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Il sollevamento della plebe di Palermo
e del circondario nel settembre 1866

di Vincenzo Maggiorani

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Monreale


La città di Monreale sede arcivescovile con 46000 abitatiti e a cinque chilometri da Palermo, alla quale è unita per una magnifica strada, è il covile della reazione, e dei briganti, poiché dei paesi del circondario è il più dominato dal clero.

Nella luttuosa settimana di settembre tutto vi si operò all’unisono con Palermo e solo si anticipò alquanto nell'azione, poi nella ferocia degli atti superò la plebe di questa.

ll giorno 15 già tutto era organizzato con unanimità di propositi sorprendente e che sarebbe ammirevole se fosse rivolta aduno-scopo lodevole ed utile.

Alle sette e mezzo pomeridiane s'intese l'esplosione di una bomba di carta, nel centro della città, e doveva esser questo il segnale che la insurrezione era definitivamente stabilita per quella notte. Accorsero sul luogo i delegati Freddi e Lambranzi e andarono al quartiere della Guardia. Nazionale per domandare man forte. I militi si erano rinchiusi e non vollero uscire in nessun conto. Sopravvennero intanto il Vice-Brigadiere di P. S., le guardie, i carabinieri, la poca truppa che v'era e fecero degli arresti.

Alla mezza antimeridiana del 16 s'intesero dei colpi di fucile verso Rocca Monreale e nei giardini dal lato di Palermo, che erano dirette contro un posto detto il Palchetto occupato da pochi soldati. Tutta la truppa si mise sotto le armi per esser pronta ad ogni evento e sul far del giorno giunsero gl'ispettori Avv. to Bolla, La Porta e l'applicato Castagnone per sapere cosa fosse accaduto, poiché da Palermo si era inteso un vivo fuoco di fucileria. Mentre stavano parlando dell'accadutosi presenta loro il Maresciallo de’  Reali Carabinieri Zavattini Epineto annunziando che presso la chiesa della Madonna delle Croci, sul pendio del monte Caputo, si vedono uomini armati ed hanno una bandiera rossa.

Andati tutti alla caserma dei Carabinieri, da dove si poteva vedere quella località, si accertarono del fatto, ma l'ispettore Bolla, piemontese, e perciò non pratico di queste scene, non volle credere che fossero briganti, ritenendo impossibile che potessero giungere a tanto ardire di venir così presso alla città.


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Credeva piuttosto che fossero Guardie Nazionali ed altri cittadini ivi raccolti per la festa di quella Madonna, tanto più che si sentiva il suono delle campane. Ciò non ostante cedendo alle insistenze di quelli che credevano fosse una banda di briganti e dicevano persine di conoscere alcuno, dispose che il Freddi con i carabinieri e dieci guardie di P. S. andasse per vie nascoste ad attaccarli alle spalle; il Lambranzi con 30 Granatieri girasse sulla sinistra e il Zavattini con altri 30 Granatieri alla destra. Egli poi, malgrado l'opposizione di tutti, stabili di andar solo ad incontrarli di fronte per riconoscere da se stesso che gente fosse.

Erano le sette antimeridiane ed il Freddi partì per primo, dovendo fare un più lungo cammino, e' gli altri partirebbero un'ora dopo per trovarsi tutti ad un tempo alla Madonna delle Croci ed accerchiare i briganti.

Intanto una moltitudine di popolani armati fa fuoco contro la guardia delle carceri per liberare i detenuti, e tale è sempre l'obbiettivo principale delle sommosse di queste plebi.

Il Capitano dei Granatieri signor Marasca alle prime fucilate mette sotto le armi i 60 soldati che ha, e divisi in due pelottoni, l'uno comandato dal Luogotenente Antoniani e Sottotenente Carloni, l'altro dal Sottotenente Chilò, marcia a passo di corsa verso le carceri. Mentre i soldati di guardia si difendono energicamente, egli occupa le strade. circostanti, facendo fuoco sui rivoltosi. Volendo poi prenderli in mezzo, va col secondo pelottone nelle strade superiori, ma accolto da per tutto a fucilate e da una pioggia di tegole e sassi, crede opportuno di prendere una posizione dominante e occupa la chiesetta delle Croci; dove sapeva di poter essere protetto dal. delegato Freddi che v'era andato con i carabinieri e le guardie di P. S. Infatti il Freddi era giunto alla destra di quella posizione e con un vivo fuoco teneva a bada i briganti, perché non l'accerchiassero.

Il Marasca prima di andare alle Croci spedi un caporale al primo pelottone con ordine che lo raggiungesse; ma quello temendo di esser messo in mezzo aveva preso posizione nel proprio quartiere. Anche i Marescialli Zavattino e Bellini con i loro uomini, dopo un'ora di fuoco, si ridussero nello stesso quartiere e tutti insieme sostennero un fuoco di cinque ore; finché avendo gl’insorti praticata un'apertura da un lato del quartiere e vedendo di non potersi sostenere a lungo, ne uscirono a bajonetta calata e andarono fuori del paese. Tentarono poco dopo di rientrarvi ma fu loro impossibile e cosi presero la via di Palermo.

Il delegato Freddi dopo di aver mandato due guardie per domandare rinforzi a Palermo, occupò la cima del monte Caputo per proteggere i Granatieri, affinché non fossero loro tagliato tutte le strade alla ritirata.

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 Vedendo poi che il primo pelottone era partito da Monreale e i rinforzi non giungevano, tenne consiglio col capitano, il delegato Lambranzi e il tenente Chilo, i quali decisero di ritirarsi a Palermo passando fra Rocca Monreale e Bocca di Falco e poi fra i filari di fichi d'India e i muri dei giardini. — Alle sette pomeridiane giunsero a Palermo, e se avessero tardato poche ore a prender questa determinazione non sarebbero stati più in tempo e il meno che potesse loro accadere era di essere fatti prigionieri.

I briganti entrati in Monreale sono circa trecento e tutti assassini, renitenti e latitanti del paese stesso, con i loro capi Spinnato, Cuccio, Giordano ecc. già famosi per i loro delitti.

L'ispettore Bolla che con il delegato La Porta e l'applicato Castagnone era entrato nel convento de’  Benedettini per vedere le operazioni d'attacco da esso ordinate, e aspettare che il Freddi fosse giunto al suo posto per poi andare anch'essi, volle uscire, ad onta delle dissuasioni e preghiere di chi lo circondava, per andar dal Sindaco e dal Comandante della Guardia Nazionale. Appena arrivato sulla piazza e riconosciuto per l'ispettore che inviava i picciuotti al domicilio coatto, fu fatto segno alla furia popolare, gli spaccarono il cranio e poi lo crivellarono di palle. Il cadavere rimase nudo (le vittime son sempre denudate per rubare gli abiti) sulla pubblica strada e spesso qualche picciuottu, di quelli che avrebbero meritato la galera piuttosto che il domicilio coatto, si divertiva a gridare presso al cadavere. — A 32 grana lu ruotulu la carni di lu spitturi (dico gridavano, non vendevano).

Il La Porta che accompagnava il povero Bolla potè fuggire e l'applicato Castagnone fu fatto prigioniero e tenuto nel convento dei Benedettini.

Gl'insorti rimasti padroni del campo si abbandonarono ad ogni sorta di sfrenatezze inaugurando la più salvaggia anarchia.

Sono aperte per prima cosa le carceri, messi in libertà i detenuti e saccheggiate nel modo più completo, comprendendovi anche le vicine abitazioni dei delegati Freddi Nicola e Lambranzi Giuseppe.

È saccheggiata la caserma de’  Reali Carabinieri, dove trovarono sette cavalli; la caserma delle Guardie di P. S. ; gli alloggi degli ufficiali, la Ricevitoria e l'archivio della Pretura, portando via la carta bollata e distruggendo il resto.

La mattina del 46 una banda di assassini fece prigioniero il carabiniere Busachelli intimandogli di gridare viva la repubblica, ma il bravo soldato, disprezzando la vita grida ad alta voce viva il Re... viva l'Italia. Allora quei cannibali lo trascinarono in mezzo al paese e l'uccisero a colpi di coltello e di fucile.

E ucciso un vecchio che aveva relazioni col delegato e una donna con la figlia perché facevano dei servizi domestici alla questura.


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Si forma un comitato detto del Municipio, il quale dice di pagare le squadre perché mantengano il buon ordine e proteggano i cittadini. A queste squadre il comitato elargì oltre a 5000 lire; del resto non si fece più che uccidere, rubare, saccheggiare e inviar squadre a Palermo e nei vicini paesi per fare altrettanto.

I membri del. comitato furono reclutati fra i cittadini e i membri del Municipio. Presi a forza dal popolo elessero a presidente l’Arcivescovo Benedetto D'Acquisto e salvarono quanto poterono dalla distruzione.

Entrate le truppe, il giorno 25, liberarono 476 prigionieri fra soldati, Guardie di P. S. e Carabinieri, presi in vari luoghi del circondario e ivi mandati da Palermo stessa.

Le perdite del combattimento di Monreale ascendono ad 8 Granatieri morti, un. caporale furiere e 4 soldati feriti.

Più minuti dettagli su ciò che avvenne durante gli otto giorni di anarchia è difficile a conoscerli.

Misilmeri

Lomu è dui voti Lupu.

G. Meli

La storia degli otto giorni d'anarchia in Misilmeri è tale da fare ribrezzo ad ogni uomo civile. Si tratta di una città posta a 11 chilometri, cioè ad un'ora e mezzo di distanza da Palermo e con 9000 abitanti, che nella gran maggioranza ha cooperato o presa parte attiva alla carnifìcìna, al saccheggio, ai baccanali e ad ogni sorta di barbarie. Tutto era organizzato fin dalla sera del 15 per l'ingresso delle squadre armate, di miisilmeresi latitanti e renitenti di leva, e partite le truppe al mezzodì del 46 (richiamate a Palermo) entrarono festeggiate da tutta la popolazione e capitanate dai celebri assassini Domenico Giordano e G. Battista Plescia.

La sera vi fu generale. illuminazione e costituita un comitato delle persone più agiate del paese il cui primo atto fu quello di chiamare il popolo alle armi per liberare i detenuti e correre in soccorso di Palermo.

Tutto il paese rispose all'appello e andò al deposito di armi della Guardia Nazionale, che era stata disciolta pochi giorni prima per decreto reale. Il picchetto di truppa che custodiva il deposito dové cedere innanzi ad una turba di oltre duemila, in gran parte armati, e fatto prigioniero. Fu saccheggiato quindi il locale e presi dal popolo 500 fucili, colle relative munizioni, con i quali si armò di nuovo la Guardia Nazionale. Dopo di questo la folla si spinse alla caserma dei Reali Carabinieri ove si erano ritirate anche le Guardie di P. S. e tumultuando intimò foro di arrendersi.


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Il Maresciallo Grimaldi e il Brigadiere di P. S. De Lupis non si lasciarono intimidire e risposero con un vivo fuoco, che durò tutta la notte fino al mezzodì del 18, quando cioè ebbero sparata l'ultima cartuccia.

Andò allora una commissione composta di notabili del paese e del Pretore, per indurli a cessare da un' inutile difesa e uscire dal paese, promettendo che non sarebbero molestati da alcuno. Il Maresciallo forzato dalla dura necessità dovè acconsentire e usci con tutti i suoi; ma appena fatti pochi passi furono circondati ed assaliti da una turba di popolo e Guardie Nazionali. I Carabinieri vedendosi traditi si misero in difesa e facendosi largo con la bajonetta, menando colpi da disperati, raggiunsero di nuovo la caserma e vi rimasero difendendosi tutta la notte.

Il Maresciallo però che con due carabinieri e 4 guardie di P. S. si era trovato isolato, poté fuggire e venire a Palermo con i suoi compagni.

Gli assediati, mancando di viveri e dì munizioni, non sapevano a qual partito appigliarsi, quando la mattina del 49 furono invitati di nuovo ad uscire con promessa di aver salva la vita. Intanto il popolo, aveva praticata un'apertura da un lato della caserma ed entrati i più feroci furon sopra a quei disgraziati e li portarono in strada, in mezzo ad una turba di gente avida di vendetta e di sangue. — Qui ripugna il descrivere gli atti di efferata barbarie commessi sopra quelle misere vittime. Uccisi a colpi di fucile o di coltello, alcuni martoriati e indi bruciati, altri ebbero tagliata fa testa, infine si giunse a condannare la guardia di P. S. Sartorio ad essere fatta morire a morsi di donne, fra le quali ve ne fu una che riusci a carpirgli un membro del corpo. Dopo averli uccisi tutti la barbarie si spiegò fin sui cadaveri che fu gran parte furono tagliati a pezzi e gettati per là campagna senza sepoltura. Al cadavere del Rappieri fu tagliata la testa da un certo Pietro C. che come belva ne succhiò il sangue, e messa in punta alla bajonetta, tolta allo stesso, la portò in gira per il paese. Una donna carpi allo stesso cadavere una parte che non nomino e diceva dì volerla mangiare. Tutto ciò perché il giovane Rappieri aveva operati importanti arresti dovuti al suo zelo. Vi fu chi lambì il coltello di cui si era servito per la carnificina, e intanto tutti gridavano morti all'italiani... viva la Bedda Matri...  viva S. Giusta... viva la Riligioni...  e le campane suonavano a stormo...  E il clero?... dice l'Arcivescovo che il suo clero è modello di rettitudine, umanità e carità...  che suda ad educare e moralizzare le plebi e le confort con l'esempio e la predicazione! Menzogna!...  Un paese come Misilmeri, dove la vita non è che un tessuto di atti esterni di religione, dove tutti pendono dal labbro del prete, dove si brandisce il coltello e lo schioppo al grido di viva la Bedda Matri e S. Giusta e la Riligioni,


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non può esser frutto che delle insinuazioni del clero, della educazione del prete, della morale che dettò la bolla di composizione!...  Risulta infatti che il clero invece di inorridire, invece di mettersi fra la vittima e i carnefici, invece di predicar la pace, incitava alla vendetta, faceva suonare le campane, e godeva di questa piccola S. Bartolomeo, dicendo al popolo che i soldati di Vittorio Emanuele sono eretici e scomunicati!...  Venga ora Mons. Arcivescovo a rispondere con qualche sua lettera al Ministro...  e dica che è colpa del giornale il Precursore se il clero di Misilmeri si è veduto cangiare in jene le sue pecorelle! Ci dica che è colpa del governo se egli non può esercitare i suoi poteri! che non ha giurisdizione su quel clero...  e ne dia ad intendere quanti vuole sofismi e ipocrite menzogne, ma neghi se può, che al grido di viva la Religione, la Madonna, S. Giusta ecc. furono barbaramente uccisi 24 Carabinieri e 40 Guardie di P. S.  Ci dica quanti numeri del giornale Il Precursore, o meglio quanti han potuto leggere quel giornale nella Misilmeri devota della Bedda Matri e fanatica contro gli eretici per quanto è ignorante e selvaggia!

Ma il mondo giudica dai fatti e scuserà piuttosto la popolazione di Misilmeri come miseramente abbandonata nelle braccia di pastori veri discendenti di Torquemada, e riconoscerà come in un paese dove non si è esercitata altra influenza, altra educazione, altro dominio morale, che quello del clero, debba su questo ricadere l'esecrazione del mondo civile per i fatti di settembre. Né si dica che in un giorno le pecore si cambiarono in lupi, poiché la serie dei delitti non è mai interrotta ed ha sempre le stesse cause.

A prolungare le delizie del massacro qualche assassino dopo aver attaccato un brano dei cadaveri ad una porta né bandiva la carne gridando: - a 35 grana la carni di li sbirri e 42 chidda di li carrubinieri ca va cchiu cara (dico si bandiva e non si vendeva}.

I cadaveri ebbero sepoltura solo quando ristabilite le autorità il giorno 27 furono rinvenuti sparsi per i campi.

Sazio infine di vittime il popolaccio diè mano al saccheggio di tutti gli edifici pubblici, cominciando però dalla casa dell'ex Sindaco Pietro Lallia, perché uomo onesto e non amico dei preti, del percettore Giuseppe Santoro, del Municipio, Caserme, Carceri, ufficio dello stato civile ecc. distruggendo quello che non potevano portar via e rubando perfino le porte, le fenestre, i mattoni delle camere, gli scalini e infine lutto ciò che aveva un valore.

Finalmente non avendo più delitti da perpetrare in Misilmeri, il comitato invitò la popolazione ad arruolarsi per andare in ajuto di Palermo con la retribuzione di due lire al giorno. Il Salvatore Dipisa pagò subito la prima rata e, oltre 200 di quelle jene, con vessillo rosso, entrarono in Palermo, dove non v'era certo bisogno di questo rinforzo.


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Il Brigadiere Santagostino cui riuscì di fuggire, s'incamminò il 18 verso Belmonte, dove prima d'entrare mandava a chiamare il Capitano della Guardia Nazionale che conosceva. Gli si presentarono invece certi B. ed R. il primo dei quali con una fucilata lo stese a terra.

Quanto ho narrato ha dell’incredibile ed io avrei voluto tacerlo se le corrispondenze non ne avessero già di troppo parlato, e non mi muoesse la speranza, che conosciuti sì grandi mali, non si tardasse ad applicare energici rimedi. Il sagrificio d'amor proprio nazionale che si fa nel pubblicare coteste vergognose e tristi scene di sangue, valesse almeno a persuadere i rappresentanti della nazione, che sopra a tante questioni più che secondarie e di etichette parlamentari, dovrebbe dominare quella sociale che minaccia cronicismo in certe provincie. — Qualche misilmerese reo, o plaudente spettatore di tanto eccidio, può domani montar la guardia con la divisa militare alla porta del parlamento, o alla vedetta di un nemico alle frontiere, dove certamente non farà la parte di uno di quei soldati vincitori di Salowa che prima di prendere il fucile ha già passati sei anni sulle panche delle scuole...











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