cangiar padrone e ministri ecc.... L'idea generale nelle pubbliche officine è che la babilonia attuale è supremamente passeggera; che gli stranieri, i piemontesi non resteranno qui che alcune settimane». Certe dure minacce suonarono all'orecchio del Farini, che con burbanza rispose che farebbe venire altri ventimila piemontesi: «ma noi siamo, gli fu replicato, cinquantamila calabresi e la sovranità che diede la corona a Re Vittorio non ha abdicato».

Sarebbe poi un non finirla mai più il voler spigolare anche solo i tratti più vivaci ed espressivi di quello che sopra ciò hanno stampato i giornali liberali di Napoli. Che di reazionarii ognuno intende che non ve ne può essere. Tutti cantano lo stesso inno con isvariatissirae ed acute intonazioni e con mirabile accordo.

3. Se ad alcuno piacesse qualificare cedeste espressioni come esorbitanze di teste pazze, si serva pure, e lasci anche cader in terra la proposta del Zappetta, riferita dal Diritto N. ' 345, che definisce «intemerato patriota chiunque propugni il ritorno di Garibaldi e predichi la necessita della caduta dell’antiitaliano Cavour e de’   suoi cagnotti, pei quali Dio e Patria non sono che il ventricolo». Egual valore diasi ancora, da chi vuole, alla dichiarazione stampata in capo al Popolo d'Italia del 6 Dicembre in Napoli dal De Boni, dal Saffi, dal Nicotera, dal Libertini e dal Savi; i quali accennando al grido Vita la repubblica, onde risuonarono certe fragorose dimostrazioni di piazza e di teatro, dicono di disapprovarlo «oggi, non perché non estima la più alta aspirazione» delle anime loro, ma perché guasterebbe l'impresa sì bene avviata. Tuttavolta niuno almeno potrà negare di ammettere, in tale argomento, l'autorità di un giornale che vive a spese del Governo, istituito apposta per dar di spalla alla consorteria del Cavour, e che in Toscana fa gli uffizi a cui è destinato in Francia il Constitutionnel. Or bene: leggansi nulla più che i tratti seguenti d'un articolo, tutto condotto sullo stile medesimo, stampato in Firenze. L'autore confessa che, a giudicare da quel che stampasi in. Napoli (e ciascuno dee pur sapere ciò che gli accade in casa sua) ognuna «direbbe essere impossibile ogni conciliazione fra ogni Governo ed il popolo, ne restare altra via a' consiglieri, se non quella di abbandonare il portafoglio e lasciare il paese a sé stesso». Or qui egli chiede se il torto sia del Governo «o piuttosto dei Napoletani che di nulla sanno appagarsi?» E con lodevole schiettezza confessa che «i popoli delle province dell'antico regno Partenopeo lamentano gli atti arbitrarii de’   Governatori, la lentezza o meglio la timidezza dei giudici i quali lasciano impuniti atroci delitti, la esorbitanza de’  radicali, le conventicole de’   reazionarii... Il male cresce smisuratamente, e se oggi è possibile un rimedio, domani sarà inefficace, perché tardivo. Le imposte non si pagano: alle pubbliche autorità non si obbedisce». Così La Nazione, n. ° 352.

Che cosa non avrebbero scritto, contro il Papa e il suo Governo, il Granguillot ed altri cotali, se degli Stati Pontificii avessero potuto accertare un decimo di quello che qui vediamo testimonialo dagli stessi apologisti ufficiali del Governo piemontese? Ma procediamo avanti, che c'è del meglio assai. «Bisogna dire, continuala Nazione, che Governo e popoli hanno grandi torti. L'idea dell'autorità è affatto alterata ne' Napoletani... ed ogni Governo, sol perché Governo,. è da essi avversato e combattuto!» Preziosissima confessione che spiega il plebiscito ed nitro. Il Governo poi istituito dal Farini «con la sua inettezza ogni giorno più rende intricala e scompigliata la situazione politica... In tale stato di cose è difficile conciliare queste due parti opposte, perché a Napoli il Governo attuale è ridotto alla misera condizione di un partito e nulla più». E continua dicendo impossibile la conciliazione: «tanto il popolo è irritato col Governo, tanto il Governo si è mostrato incapace ad appagare i desiderii del popolo». Chi vuoi sapere il resto legga coteste articolo, dove imparerà che «tutti gli agitatori di professione si son dati convegno a Napoli» e che i Napoletani, invece di studiarsi a costituir l'Italia, attendono ad «intralciare e combattere l'autorità». Le quali per nostro avviso son prove chiarissime di quanto abbiamo annunziato in sul principio, cioè che il popolo napoletano spasima d’amore pe' suoi rigeneratori, e questi si martirizzano per beatificare il popolo.

4. Questa insolita sincerità della Nazione, diario tutto devoto al sig. di Cavour, potrebbe parere imprudente, se noi) fosse un bel tiro suggerito forse dalla stizza e dal dispetto, di cui si possono vedere le origini nel seguente racconto fatto nella Nazione stessa, num. 319, là dove si discorre del titolo di Luogotenente Generale del Re dato al Montezemolo per la isola di Sicilia. Ciò fu fatto «onde non urtar la suscettibilità dei Siciliani con inviar loro un rappresentante minore in grado del Farini. So che ciò ha dispiaciuto assai al Conte di Cavour, il quale era rimasto di accordo coll'antico Ministro dell’Interno, che sarebbe nominato; Governatore Generale delle province napoletane. Pare che il Farini non se ne contentasse e all’insaputa del Presidente del Consiglio si facesse conferire la Luogotenenza che, nell’assenza del Re, sarebbe stata, nei disegni del Cavour, conferita al Principe Eugenio.» Si vede che il medico Farini, con tutto il suo proposito spartano di morir povero, non fa lo schifiltoso quando si tratta di arraffare un bocconcino ghiotto, un bocconcino da Principe. E questo naturalmente d«e aver indispettito il Cavour che si vide attraversali i disegni, con la giunta d'aver a fronte due Luogotenenti del Re, con cui gli sarà assai difficile andare d'accordo.

5. Dal fin qui detto si può inferire come gli umori ingrossino colà fra le varie fazioni, e quindi sarà inutile lo stenderci in toccare. per minuto i falli che mostrano pronte a scoppiare in guerra civile e rabbiosa le intestine discordie. Il Re Vittorio Emmanuele più volte lasciò scorgere quanto ciò gli desse noia, e solo a grande stento fu rattenuto a prolungare colà sua dimora. Diede una rapida corsa in Sicilia, dove giunse il 1.° Dicembre. Con feste pagate ed ovazioni sul gusto di quelle fatte alla Cerrito, come dice la Nazione nel n.° 349, fu data in Palermo una fragorosa rappresentazione d'entusiasmo popolare; ma in capo a quattro giorni il Re non ne poteva più; e di repente se ne partì, con pochissima soddisfazione dei zelanti che aveano divisato di tenervelo almeno dieci dì. Tra quelli che l'accompagnarono in questa sua prima comparsa in Sicilia era il sig. Avv. Cassinis Ministro di Grazia e Giustizia; che fece firmare dal Re e pubblicare un suo bando tutto profumato d'idee tanucciane, in cui promette di «mantenere salve le antichissime prerogative che sono decoro della chiesa siciliana, e presidio della podestà civile.» Dove questi padroni trovano imbavagliata ed inceppala la Chiesa, si recano subito a stretto dovere il protettorato di codeste sante catene! Ma certe espressioni di colai bando, che pareano tacciare di disordinata l'amministrazione preceduta del Garibaldi, e ricordavano il breve regno di Vittorio Amedeo II punsero acerbamente il Diritto; che nel n. ° 336 si richiama della prima allusione come d'ingiuria gravissima, quasi che con essa si accusasse il Governo Garibaldino che ledesse ogni principio di moralità; e quanto alla seconda dice che Amedeo li «nei due anni che regnò in Sicilia vi si comportò per modo, che d'allora in por nell’isola il nome di Piemontese viene popolarmente adoperato a significare cosa che qui non vuoisi nominare.»

Dei governanti insediativi dal Cavour, e che accompagnarono colà il Montezemolo non ci è avvenuto di leggere parola che torni in lode loro. Tutti parlano con ischerno del La Farina e del Raelli, e i corrispondenti si dilettano di farne ridicolissime caricature. Chi ne parla mena sfavorevolmente dice che vi sono tollerati solo per timore di peggio e per odio dei Napolitani; onde quelli si sopportano come un minor male appello di questi. Si vede che l'unità nazionale e la fusione procede a passi di gigante. Il Débats stesso ne reca graziosissime canzonature.

6. Della reazione che si ridesta ad ogni poco nelle province abbiamo già toccalo alcuna cosa più sopra. Qui giova soltanto accennare come in molti luoghi essendo le parti avverse in sul punto di venire alle mani, solo riuscissero a cessare tante crudeltà e sventure, quante ben si prevedevano dal rabbioso accanimento loro, i generosi sforzi di Vescovi e zelanti sacerdoti che con ogni maniera di arti cristiane, s' interposero a far loro smettere le armi e ritrarsi ciascuno alle sne case. Di che poi, secondo il solito, si valsero i sovvertitori per mettere i Vescovi stessi inaspetto di sleali e felloni al legittimo loro Re, lodandoli d'aver aderito al nuovo ordine colà stabilito dal tradimento e dalla forza. Ciò è falsissimo. Assai pochi tra i Vescovi piegarono a tanta viltà, e parecchi, come a cagion d'esempio, l'Ordinario di Altamira, scrissero ledere molto energiche per disdire l'impostura con cui faceasi di loro bontà sì perfido abuso, mettendoli in mostra di aderenti alla rivoluzione. Così suole ripagarsi dai tristi la pietà e la carità del Clero.

7. Ma i maggiori pericoli che sovrastano al Governo intruso provengono dai Garibaldini, di cui molli ancora rimangono in quelle province, e colgono ogni pretesto per tumultuare. Ora vogliono cantare l'inno di Garibaldi per far dispetto all'autorità che lo ha violato; ora strillano perché sì discacci il Farini; ora sommuovono il popolo a voler repubblica; ora si scatenano per le vie gridando abbasso il Ministero; insomma fanno di tutto per mettere vieppiù in uggia i Piemontesi, che ne li ricambiano col disprezzo, e col menar le mani e la spada come quelli giuocan di pugnale, e col farli deportare o carcerare. Quindi duelli, provocazioni, insulti e minaccio che tengono in ansietà continua il Farini ed i suoi.

8. Fatti d'arme di qualche momento non ebbero più luogo sotto Gaeta; mo quanto il Cialdini incalza le opere per istringere l'assedio, tanto i Regii si studiano di contrastarle. Il Gen. Bosco fece due sortite, L’una per accertarsi del segno a cui già erano condotte le trincee del nemico; l'altra per distruggere alcune case dietro le quali si appiattavano i cialdiniani per allestire le batterie d' offesa contro la fortezza. In amendue riuscì felicemente all’intento. D1 altra parte i Piemontesi lavorano dì e notte ad aprire la strada pei cannoni sui fianchi dirupati delle alture onde vogliono bombardare Gaeta; e già disposero a tal uopo enormi cannoni rigali con cui senza riguardo trassero contro la città ed anche contro gli spedali, tuttoché messi sotto la consueta salvaguardia della bandiera nera; nel qual caso i guerreggianti di nazioni civili sogliono porre ogni cura di non indirizzare a tali luoghi i loro proietti micidiali. Ma queste sono delicatezze soverchie per un Cialdini. Il fine, per costoro, giustifica i mezzi. Per contro il Re Francesco II, essendo cadute in poter suo navi sarde colà gittate dalla tempesta, e cariche principalmente di yittovaglie, onde pure colà si difetta, non che tenersele come ne avrà diritto, le fece rimandare, senza più, contentandosi di avvisare che in avvenire userebbe sopra ciò' le ragioni della guerra. Tanta generosità non può tuttavia svolgere i suoi nemici dal divisamente di levargli trono e patria ed ogni cosa. Perciò già si annunziava la partenza dei legni da guerra francesi, che sinora' aveano impedito l'assalto da mare; dopo di che parrebbe non potersi prolungare di molto la difesa. «Vinta Gaeta, scrivono alla Nazione, n. ° 353, la pacificazione interna sarà facile e pronta e la questione romana avrà una sollecita risoluzione. Questa non potrà essere più dubbiosa, e il Governo imperiale (di Francia), quanto voi, sarò lieto nel conoscerne la necessità e la urgenza. Nella quistione di Gaeta, in quella di Roma e intuite, l'arte di Napoleone III consiste nel lasciare (e nel fare) che le cose siano maturate a tal punto, che sembri che gli avvenimenti e l'opinione facciano a lui violenza, e gli impongano di prender quelle risoluzioni che egli stesso desidera».











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