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LA
CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO DUODECIMO
VOL. IX.
DELLA SERIE QUARTA

ROMA
ALI'UFFIZIO DELLA CIVILTÀ CATTOLICA.
Via del Seminario 123.

1861.

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Regno Delle Due Sicilie. 1. Arrivo a Napoli del Principe di Carignano; suoi poteri; bando di Vittorio Emmanuele — 2. Caduta del Ministero fariniano; cagioni dell'impotenza del Farmi dichiarate dall'Opinione; nuovi Ministri — 3. I garibaldini, I"anarchia e la repressione in Napoli — 4. Insurrezioni pel legittimo Re nelle province — 5. Annoiamenti forzati delle milizie — 6. Arresto di generali ed ufficiali sospetti — 7. Mene in favore del Murai; bando spedito da Parigi —8 Fedeltà dei soldati napolitani, ed indirizzo degli ufficiali di Gaeta a Francesco II — 9. Bombardamento dell'8 Gennaio, poiché e con qual effetto — 10. Cenni molto oscuri del Moniteur parigino intorno ad un armistizio — 11. Richiamo e partenza dell'armala francese da Gaela; dichiarazioni del Moniteur — 12. Apologia di Napoleone III fatta dagli Italianissimi — 13. Ricompense ai settarii e traditori — 14. Artifici per la fabbricazione de’  voli elettorali; missione a Napoli d'uno scrittore della Gazzella del Popolo — 15. Provvedimenti per mitigare la fame del popolo e la carestia delle derrate — 16. Tumulti in Palermo; leggi Mordiniane; nuovi Ministri per la Sicilia.

1. Sul mezzogiorno del sabato 12 Gennaio, tra il rimbombo delle artiglierie delle navi inglesi, entrò in porto di Napoli la pirofregata sarda Vittorio Emmanuele, sopra la finale giungeva il nuovo Luogotenente generale del Re di Sardegna per le province napolitane, Eugenio di Savoia principe idi Carignano. Le accoglienze furono ufficialmente splendide. In quanto a manifestazioni popolari, i testimonii di veduta ne danno descrizioni stranamente contraddittorie. Questi afferma che tutto era in visibilio d'entusiasmo; quegli scia ride, e ritrae con beffarde caricature i branchi di lazzari cenciosi e scalzi, che ballonzolando a saltelloni innanzi alla carrozza ed abbaiando non si sa che cosa, facevano sventolare luridi stracci Incolori a modo di bandiera. La curiosità trasse molli a vedere; i cavouriani plaudivano; i garibaldini urlavano; e gli apparatori di dimostrazioni si dimenavano, perché non andassero perdute le spese dei ducati distribuiti alla marmaglia onde componevasi il coro destinato a rappresentare l'entusiasmo popolare. Tutto si passò in buona regola.

Il Principe di Carignano è investito, fino alla convocazione del Parlamento, di tutti i poteri reali. Ma gli sia al fianco il fidatissimo depositario dei segreti Cavouriani e Napoleonici, Costantino Nigra, con titolo di Segretario generale di Stato il quale «unitamente al rispettivo Consigliere di Luogotenenza...  controsegnerà tutti i provvedimenti pei quali sia necessario il decreto o l'assenso sovrano...  eserciterà tutte le attribuzioni del cessato ministero della Presidenza; e corrisponderà direttamente con ciascuno dei Ministri (di Torino) pel ramo che rispettivamente li risguarda».


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A ciascuno poi dei vari rami di governo è assegnato un consigliere di Luogotenenza, che vi presiede sollo la dipendenza del prelodato Nigra. Queste sono le disposizioni più rilevanti d' un decreto firmalo dal Re alli 7 Gennaio.

Sul giungere a Napoli il Principe Eugenio fu, a così dire, presentato ai popoli dell’Italia meridionale da Vittorio Emmanuele; appunto come questi era stato presentato dal Garibaldi ai sudditi che gli regalava. Ecco il bando del Re di Sardegna.

«Italiani delle province Napoletane! Le cure dello Stato mi costrinsero a separarmi con rammarico da voi. Non saprei darvi maggior prova di affetto che inviandovi il mio amato Cugino, Principe Eugenio, al quale soglio affidare, in mia assenza, il reggimento della Monarchia.

Egli governerà le province Napoletane in mio nome e con quei poteri che esercitai io stesso e delegai all'illustre uomo di Stato cui grave lutto domestico ritrae dall'onorevole ufficio. Ponete nel Principe Eugenio quella fiducia della quale mi deste prove non dubbie; e, mentre attendo i vostri rappresentanti al Parlamento, agevolale colla. vostra concordia e col vostro senno civile l'opera di unificazione ch'egli viene a promuovere. L'Europa che da due anni guarda maravigliando i grandi fatti che si compiono in Italia, apprenderà dalla vostra condotta che le Provincie Napoletane, se più tarai vennero nel consorzio delle liberale sorelle, non perciò sono meno ardenti nel volere fortemente l'unità della patria comune. Torino, 7 gennaio 1861. Vittorio Emanuele — C. Cavour.»

2. Il Farini in questa circostanza fece l'ultima sua comparsa pomposa. Andò a ricevere il suo successore, lo seguì a Palazzo, e toltasi di capo l'effimera corona regale, si ritrasse a Portici. Il Re, per consolarlo, gli die titolo e onore e stipendio di Ministro di Stato, e per giunta lo nominò suo segretario privato di gabinetto politico. Di che forte si dolse e cominciò a strillare la Gazzetta del Popolo, ricordando a chi spettava che il Re non può avere altra politica che quella del suo Ministero; ed a racquetare lo schiamazzo, bisognò spiegare ben chiaro e far capire a tutti che il Re non manipolerebbe mai altra politica, che quella già ammannita dal Ministero. Messo in disparte il Farini, com'era da prevedersi dovettero pure torre licenza, e sgombrare le sedie di Consiglieri di Luogotenenza, quelli che egli si avea scelto a far da Ministri, e che colla loro inettezza ed improntitudine aveano pericolato tutti i felicissimi risultati dell'invasione Garibaldina, del plebiscito e della conquista piemontese.

Difatto l'Opinione di Torino, in mezzo ami profluvio di elogi al Farini, conditi da una dramma di commiserazione al caduto rivale del Cavour, gitta la colpa della mala prova che fece a Napoli il Dittatore dei Ducati e dell’Emilia, in prima sopra l'inesperienza o meglio l'ignoranza, in cui questi versava, delle condizioni speciali del Regno; poi sopra l'ingerenza degli emigrati «i quali furono riguardati come uomini che tornavano in patria per aver impieghi, togliendoli a quelli che erano rimasti in paese. La caccia agli impieghi, fra tanti danni che reca, produce pure quello di accendere l'ira dei delusi ecc.» Confessa poi l'Opinione che «il Governo ha commesso errori... Non è stato, per esempio, un pettegolezzo che costituisce un errore politico, il divieto dell'Inno di Garibaldi?» E segue buona pezza su questo tono. Fatte così le esequie al Farini, intuona poscia il canto di gloria pel Nigra, da cui si ripromette le mirabilia e così sia.

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Dopo molte pratiche, furono trovati i nuovi Consiglieri di Luogotenenza, che debbono fare un sottosopra le parti di Ministri sotto la presidenza del Segretario di Stato.

Un decreto del 17 Gennaio fece sapere che il predetto Consiglio fu così ricomposto: il famoso Liborio Romano, per gli affari interni e l'agricoltura; io. Spaventa per la polizia; il Mancini per gli affari ecclesiastici; il La Terza per le finanze; l'Oberti pei lavori pubblici; l'Imbriani per la pubblica istruzione; il D'Ayossa pel dicastero di Grazia e Giustizia.

È accertato che il pensiero di formare questa scelta di Consiglieri fu commesso, come al più degno di tant'onore, al Liborio Romano; ed è verosimile che costui avrebbe preferito tutti uomini della sua tempera, se pure di cotali se ne trovassero parecchi.

3. A poco a poco si vennero sciogliendo la più gran parte delle masnade di veri Garibaldini, che si avviarono altrove con un buon gruzzolo di moneta. Spediti via gli Ungheresi, accommiatati gl'Inglesi, fatti viaggiare verso l'alta Italia i Lombardi e Veneti. Non è perciò da dire che veramente il Cavour non voglia servirsene; ma solo, e questo si sa da tutti, si ripete la commedia già rappresentala dopo la pace di Villafranca. Si licenziano codesti corpi franchi, per poterne usare più liberamente in altri luoghi; dove si mandano poi, a tempo opportuno, alla spicciolata, affinché sotto il protettorato nascoso e sotto l'apparente biasimo di certi Governi, possano efficacemente rinnovare il dramma di insurrezioni spontanee de' popoli contro i Governi che voglionsi abbattere. Difatto scrivono da Costantinopoli che cominciano a passarvi in piccole frotte i Garibaldini d'ogni nazione, che pei Principati Danubiani devono condursi alle frontiere d' Ungheria, e quivi eseguire poi gli ordini che verranno loro dati, per mezzo del Solitario della Caprera, da Parigi e da Torino. In conseguenza di ciò da qualche giorno sono alquanto scemali i tumulti nella città di Napoli, e non vi si rinnovano più cosi frequentemente certe scene brutali. Ma pur vi formicolano ancora Garibaldini che spuntano come funghi di sotterra. Ogni malandrino, che crede aver diritto di fare il suo mestiere senza essere disturbato, si avvolge il torso in uno straccio rosso, grida Viva Garibaldi, ne canta l'inno a gola piena e va sicuro. Quanto al frenare cedesti patrioti, la faccenda è troppo ardua in un paese, in cui sembra manifesto che tutti abbian preso sul serio le facezie del popolo sovrano, e perciò tutti vogliono comandare e niuno obbedire. Il povero Farini non avea intorno a sé chi gli obbedisse se non forse i suoi segretàrii privati. Gli altri, dopo una serie non interrotta di inchini, di baciamani e di complimenti profumati, voltavano le spalle e lo sberteggiavano allegramente, facendo ciascuno a modo suo. Questo moda continua, ed è praticata dalla minuta plebe, che di tanto in tanto si sferra a disordini incredibili; ed allora dopo alquante schioppettate e colpi di daga da una parte, mazzate e sassaiuole dall'altra, ciascuno rientra in casa sua. Di cotesti fatti quotidiani, repressi poi con le carceri e peggio, è inutile tener discorso.

4.Nelle province, non che scemare, va crescendo il fuoco dell'insurrezione contro i novelli padroni del regno, nei quali i popoli si sono ostinati di non voler riconoscere altri diritti, che quelli che rampollano da compera per tradimento e da conquista per forza. Le Corrispondenze della Nazione di Firenze recano quasi ogni giorno la notizia di nuove reazioni scoppiate qua e colà; in certi luoghi per la sesta e settima volta.

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Veri combattimenti avvennero a Foggia ed a Lanciano, e bisognò spedirvi truppe regolari per mettere un termine alla lotta sanguinosa impegnata fra il grosso della popolazione ed i paladini del Piemonte in divisa di guardia nazionale. Negli Ahbruzzi tutto è sossopra. In più luoghi tagliati i passi alle schiere degli usurpatori; i quali mandandovi rinforzi non tralasciarono di rinnovare l'ordine di fucilare immediatamente qualunque fosse trovalo in armi. E ciò non serve a nulla. Tra Isernia e i vicini paesi sono oltre a 1300 i riluttanti alle nuove libertà che perciò sono in carcere; a Teramo non meno di 300; a Lanciano 200; più di 300 al Vasto: e ciò per nulla dire di Avellino, Ariano, Foggia, delle Calabrie, delta Terra di Lavoro, di Sora e suoi contorni, deve tutto è guerra civile e reazione violentissima contro i dominatori imposti dal tradimento e dalla perfidia dei settarii, da cui sventuratamente si trovò circondato Francesco II.

La storia porrà in noia questi fatti; e fin d'ora è sì evidente l'impostura del voto spontaneo ed unanime dei popoli delle Due Sicilie per l'annessione agli Stati Sardi, che appena osano ancora farne cenno gli stessi impudentissimi giornali del partito unitario.

5. Per levar alimento al fuoco, il Governo di Torino s'appigliò al partito di arrotare per forza nei battaglioni dell’esercito italiano i soldati napolitani. [In decreto, sotto forma di Circolare del Ministero della Guerra in data del 6 Gennaio, ordina che «tutti senza eccezione i prigionieri di guerra napolitani saranno incorporali nel Reggimento, Deposito o battaglione a cui sono presentemente aggregati, per continuare la forma di servizio contratta sotto il cessato Governo.» Inoltre sono egualmente richiamati sotto le armi lutti gli inscritti ali' esercito delle Due Sicilie dal 1857 in qua. Un decreto di tal natura è presto dettalo e promulgalo. Tutto sta in farlo eseguire. Se i 40 o 50 mila soldati napoletani ricusano l'alto onore della coccarda tricolore, come si farà a mettercela per forza? Un primo spediente per tener quieti i popoli delle province fu la minaccia che al primo segno di turbolenze ne sarebbero richiamati i soldati lasciati liberi alle case loro. L'insurrezione scoppiò in più che 200 luoghi, e i soldati non furon potuti cogliere. Si mandano da Napoli truppe di linea e carabinieri a dar la caccia ai riluttanti, ed ogni giorno se ne vedono passare, per le vie che mettono al Caste! dell'Uovo e di S. Elmo, qualche decina fra due file di moschetti e di baionette. Ma rifatti soldati a questo modo, si può egli credere che vorranno davvero servir di cuore ai loro padroni? Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportali in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei mescbinelli, appena coperti da cenci di tela, e rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua e una sozza broda, furono falli scortare nelle gelide casematte di Finestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittali, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l'otterranno.


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6.La polizia napolitano credette aver buono in mano per iscoprire una trama di estesissima rivoluzione in favore di Francesco II, che ad ogni patto voleasi restauralo sul suo trono da numero grandissimo di soldati e generali. Per mettersi al sicuro che, in caso di una sedizione popolare mancassero i capi militari atti a governarla e farne valere le forze, arrestò di botto sei Generali dell'esercito napolitano che viveano quietamente a Napoli, spacciando d'averli scoperti complici d'una tremenda congipra; ed inoltre intimò a moltissimi officiali i quali, fendutisi prigionieri di guerra, erano stati liberati ma non aveano voluto passare sotto le insegne degli usurpatori, che dovessero costituirsi prigionieri in varie castella. Con ciò, sopra un semplice sospetto e per provvedimento di cautela a mantenere il mal tolto, ecco le centinaia d innocenti oppressi e stretti in duro carcere. Questi mezzi quanto serviranno ad inspirare nei napolitani affetto e devozione ai loro padroni?

7. Oltre agli ostacoli che s'incontrano dal Governo piemontese nella fedeltà dei popoli al loro Re, nella ripugnanza del disfatto esercito, nei sospetti di rivolture, nelle aperte sedizioni e nei tumulti mazziniani; egli si trova anche molestato da mene prima segrete e fatte ora palesi del partito murattiano, il quale ingrossa fra i liberali scontenti della parte di preda loro toccala in sorte nella divisione coi fuorusciti venuti dal Piemonte. Fece gran chiasso, tra gli altri segni delle mire a cui son volti i propositi del nuovo pretendente, un bando a nome del Murai, spedito da Parigi, e largamente diffuso in Napoli. Eccone un tratto assai curioso, e che spiega l'irritazione destata nei Piemontesi.

«Veramente non alla patria, ma alla cupidità di quattro sensali politici e del loro borioso banchiere s'immolarono i pubblici interessi. Una sètta avara e superba d'amor patrio s'imbellettò, ma sotto il liscio si veggono le grinze. Governo di monopolio e di conquista, frullo non è di amor patrio: frutto è di corruzione e di stoltezza. Gli uni sono violenti per libidine di potere, gli altri per ignoranza. Vennero su fra le tenebre delle piemontesi combriccole certi saccenti da trivio, che accettarono dalle genti straniere il concetto e la norma del governo. Privi d'ogni nativo e schietto senso italiano, impresero a rifar l'Italia dietro le loro fanciullesche utopie. Digiuni degli ammaestramenti dell'esperienza, non potevano sentire la necessità di un sistema federale. Non sentirono queste anime degeneri che privilegio è della ricca penisola italiana moltiplicare i centri, le capitali città, perché più abbondi, e si sfoghi in tutta la copiosa varietà dei suoi diversi istinti la mente e la vita dei nostri popoli...  E per istollezza scoronarono Napoli destinata ad essere la seconda Roma nell'italiana federazione, e prima ad ogni altra città.»

8.Una Corrispondenza del Débats del 12 Gennaio racconta che i soldati licenziati da Gaeta (dove il numero loro avrebbe cagionato più impaccio che vantaggio, rendendo facile lo svolgersi di malattie perniciose) tuttoché macilenti, sfiniti dalle fatiche ed appena vestiti, si mantengono fedelissimi al loro Re, «e sono persuasi che la causa di lui non è ancora perduta, ma che al contrario egli risalirà sul trono de’  suoi padri.» Questo è venissimo, e ne sarà conservata memoria ad onore perpetuo di quell'esercito, che ebbe apparenza di fiacco, codardo e traditore, sol perché la perfidia dei sellarti ne avea fatto dare il comando a uomini o incili o traditori, come il Pianelli e il Nunziante,


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ed altri colali spergiuri. In prova di che si videro giungere a Gaeta, in mezzo a mille pericoli, soldati ed ufficiali che avean dovuto già da più mesi smettere le armi pel tradimento de’  loro capitani. Essi volevano ad ogni patto combattere e morire pel loro Re. E gli uffiziali del presidio di Gaeta, quando sullo scorcio del Dicembre già sapeasi che l'imperatore di Francia li abbandonerebbe al loro valore, presentarono al Re il seguente indirizzo firmato da tutti, senza eccezione alcuna. «Sire. In mezzo ai deplorabili avvenimenti, di cui la tristizia de’  tempi ci rese spettatori dolenti e indignati, noi sottoscritti ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l'omaggio della nostra fedeltà dinanzi al vostro trono, reso più venerabile e più splendido dall'infortunio. Cingendoci la spada, noi giurammo che la bandiera affidataci da V. M. sarebbe da noi difesa, anche a prezzo di lutto il nostro sangue.

Ed è a questo giuramento che noi vogliamo rimanere fedeli, qualunque sieno le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce de’ nostri capi; noi sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e qualunque altro bene per il trionfo e poi bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell'onor militare che solo distingue il soldato da) bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed all'Europa intera che, se molti de’ nostri, col tradimento e colla viltà, hanno bruttato il nome dell'armata napoletana, fu pur grande il numero di coloro che si sforzano a trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità. Che il nostro destino sia presto deciso, o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie. del trionfo o alla morie dei prodi, innalzando l'antico nostro grido di viva il re!»

9.Né tardò mollo a venire il momento di provare a fatti la sincerità delle parole. Nei primi giorni del Gennaio il Cialdini prese a tempestare, più fieramente che prima, di bombe sopra la città, e il giorno 8 die fuoco a tutte le sue artiglierie. Ecco in qual modo passò il fatto, secondo che narrano corrispondenze delle due parti nemiche, pienamente d'accordo in quanto alla sostanza. Napoleone III vide giunto il momento di richiamare la sua armata ed uscire d'impaccio, posciachè le batterie piemontesi poc'oltre alla metà del Gennaio sarebbero compiute e in pieno assetto di guerra. Mandò pertanto a proporre a Torino che richiamerebbe le sue navi, se il Piemonte accettasse una tregua di olio o dieci giorni, durante la quale si trattasse della resa della fortezza; se Francesco II in questo tempo non cedesse, egli lascerebbe libera l'armala sarda di fare checché le tornasse a conio dalla parie di mare. Il Cavour, naturalmente, accettò di gran cuore, e mandò ordine al Cialdini di annunziare al presidio di Gaeta la sospensione delle ostilità. Ma il Cialdini pochi giorni prima avea così bistrattato un parlamentario napolitano, che non si arrischiò di esporre uno de’  suoi alle giuste rappresaglie che temeva. Si volse dunque all'Ammiraglio di Tinan; il quale già il mattino del 7 avea fatta al Re di Napoli la proposta napoleonica, ma ne avea riportalo un rifiuto, parendo troppo vaga e inconcludente. Il di Tinan tornò dal Re e insistette ed ottenne; e nel trattarne di nuovo col Cialdini si lasciò uscire di bocca, che ciò tornava assai utile ai Piemontesi, i quali ad ogni modo non aveano ancora in pronto le batterie,

Serie IV, vol. IX. 24 26 Gennaio 1861

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né potevano far cosa rilevante per l'attacco. Ciò punse il Cialdini, e dispettosamente die ordine che l'indomane, poiché la tregua dovea cominciare solo dalla sera dell’8, fin dalle sette del mattino tutte le artiglierie già appostate traessero con ogni forza contro Gaeta. Così fu fatto, e in quelle quasi dieci ore di fuoco, pressoché 7,000 Ira bombe, granate e proietti cavi di cannoni rigati piombarono sulla città, devastandola barbaramente. I Napoletani risposero daddovero con 200 cannoni, fecero lacere parecchie batterie del nemico, posero il fuoco ad uno de’  suoi depositi di polvere, e mostrarono d'essere tutt'altro che intimoriti. Poche furono le perdite di morti e feriti tra gli assediati, ben coperti dalle loro casematte; assai più ragguardevoli quelle degli assalitori, che vi ebbero feriti parecchi ufficiali. Questo sfogo dispettoso del Cialdini tornò anche utile agli assediati, in quanto scoperse loro varie batterie fin allora mascherate, e die agio a far nelle altre guasti considerevoli. Cominciò quindi quella stessa sera il pattovito armistizio; pel quale, come risulta da documenti pubblicati nel Moniteur del 17 Gennaio, era convenuto che non si spingerebbero innanzi nuove opere di assedio, non si aumenterebbe il numero dei cannoni, né farebbesi altro lavoro ostile dagli assedianti; e gli assediati egualmente non costruirebbero nuove batterie. Libero tuttavia ad amendue le parli l'istaurare i guasti patiti. Queste cose sono ampiamente esposte nel giornale dei Débals del 18 Gennaio.

10. Intorno a quest'armistizio corsero voci svariatissime, una delle quali asseriva che si dovesse prolungare fino a Ire mesi. Il Moniteur volle chiarire la cosa, e stampò una Nota che ebbe la sorte di molte altre somiglianti dichiarazioni ufficiali; cioè di parere oscurissima e crescere le dubbiezze. Essa diceva così. «Molli giornali stranieri si sono occupati in questi ultimi tempi e parlano anche oggi di un armistizio che sarebbe stato concluso dalle parti belligeranti innanzi a Gaeta. Il fatto si è che taluni passi si fecero realmente nello scopo di giugnere ad una tregua che permettesse di aprire le trattative, ma quei passi rimasero senza resultato. Tuttavia, avendo la Sardegna dichiarato di essere disposta a sospendere le ostilità ed ogni lavoro d'approccio tino al 19 di questo mese, il vice ammiraglio di Tinan fu incaricato di informarne il re Francesco II, invitandolo a cessare egualmente le ostilità. Nel caso in cui, in seguilo di questo invito, le ostilità fossero sospese, la squadra francese si ritirerebbe immediatamente dalle acque di Gaeta, salvo un bastimento clic rimarrebbe fino allo spirare della tregua.» Da questo bollettino si comprende benissimo, dice il Giornale di Roma del 16 Gennaio, che passi furono fatti per ottenere una tregua, i quali rimasero senza effetto: si comprende del pari che il Piemonte si è dichiarato disposto a sospendere le ostilità fino al giorno 19: si comprende finalmente che nel caso in cui, per consenso del Re Francesco II, le ostilità cessassero da ambo i lati, la squadra francese si ritirerebbe; ma nel caso in cui la tregua non fosse uccellata? Il Moniteur nulla dice di questa contingenza del pari prevedibile.

11.Le dubbiezze però ebbero pronto termine. Accollata da ambe le parti la tregua, l'armata francese ebbe ordine di partire, e le navi salparono una alla volta, rimanendone una sola fino al termine prefisso per lo scadere dell'armistizio.


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Un' altra noia fu quindi pubblicata dal Moniteur del 17 per dar ragione del fatto, ed è di tal rilevanza, che la dobbiamo qui recar per intero, come segue. «L'invio della squadra d'evoluzioni avanti a Gaeta avea per fine d'impedire al Re Francesco II di trovarsi subitamente investilo per terra e per mare nella piazza, in cui erasi ritiralo. All'imperatore stava a cuore di dare una testimonianza di simpatia a un principe crudelmente provato dalla fortuna; ma S. M., fedele al principio di non intervento che ha diretto tutta la sua condotta verso l'Italia dopo la pace di Villafranca, non pretendeva pigliare una parte attiva in una lotta politica. Prolungandosi fuori delle previsioni che l'aveano motivata, questa dimostrazione cambiava forzatamente di carattere. La presenza della nostra bandiera, declinata soltanto a coprire la ritirata di Sua Maestà Siciliana, in condizioni alle a tutelare la sua dignità, passò per un incoraggiamento alla resistenza e diventò un appoggio materiale.

Ne risultarono fra breve incidenti che imposero al comandante supremo della squadra l'obbligo di ricordare, ora ai Napoletani, ora ai Piemontesi, la parte di stretta neutralità che gli era prescritta, e nella quale gli fu presso a poco impossibile a mantenersi. Importava tanto più al Governo dell’Imperatore di non accettare la responsabilità di una tale situazione, quanto che franche e reiterate dichiarazioni non autorizzavano verun inganno sulla natura delle sue intenzioni. Infatti sin dalla fine d'ottobre il viceammiraglio di Tinan era invitato a non lasciar ignorare al Re Francesco II che i nostri vascelli non potevano restare indefinitamente a Gaeta per assistere da impassibili testimoni a una lotta, la quale non poteva finire che con una più grande effusione di sangue. Gli stessi avvisi furono ripetuti più volte a Sua Maestà Siciliana, il cui onore era stato messo sì pienamente fuor di dubbio dal suo coraggio. Nell’intervallo le circostanze indicale si erano aggravate, e volendo conciliare!' esigenze di una politica di neutralità col primo pensiero che lo aveva portato a dare al Re Francesco II il mezzo di operare liberamente la sua partenza, il Governo dell'Imperatore si o fatto mediatore di una proposta d'armistizio che è stata accolta dalle due parti belligeranti. Arrestate di fatto fin dal dì 8 di questo mese, le ostilità rimangono sospese tino al 19 Gennaio, e a questa data pure il viceammiraglio di Tinan si allontanerà da Gaeta».

12.Prima che questo fatto, sì lieto per la rivoluzione italiana e sì desiderato dagli unitarii, si effettuasse, molti dei diarii di questo partito si scatenavano incessantemente contro Napoleone III, e per poco non l'accagionavano di tradimento. La Gazzetta del popolo di Torino fu contristata di tanta ingratitudine e il 10 Gennaio stese un articolo in difesa del fedele alleato di Vittorio Emmanuele, assicurando che col restare a Gaeta egli «non ha impedito di fare quello che altrimenti non avremmo potuto fare», e che l'armata francese resterebbe colà «appunto il tempo che ci vuole per ultimare le nostre batterie Come ci vuoi male l'Imperatore Napoleone!» Così il potente araldo del partito plebeo di Torino, ordinariamente ben informato. E d'altra parte il Corriere mercantile di Genova, diario tutto del Cavour, stampò un'altra apologia ancor più esplicita a questo modo. «La Francia ci ha reso non lieve servigio nel!'impedire che le truppe napoletane, ricoverate nello Stato Pontificio, andassero ad ingrossare i rivoltosi degli Abruzzi,


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i quali allora avrebbero potuto operare una seria diversione obbligandoci a mantenere in quelle montagne una forza maggiore dell'attuale. Questo contegno dei francesi è la continuazione di quella politica di Napoleone, che consiste nel favorirci in tutto ciò che è essenziale, avendo l’aria di disapprovare il nostro movimento, allorquando, ben inteso, ciò non può recarci alcun danno: mi pare che i (atti son lì per convincerci di questa sua politica, giacché nessuno, io credo, ora sta per prendere sul serio la protezione che la flotta francese accorda a Francesco II.» Ognuno intende bene che noi non siamo in caso di giudicare se codesti Italianissimi, nel dire così, parlassero a casaccio e a sproposito. Ci contentiamo di notare i fatti.

13.Quando il Re di Sardegna si mosse per entrare nel Regno delle Due Sicilie, per occuparvi il trono rapito ad un suo stretto parente dal Garibaldi che gliene faceva dono, si gittò voce che uno de primi suoi atti sarebbe quello di rivocare l'infamissimo decreto che premiando il regicidio ne faceva l'apoteosi, ed assegnava ricompense alla famiglia dell'assassino Agesilao Milano; e quell'altro per cui i beni privati della famiglia reale, e (in la dote delle principesse, erano confiscati per dividerne il frutto tra i cospiratori ed i banditi politici. Or nulla di tutto questo finora fu fatto; ma per contro furono da Vittorio Emmanuele firmati più decreti per premiare i traditori del loro Re, levandoli ad alte cariche civili o militari; per annullare i processi e le sentenze per reati di lesa Maestà commessi dal 48 in qua; e per rimettere in onore e rifar de’   loro stipendii i militari ed i magistrali che nel!' ultimo decennio, per delitti d'alto tradimento, erano stati cassi d'uffizio. Queste son cose che la storia registrerà fra le glorie della rigenerazione italiana, e fra i monumenti della ridesta civiltà Ialina.

14. Un'altra cura importante, dopo quella di rimeritare i settarii più benemeriti, si è pel Governo piemontese quella di procacciarsi per le. prossime elezioni ima. buona accolta di Deputati secondo il cuore e la mente del sig. di Cavour. Perciò vediamo che si spediscono a Napoli ed. a Palermo, come ripete il Diritto del 5 Gennaio, buoni carichi di argomenti elettorali, cioè molla moneta sonante, secondo il nolo adagio che l'oro fa miracoli». Per assicurare il nascimento del negozio, fu inviato a Napoli uno dei più efficaci Ira gli scrittori della Gazzetta del Popolo di Torino; e siccome questa missione pareva alquanto strana, e l'indole del messo si porgeva a molle spiegazioni, dapprima fu spacciato ch'egli vi andasse per condurre, con titolo ed autorità di Commissario, le colonne mobili destinate ad imporre negli Abbruzzi e nelle Calabrie il voto unanime di adesione perfetta al nuovo Governo. Ma altri ragguagli fanno sapere che lo scopo a lui prolisso è principalmente di manipolare la materia elettorale per formare deputati di garbo. Ecco in qual modo si ottiene la sincera rappresentanza popolare: denaro, intrighi e violenze. Dopo ciò chi non è beato, tal sia di lui.

15.Ma oltre ai capaci d'essere elettori v'ha nel regno un numero tragrande d'uomini, che per difetto di censo od altro, non hanno diritto a mescolarsi di elezioni e di Deputati, ma ben potrebbero guastare le faccende qualora si trovassero dalla fame ridotti allo stremo. E la fame va crescendo a proporzione dell’enorme rincarire delle derrate di prima necessità; e insieme con essa cresce il mal umore nel minuto popolo, a cui le feste ufficiali, i balli della reggia,


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le pompe trionfali e simiglianti allegrie non levano di corpo il bisogno di mangiare. Il Governo che già sentiva stormire nell'aria la tempesta e vedeva addensarsi i nuvoloni, la ruppe a mezzo cogli indugi, e die ordine che il frumento raccolto nei depositi provinciali a servigio dell'esercito, si vendesse all'asta pubblica a prezzo discreto ed a piccole partite, per dar agio anche ai poverelli di comprarne e sfamarsi. Con ciò avrà forse attutito per qualche giorno le lagnanze disperate di cui già risonavano le vie e le piazze di Napoli e delle città. Il resto si vedrà poi.

16.Sarebbe un ripetere inutilmente le stesse cose se aggiungessimo parole intorno alle condizioni rigogliose dell’anarchia in Sicilia. I diarii riboccano di particolari che mettono pietà. Notiamo solo che in Palermo i tumulti crebbero a segno da far temere una insurrezione in buona regola. Effetto di troppo caldo amore pei governanti mandati dal Cavour. Il La Farina volle rendere la pariglia al Crispi e farlo arrestare con alquanti altri dei più arrischiati Tra i Garibaldini.

Il Crispi resistette, gridò, urlò sì disperatamente che accorse la Guardia nazionale e si oppose all'arresto; ed intanto egli svicolò. Così dei suoi compagni designati alla stessa sorte. Il popolo (quello del Crispi e sua consorteria, s'intende) allora s'ammuliné contro il La farina. Fu chiamato il Generale Brignone piemontese perché tenesse in pronto le soldatesche regolari a reprimere i sediziosi; ma questi se ne lavo le mani e disse di non poter fare nulla. Sulla guardia nazionale non si dovea fare assegnamento, poiché gli stessi ufficiali di essa colla lama della spada staccarono dai canti delle vie i bandi del La Farina e del Montezemolo. Fu dunque forza cedere, quando una spaventosa dimostrazione costrinse il La Farina e consorti a scappare per salvar la vita. Il Montezemolo dichiarò al popolo che sarebbero cambiati i Ministri; e questi, tutti siciliani, furono scelti dal Marchese di Torrearsa. Quanto durerà? Il massimo impaccio si trova nella farraggine di nuove leggi che grandinarono in Sicilia, e che, o si debbono lasciar cadere nel fango o voler osservate coll'uso della forza; e sì l'uno che l'altro spediente prostra l'autorità dei governanti in paesi di quel temperamento. Basti accennare che il solo Mordini nel breve suo regno dittatorio promulgò niente meno che 53 leggi e 651 decreti! I suoi immediati successori si annegarono in questo pelago. Dei seguenti sarà quel che potrà.












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