Eleaml


Ferdinando Malvica fu un protagonista dei suoi tempi. Traversò nel bene e nel male tutto il ventennio che precedette il tracollo del Regno delle Due Sicilie. Fu repubblicano e borbboniano, partecipando agli avvenimenti di Sicilia degli anni 1848-1849, e fu al centro di furiose polemiche come voltagabbana e servo del regime.

Nonostante questa doverosa premessa sul personaggio, non si può negare che fu persona capace e di mente brillante e il suo scritto lo dimostra. Al di là dei suoi trascorsi, egli delinea con lucidità gli indubbi vantaggi di una confederazione, forma di stato da preferire ad una unità che sta provocando un disastro insanabile nei territori dell'ex-Regno delle Due Sicilie.

Riportiamo un paio di passaggi, per invogliare gli amici naviganti alla lettura del testo:

 “La voce sola della stampa, prostituita ad un potere iniquo, resta, e trionfa sulle macerie. detta pubblica sventura... Le grida di dolore sono soffocate; la stampa onesta si vieta; si carcerano i tipografi; si mettono a sacco e a fuoco te stamperie; si bruciano i fogli; si multano si perseguitano si minacciano di vita gli scrittori. Ecco i frutti della libertà italiana! Ecco la libertà del pensiero sotto la sabauda dominazione!”

“Ed il negarsi ad ogni costo di servire la bandiera savojarda, ed il rendersi contumaci tutti gli usciti alla leva, ed il confinarsi insieme alle famiglie in paesi stranieri, non curando pericoli e stenti, non ti pare un altro manifesto segno di quanto abbiamo asserito? E fuggono colle famiglie, perché la barbara legge punisce i padri nella fuga dei figli: quindi lasciano insieme il luogo natio, nella speranza di trovare altrove industria e pane, purché all'odiato potere non servano. In Malta sono più migliaja i contumaci, molti sono iti a Marsiglia, altri nelle Isole Jonie.”

 Zenone di Elea - https://www.eleaml.org

INTORNO
UNA
CONFEDERAZIONE ITALIANA

POSSIBILE E DURATURA
RAGIONAMENTO
DEL COMMENDATORE
BAR. FERD. MALVICA

LUGANO
1863

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PARTE PRIMA
§I. Introduzione


In tempi di vertigini, e di propositi estremi, nei quali siamo, dura fatica è quella di discutere in fatto di cose pubbliche: poiché le passioni sono rotte, gli odii si scatenano, alle opinioni miti e moderale, nelle quali solo sta il ben essere dei popoli, si fa truce guerra, perché arginano il torrente delle idee devastatoci.

Ma siccome il sentimento civile della patria agita i petti, e li solleva nella speranza, che la ragione finalmente è luce, che illumina il mondo, e si fa strada in mezzo pure alle intemperanze umane; così il pensiero che la voce onesta trovi chi raccolga, ci riconforta in mezzo al-Tira furibonda delle parti, e alla ingiustizia, che impu-nemente frange e mentisce il vero. La Confederazione italiana è àncora di salvezza fra le tempeste, che hanno sconvolto il nostro misero paese. Noi lo proveremo; e crediamo intanto, se il giudicio non falla, che miglior servigio di questo non si possa rendere all'Italia nei tristi tempi che viviamo.

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§ II.

Errore di quelli che credono dannevole all'Italia l'italica Confederazione.

Ma siccome molti oggidì, spaventati forse dai mali, che le presenti innovazioni hanno recato, gittandola negli affanni, che sanguinano per ogni luogo, si studiano di dimostrare che la Confederazione italiana, peggio anche dell'unità, è un9 insidia che la rivoluzione tende, per continuare in altra forma l'opera sua distruggitrice; cosi è mestieri che noi, guardando con pacato consiglio la contesa da tutti i lati, reprimessimo le intolleranze anche di quelli che vedono in ogni cosa la colpa o Terrore.

Il sistema di petrificare le nazioni, di non dirigere i movimenti della società, che forte si commuove e si agita, in guisa da farci miseramente sorprendere, anziché disarmarla, e frenarla ne9 suoi straripamenti, ci ha condotto appunto alle estreme condizioni, nelle quali ci troviamo; talché invece di essere, per mezzo della forza dell'azione, e del pensiero, i padroni, siam divenuti i servi, invece di rattenere i torrenti, siamo stati trascinati dall'impeto loro. Colpa è la nostra.

Nel secolo XVIIT conobbesi appieno questa grande verità, e i Principi italiani, per non farsi sorprendere da una società scorretta, la guidavano, la correggevano, i più utili miglioramenti promovendo; sì che Italia giva successivamente ottenendo i beni veri e reali della vita politica degli Stati, e non falsi o chimerici. Difatti ne aveva infiniti ottenuti, senza tumulti, senza sangue, senza quei

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sommovimenti popolari, che fanno indietreggiare le nazioni, e non ispingerle avanti, secondo sventuratamente, dopo le fiere vicende dell'89, è accaduto. Quell'epoca fatale impedi all'Italia il suo pacifico e glorioso sviluppo, lo rovesciò, rovesciò il mondo (4). Dunque il credere che nel progetto di una Confederazione italiana si apra un novello abisso alla misera Italia, è un errore, che non deesi lasciare inosservato, perché può ingannare le menti, sedurle, deviarle dal vero: tanto più che sotto quel grande e magnanimo Pontefice, che fu Pio VI, i Porporati del tempo, anima dei quali era il Cardinale Orsini, covavano, dice Carlo Botta, un disegno d'una suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un governo federativo, di cui fossero parte i Principi italiani, e Capo il sommo Pontefice (2).

Il Gioberti non ha fatto a di nostri che riprodurre e guastare il pensiero puro, che in quell'epoca sorgeva.

Dunque si calmino gli spiriti timidi e mal sicuri, che l'idea della Confederazione italiana, ventilata da Gregorio VII, pensata da Pio VI, non è un'idea sovvertitrice, ma saggia e profonda.

In questa vita non è tutto male, come non è bene tutto: i mali e i beni si avvicendano; poiché luce e tenebre siam noi: e la forza della ragione sta nel proccurare

(1) Se fosse lecito di citare un fatto proprio, diremmo, che questo grave subbietto fu da noi trattato, ed ampiamente sviluppato in un'Opera, pubblicata, anni sono, intorno la Civiltà d'Italia, e la sua letteratura nel secolo XIX, da tutti con generoso compatimento ricevuta (Bari 1846 pei tipi di Sante Cannone). Il che mostra che gli uomini non rifuggono dal vero, quando con forza e pienezza di coscienza si manifesta: ed il vero alfine è troppo possente, per non iscuotere le anime non vendute.

(2)Stor. d'It. dall'89 al 14. Lib. I. t. I.

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che quella su queste trionfi, sì che vengan fugate, onde non inviluppino la terra, e l'abbuino.

Io pure non voglio far torto, in tempi così rotti e difficili, nei quali siamo, a coloro che si arrestano innanzi al bene sjesso, e noi veggono, o si spaventano; perciocché troppo dura è la vita, che stiam correndo, e troppo crudele il quadro, che innanzi agli occhi abbiam sempre, per non irritare gli spiriti, e non condannare l'uomo all'odio eterno contro l'uomo. Ma quest'uomo è quello che noi abbiamo, questa pasta putrida sta innanzi a noi, quindi è mestieri di venire in suo soccorso, di non lasciarla sempre più corrompere, onde tutto non avveleni e contamini.

L'uomo deesi considerare qual è, non quale dovrebb'essere. Questo errore di grandi filosofi è appunto quello che più ha guasto le menti, facendo loro desiderare ciò che non si può conseguire: donde è avvenuto die traendo i perfidi profitto dell'arma, che i buoni, nelle loro astratte concezioni, aveano brandito, hanno mentito il loro apostolato, sconvolgendo e seducendo gli spiriti, che si mettono nella via dell'errore o della colpa.

Platone gittò quell'amara semente in mezzo ai popoli, senza avvedersi dell'interno, che loro schiudeva; poiché considerando, nella sua fantasia, l'uomo qual doveva essere, e non qual'era, costituì una repubblica non già per questa terra, ma per un'altra che non fu mai. Il che bastò, perché l'errore non s'inaridisse, ma fecondasse sempre più guasto e corrotto.

Noi pur oggi ne raccogliamo i tristi frutti! Sansimone, e i Sansimoniani, con tutta la loro tenebrosa schiera, che gli ha seguiti fino a dì nostri, miseramente lo confermano.

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La Falange, ove le più rotte intemperanze di Sansimone discutevansi, innalzavansi a principi, si alimentavano in ogni maniera, e per tutta Europa, perturbando e scompigliando le menti, si diffondevano, mise il suggello a quegli umani deliri. Per le quali cose, mentre da una banda è mestieri correggere tanti funesti errori, e toglier l'umanità dal sentiero delle utopie, e delle astrazioni, bisogna dall'altra far conoscere all'Italia sé stessa, i suoi veri interessi, la sua reale, e non fallace fortuna; onde non sia presa ai lacci delle astuzie, e della perfidia, e non gittarsi nel baratro di ogni miseria.

La via, che si percorre è quella della colpa, cupa e feroce nei tristi, e dell'errore, che mi giova dire innocente, negl'illusi.

L'unità italiana non è fine, ma mezzo, per raggiungere la meta dalla Falange voluta, dai Mazziniani ormai, senza più mistero e velo, predicata. Quindi la ragione e la forza, insieme congiunte, debbono opporsi a tanto pubblico esterminio.

L'Italia sarà sempre sconvolta, agitata, sedotta da quegli spiriti d'inferno, che intendono manomettere l'umana società, e perderla per sempre. La Confederazione è un supremo pensiero, che potrebbe salvare il misero secolo, in cui si apre questa putrida tomba, che minaccia di avvelenar tutti, ed inghiottirli. Quindi bene e sapientemente il Proudhon diceva, che le lien fédératif suffisait à l'œuvre de la régénération commune.

Per le quali cose non sarà per avventura né discaro né disutile, che pria di discendere ai particolari di una confederazione italiana, che si reggesse forte, e contro tutti gli elementi contrari lottasse, facessimo conoscere quanto

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antica, utile, e feconda di beni sia questa forma di pubblico reggimento: acciocché le timide menti si confortassero, tutte le forze dei Principi, e della nazione a quest'obbietto si rivolgessero, e l'Italia fondasse le sue speranze non sulle vanità, o sulle ree ambizioni degli uomini, ma sopra la realità dei fatti umani.

§ III.

Le Confederazioni riguardate in relazione al dritto pubblico, e quanto antiche, quanto utili.

Le confederazioni formansi tra città, popoli, o stati di una medesima regione, per acquistar forza, fecondare la propria fortuna, e così potersi meglio difendere da un nemico, che li potesse attaccare, e facilmente vincere, essendo fra loro divisi o slegati. Inoltre elle tendono ad acquistare una fisonomia, che lor desse regole comuni, comuni vantaggi, impronta cittadina, principio di nazionalità. E di quest'ordine furono la Confederazione etrusca, e l'achea negli antichi tempi, come, nei moderni, sono l'elvetica, la germanica, l'americana, che meritano fra tutte particolare disamina.

La Confederazione italiana, di cui ci verremo in tutte le sue parti occupando, avrebbe il doppio carattere di queste ultime.

Roma, nel secondo e terzo secolo della sua fondazione, si confederò coi Latini nell'interesse comune dei due popoli (1). Quando però il suo impero cominciò ad

(1) V. TU. Liv. lib. II. e VII.

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elargarsi non ebbe bisogno di confederarsi o di far leghe con nessun popolo, perché tutti i popoli vinceva. Solo avvenne, che qualche lontana potenza non vinta, ma risparmiata, riconoscendo la primazia di Roma, ne sollecitava l'alleanza, per appoggiarsi su di essa: poiché il solo pensiero ch'ell'era alleata di Roma la faceva rispettare dal mondo, e da Roma stessa.

Le alleanze differiscono dalle confederazioni, perciocché formansi tra nazioni possenti, in uno scopo morale o politico, per sostenere le massime e le dottrine, per le quali si collegarono: ovvero difendersi contro un potente, il quale volesse, per ispirito di conquista, scuotere l'equilibrio politico, e perturbare la pace del mondo. Come avvenne nel 1570, quando Selim, sedendo sul trono d'Oriente, minacciava le terre cristiane, e guerreggiando con Venezia, voleva manomettere la riviera d'Italia, e gli Stati della Chiesa, avendo ordinato alla sua flotta, che a sacco e a fuoco le città marittime italiane si ponessero: donde sorse forte bisogno che il Papa, la Repubblica veneta, e Filippo Re di Spagna, che impero aveva pure in Italia, insieme si collegassero contro gli universali nemici del cristianesimo: sì che la baldanza turca fiaccarono, gran profitto e gran gioia ad Italia tutta recando. Così la lega santa, conchiusa e sottoscritta nel 1525 a Cognac fra gl'Inglesi i Francesi i Veneziani gli Svizzeri il Duca di Milano e Clemente VII contro Carlo V, ebbe lo stesso obbietto. Imperciocché dopo aver questi vinto Francesco I a Pavia, facendo prigioniero lo stesso suo coronato nemico, le grandi potenze non si credettero più sicure» e si misero in grandissimo timore per l'equilibrio politico d'Europa. Nel che ben si avvisarono, e quella forte

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alleanza mise un freno alle ambiziose mire dello Spagnuolo, che sì alto nel mondo grandeggiava.

E siccome le cose umane hanno spesso un legame segreto e misterioso fra loro, cosi panni che la Santa Alleanza, sì famosa nel dritto pubblico moderno, formatasi nel 1814 fra l'Austria la Prussia la Russia, alla quale accedette poscia la Francia, ricordi la Lega santa. Imperciocché le condizioni, in cui volgeva, poteano ben di leggieri svegliarne l'idea. Oltreché elevando la democrazia la testa per ogni luogo, dopo la rivoluzione francese dell'89, che aveva scosso la terra, abbattendo motti troni, pervertendo molti popoli, e lasciando per ogni dove le sementi della sua distruzione, erasi svegliato nei grandi potentati del mondo il desiderio di sostenere i principi monarchici, e battere la rivoluzione in ogni parte che si mostrasse.

Dunque la lega santa, e la santa alleanza riconoscono da un medesimo principio la loro origine. Le alleanze sono a tempo, e durano per lo più finché il bisogno non cessi; le Confederazioni fondandosi con un patto, che tiene una forma governativa generale per gli stati confederati, in relazione gli uni agli altri, tendono a farsi rispettare da chi è più di loro, e ad accrescere, e fecondare al tempo stesso la loro pubblica fortuna.

Difatti, caduti i colossi degl'imperi antichi, che assorbivano il mondo in poche monarchie, e sciolte queste, e fra loro divise, nacque, nei più deboli, il pensiero, figlio del bisogno, delle confederazioni, e delle leghe.


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§ IV.

Lega Achea, e cenno sulle altre antiche.

E lasciando il Consiglio degli Anfizioni di Grecia, la cui orìgine perdesi nella notte dei tempi, e che era pure una federazione per obbietto sacro e religioso (1); nulla dicendo della Confederazione etrusca, composta di città, indipendenti fra loro, e solo insieme collegate negl'interessi generali; egli è certo che la più famosa che nei tempi antichi abbia avuto l'esser suo, e che gli annali del mondo con gloria rammentino, è la lega achea, che forse fu foggiata sopra quella etrusca, e si ritenne sempre, finché durò, qual baluardo della ellenica libertà (2): sì che le Confederazioni, che le varie genti nei secoli dappoi fra loro istituirono, nella lega di Àcaja si specchiarono, e la seguirono. Perciocché dodici delle primarie città di Grecia, quante furon quelle di Etruria, si unirono insieme per la loro difesa; ed ebbero ognuna magistrati propri, e proprio governo municipale, assemblea popolare, un consiglio, un Presidente. Il qual sistema era uniforme a tutte, poiché veniva dalla legge della federazione vietato, che uno stato avesse una forma interna diversa da un altro.

Un' Assemblea generale, o Supremo Congresso, costituito da deputati di tutte le città federate, rappresentava la repubblica. 1 deputati erano dall'adunanza popolare di ogni stato nominati; e l'Assemblea, che due volte all'anno riunì vasi, ed anche di più nei casi di straordinario bisogno,

(1)Pausania — Descr. della Grecia t. III. — Strabone lib. IX.

(2)Polibio.

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trattava a pluralità di suffragi degli affari più importanti del Governo, che il bene generale riflettevano: quindi la pace, la guerra, le alleanze, il commercio. La moneta doveva esser la stessa per tutta la confederazione, i pesi e le misure uguali per tutti. Onde si conoscesse che mentre ogni stato era indipendente, e gli affari interni regolava ed amministrava a modo suo, ma con norme comuni, avevano poi tutti il fratellevole accordo dei medesimi legami, e degli stessi principi.

Difatti ogni Stato non potea avere amici ed alleati di versi di quelli di un altro. Gli amici ed alleati degli uni dovevano essere alleati ed amici degli altri. Chi mancava a questo patto diveniva straniero all'unione. Così del pari nessuno individuo della confederazione, e molto meno una città confederata, poteva accettar doni, gratificazioni, onori da un principe o popolo straniero, pena di non far più parte della repubblica unita,

II potere esecutivo della nazione fu in principio esercitato da due magistrati, che prendevano il titolo di Generali della Repubblica di Acaja. Erano essi i capitani nati degli eserciti, come i Consoli di Roma, e presedevano l'Assemblea nazionale. Ma questo dualismo fu trovato poscia sconvenevole, e perciò abolito, e ridotto ad un solo individuo, che diventava il supremo magistrato dell'Unione. Esso però veniva affiancato da un Consiglio di dieci cittadini, che lo aiutavano nelle sue operazioni, e gli porgevano i loro avvisi. Questo Consiglio. aveva il dritto di esaminare gli affari pria che si portassero alla discussione dell'Assemblea nazionale, e potea, ponderata l'utilità o il contrario, rigettarli o proporli, secondo suo senno.

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Inoltre veruno Stato poteva inviare ambasciatori, né contrarre alcuna alleanza, se prima non ne avesse ottenuto il consenso dalla rappresentanza nazionale. Così parimente non poteva, senza il consentimento della medesima, ammettersi un principe, un popolo, uno stalo qualunque a far parte della Confederazione. Finalmente nessuno aveva dritto di chiedere una straordinaria convocazione dell'assemblea, se prima non ne avesse dichiarata in iscritto la ragione, e non avesse ottenuto il voto favorevole del Consiglio dei dieci, approvato dal generai Presidente.

Questa lega, ch'è la prima veramente, che la storia presenti alla considerazione del pubblicista, onora il senno antico, ed ha schiuso, come dicemmo, il sentiero a molle delle confederazioni più celebrate dei tempi moderni, secondo vedremo.

§ V.

Lega Lombarda detta Pace di Costanza.

La lega lombarda, avvenuta nell'anno di Cristo 1183, è la prima, che vanti la storta italiana. Perciocché le città di Lombardia, Marca e Romagna si congiunsero insieme contro l'Imperator Federico I, che intendeva esercitare molti dritti, ed esser sue le regalie, sua la scelta dei ministri, e dei pubblici ufficiali, e magistrati. L'Italia superiore si divise, patteggiando chi per l'Imperatore chi per la Lega. Le città collegate, di cui nella storia rimane glorioso il nome, giurarono difendersi, tepersi indenni reciprocamente contro chiunque li volesse astringere ad altro che ciò che aveano fatto dal tempo di Arrigo: e i giuramenti si estesero

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a mantener la lega per cinquantanni, a non far pace né tregua, né compromesso coir imperatore» e ad impedire che non scendesse esercito imperiale grosso né piccolo di qua dalle Alpi. La forza, e la fermezza che spiegarono vinsero mirabilmente, e furono stabiliti a Costanza, ove l'Imperatore si ritrovava, i patti della concordia fra lui, e i deputati di quelle italiche città: le quali rimasero in possesso delle libertà, e delle regalie e consuetudini loro, o sia dei dritti, che da gran tempo godevano, e dei quali voleansi spogliare, riserbando solo agl'Imperatori l'alto dominio morale sulle città collegate (1).

§ VI.

Lega delle Città anseatiche.

1296.

Le città anseatiche, veggendosi divise e deboli, divisarono, verso la fine del secolo XIII, di formare insieme una lega, obbligandosi scambievolmente a difendersi nei loro bisogni, ed intraprendere un regolato commercio, che ravvivasse la loro forza, e contribuisse alla loro prosperità: e cosi bene andò la lega, che si accrebbe fino ad 80 città, che avevano grandi privilegi, ed una giurisdizione assoluta su loro stesse. Elle distinoguevansi in quattro circoli, che portavano il nome; delle loro capitali, le quali amministravano il governo delle rispettive provincie. Questa lega pertanto, a causa delle vicissitudini dei tempi, andò mano mano affievolendosi, sì che le città che la costituivano si fusero poscia, coi loro tenitori, nell'Impero germanico, cui appartenevano.

(1) Muratori — Ann. d'It. — Balbo st. d'It. dalle origini fino ai nostri tempi.

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§ VII.

Confederazione svizzera

1304.

La Svizzera èra divisa nel medio evo, come gran parte d'Europa, in una moltitudine di feudi di ogni ordine, soggetti e governati dai baroni, è dai vescovi, secondo il sistema dei tempi. Una buona parte di questi feudi si possedevano dalla Casa d'Austria Asburgò, fino al tempo di Rodolfo primo, Imperator d'Alemagna, quando ad Alberto suo figlio, che nell'Impero gli successe, venne nel 1304 la malaugurata voglia di sottomettere al suo scettro tutta l'Elvezia.

La condotta tirannica de’ suoi agenti mise alla disperazione gli Svizzeri, i quali, veggendosi deboli e divisi, si consigliarono di collegarsi insieme per divenir forti, e difendersi dal comune nemico. E così fu: talché colla loro costanza, le loro vittorie, la loro fortuna divennero temuti dai vicini, riconosciuti dall'Europa, come nazione indipendente dall’Impero. Ecco l'origine dell'elvetica confederazione.

Appartiene alla storia notare il movimento, e gli eventi che all'attuale condizione l'elevarono, e come prima tre furono i Cantoni che insorsero, come seguì la cospirazione di Grulli, come vi si fossero uniti gli altri, come giunsero fino a tredici, poi a diciannove, e come finalmente furono nel 1815 portati diffinitivamente a 22, quanto oggi sono, costituiti in tante repubbliche di varia indole, indipendenti le une dalle altre, ma insieme confederate per la loro mutua conservazione.

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Pria dei disordini del. Suddenbur. ch'ogni Cantone inviava alla Dieta, ch'era il supremo Consiglio dello Stato, un cittadino che lo rappresentasse. La Dieta tenevasi a turno nelle città di Zurigo, Berna, e Lucerna, due anni di seguito in ognuna, e vi presedeva il Borgomastro o Landmanno del comune, ove l'assemblea si riuniva. , Ma dopo quell'epoca, e precisamente nell'anno 1847, si riformò l'elvetica costituzione. Perciocchè surrogossi alla Dieta un'assemblea federale, divisa in due sezioni: la prima, composta di cento undici deputati, scelti dal popolo, formò il Consiglio nazionale; la seconda costituì il Consiglio dei Cantoni, composto di 44 deputati, due per ognuno. Berna fu dichiarata sede permanente dell'autorità federale (1). Però si è andato in questi ultimi tempi bucinando, che vari Cantoni non sono gran fatto più contenti di queste novità, e che vogliasi forse ritornare all'antico sistema. Ma checché ne sia, vero o falso, non importerebbe gran che, -ed infine mostrerebbe l'incertezza, in cui giacciono sempre gli spiriti.

Quello che conviene particolarmente notare si è che la Confederazione comprende, sin dal 1513, i paesi soggetti, e gli alleati. I paesi soggetti o vassalli appartenevano ai primi 13 Cantoni, ai quali vollero unirsi per avere, nella forza unita di quelli, forza e sicurezza per loro. Il che, secondo osserveremo, ha recato gran male gl'intera Confederazione.

Ma un altro caso non meno grave è quello che, introdottosi nel 1519 il protestantismo in Svizzera da Zuringlo a Zurico, e poi da Calvino a Ginevra, la maggior

(1) Coppi — Ann. d'It.

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parte della Confederazione ammise le nuore dottrine, e rinunziò al cattolicismo. Il che eccitò varie guerre intestine, che si protrassero fino al 1712, epoca che fisso lo stato dei due culti nel corpo confederato (1).

Ma questo fatto indebolì i legami dei vari cantoni, che avean tra loro guerreggiato, lasciando nel proprio seno un germe di odio, che non si è potuto più estinguere.

§ VIII.

Confederazione di Principi italiani contro Germani

1331.

Altra celebre confederazione in Italia fu quella che formossi nel 1331 di Principi italiani contro Germani, onde cacciare i Boemi da Brescia? e far che il Bavaro più piede in Italia non mettesse: quindi, per tale grande obbietta, si confederarono insieme Mastin della Scala, i Visconti, i Gonzaga, gli Estensi, i Carraresi col Re Roberto e coi Fiorentini. Il che manifesta quale spirito movesse i Principi italiani di quel tempo, e come la loro confederazione facilmente si stabilisse per la pace, la dignità, Futilità d'Italia. I quali esempi, ponendo mente alle condizioni diverse, dovrebbero scuotere gl'Italiani dei nostri giorni, per abbandonarle utopie, imitare la saggezza dei loro avi, ed esser così più saldi ed illuminati nei veri interessi della loro patria:

(1)Muller — Stor. della Svizz. — Encyclopéd. du XIX Siècle t. 23.

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§ IX.

Confederazione delle province di Olanda

1572.

E volendo seguire le epoche della istituzione di questi grandi fatti del mondo, secondo l'ordine dei tempi, l'Olanda offre un esempio degno di esser pure ricordato in queste carte. Imperciocché era soggetta alla Spagna, quando suscitatesi le guerre di religione, videsi troppo debole per sostenere le sue opinioni in faccia a Filippo IL Quindi, correndo l'anno 1572, e seguendo i propositi della Lega Lombarda, poiché qui era Federico, che voleva imporre e soggiogare, là Filippo, si confederò colle sei province, che parteggiavano nelle stesse dottrine, per Resistere, e far fronte alfa spagnuola potenza; diguisachè, dopo sette anni di varia fortuna, giunsero insieme al loro scopo, e vinsero, formando nel 1579 una lega celebre, l'Unione di Utrecht, che riunì in un sol patto federale la Olanda, e le sei altre province.

Ognuna di esse conservava i suoi privilegi, ed aveva la direzione suprema degli affari di stato, di religione di polizia, e di finanze: ed unite insieme formavano una Confederazione indissolubile, «che governata veniva dall'assemblea degli stati generali, di sette voci composta, cioè di una voce per ciascuna provincia. Ivi decidevasi della guerra, della pace, delle ambascerìe straniere, della condizione delle piazze e delle finanze generali dell'Unione. Gli affari però non si deliberavano a pluralità di voti, ma coll'unanime consenso di tutte le province;

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diguisachè ogni deputato, che v'interveniva, era obbligato di ritornare nel suo paese, per esporre l'affare, di che trattavasi, innanzi ad una particolare assemblea, composta dei rappresentanti di tutte le città, che alla sua provincia appartenevano. Dopo di che faceva mestieri che i deputati ritornassero all'assemblea generale degli stali, . portandovi il consentimento pubblico, senza di cui nulla si sarebbe deciso giammai (1).

§ X.

Confederazione delle province dei Paesi-Bassi col Principe d'Orange e gli Stati di Olanda

1576.

Del pari la Fiandra presenta altro importantissimo esempio di civile e politica alleanza. Perciocché crescendo ogni giorno più la grave insolenza degli Spagnuoli, che-ivi dominavano, spogliando tirannicamente le città dei loro privilegi, trucidando i Baroni, mettendo ogni cosa in servitù, si pensò da tutte le potestà dei Paesi-Bassi di formare una lega col Principe d'Orange, e cogli Stati di Olanda, onde poter, con tutte le forze unite, scacciare dalle loro contrade il comune nemico. Il che fu conchiuso: giurando di mettere in perpetuo obbliQ le ingiurie fattesi

(1)Fred. de Reifenberg. His. des Pays-Bas. Gordon-Gramm. Geog. La Confederazione olandese durò in questo stato fino al 1794, in cui, prevalendo le idee democratiche estreme, fu, dopo molti disastri, commutata nella così detta Repubblica batava. Ma poi Napoleone I, che tutto discioglieva colla forza della sua mente, e della sua spada, fece della nuova repubblica un regno; e questo non bastandogli, fini per incorporarla nel 1810 all'impero francese. Appartiene alla storia il resto.


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saper il passalo, e promettendo di osservare sinceramente, e senza fraude alcuna tra loro, una ferma stabile ed inviolabile pace ed amicizia: non che ajutarsi in ogni bisogno, esporrete facoltà e la vita, tanto per espellere gli Spagnuoli dalle loro province, quanto per far ritornare le medesime nella pristina libertà ed immunità, restituendo loro le antiche giurisdizioni, consuetudini, e privilegi antichi: fu in ultimo sanzionato, che, scacciati gli Spagnuoli, e gli altri soldati forestieri, che li favoreggiavano, e ridotti i paesi nelP antica quiete, si facesse il consiglio generale degli stati di tutte le diciassette province, nel quale si provvedesse alle cose della religione, si consacrassero i privilegi cittadini, si rispettassero le proprietà: talché venticinque articoli si formarono, i quali furono considerati, come le fondamenta di una nuova costituzione, che dovesse reggere i Paesi-Bassi confederati. Il che fu eseguito: l'Europa festeggiò l'alleanza, gli Spagnuoli agirono con una furia inaudita, per vendicarsi dell'oltraggio, che avean ricevuto; ma vinti in più scontri, e battuti, gran bene a tutti gli stati confederati ne venne.

§ XI

Confederazione degli Stati Uniti iU America 

1775.

La Confederazione degli Stati Uniti di America ha offerto un fenomeno morale sì glorioso, nel movimento della sua industria, e nella sua immensa prosperità, ch'è nuovo nella storia delle genti; talché pareva che volesse dominare un giorno l'antico mondo, e vivere una vita non peritura.

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Ventisette sono gli. Stati, che compongono la confederazione, oltre di un distretto federale, di cinque territori, e del-vasto distretto occidentale.

Ogni Stato forma. una piccola repubblica da sé, colle sue leggi proprie e indipendenti, ma nello stesso tempo è membro della grande repubblica dell'Unione.

Il potere supremo risiede nel Congresso, composto dalla Camera dei rappresentanti; e da un Senato, di cui è capo il Vice-Presidente della. Repubblica. Il Presidente che ha il potere esecutivo, si sceglie ogni quattro anni dagli elettori di ciascuno stato, in numero eguale a quello dei rappresentanti, e dei Senatori.

Egli ha un vtto sospensivo. Ogni Stato da due Senatori, che si rinnovano ogni sessennio; ed un deputa-to per ogni trenta mila individui, da eleggersi in ognidue anni. Ma qualunque sia Enumero crescente della popolazione, la rappresentanza non può eccedere li due cento membri, salvo disposizioni particolari del Congresso, il quale, nell'aumento della popolazione, stabilirà la proporzione, che dee sussistere tra la nazione, e i suoi rap-presentanti (1).     .

Or deesi notare, che due partiti, fin dalla istituzione della Confederazione, dividevano la nazione americana: quello dei federalisti voleva una Costituzione più vigorosa, largitale facesse di tutti gli. Stati un sol corpo politico; l'altro intendeva alla indipendenza quasi assoluta di ciascuno stato. La quale divisione, di principi si è sempre alimentata fra gli stati del sud, e quelli del nord. Per-cioechè i primi hanno mirato all'emancipazione

(1)Barbaroux. Hist. des États — Unte d'Ameriq.

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dei legami federativi, i secondi a sostenere quanto. più striila e più compatta si potesse la federazione medesima.

§ XII

Confederazione della Russia, Svezia, e Danimarca contro Inghilterra.

1780

Ferveva la guerra fra gli Stati. Uniti di America e l'Inghilterra, quando la Olanda, profittando della sua neutralità, trasportava le armi dei Francesi negli Stati Uniti. Ma l'Inghilterra vide con segreto rancore il commercio degli Olandesi, ed avvalendosi della superiorità delle sue flotte,  lo impedì violentemente colla forza. Il che indispettì le Poteuze. del Nord; e quindi Caterina IP, che allora, sul trono di Russia sedeva, si unì colla Svezia e la Danimarca, e formarono una Confederazione col titolo di neutralità armata, per proteggere il loro scambievole. commercio contro simiglianti soprusi e così reprimere la baldanza del gabinetto britannico. La qual cosa rendendo, più forte la marina delle potenze confederate, pronte, perché armate, ad uscire insieme contro le flotte inglesi, fece venir meno i divisamenti ostili, che iva l'Inghilterra escogitando contro il commercio delle nordiche. potenze, e le potenza stesse:le quali, colla loro sola unione di neutralità armata non furono né anche col pensiero più molestate: unione nuova nella storia, ma dì grande ammaestramento a coloro, che manomettono i dritti altrui, e si appoggiano, sulla forza. Perciocché la possibilità sola di esser pronte le nazioni a respingere la forza colla forza,

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mantiene l'equilibrio, e doma i sinistri pensieri di quelli che son usi a manomettere e turbare la pace dai più deboli. La Russia era grande sotto Caterina IIa, ma non potea misurarsi in verun conto colle flotte d'Inghilterra: ella avea bisógno di confederarsi con altri stati, e il fece. La Danimarca e la Svezia erano a quel tempo potenze marittime di prim'ordine.

§ XIII.

Confederazione degli Stati dell'America centrale

1824.

I cinque Stati dell'America centrale appartenevano alla Spagna, e furono poscia incorporati al Messico, da cui nel 1824 si staccarono, costituendosi in Repubblica federativa sotto la denominazione di Province unite del centro di America (1). Ma tale confederazione non durò gran tempo, e sebbene piccoli stati, pure nel 1839 di comune consenso sì sciolsero, formando fin da quel tempo tante repubbliche indipendenti. Perciocché unite insieme non costituivano tale potenza da far fronte ad un nemico, che volesse invaderle, e credettero, che fosse miglior consiglio il disgiungersi, e trovare la loro salvezza nella medesima loro debolezza. Il qual divisamento le ha con effetto salvate. Perciocché sendo innocue, di breve territorio, di piccole popolazioni, sono state rispettate nella stessa guisa, ch'è la repubblica di San Marino in Italia, se pure il paragone può reggere, poiché San Marino è veramente picciolo punto,

(1)Guatimala ha una pop. di 500 mila abitanti; Honduras ne ha 200 mila; San Salvatore 300 mila; Nicaragua 235 mila; Costarica 102 mila.

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mentre gli Stati, di cui si fa cenno, sono in condizione ben diversa. Il principio però è lo stesso:

§ XIV.

Confederazione germanica

1815.

La Confederazione germanica, succeduta all'antico impero di questo nome, comprende presso a poco tutti i territorì, che quello comprendeva. L'Impero era diviso in trecento sovranità, che non avean tra loro nessun legame, quando Napoleone, giunto all'apice della sua grandezza, cominciò ad esercitarvi tale protettorato, che ne era quasi divenuto assoluto Signore: sì che nel 1806 era il germanico Impero interamente disciolto, e Napoleone riducendolo a trenta in quaranta stati si avvisò di formarne una Confederazione, che intitolò del Reno: la quale, dipendendo dalla stia volontà, non ebbe mai vita, né si riunì giammai. Ma ottenebratasi nel 1813 la napoleonica stella, l'Alemagna scosse il protettorato assoluto di lui, ed unitasi alla Russia ed all'Inghilterra, contribuì a quell'improvvisa caduta. L'antico impero non fu più ricostituito. Però lieta l'Alemagna di avere ricuperato la sua indipendenza, sentì il bisogno di mettersi al sicuro di nuovi attacchi. Ecco So scopo principale, per. cui fu nel 1815 creata nel Congresso di Vienna la Confederatone germanica.

Trentanove Stati la formano, non avendo però tra loro altra Unità, che guelfa dì un'alleanza comune. Lo scopo della Confederazione è di guarantire, per mezzo del concorso di tutti, l'inviolabilità e l'indipendenza,

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la sicurezza interna ed esterna di ognuno. I suoi mezzi di organamento e di azione sono concentrati in un'Assemblea, ove ogni Stato, piccolo che sia, ha il suo rappresentante, e la sua voce deliberativa, e tutti hanno tante voci, quante ne richiede la loro importanza.

Quest'Assemblea, nella sua condizione abituale, prende il nome di Dieta federale ordinaria, ma quando è chiamata a discutere quistioni straordinarie, come per esempio di modificare la Costituzione federale, o le Costituzioni, sulle quali riposa il governo di ciascuno stato, ella prende un altro carattere, diviene Assemblea generale, ed ogni Stato fa allora uso di tutte le sue voci. Perciocché i grandi Stati, come la Baviera, la Sassonia, il Wurtemberg, hanno quattro voci per ognuno, e quattro. l'Austria, la Prussia, l'Inghilterra, per quella parte di territorio, che posseggono nella circoscrizione federale; oltre della Danimarca, e dell'Olanda, che ne hanno tre per il ducato di Holstein, ed il Gran ducato di Lussemburgo, che fan parte della Confederazione medesima.

Tutti gli altri Stati alemanni hanno pure tre voci, o due, o una, secondo la loro importanza.

La Confederazione si obbliga a mantenere l'indipendenza di ogni membro del corpo confederato, come le relazioni di dritto fra Principi e sudditi. Ella fa trattati, conchiude paci, intima guerra. Solo ogni singolo stato ha dritto, volendo, di formare alleanze particolari, purché non sieno contrarie agl'interessi generali della Confederazione. Per la qual cosa riseggono sempre a Francfort deputati di tutti gli Stati, la cui riunione costituisce la Dieta germanica: la quale fa le sue deliberazioni a maggioranza semplice: ma quando si riunisce in Assemblea generale,

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decide colla maggioranza di due terzi.

Ogni guerra contro gli Stati stranieri diviene guerra comune, ed ogni stato dee tener sempre pronto a marciare un contingente di truppe, fissato ad un uomo su cento della sua popolazione (1).

Ecco le condizioni più. importanti» nelle quali si aggira il germanico patto.

E noi abbiam creduto esser pregio del nostro lavoro-esporre, a guisa di quadro, innanzi la mente del lettore, tutte le più importanti confederazioni, che si sono finora istituite nel mondo politico, acciocché ognuno ne conosca lo spirito, giudichi coi lumi propri, nell'applicazione che ne faremo, secondo ne verrà il destro, ai casi particolari, e ne tragga le conseguenze opportune per la fortuna d'Italia.

Al che eravamo doppiamente obbligati, secondo esponemmo in principio, per diradare coi fatti gli errori, e battere i pregiudizi di coloro che contro la istituzione di una confederazione italiana si sono con poco senno scagliati. Il che quanto sia dannoso, nei supremi momenti in cui siamo, ognuno per sé stesso il vede: ed il fatto mostrerà qual sia la luce, che su i nostri bisogni si spanda, e come i temperamenti civili, moderati e giusti, dalla ragione proclamati, e dalla sapienza vera del secolo voluti, servano per frustrare le ree mire dell'ambizione e del delitto, onde si assicuri l'avvenire della patria, innanzi a. cui le passioni codarde degli uomini hanno schiuso una voragine, due brucia ogni speranza.

(1) Scheffer — Hist. de l'Emp. ger. — Encycl. Univ. t. XXIV.

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PARTE SECONDA

§ XV.

Utilità. di una Confederazione italiana.

Da tutte le cose, che si sono fin qui ragionate, due grandi verità scaturiscono, la prima che antico è il pensiero delle Confederazioni, e si sono attuate sempre dai popoli o dai Principi, quando il bisogno della propria sicurezza il... consigliava; sì che le Confederazióni, rendendo fòrti gli stati deboli, ne assicuravano l'indipendenza, la prosperità, la pace.

La seconda riguarda l'Italia, la quale trovandosi, a un di presso nelle condizioni medesime in tutti ì suoi punti, può nella Confederazione dei vari stati, che la formano, collocarsi nel rango. delle grandi nazioni; ed emettere, nelle gravi quistioni europee, quella voce che non ha potuto sinora.

§ XVI.

Possibilità non solo, ma facilità d'istituirsi una Confederazione saggia e duratura.

Gl'italiani, a preferenza di qualunque altra gente, possono formare uria Confederazione, che abbia forti legami,  ed indissolubili.

Perciocché unica è la lingua, unica la religione, unica la letteratura,

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unico il pensiero delle arti, che in ogni luogo del pari s'innalza, emulando quasi la stessa natura, eguali infine per tutti sono le storiche reminiscenze di grandezza e di gloria.

La divisione dei culti è un vizio che tormenta, se non rode, i corpi confederati. Nel 1840 avvennero in Isvizzera le dissensioni del Vallese, i cui abitanti sono la più parte Cattolici: il male umore si accrebbe a dismisura fra Cantoni di culto diverso, sì che un incendio si accese, e fu coll'influenza straniera sedato.

Friburgo, abitato da cattolici, fu sempre teatro di guerre civili, suscitate pure dallo spirito di religione, e non è gran tempo, se ne ebbero a deplorare le lugubri conseguenze. Ed oggi (1862) nel Cantone di Zurigo, che ha una popolazione di 250 mila anime, la più parte protestanti, si sopprime il convento di Rheinau, fondato da oltre ad undici secoli, si che tale arbitraria soppressione ha ferito il cuore dei Cantoni cattolici, i quali guardano con dispetto e con ira la condotta dei Cantoni calvinisti. L'odio che nel segreto si alimenta, e la rabbia, che aperta scoppia, sono germe di. dissoluzione.

Un altro velenoso serpe, che lento rode l'elvetica Confederazione, se il senno della nazione non vi provvede, sta nella lotta fra le città aristocratiche e le democratiche, secondo provano i torbidi del 1796, in cui, prendendo le idee tumultuose grande ascendente, fu sciolta la Confederazione, e proclamata la repubblica elvetica, una ed indivisibile. II qual male non si sarebbe verificato, se un solo principio, come avrebbe dovuto, avesse animato tutti i Cantoni, e sia qualunque. La repubblica elvetica cadde

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per il vizio stesso che la formò: ma la lotta fra le città aristocratiche, e le democratiche prosiegue sempre, secondo provano i torbidi. del Tessin nei 1841 avvenuti.

Per contrario in Italia non vi sono principi religiosi diversi, che il cattolicismo forma degl'Italiani una sola famiglia; non vi sono lotte fra l'aristocrazia, e la democrazia, che non vi sono città soggette, o stati che godano privilegi sugli altri. In Italia tutti gli Stati sono sovrani;' e si uniscono fra loro cogli stessi dritti, le stesse ragioni, le stesse mire politiche. La volontà di ognuno è la volontà di tutti, essere confederati, per divenire più forti, e quindi più sicuri, e più prosperi.

Perlochè non avrebbe l'italica Confederazione ragione di rompere a quegli scogli, o di alimentare un segréto morbo, che la consumi.

Né potrà tampoco temere la crudele disunione, da cui sono minacciati gli Stati Uniti di America. Perciocché le dissensioni civili, che ivi succedono, tengono lor sede nell'antico desiderio, non mai vinto, ma sempre alimentato, degli. Stati del sud a disgiungersi da quelli del nord. Il che proviene principalmente dalla immensa distanza, che gli uni e gli altri separa. L'azione del supremo potere arriva lenta e difficile negli Stati dei sud, mentre è rapida e diretta in quelli del nord, poiché il Governo risiede nel Congresso, il quale è in Washington, ove mette capo la strada ferrata, che l'unisce alle linee di tutto il settentrione: gli Stati del mezzo giorno, divisi da esterminate distanze dagli altri, sentono il bisogno di una indipendenza assoluta, come sul principio dell'unione manifestarono; e sarebbe essa avvenuta, fin da quel tempo, se la voce di Washington non fosse prevalsa sul sentimento di quelli, che alla

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separazione. intendevano, formando una unione diversa.

Quindi la lotta attuale, ch'è lotta feroce e di esterminio, prende capo da quel principio, e la quistione della schiavitù, che si sarebbe potuta ben di leggieri appianare, senza ricorrere alla guerra civile, non è che un infelice pretesto a quel malaugurato fine: non essendovi umano pensiero, il quale inclini a persuadersi, che una quistione di principi possa scatenare sì fattamente tra loro popoli fratelli, e bruciare la patria comune, che per costituirsi tanto eroismo, e tante pene costò ad entrambi

La immensa distanza dunque che separa gli uni e gli altri Stati, ha tenuto sempre vivo nelle popolazioni del sud il bisogno della divisione: bisogno che si è alimentato e cresciuto nella grandezza, e nella prosperità. Gli Stati del nord tengono forte al principio dell'unione, perché disunendosi perdono in potenza, in ricchezza, né possono più primeggiare, come per lo innanzi facevano. Quindi invece di una nobile annegazione, sostenuta dall'amore dell'umanità, dall'onore della concordia, si abbandonano ad una guerra iniqua, che non ha forse uguali esempi nel mondo.

Or gli stati italiani sono finitimi tra loro, da strade a ruota congiunti in ogni lor punto, non che da strade ferrate, che han fatto già disparire, e sempre più il faranno, le stesse brevi distanze, che li disgiungono.

Per le quali cose non solo agevole, ma positiva e duratura sarà l'istituzione del patto federativo italiano, il quale avrà certamente minori sconci, o forse non ne avrà nessuno, secondo saremo per dimostrare, in confronto agli altri stati confederati.


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§ XVII.

Roma seggio e emiro della Confederazione.

Primieramente nessun paese del mondo si troverà nella felice condizione più dell’Italia di avere un luogo, che noti possa eccitare invidia o gelosia m alcuno, per divenir seggio della italica Confederazione; e già tutti gli sguardi, e tutti i pensieri si volgon subito alla cittade eterna. In Isvizzera, secondo abbiam visto, la sede della Dieta facevasi a turno fra Berna Zurigo e Lucerna, ed ora si fa nella prima solamente, come la più nobile Città di tutta la Svizzera. Nella Confederazione germanica la Dieta risiede a Francfort, ove da secoli si conservano le Costituzioni dell'Impero; e per essere città libera non isveglia a nessun coronalo sospetto o ripugnanza; e di più essendo sui Meno, eh9è uno dei confluenti del Reno, che bagna gli Stati più importanti della Confederazione, rendesi facile a tutti egualmente l'accesso: ed ora maggiormente, ch'è divenuta centri primario delle linee ferrate, e dei telegrafi dell'Alemagna.

Negli Stati Uniti si è fondata a bella posta una città, che porta il nome glorioso di Washington, per farla seggio dell'americano Congresso; e tutti s'inchinano, senza rancore, verso di quella. Ma in Italia non è città, che possa contendere a Roma questo primato. Perciocché essa è quasi nel mezzo della Penisola, ed è la più illustre, che mai siavi per antiche e moderne reminiscenze di gloria e di potenza. Quindi l'epiteto di Cittade eterna non poteva esser meglio dato che a Roma, la quale si attrae sempre l'ammirazione del mondo per quel che fu, per quel che è.

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Qui vengono le cristiane genti, come nell'antico tempo, le pagane venivano: qui ogni petto, di zelo e di amore si scalda: qui ogni sasso, che sotto il piede calchi, racchiude un pensiero, ti ricorda una gloria: qui il tempio di Salomone tornò a vita grande e maravigliosa: qui gl'intelletti più peregrini impiegarono la mente e la mano, per rinnovare i prodigi dell'arte antica: qui ogni semente di carità si feconda, ogni luce di verità si spande: qui il supremo Gerarca, simbolo dei misteri di Dio, promotore di sapienza e di civiltà, sì che ogni cosa che cade sotto i sensi tei dice, conforta le coscienze, eleva gli spiriti, schiude loro le speranze dell'avvenire, e fa sentire all'uomo tutta la dignità della sua gloriosa natura.

Roma dunque giganteggia sulla terra, e sarà come centro, nel quale rifletteranno tutti i raggi dei vari stati italiani.

E se da taluno, nella malaugurata utopia della italiana unità, si è gridato Roma capitale d'Italia, viene questo desiderio ad ottenersi nella medesima Confederazione: ma si otterrà nel senso della verità e della giustizia, supreme guide dei fatti umani, e senza di cui ogni cosa di questa misera terra scrolla, e si annienta.

Roma, capo del mondo cattolico, sede del Sovrano Pontefice, che su dugento milioni d'uomini impera colla Croce dell'umano riscatto, avrà in si fatta guisa ottenuto assai più di quello che la perfidia delle genti volea conseguire. E ciò senza insanguinare la terra, e togliere l'indipendenza e la libertà a popoli nati, e costituiti per se coli indipendenti, e che portano l'impronta incancellabile della natura e del tempo.

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E pure abbiam visto sfiancare questi concetti in un moderno libro» che lodiamo pel fine, e per molti altri pregi, a questi ultimi mesi pubblicato (1).

E poiché tutti gli organi dell'unità italiana, e i suoi sostenitori, abbiano le mille volte dichiarato, che l'unità d'Italia non è possibile senza Roma, il Proudhon pure, mentre è contrario all'unità, e propugna la federazione, vuoi mostrare che la difficoltà, che mettèsi innanzi non dee aver luogo, poiché Roma non ha nulla (egli dice) di ciò che fa mestieri, al punto di vista delle idee moderne, per farne una capitale (2).

Il che tacitamente riflette sulla sede pure della italica confederazione, quasiché possa esservi in Italia città da preferirsi a Roma, come centro e capo della medesima.

Se Proudhon intende, per idee moderne, le idee dissolvitrici della società, allora né Roma, né altra città qualunque, la quale voglia conservare incolume gli elementi della giustizia, della morale, del dritto, può servire a quel fine. Per contrario se la gloria del nome, se l'azione della sapienza, se le reminiscenze antiche, in ciò che vi ha di più possente nella vita delle nazioni, alle moderne si congiungono, in guisa che presentano al pensiero del filosofo una serie non interrotta di secoli maravigliosi, niuna città vince Roma.

Ma il Proudhon non inclina gran fatto verso di essa, talché volendole togliere ogni prestigio, cade in grossolani errori, che fan fremere la storia e la ragione. Egli. parlando della vetusta Roma, per venire poscia alla moderna, e mostrare che la situazione è sempre la stessa,

(1)La fédération et l'unite d'Italie par P. J. Proudhon. Paris 1863,

(2)L. C.

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spignesi a dire, che Roma città capitale nel senso vero non fu mai.

Difatti viene osservando, che il romano governo, obbligato a seguire l'Imperatore, ebbe la sua sede da per tutto, in Alessandria in Nicomedia a Gostantinopoli a Tre-veri a Parigi a Ravenna; il titolo di capitale, soggiunge, non fu per Roma che titolo onorifico: quindi i secoli e le rivoluzioni non hanno cambiato la posizione; e chiede che cosa è Roma oggidì? Un Museo, risponde, una chiesa, e nulla più; talché finisce il miserando quadro dicendo togliete a Roma i suoi preti e diviene la città la più triste, la più di poco conto dell'Italia e del globo, una necropoli (1).

Or quando ignorasi la storia al segno, che Proudhon fa le Onte qui d'ignorare, è vietato dalla ragione il rispondere. E quando mai il governo dell'Imperò fu trasportato là dove egli accenna? Il governo di Roma fu a Roma sempre: il pensiero della città eterna fu qui perpetuo: da qui spandevasi fazione suprema, e potentissima per l'universo soggiogato. Un uomo che potea dire Civis romanus sum portava seco un carattere di gloria, che nessun altro vinceva, e la terra commossa invidiava. La guerra sociale, che gl'Italiani fecero ai Romani, e che tanto sangue, tanti dissidi a Roma costò, ebbe origine dal voler esser dichiarati romani cittadini, e non già alleati di Roma, poiché lo stesso italico aere respiravano, la stessa terra premevano, lo stesso sangue era in loro divenuto comune, comune il linguaggio... E pure l'orgoglio romano gliel negava! Ma il romano orgoglio fu battuto,

(1) pag. 47.

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e gl'Italiani tatti divennero cittadini di Roma; talché ogni popolo italico acquistò quella grandezza che pria non aveva, e ch'era segno di tutti i suoi desideri. Perciocché gli occhi del mondo a Roma eran volti; e da qui la filosofia di ogni sapere diffondevasi; qui tutte le spoglie del conquistato mondo venivano; qui si fondò quel theatrum speculum justitiae, che ha guidato ed illuminato la moderna ragione.

Da Romolo fino a Giulio Cesare corsero 709 anni, e Roma crebbe sempre in modo maraviglioso, sì che ivi tutti i pensieri concentravansi, diguisachè il grande storico latino diceva di essa nec unquam nec major nec sanctior (1). Da Augusto a Costanzo Chloro, predecessore di Costantino, contansi tre secoli e mèzzo, e niuno ardi mai di volgere gli sguardi altro che a Roma, Quindi tutti quei nomi, che Proudhon unisce insieme, non eran che ombra innanzi l'eterna Città: Alessandria, Nicomedia, Parigi, Treveri, e fin Ravenna, la sede degli Esarchi, eran luoghi morti per essa; e a tutto quell'impasto d'idee, che lo scrittore francese mette innanzi, null'altro può dirsi, se non che lo stanziare in alcuni luoghi più, e meno in altri delle armate vincitrici, secondochè le aquile latine qua e là volgevansi, era l'effetto della conquista, ove il vincitore rimanea finché le cose pubbliche non si fossero ordinate, o le sue passioni non sì temperassero. Ma da ciò non deesi mai ingenerare la falsa idea, che il romano governo andasse a risedere ora in una città ora in altra, sì che Roma non fosse che capitate onorifica Ettore maggiore di questo non può darsi. Roma raccoglieva i sospiri di tutti;

(1)Tit. Liv. bist. lib. I.

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e qui i padri coscritti, qui i Consoli, i Censori, i Pretori, i Comizi, i Tribuni, gli Oratori, il popolo; qui gl'Imperatori, qui i trionfi, qui la gloria. Fuori di Roma nulla esisteva, che soggetta a Roma non fosse. £ quando veramente venne a Costantino il malaugurato pensiero di trasportare a Bisanzio la sede del l'Impero del mondo, credendo falsamente, che da quel punto fosse più facile osteggiare, le barbariche invasioni dei Cimbri, dei Teutoni, degli Sciti, il che non fu, allora Roma cadde dalla sua altezza, quasiché la virtù propria di questo suolo altrove allignar non potesse. E fu come un albero, che in altro terreno piantato, s'insterilisce, e muore. Quindi bene e sapientemente hanno tutti i filosofi notato, fra cui Machiavelli e Montesquieu, che questa fu una delle più gravi cause, e forse la maggiore, del declinare della romana potenze. Allora sì che Roma perdette il suo lustro; ed il suo nome, che atterriva le nazioni, ebbe in Bisanzio la tomba.

Ma Róma moderna risorge, e all'antica si ricongiunge: ella trionfa sull'idolatria, e rabbatte: nella lotta tremenda fra, lo spirito e la materia, rimane vincitrtce, e l'uno l'altra schiatte, ed annienta: la moderna grandezza s'innalza sublime, e coll'antica gareggia, talché una catena prodigiosa di eventi insieme si legano, per impedire la ruina dell'umanità... E qui il pensiero giganteggiando maravigliato si arresta, ed innanzi l'eterne mura riverente si china... E pure per Proudhon c'est la citè la plus marne, fa plus nulle de l'Italie, et du globe. Oh la mente vaneggia!

Roma sola dunque poteva divenire la capitale delta penisola, com'ella sola ha dritto di esserlo della italica confederazione.

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Perciocché ivi è il seggio più illustre d'Italia non solo, ma del mondo.

§ XVIII.

Possibilità di un governo uniforme; libertà possibili; possibilità che i reggimenti interni siano diversi, e che gli stati si governino con leggi diverse, sotto il patto federale.

Or credesi da taluni, che varie difficoltà si presentino nell'attuazione di questo patto, e nella durata del medesimo. E la prima è quella che s'ingenera dalla diversità dei governi, che reggono i vari stati, che Italia compongono. Ma questo è un errore, che ben di leggieri sarà vinto.

Pria di tutto sarebbe non che possibile, ma facile, o sommamente utile, che si costituissero in Italia reggimenti, presso a poco simili tra loro, i quali, fondandosi su i medesimi principi di libertà moderate, che sono le sole insite nella morale e nella giustizia, presenterebbero più ragioni di accordo e di armonia. Perciocché trovandosi a un di presso tutti gli stati. italiani nella medesima condizione di civiltà, di progresso intellettuale, di moralità, possono facilmente essere governati colle stesse dottrine, e le stesse norme. Non si tratta di Africani con Asiatici, ma d'Italiani con italiani. Qual può esser dunque la difficoltà di costituire dei governi, che abbiano lo stesso carattere, e la stessa fisionomia? Io credo che il principio che deesi ammettere da lutti, e che può da tutti seguirsi, è quello di congiunger l'azione dei governi, pronta attiva non serva, alla libertà, la quale sostenga l'ordine, la pace,

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il progresso del pensiero, la sicurezza dei cittadini, Ir guisa che si allontanino al tempo stesso gli straripamenti del potere, e la licenza popolare.

Ma se per avventura ciò non avvenisse, per non essere gli stati soggetti a leggi determinate, e voler esser piuttosto liberi di dare ai popoli quel governo, che loro-meglio convenga, egli è certo che ciò nulla da o toglie alla quistione presente, né può esser causa di dissidi, né d'impedimento alla istituzione del patto federale italiano.

La lega achea con saggio intendimento il vietava, ma l'esempio della confederazione germanica prova, ch'è possibile il contrario. Perciocché tróvansi fra gli stati che la compongono le forme politiche più svariate; furoòvi monarchie pure per lunghissimo tempo, ora vi sono mo-narchìe temperale da rappresentanze nazionali, o da stati provinciali; vi sono del pari costituzioni repubblicane nel governo delle quattro Città libere di Lubecca, Francfort, Brema, ed Amburgo. Dunque non è meraviglia se in Italia sieno più forme di governo. Perciocché questo, torno a dire, non è né sarà mai un ostacolo da impedire la italica Confederazione. E siccome la Dieta germanica, in assemblea generale costituita, ha il dritto di modificare, secondo i tempi, la costituzione federale, o le costituzioni, sulle quali riposa il governo di ciascuno stato; così il Congresso federale italiano potrà, secondo i bisogni, e le dimande dei vari stati, occuparsi con maturo consiglio di questo importantissimo obbietto, rendendo più uniformi e più omogenee fra loro, giusta il concetto della lega achea, le instituzioni e le leggi, che li governano.

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§ XIX.

Unità italiana.

Ma un altro timore agita sordamente gli animi, e noi non possiamo trascurar Tesarne della cagione che lo produce. Gredesi che l'Italia possa essere novellamente sedotta, e strascinata dalle ambizioni altrui, e che qualche stato potente della medesima Confederazione tenti, con l'idea dell'unitàitaliana, non mai estinta, di gittarla, per mezzo dei legami federativi, in novello abisso. Certamente dai possibili umani non si può escluder nulla. Ma i giudizi dell'uomo debbono fondarsi sulle maggiori o minori probabilità, che accompagnano gli eventi. Or le probabilità in favore dell'unità italiana, dopo i fatti dell'epoca attuale, sono si difficili, e sì lontane dal vero, che non si possono né si debbono più temere. Perciocché l'Italia ha compiuto una miseranda prova di unità, per farsi prendere a nuovi lacci, e desiderare il ritorno dei medesimi fatti di lagrime e di vergogna. La quistione dell'unità è stata da tempi antichi sepolta tra le speculazioni del pensiero: né si era mai proccurato di attuarla con fatti, che tutti gli elementi di ragione e di storia eran contrari. Ma si è voluta oggi tentare non dai popoli che non l'intendevano né l'intendono, ma dalle ree ambizioni di una setta senza senno né consiglio; ed il mondo ha visto che tosa di tristo e d'empio abbia quell'infausto sforzo prodotto alla misera Italia. Ella, tradita e manomessa, è stata allagata di sangue, di rapine, di odii, d'ire cittadine interminabili. Ella piange lagrime di eterno dolore, ed invoca con fremito le antiche autonomie,


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che l'avevano reso sì grande, e sì celebrata.

Certo se il lugubre tentativo non si fosse fatto, una Confederazione italiana ne avrebbe apprestato segretamente i mezzi, e forse lo avrebbe potuto accelerare. Ma questo timore è sparito, per sempre; poiché le strisce tremende, che lascia in una storia di sangue, faranno inorridire i posteri più remoti, ed eliminarne il pensiero.

Si lasci alla Germania la funesta prova cui mira. Ella sconosce miseramente il fatto suo, poiché la natura non l'ha creata per l'unità, ma per esser divisa sempre. Difatti il suo sminuzzamento politico, che rimonta a tempi immemorabili, corrisponde alla configurazione del suo medesimo suolo: ed osservando con occhio sagace, e scevro di pregiudizi, la topografia dell'Alemagna, veggonsi a chiare dote le grandi linee di confìnazione, che la natura vi ha segnate, e quei fisici caratteri, tra loro diversissimi, che le sue regioni presentano. Quindi io sminuzzamento politico è in corrispondenza allo sminuzzamento fisico. Ciò che i Germani poteano ottenere l'hanno ottenuto, una federazione delle varie parti del loro gran paese; ma unità, concentramento nol potranno giammai. E tempo verrà, né sarà lontano, che essi, tornando in sé medesimi, invocheranno con dolore, e con ira ciò che oggi rinnegano.

Ma per l'Italia l'unità italiana è un'assoluta vanità, se non vuoisi l'effetto di un disperato pensiero; e gl'Italiani, fin quelli ch'erano i più protervi o i più ciechi, si sono sgannati, e non sospirano che di sanare le miserande piaghe, che un insensato disegno aprì alla loro patria infelice.

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§XX.

Influenza austriaca.

Finalmente un'altra opposizione mettesi innanzi, e gridasi, da ogni partito, grave ed invincibile, cioè quella che dovendo l'Austria, pei suoi possedimenti italiani, entrare nella Confederazione, questa sarà continuamente minacciata, o certo agitata, dall'austriaca potenza. Perciocché essendo essa cento volte superiore ai singoli stati d'Italia, ed anche a tutti insieme riuniti, potrebbe facilmente avvenire, che il corpo confederato non fosse libero nelle sue risoluzioni, e divenisse strumento delle ambizioni imperiali.

Difettò nella Confederazione germanica, ove entrano la Prussia e l'Austria, l'Alemagna trovasi sbattuta dalle ambizioni di quelle due grandi potenze.

Pria di tutto è da riflettere che la Germania è quella che attualmente, spinta dal furore delle sette, non che dalla diversità dei culti, forte si agita» per isciogliere la sua federazione, fondarsi nella Prussia, e perdere la germanica faccia: senza di che né Prussia né Austria potrebbero addentellare l'energia di quel corpo. E se ciò non fosse ne avverrebbe senza fallo, che sendo Austria e Prussia, l'una in feccia all'altra, vi sarebbe un equilibrio di forze in favore delle germaniche istituzioni

Ma in Italia non ti sarà mai individuo, che» nato italiano, voglia gittare la sua patria in mezzo all'Austria, e divenire austriaco. Ciò non pertanto, da tutto il tenore delle discusse ragioni, sorge una verità, cui non puossi

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certamente negligere, che l'Austria può ben di leggieri esercitare un'influenza, maggiore o minore che sia, nelle italiche discussioni, e nelle risoluzioni da prendere. Quindi per la stabilità della italiana Confederazione, e per evi-lare i disordini, che se ne potrebbero ingenerare, e i mali che per la indipendenza della patria si potrebbero temere, è necessario che si escogiti, con maturità di consiglio, il modo come bilanciare in Italia l'azione austriaca.

§XXI.

Mezza di equilibrare l'influenza austriaca

nella Confederazione italiana.

Certamente importantissimo è l'argomento, che agitiamo, e di grave pondo il pericolo, che, coll'andare dei tempi, se non subito, potrebbesi affrontare: tanto più che nelle costituzioni degli stati, donde proviene la felicità dei popoli, è mestieri che tutte le difficoltà si schierino innanzi alla mente, senza quegl'incerti ed odiosi velami, che offuscan la verità, o la tradiscono.

Noi sappiamo che Austria, Prussia, Inghilterra, Danimarca, Olanda entrano nella Confederazione germanica, pei loro possedimenti germanici... Or non possono, dicesi, Francia ed Inghilterra entrare nella Confederazione italiana pei loro possedimenti italiani?

Esaminiamo questo punto. Primieramente è quistione non ancor risoluta, né si potrà forse risolver mai, se Malta sia terra più punica che italiana. Ma lasciando questo argomento, ed ammettendo l'italianità di quell'Isola, egli è certo che quando ella dovesse far parte

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della italica Confederazione, dovrebbe avere un governo separalo, come l'Annover: il che non so, se possa o voglia farsi, poiché sendo Malta l'unico gran porto navale, che ha l'In ghilterra nel mediterraneo, difficilmente potrà dipendere da un governo locale, ed esser soggetta alle ispirazioni della federazione italiana. II Monarca inglese non fa parte della Confederazione germanica, come Re della Gran Bre-làgna, ma com3  e & Annover, e sull'Ànnover non ha il Parlamento inglese nessun potere. Del pari il Re di Olanda non vi entra con questa qualità, ma come Gran Duca di Lussemburgo; il Re di Danimarca come Duca di Holstein.

L'Austria apparterrà alla Confederazione italiana per la Venezia, e per quella parte di Lombardia, che le rimane. E siccome non furono mai queste province fuse nell'Impero, ma formaron sempre un regno separato, il regno Lombardo-Veneto, così il Monarca Austriaco farà naturalménte parte della Confederazione non come Imperatore d'Austria, ma come Re di quel reame.

Dal che nasce che il Parlamento inglese non potrà più esercitare su Malta alcun dominio. La qual cosa non converrà "certamente agl'interessi inglesi, dopo quasi sessantanni di possesso in quel modo costituito.

Ma oltre a ciò vi è un'altra grande difficoltà, che dee fare escludere l'Inghilterra,0, per dir meglio, non ammetterla nella Confederazione italiana. E questa è la diversità del culto. Noi abbiamo dimostrato che i mali, che agitano e minacciano l'esistenza della Confederazione svizzera, non che della Germania, sono appunto questi, che dalla medesima fonte provengono. Dùnque dovendo stabilire una Confederazione nuova, che abbia sue ferme

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basi, non possiamo introdurre elementi discordi, e principi contrari, senza tradire la verità, e manomettere gl'in teressi italiani.

Le quali cose non sono per la Francia. Imperciocché essa è la più grande potenza cattolica del mondo, e quindi, intervenendo insieme all'Austria, abbiamo uniformità so lenne di principi nel più gran fatto della vita dei popoli, qual'è la religione.

Resta solo a considerare gli altri punti. La Francia possiede risola di Corsica, Nizza, Savoja, Mentane e Hoc cabruna, che facean parte del Principato di Monaco. Quia di ha dritto di entrare nella Confederazione italiana. Ma reggendo per essa le stesse ragioni, che abbiamo discusso per l'Inghilterra, egli è certo che Napoleone III non né può far parte, come Imperatore dei Francesi, ma sibbene qual Principe e Signore di quegli Stati: i quali dovreb bero avere una rappresentanza propria italiana; che altrimenti non potrebbero godere di tutti i vantaggi delle leggi della Confederazione, e non più il Sovrano della Francia, ma il governo francese sarebbe rappresentato nella Confederazione medesima; donde nascerebbe che non più l'Assemblea d'Italia, ma il Senato di Francia, e la Camera legislativa, verrebbero a metter voce nelle deliberazioni dell'Assemblea. E poi le linee doganali, la moneta, i pesi e le misure, i decreti tutti in italica favella, e cento altre cose non potrebbero applicarsi a qnegli Stati: dal che verrebbe lo sconcio, che sendo italiani, confederati cogli stati d'Italia, avrebbero elementi di vita civile diversi. Il che non può aver luogo io verun conto; ed ognuno, in sua saggezza, per sé medesimo il vede. Non dimeno tale difficoltà potrebbe, se mal non mi appongo, vincersi di leggieri.

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Primieramente, se per meglio facilitare questo nobile disegno, convenisse non includere la Savoja nella Con federazione, perché paese al di là delle Alpi, e non togliere alla Corsica l'antica nazionalità francese, perché ivi nacque Napoleone il Grande, resterebbe il Monarca della Francia sempre per Nizza, e per quella parte del Principato di Monaco, che acquistò. Questi paesi, colle loro dipendenze, sono entro Italia, sono italiani per eccellenza. Quindi possono staccarsi dalla Francia, ed esser governati con quelle leggi che l'Imperatore crederà migliori, qualora non si potesse eseguire l'idea dell'uniformità dei medesimi principi governativi, per tutti gli Stati della Confederazione: purché non si dipenda mai né dalle Camere, né dal Senato, né da altri corpi, che per avventura-potessero colà sorgere in avvenire. Quanti possedè menti non tiene la Francia nelle altre parti del mondò nel modo che noi indichiamo? Dunque l'Imperatore, restando assoluto Signore di que' paesi, non farebbe alcun sagrifìzió staccandoli dall'Impero, a cui geograficamente non appartengono. Ma se pur fosse, è desso di sì picciol momento, che sparisce all'idea generosa di far parte delta Confederazione di uno Stato di venticinque milioni d'uomini, ed esser Principe nella medesima in faccia all'Austria.

E siccome le voci non debbono essere in relazione al territorio, ma all'importanza della nazione, cui questo appartiene, così la Francia avrà quattro voci, come l'Austria: quattro voci avrà il reame delle Due Sicilie; quattro lo Stato Romano; quattro il Piemonte; tre voci Toscana, e meno gli altri, qualora la circoscrizione territoriale dovesse rimanere l'antica.

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E perché nessuna cosa italiana sfugga, e non si creda che il pensiero appositamente la trascurò, fa d'uopo dire, che la Repubblica di San Marino è stata rispettata da secoli, e da tutte le svariale dominazioni, cui è stata soggetta Italia: quindi può, se pur voglia, entrare nella Confederazione. Perciocché essa, oltre che fa parte d'Italia, ha pagine nobilissime che l'onorano, né l'Italia può dimenticarla, senza far torto a sé stessa: essendo certo cfre né la brevità del suo territorio, né la piccola sua popolazione son motivi di esclusione; che ad elementi assai più alti, all'importanza del nome volgesi il pensiero. Né l'importanza é l'effetto solo della forza, ma di tanti elementi disparati, che per lo più forza non sono. E se vogliamo esempi, che questo divisamente sostengano, possiamo ricordare che nella Confederazione germanica trovansi paesi simili a San Marino. Il Principato di Lichtenstein conta poco più di sei mila abitanti, ha una voce a Francfort, e fornisce sessanta soldati all'esercito federale.

E ritornando all'Austria, ella in sì fatta guisa, avrà di contro a sé medesima, insieme agli Stati italiani, la gloriosa la potente Francia: quindi la sua forza starà in equilibrio, e viene incagliata non solo, ma distratta in Italia, l'azione assoluta, che ha per lo innanzi esercitato; diguisachè svanisce il concepito timore, e l'italica Confederazione, fondandosi sopra basi così salde, avrà una vita, che potrà soggiacere, cornei tutte le cose del mondo, alle sue perturbazioni, ma sarà sempre grande e rispettata.

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§ XXII.

Forza dell'Italia confederata nella bilancia europea.

Ma all'idea generosa della grandezza, e del rispetto che può svegliare in altrui, potrà sommamente contribuire la forza, di che sarà capace.

La Germania da un uomo sopra cento individui di popolazione, ed avendo trentacinque milioni di abitanti, possiede un esercito di circa trecento mila soldati. Llta-lia ha una popolazione di venticinque milioni, e quindi nella stessa proporzione, può tenere un esercito di duecento cinquanta mila uomini. Il quale, nei casi di bisogno, può ammontare, senza grande sforzo della nazione, a tre cento cinquanta mila.

Egli è certo che il soldato italiano sarà colonna dell'indipendenza della patria: la quale, con un esercitosi poderoso, avrà nella bilancia europea una voce, che non sarà certamente l'ultima nei grandi eventi del mondo. Al che la storia ci riconforta. E senza rimontare alle epoche lontane, che han fatto stordire la terra, si guardino per un momento gl'Italiani in Russia, e gl'Italiani in Ispagna nelle guerre del secol nostro, e si vedrà, con superba meraviglia, che l'antico valore non solo non è morto negl'italici petti, ma vivo e glorioso si mantiene (1).

(1)V. Vacani —Gl'It. in Sp. Lissoni — Episodi della guerra combattuta dal'It. in Sp. Laugier —Gl'It in Rus

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§ XXIII.

Beni, che l'Italia può sperare dalla

Confederazione italiana.

Or dopo tutte le discusse materie, perché sia con effetto duraturo il patto federativo, e. facile torni ad ogni stato italiano il sostenerlo, mi avviso che meglio s| raggiungerà questo gran fine, quando semplici chiare, e preoise saranno le condizioni, che lo istituiscono. Le cornificate forme, e la folla degli obblighi, che uno stato vuoisi che abbia Verso un altro, rende il patto grave, e difficile che si adempia.

Noi abbiamo osservato, che, nella Confederazione delle Provincie Unite di Olanda, gli affari non si potevano diffinitivameote decidere, sci non quando i deputati avessero recato innanzi l'Assemblea generale il consentimento delle provincie alle proposizioni già dall’Assemblea deliberate. Il che conteneva tal vizio, che non facea mai dar termine ai pubblici negozi, e mandava spesso a vuoto gl'interessi più importanti della olandese Unione.

Quindi consacralo il principio, che un governo sarà inconcusso, qualora feccia servire le leggi al consolidamento della pubblica morale, ch'è base della pubblica fortuna, la Confederazione italiana sarà il più nobile ed utile pensiero, che sì fosse nel secol nostro attuato. Ella, rappresentata da un Congresso, ove interverranno i deputati dei vari Stati confederati, nominati dai rispettivi governi, si metterà a livello di ogni altra, senza averne i vizi: e riconoscendo la esistenza politica degli stati, che la compongono, ed obbligandosi con sé stessa, e cogli stati

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medesima mantenerne e difenderne l’indipendenza ed il dritto, si renderà compatta, e possente.

E perché questo fine sempre più si consolidi, nessuno stato della Confederazione dovrebbe contrarre obblighi verso un governo straniero, o far trattati col medesimo, che possano minimamente nuocere agl'interessi generali d'Italia, o alla dignità propria, che riflette sulla dignità di tutto il corpo confederato. Il che è importantissimo, lo abbiam visto gelosamente praticare netta lega achea, e nella confederazione germanica.

Né sono più da temere le influenze straniere, e meno l'azione delle forze altrui per sedare i disordini civili, che per avventura potessero succedere in uno stato delta confederazione fra governo e governati. Perciocché quando il pubblico potere locale non ha potuto farli venir meno domarli, il Congresso, straordinariamente in assemblea generale riunito, deciderà se sia il caso d'intervenire, onde cessino, e la pace del corpo confederato non sia turbata. Quindi non vi è più da temere il tenebroso lavorio delle sette interne di uno stato, per rovesciarne il trono cangiarne le istituzioni. Perciocché il congresso farà uso della forza confederata, per reprimere i tentativi di sedizione, che potessero per avventura insorgere, onde manomettere i principi, che sostengono gli stati confederati, il Congresso, che rappresenta la nazione unita, è nell'obbligo di non abbandonare uno stato della medesima all'azione anarchica, che possa per avventura minacciarlo. Egli dee venire in ajuto della legge, e difenderlo. La Confederatone germanica ha nel suo patto, secondo abbiam visto, un articolo fondamentale, come questo indichiamo per l'Italia.


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Cosi del pari i piati è le quistioni, di qualunque natura sieno, che potessero avvenire fra gli Stati confederati tra loro, non dovranno esser mai risoluti per via delle armi, bensì dal medesimo Congresso, che raccoglie i voti di tutti, veglia su i bisogni comuni, e vi provvede.

Ma ben ponderando, nello assieme, questo grave subbietti, i beni, che dalla Confederazione italiana deriveranno all'Italia, saranno infiniti, perché il pensiero non se né consoli, e non affretti questo desiderato momento, che colla pace procurerà la gloria, e quella nazionalità possibile, alla quale si aspira. Perciocché il Congresso provvedere, a cagion d'esempio, che il sistema metrico, sì necessario agli usi domestici della vita, non che utile alle scienze alte arti al commercio, sia uniforme per ogni dove dell'italica penisola; che il valore della moneta venga ragguagliato fra paese e paese, ed abbia quella di uno, corso nell'altro; che la proprietà letteraria degli autori sia assicurata, senza distinzione di luogo a luogo, senza limiti, senza ostacoli, essendo gli scrittori d'Italia italiani tutti. L'Italia avrà, per la sapienza del Congresso, un sistema di passaporti, che faciliti le comunicazioni fra stato e stato, togliendo tutti quegl’impedimenti, che hanno reso finora quasi stranieri fra loro i popoli italiani.

Il Congresso attenderà, secondo le emergenze, alla pace, alla guerra, alle piazze forti, ai trattati commerciali o politici colle potenze straniere, alle neutralità armate, o disarmate; vedrà il bisogno di accrescere o diminuire secondo i casi, i contingenti dell'esercito: sue saranno te attribuzioni di modificare o di correggere, secondo l'esperienza potrà meglio consigliare, il patto federale.

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L'Italia dovrà attendersi la correzione delle linee doganali, per renderle più facili, ed eliminarne le durezze e le vessazioni: avrà un sistema daziario più uniforme, e più acconcio alle vere dottrine della scienza, e che possa, salvando gl'interessi particolari dei vari stati, giusta le proprie condizioni finanziarie ed industriali, fecondare la forza motrice della ricchezza nazionale.

Ogni stato particolare potrà, volendo, essere rappresentato in diplomazia presso le potenze straniere. Ma la Confederazione italiana potrà, secondo il bisogno, nominare un Ministro plenipotenziario, che la rappresenti a tempo presso quella nazione o quel Principe, . che gli eventi potranno richiedere.

Ma per dare, seguendo lo slancio del pensiero, una fìsonomia più diretta, e più unisona alla italica Confederazione, i passaporti, mentre conservano il nome e lo stemma del Principe, a cui lo stato appartiene, potrebbero aver tutti un suggello comune, quello della Confederazione medesima. Così del pari ogni Stato, conservando la sua propria ed antica bandiera, potrebbe innalzare all'estremità dell'asta una fiamma di color verde in segno dell'unione.

Al che finalmente aggiungiamo, che la turbolenta quistione del Veneto non mai estinta, e causa perenne di disordini e di sciagure, verrà in certa guisa ad avere la sua soluzione, o almeno a mitigare di molto l'asprezza delle menti, e. a correggerne i desideri, assicurando l'ordine interno all'Austria, la pace al mondo. Perciocché Venezia, facendo parte nobilissima ed essenziale degli Stati italiani, avrà nella Confederazione la sua particolare rappresentanza, e tutte quelle leggi, e quegli ordinamenti

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civili, che saranno comuni a tutte le altre parti dell'ila liana penisola.

Per le quali cose l'Italia sarà lieta d'aver conseguito la sua nazionalità, senza l'accompagnamento di mali, che non avrebbero avuto mai fine, perché sempre vive le piaghe, e rinascenti le cause. Ella diverrà possente nella federazione delle varie parti che la compongono, e mentre acquista forza e dignità in Europa, provvede ai generali bisogni delle italiche genti, e feconda tutti gli elementi della pubblica prosperità: sì che ogni onesto italiano troverà nel suo paese una vita nuova di grandezza, di concordia, di nazionale fortuna.

§ XXIV.

Stato miserrimo d'Italia. Lamenti universali. Tirannide piemontese. Qual parte prendessero i popoli italiani nei cangiamenti avvenuti. Ricordi intorno al governo di Sicilia, conte il più calunniato fra tutti i governi d'Italia.

Una storia di lagrime e di sangue ha messo di nudo tutto che fu orrendamente ordito contro popoli innocenti, per trascinarli negli abissi, ove si trovano. Se strappate questi popoli atta scure insanguinata, che lì decima, se li togliete dalla pressura sotto di cui miseramente gemo no, vedrete con quale slancio, e qual fervore invocheranno il perduto.

È un vero entrato già nel patrimonio della storia, che bob si revoca più in dubbio da chicchessia, che le pie luride macchinazioni, che mente umana concepisse, furono eseguite per rovesciare i legittimi troni, rapire l'altrui con tal maschera, che il pensiero por orrore respinge, ed incatenare i popoli al carro di una fortuna insanguinata e vile:

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si che da ogni parte d'Europa s'innalza un grido d'ira e di fremito, cui solo può far tacere la voce della giustizia, Ch'è stata finora ingannata, o sorda ai lamenti dell'umanità.

E questa giustizia invochiamo, perché alfine tanta miseria cessi, e tanti affanni abbiano un conforto. Il calice della colpa è colmo, e trabocca sì che ornai inietta H mondo. Si scuota il mondo, e vegga alfine senza orpelli, che manomettono la dignità di nonio, qual  idra velenosa ed empia sia la rivoluzione presente, poiché non si tratta più di cangiare la forma di un governo, o di rovesciare un trono, per Innalzarne un altro, ma di attentare alla vita della società civile per distruggerla dai suoi cardini. Mezzi a questo fine sono i disordini attuali, che han commosso l'Europa, e si vedranno più manifesti e più rei, se non si reprimono.

Ed è degno della considerazione del filosofo l'osservare che, in mezzo a tanti orribili fatti, apparisce solo, che dalle annessioni italiche non nacque l'unità, ma il regno sardo ampliato. L'Italia, che grandeggiava nei suoi vari stati, è caduta ove nell'ignominia di sé stessa, ove nel furore delle parti, che si scatenano fra loro, e si annientano.

Tutte le fonti della pubblica prosperità accecate; le industrie abbandonate; il commercio avvilito; l'agricoltura senza braccia; gli studi, che abbellan la vita, sospesi; le gravezze enormi insopportabili; le miserie di ogni specie infinite; la morale contaminata; la religione, che affratella gli spiriti, feconda la carità, consola ogni cuore, spenta nell'ira della codardia di pochi, che hanno coi tradimenti colle infamie, sorpresi i popoli che gemono nel dolore, e nella disperazione.

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Insomma in Italia tutto è perduto, ed ogni luce è estinta. Quindi gli usurpatori han dovuto adoperare la più crudele violenza della forza bruta, che ogni sospiro soffoca, ogni fremito si spegne nel sangue.

E lo stato di assedio che per sì lungo tempo ha straziato ed oppresso (misura inaudita in un paese chiamato libero) tante nobili e popolose città, ti dice in suo linguaggio qual sia Tira del conquistato, quale il terrore, che invade il petto del conquistatore. Difatti vedi dovunque città incendiate, popoli dispersi, rapine, saccheggi, stupri, fucilazioni in massa, relegazioni infinite, le prigioni riboccanti di miseri, cui altro delitto non s'imputa, che il dolore di vedere il natio paese in tanta infernale sciagura.

Dio di misericordia, e non tuoni ancora? L'Europa è muta in mezzo a tanto affanno, mentre poi corre in Siria, sale sul Libano, si precipita al Messico. Grida non intervento, ed interviene là dove più giova. Epoca più miseranda di questa, il mondo non ebbe mai!

Vedi gli atti nefandi e rei dei Cialdini, dei Fumel, dei Pinelli, dei Fanti, dei Lamarmora, e di altri ed altri. Vedi gli ordini dei prefetti, che sono più carnefici che magistrati civili. Leggi, ed inorridisci, le circolari dei De Luca, dei Gemelli, dei De Ferraris, dei De Virgilii, e dei loro colleghi. Che fremito è mai questo? Che vita è ella mai? Nessuno si commuove a tanto strazio della natura, della morale, dell'umanità?... Kolb-Bernard, ch'è tra i più notabili spiriti, che sieno oggidì, generoso propugnatore del dritto, diceva al Corpo legislativo francese nella tornata del 6 di marzo 1862: il Piemonte non si è stabilito in Italia, no, egli vi si è accampato. Ed in questo triste

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e sanguinoso transitorio accampamento, soccombe sotto il peso delle sue ingordigie (1).

E perché non si dica che le nostre commozioni ci facciano esagerare le sventure d'Italia, giova alla verità ricordare, che dopo un anno, che Kolb-Bernard in quella guisa lamentavasi, il Keller ch'è tra i più illustri oratori, di cui si onorino i nostri tempi, diceva al medesimo corpo legislativo della Francia, novellamente riunito, parole, che in queste pagine consacriamo al dolore dei presenti, a perpetua memoria dell'avvenire.

Egli, quale interpetre del vero, dopo di aver mostrata i) bisogno di stabilire i grandi principi politici, che sieno di regola e di norma nei grandi eventi, in faccia ai quali stanno la ragione e la giustizia, tocca con maestra mano le cose d'Italia, e lasciam parlare, egli dice, le cifre e i fatti. In questi dì a Firenze un collegio elettorale, che aveva mille e duecento elettori, diede al signor Peruzzi appena tre cento in quattro cento voti. Il numero degli assenti fu tale, che né egli né i suoi colleghi, eccetto un solo, non poterono essere eletti al primo scrutinio. A Napoli un collegio dei più numerosi non ebbe che 57 votanti; in una città vicina a Napoli, i votanti furono solamente tre; cosi il numero degli elettori divenne del tutto irrisorio.

In occasione delle elezioni generali, il numero degli elettori era di un milione, e duecento mila, e il Parlamento di Torino fu costituito da 170,000 voti. Nelle Due Sicilie, 120 deputati non furono eletti, che da 28,000 elettori, condotti allo scrutinio da un esercito di 90 mila saldati!

E dopo questo fatto, che affermo senta timore d'essere

(i)V. Journal des débàts—L. C.

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smentito, il numero sempre crescente dei prigionieri politici e delle vittime, sorpassò d'assai il numero degli elettori. Lascio da parte gli esiliati, ed i morti combattendo: più di venti mila siciliani furono arrestati, condannati alla galera, alla prigionia o confinati nelle Isole. Riguardo alle stragi, la commissione del brigantaggio ha verificato che per quattro o cinquecento miseri briganti, cui si da la caccia, ne furono moschettati sette mila! Chiedo che i Piemontesi ritirino i loro 90 mila soldati, e che lascino te popolazioni esprimere liberamente il loro pensiero.

Riguardo ai modi di questa sovranità militare, lascerò parlare gli stessi militari, il generale Della Rocca afferma che di molti prigionieri non si conoscono i motivi del loro arresto che molti invece furono vittime dei briganti medesimi. Il governo italiano dunque opera non meno arbitrariamente del governo caduto, in qual modo furono trattati i prigionieri? Udite un testimonio di veduta in data dei 5 di gennaio ora scorso (1) «Non vidi mai nulla di simile! In una sola carcere ho visto 1300 prigionieri seminudi, rosi dai vermini, decimati dalla fame prima, e poscia dal tifo! » II testimonio aggiunge: «Appartengo al parato dell'unità italiana; ma non posso ammettere che nel 1863 sotto l'eroe Vittorio Emmanuele accadano tali cose nella libera Italia.» È facile argomentare da questi fatti lo stato presente del paese. Cinquantaquattro vescovi fuori della legge; eccovi la libertà di coscienza! Gli uffici dei giornali invasi e saccheggiati; eccovi la libertà di stampa!

(1)1863.

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I furti e gli assassini di pisti meriggio nette maggiori città, e le campagne devastate dai briganti t sovente dagli stessi Piemontesi; eccovi la sicurezza dei cittadini! Quindi dopo due anni di esperienza, il popolò è pia scontento, pia sventurato che mai; il Piemonte non ha sull'Italia, che il dritto della forza e della conquista (1)... Voi dunque, potenti delta terra, grandi nazioni umanitarie, che frenate le stragi punite gli autori dei macelli, che in lontane regioni avvengono, per quel principio di filantropia, che onora l'uomo, potete mirare con occhio asciutto, nel più bel mezzo dell'Europa, e tra popoli civili, tanta ignominia, e tante carneficine, quante ne avvengono tra noi? I nostri paesi son già chiamati le Tebi moderne alle truculenti scene di fratricidi combattimenti: sangue si versa, per l'abbandono di ogni legge, tra famiglia e famiglia; i partiti inferociscono; si scannano gli uomini tra loro, come nelle età più empie della vita.

L'amministrazione pubblica è una putrida sentina; tutto il governo è tale che non vi ha penna che il raffiguri o il descriva. Quindi è mestieri che qui vengansi rapidamente chiamando alla memoria gli organi della medesima rivoluzione, perché non sospetti, e che vanno in ciò di accordo con quelli conservatori, onde tutta sì conosca la serie dei osali, che opprimono le tradite e cai pestate province.

L'Unità italiana, il cui solo titolo mostra il carattere e lo scopo, a cui tende, quasi stanca dal pia vedere tanta pubblica vergogna, esclama: «una seguela incredibile di arbitrii sfrontati, di flagranti violazioni delle leggi civili e umanitarie, di una inettitudine esiziale alla patria,

(1)Débats — Tornata del 10 di febb. 1863.

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costituisce l’attuale amministrazione del Regno italiano. (1)»

La Democrazia, altro giornale, che propugna la causa piemontese, scoraggiato dai tremendi fatti, che avvengono, «dallo stato infelice della povera Italia, osserva, che lo sfiduciamento e l'apatia sono succeduti all'entusiasmo, ed alle liete speranze dell'avvenire, il commercio è deperito, la sicurezza pubblica è distrutta, i briganti numerosi e fieri scorrazzano a lor piacimento. Si aggiunga a tanta ruina l'immoralità dell'amministrazione interna, lo sprezzo pei dritti anche più sacri, il disavanzo di settecento e più milioni, e vedrassi, se si può preservare il paese dalla terribile catastrofe, che lo minaccia (2).»

La Discussione, giornale democratico turinese, dopo di aver dipinto con forti pennellate la crisi violenta, che travaglia le nostre povere contrade, soggiunge, che in tanto disordine le più fosche e terribili minacce si addensano sull'orizzonte politico (3).

Il Contemporaneo di Firenze, periodico, che ben si fa notare per l'equità de’ suoi principi-e per la sua dottrina, in queste amare parole scioglie la lingua in faccia ad un pubblico, che tutto ne sente il peso, e ne valuta il vero. «Il malcontento per l'attuale indirizzo politico e amministrativo del governo di Torino invade ogni angolo della Penisola, e dalle regioni più umili va sollevandosi fino ai più alti uffici delle pubbliche gerarchie.

(1)Novembre 1862,

(2)Dicembre 1862.


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(3) N. 8—dicembre 1862.

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Del popolo più non parliamo. Il suo scoramento prosegue a manifestarsi in ogni misura.

Ieri erano i proclami clandestini, che egli leggeva avidamente, oggi sono le iscrizioni sediziose, che tapezzano i palagi, le vie, gli opifìci, i viali delle passeggiate più frequentate delle città. Gente che non osava un anno indietro di manifestare la sua avversione alle scipite declamazioni del giornalismo governativo, oggi maledice pubblicamente a chi le scrive, e a chi le salaria. È segno manifesto (chi non lo vede?) che l'attuale sistema, rovinoso ed arrogante dei giannizzeri di Torino, ha stomacato ogni ordine, ogni condizione di popolo.

Girate pei caffè più frequentati, assistete a spettacoli e lieti ritrovi, penetrate nelle officine, e nei casolari, un grido generale di sdegno, e d'imprecazioni voi udite continuo, tra il rumore dei traffici, delle incudini e dei martelli; maledizioni in alto, maledizioni in basso, su i gradini del tempio, nelle bettole, e fino negli ergastoli.

La nostra penna rifugge dal riferire le imprecazioni, che ci rintronano tuttogiorno gli orecchi: esse non distinguono dignità, titoli, condizione ed uffizio. È una maledizione generale, che per colpa dell’iniqui sistemi ministeriali fa rimpiangere i passati, e questi confrontare ai presenti.

Gli affari in ristagno, i commerci arenati, le più belle imitazioni del paese deturpate, ogni sorgente di esistenza e di lucro, alle classi del minuto popolo, altrove trasportata; dappertutto squallore, miseria, rincaro di viveri, imposizioni,  gravezze.

Come volete che il nostro popolo balli e tripudi, beva e festeggi,

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si mascheri, e dimentichi il presente, per vagheggiare il loro futuro (1)?»

Ma le citazioni sarebbero infinite, se continuar volessimo la dolorosa scena: ed elle sono necessaria, per fai conoscere, che non è già il nostro dolore, che spigne la nostra voce, ma l'espressione unanime di coloro, che hanno vita nel cuore, e nella mente.

Solo qui giova rendere un tributo alla verità, sfuggita forse all'altrui pensiero, che non si sentono più pronunziare da chicchessia le parole di Re galantuomo, che andavan prima fin per i trivii... Pare che il pudore sia arrivato là dove non si sarebbe mai creduto. Provvidenza del Cielo è questa!

Quindi oggi che tutto è palese, e più nulla resta nelle tenebre del segreto, come per lo innanzi, gridasi ad una voce, perché più non s'illuda il mondo, e non si soffochi il lamento dei popoli.

Godeva ai 21 di ottobre del miserando anno 1862 l'anniversario del plebiscito, e in Napoli tutti tacquero, nessuno l'osservò. In Toscana ogni labbro fa muto, fu bujo in tutte le vie. Le ramaglie si negarono a festeggiare l'assassinio d'Italia. In Sicilia il popolo disarmato com'era per la legge dello stato d'assedio, e che languiva da-più mesi sotto quella violenta pressura, volendo mostrare al mondo il suo dolore in un giorno di sì funesto ricordanza, vestesi come preso da un sol pensiero, tutto a bruno, e s'immerge nel cordoglio. A bruno in molti luoghi percorre in masse, e tacito, le pubbliche vie: molti tenevano gli occhi bassi, quasi memori e pentiti di aver venduto la patria;

(1)febbraio 1863.

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altri con le braccia al seno conserte, e con i volti pallidi si trascinavano a stento, tanto prò fonda era la commozione» che in quel momento provavano. Tutti in silenzio: le botteghe in Palermo furon chiose in segno di nazionale mestizia! Grande e nobile esempio di coraggio civile, degno dei tempi antichi, fu questo! La legge dichiarava di pubblica esultanza quel giorno; ed il popolo, invece atteggiasi al dolore, e sfida l'ira codarda de’ suoi tiranni.

Ecco quali sono le condizioni d'Italia Consultatela tutta, e dall'una all'altra sponda avrete il fremito stesso, e la stessa ira implacabile, e fiera.

Altro è la putrida consorteria dei ladri, degli ambiziosi e dei traditori, che han venduto la patria nostra allo straniero, altro è il grido del popolo, ed il suo potente sentire.

La voce sola della stampa, prostituita ad un potere iniquo, resta, e trionfa sulle macerie. detta pubblica sventura... Le grida di dolore sono soffocate; la stampa onesta si vieta; si carcerano i tipografi; si mettono a sacco e a fuoco te stamperie; si bruciano i fogli; si multano si perseguitano si minacciano di vita gli scrittori. Ecco i frutti della libertà italiana! Ecco la libertà del pensiero sotto la sabauda dominazione!

E se non piangi di che pianger suoli? E che dire poi dei Vescovi e dei Sacerdoti di Cristo, che per sostenere la dignità del proprio ministero, per dolersi contro gli abusi, e i fatti nefandi, che verso la Chiesa si commettono, per negarsi di partecipare alle violenze del potere civile s'insultano, si processano, si multano, si condannano, s'imprigionano, si esiliano, si relegano, insomma

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si fa tutto che di più ingiusto e di più iniquo si può. £ dopo tutto questo mettesi avanti il miserando giuoco di parole chiesa libera in libero stato, ch'è una formola vuota di senso, e che possiamo solo perdonare ai tempi, che credono reggersi con detti enfatici, che sbigottiscono la mente, e l'esaltano, come le famose di libertà egalité fraternità, che quando voglionsi porre in atto rovesciano l'umana società, che non si costituisce con fole, ma coi dettami eterni della natura. E i fatti del mondo, l'esperienza dei secoli il confermano, a vergogna di coloro che li voglion far servire a strumento di distruzione umana, e non di costituzione civile.

Così libera chiesa in libero stato è voce magnifica, ma se tu l'analizzi nulla vi trovi, e si scalza da sé medesima. Perciocché questi elementi di vita sociale non si possono disgiungere ma debbono andare uniti e di accordo, onde le intime relazioni fra la chiesa e lo stato sieno salde nell'equilibrio, che dee mantenerle: poiché ciò non facendo si rinnoverebbero le guerre. tra il sacerdozio e l'impero, si urterebbero due potestà, che debbono tendere ad una meta comune, al bene del popolo: urto che cagionerebbe disordini, offenderebbe le coscienze, sarebbe cagione di scandali, che verrebbero a matto a mano scavando le fondamenta della pace, e della pubblica prosperità. Quindi la necessità dei Concordati, onde ognuna delle due potestà, rimanendo nei propri cancelli, rispetti l'altra, ed insieme cospirino al medesimo fine. Perloché se la natura e l'argomento di questo scritto il permettesse, io discenderei ai particolari) che mostrerebbero al nudo l'erroneità di quel pensiero, e la maligna maschera che il mentisce.

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Direi pure le viltà e gli orrori di ogni specie, che nei fatti d'Italia si commisero. La verità trionfi in mezzo alle perfidie, nelle quali si avvolge, e rimuova per sempre il velo che l'ingombra.

Il popolo in Sicilia, in Napoli, nelle Legazioni romane, in Toscana lasciò fare, non fece. E lasciò fare non per voglia, ma perché attonito soffocato dall'impeto degli eventi, ch'eransi premeditati, e ruinavano. Non vi ha ornai più alcuno che ignori, come il Villamarina in Napoli, il Buoncompagni in Toscana, il Della Minerva in Roma, di concerto colla setta, suscitassero e sostenessero la rivoluzione. Costoro, quali agenti diplomatici del piemontese governo, frangevano i dritti più sacri della fede, seducevano le deboli menti, compravano gridatori di piazza, e così servendo di mezzo ai tradimenti orditi, imbrattavano di ogni putrida lordura il loro nobile carattere. Ecco i tempi passati sotto di noi, e con noi... Alla storia il resto.

Ma questo delirio, questa febbre di distruzione generale non può esistere lungamente nella società civile per esser l'elemento nemico della sua intrinseca natura; e se durasse la società finirebbe. Perciocché ella vuole ordine, sistema, e cammina progredendo in tutto che volge alla sua morale perfezione: quindi, non avendo vita propria, passerà qual meteora passa, lasciando solo le strisce sanguigne. della sua luce. E sia pure che i popoli italiani, sebbene ingannati, non conoscendo l'inganno, si unirono al Piemonte, ma essendosi ora dichiarala, con potente voce, che non fallisce, Roma sacra ai romani Pontefici, insieme al patrimonio di San Pietro, che incolume sta; e la rivoluzione innanzi al Quadrilatero trema, e si frange in pezzi, che resta?...

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Restan le sole infelici province, che col tradimento ed il delitto furono gittate là donde spaventate rifuggono. Dunque se gl'Italiani, presi ai lacci dell'insidia, mascherata dall'illusione, sagrificarono la loro indipendenza, la loro grandezza, la loro gloria antica, all'idea della italica unità, egli è certo che veggendo venir meno, perché non conseguita, ed inconseguibile, la meta, per la quale tanti sagrifizii facevano, tornano indietro, e reclamano i loro dritti, che a questa sola condizione avean ceduto. E chi potrà loro negarli? La forza sola del masnadiere, che non vuoi cedere la preda, che con frode e tradimenti si ebbe, e quindi la tiene stretta a due mani, la soffoca, l'incatena, perché non gli fugga. Ma non può tenerla sempre, perché la preda rapita, quando è tale da potersi scuòtere, si scuote, ed un momento, che misura la sua forza, diviene saetta, che rovescia e brucia ciò che tocca. Ma perché rimanere in questa vita cruenta e feroce, che sconvolge tutto, e tutto contamina? Perché durare ancora in questo stato, che non potrà finire, che con la distruzione dell'uno o dell'altro? E si può vedere questo spettacolo senza dolore, e senza universale lamento?

Il popolo fiorentino, rappresentando la voce dell'intera Toscana, dirigeva, non è guari, ai suoi infelici governatori solenne protesta, piena di civile coraggio, nella quale querelando le angosce del suo paese un di si fertile si glorioso si felice (sono parole di quel nobile atto) diceva di avere atteso l'attuazione di quei principi, che credeva conducessero ad un bene, che in altra guisa raggiunger non si poteva. Ma siccome la politica unitaria ha compiuto il suo corso, ed ormai l'unità italiana è divenuta inattuabile,

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mentre stuprata nella sua verginità dalla cessione di Nizza e Savoja, uccisa col sangue fraterno, versato nelle province napolitane, resa acefala per la impossibilità di darle Roma a capitale, così noi (dicono i Toscani) riprendiamo la nostra dignità di uomini e cittadini, e protestiamo contro l'ultima rovina, a cui si vorrebbe condurre il paese con le ingenti tasse, con le innumerevoli gravezze, con le smodate imposizioni. Ed oggi, soggiungono, più vivida rifulge nella nostra mente la grandiosa legislazione di Pietro Leopoldo; più grata ci parla all'animo là bontà di Ferdinando II; più affettuosamente rivivono nel nostro petto le paterne cure di Leopoldo II; più soave risorge la ricordanza del figlio e nepote di questi illustri proavi, dell’affabile Ferdinando IV, il quale, guarentigia luminosa del suo gentil cuore ai Toscani, mo turava al mondo, nel memorabile giorno del 27 di aprile 1860, che voleva meglio esser figlio, che divenire Gran Duca sopra i frantumi del trono del suo regal Genitore... E finalmente, conchìudono, ci conforti il pensiero che esaudimmo un voto del nostro cuore, e adempimmo al dovere di cittadini, mossi dal desiderio unico e solo di giovare al nostro paese.

In Toscana li 13 di ottobre 1862. Sieguono innumerevoli firme.

Questa nobile e generosa protesta fu portata nelle mani del tremante Prefetto.

Ma le cose colà, come in tutta Italia, s'incalzano, ed il Giornale di commercio, che in Firenze si stampa pubblica un indirizzo del popolo toscano ali' Imperatore dei Francesi (1), nel quale ricorda quel che esso fu, quel che è, e fa voti al  Sire della Francia,

(1)Novembre 1862.

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perché venga tosto stabilito un ordine di cose, che non si opponga, come il presente, a tutti i sentimenti religiosi e civili, che primeggiano nel cuore di ogni onesto cittadino.

Le Marche e l’Umbria giacciono nella massima desolazione. Ogni cosa è ivi immersa nell'affanno, sì che ciascuno ricorda, con sentimento di dolore e di sdegno, il tempo che fu, paragonandolo al presente, in guisa che da due anni il fremito cresce sempre, come i mali crescono. Il Contemporaneo di. Firenze (1) dice, che quest'opera, che ha messo in tumulto gli affetti di un'intera gente, è ora rappresentata da un indirizzo, coperto di quattrocento mila firme, che umiliare si dee al Sommo Pontefice in segno dell'antico amore, non che all'Imperatore dei Francesi, onde soccorra del suo possente ajuto quelle derelitte provincia

Bologna, fra le prime e più dotte città d'Italia, oggi che ha la gloria di essere unita al Piemonte, languisce di un languore mortale. I lamenti che sorgono da quella città sono un tremendo eco, che tuona nei petti, e li riempie d'ira. Perciocché essa fioriva in ogni maniera di civile fortuna, ed era si felice sotto il governo dei romani Pontefici, quanta altra noi fu mai: perocché essi conoscendo ed apprezzando la forza delle menti bolognesi, e la loro inclinazione alle indipendenzje municipali, le furono mai sempre larghi di ogni onesta libertà di azione, in guisa che vivevasi colà come nei più liberi paesi. Tanto che la stampa medesima era in Bologna sì larga, che i libri, che coi tipi bolognesi pubblicavansi, venivan ricercati a preferenza per ogni dove d'Italia, perché non éran soggetti a censura, che sentisse di capriccio, o di durezza.

(1)Marzo 1863.

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Bologna ebbe, fin dai primi tempi del risorgimento delle lettere, la Università degli studi, che divenne famosa in tutta Europa, e fu di esempio e di norma alle più celebrate: sì che quando il pensiero giaceva per ogni dove muto, era in Bologna quell'ateneo di gloria, che spandeva per ogni parte del mondo i suoi raggi fecondatori per la scienza, i costumi, la religione, che sono i cardini, su cui volge il sistema della vita: e fin dal secolo XI ebbe questo gran vanto di civiltà: e grandi uomini in ogni maniera dell'umano sapere sono colà fioriti; ed abbiam visto fin donne chiarissime salire sulle sue cattedre, ammaestrare la gioventù, ed educare l’italiana ragione.

Bologna ebbe eziandio il vanto di coniar moneta fin dalla metà del secolo duodecimo: e la sua zecca, protetta sempre dai Papi, fu tra le prime d'Italia ad illustrare quel ramo importante della pubblica fortuna.

Or questo magnifico stabilimento è stato oggi soppresso con gravissimo disdoro del paese, e danno. E la Università, decoro d'Europa, fonte di sapienza, viene pur minacciata della stessa sorte. Così volendo i principi distruttori del turinese governo.

L'unità d'Italia dunque porta la rovina di tutte le cose italiane, che tanti pensieri costarono ai padri nostri, tanta gloria recarono all'Italia.

In Napoli tutti ornai si accordano nel dire, che il popolo napolitano, sebbene compresso da una feroce occupazione, si leva pure unanime a chiedere il suo riscatto. E si arroge, che qualunque sia il partito, cui appartengono gli organi della pubblica opinione, tutti protestano contro lo strazio, che il proconsolato piemontese fa di quella nobile


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parte d'Italia, e mandano un grido di che, speriamo, commuoverà l'Europa: talché nella stessa Camera piemontese, in mezzo ai furori e all'ira che l'agita, si è lamentata più volte la tirannide sotto di cui geme il lacerato paese.

Né io qui vo' dire della nobile mozione d'inchiesta del Duca di Maddaloni Proto, nella quale questi dipinge con parole di fuoco il miserando stato delle province meridionali, che sono quasi una metà d'Italia, gittando in faccia al Parlamento, cui appartiene, un fiero dardo, che il tempo non potrà spuntare giammai,

E sebbene io non partecipi alle idee di volo per lui annunziate intorno al governo della signoria caduta, perché la mia coscienza, i fatti storici miei, e la lunga esperienza delle cose del mio paese, degli uomini, e della vita dei governi, che diconsi liberi, gli uni agli altri paragonando, mi gridano il contrario; tuttavolta non posso non lodare altamente il coraggio civile, la forza del dettato, la verità dei fatti, la nobiltà dell'animo, che in quella scrittura rifulgono.

Egli, deputato al Parlamento, fa fremere ogni anima alla descrizione dei mali spaventevoli, che opprimono il reame. Egli rinfaccia al governo piemontese le di lui vergogne, il ludibrio che lo copre, e lo stritola ai suoi piedi. Nessuno rispose al Proto, perché quando la verità è possente diviene fiamma di fuoco che soffoca e strugge.

Ei chiede a sé stesso, che facevano in Napoli gli uomini di stato del Piemonte, e i partigiani loro che qui nascevamo? «Hanno corrotto quanto vi rimanea di morale: banno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da tanto secolo ammassale: hanno spoglio il popolo delle sue leggi,

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del suo pane, del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo, dove contro Dio potesse combattere umana potenza. Hanno insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore. Il governo di Piemonte toglie dal banco il danaro dei privati, e del denaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le Accademie; annulla la pubblica istruzione; per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia; al reggimento delle province mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni, caccia nelle prigioni, nella miseria, nell'esilio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi siano o no, che anzi più facilmente se onesti), ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato; ogni giorno fa novello oltraggio al nome napoletano, facendo però di umiliare così nobilissima parte d'Italia; pone la menzogna in luogo di ogni verità; travolge il senso pubblico e le veraci idee di virtù e di onoratezza; arma contro ai cittadini i cittadini; e tutti in una vergogna conculca e servi e avversari e fautori. Il governo piemontese trucida questa Metropoli, che la terza è d'Europa per frequenza di popolo, e la prima d'Italia per la bellezza di doni celesti, e la più gloriosa dopo Roma; questa Metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo; questa stata sedia di tanti Re potentissimi, che regnavano e proteggevano quasi tutti gli altri stati d'Italia, e sotto ai principi di Soave, capitale dell'impero; e dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera, ed alla meno nobile delle città d'Italia;

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a Torino, la cui storia nelle istorie della Penisola occupa non più lunghe pagine che quelle dei feudi di Andriano di Catanzaro, di Atri o di Cotrone.»

E parlando poscia il Proto dell'odio inestinguibile, in cui sono nel reame napolitano (e nel siciliano peggio) i Piemontesi e i Piemontisti, dimostra che l'oro, che profondeva il governo per abbindolare la pubblica opinione d'Europa, non ha che ingannato sé stesso; talché per i suoi errori viene vilipesa tutta intera la rappresentanza nazionale, stimala sua correa. E soggiunge che lo stesso Poerio, perché partigiano del governo sardo, era caduto in abbominio dell'universale, sì che i suoi amici per difenderlo lo dicevano imbecille, scemo dalla prigionia l'intelletto.

E questo si (con forte parola soggiunge) ne dia la misura della pubblica opinione, non il ciarliero favore di una gente compera o grulla, eterna fautrice del potere; di pochi disonesti che hanno per patria là cassa del tesoriere, sanfedisti di Savoja, che non è crudeltà cui non trovano valorosa, non disonestà che non dicano pudica, non ingiustizia, che non proclamino proba.

Il Proto osservava e scriveva queste cose nel novembre del 1861. Ma in questo anno (62), che ora si chiude con lagrime universali, i mali sono cresciuti in una proporzione, che fa terrore.

Il deputato Ricciardi diceva (pochi giorni or sono) gl'Italiani credono che vi sia un solo dritto, ma non è vero; ve ne son due: uno costituzionale a Torino, l'altro dispotico a Napoli la giustizia nel napoletano è un nome vano, perché l'arbitrio militare prevale su tutto (1).

(1) Camera 'dei deputati—tornata del 15 dicembre 1862.

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La Democrazia dianzi ricordata, e che si pubblica sotto gli occhi del generale La Marmora, ch'è del bel numero di coloro che andarono a desolare quell'infelice paese, ha apertamente manifestato il pubblico voto, che si riassume in questo infelice sospiro: «Noi all'idea unitaria sagrificammo tutto, tradizioni secolari di autonomia, prosperità, ricchezze; e che ottenemmo in ricambio?... Proconsoli, che attesero a far bottino, burocratici, burbanzosi e inetti, avidi di preda, e sprezzatori di tutto e di tutti.

«Il commercio è sparito, l'industria, che pur sorgeva, deperisce, e la sicurezza interna dov'è?... Oh se potessero sorgere le ombre dei soldati uccisi, vi griderebbero traditori, e nemici d'Italia (1).»

La Sicilia freme. Ricorda l'antica pace, la sicurezza antica; e come florido fosse il commercio, crescente l'industria, lievi le imposte, ricco il tesoro, e sacro il debito pubblico, sacra la fede, con la quale il governo soddisfaceva tutti gli obblighi suoi. Ricorda il sapiente decreto della censuazione dei beni ecclesiastici di regio patronato, divisi in quote in favore degli agricoltori, sì che una nuova fonte di ricchezza all'agricoltura si aprì, al popolo delle campagne si schiuse.

Ricorda il movimento, e la spinta data alle opere pubbliche, e come in giorni crudeli di carestia il governo rompesse il monopolio, e con suoi sagrifizi, incettando grani, in qualunque luogo si fosse, salvò il popolo, onde non venisse affamato, come in quasi l'intera Europa accadeva.

(1)Decembre 1862.

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Eran tempi di eccezione, e misure straordinarie abbisognavano. Gridavasi intanto che quei provvedimenti eran contrari ai principi della pubblica economia, che voleva libero scambio di prodotti, e libertà assoluta di commercio: senza riflettere, che questi principi son buoni, e debbonsi applicare colla prudenza, che là filosofia consiglia: poiché quando il popolo è affamato deesi far di tutto, onde non gridi pane per le pubbliche vie, e non minacci per disperazione l'ordine governativo: essendovi certi casi particolari della vita, in cui le leggi astrattamente stan bene, ma nella loro applicazione non vanno. E le umane società non si reggono colle astratte teorie, ma colla pratica degli uomini e delle cose, colla esperienza del passato, colla saggia e filosofica applicazione delle leggi stesse: le quali si sospendono si modificano si correggono, secondo l'esperienza, e gli accidenti che avvengono. Ci vuoi poco a governare dormendo, e con i principi di un libro alla mano. Ma ci vuoi molto ad esaminare il tempo, le circostanze, e ad applicare i principi. Gl'incettatori di grani e i monopolisti gridarono la croce addosso al governo, fecero scrivere, more solito, articoli contrari, poiché traendo essi, come suoi succedere in questi emergenti, profitto dalla pubblica sventura, aveano innalzato il grano ad altissima ragione, si che il pane del popolo sarebbe tale divenuto, e già lo era, da rassomigliarsi ai tempi più infelici, se il governo non fosse accorso al bisogno, che minacciava.

Quindi il popolo di Sicilia ricorda questi benefìzi, ed esaminando, commosso, l'attuale angoscia, veggendo l'avvenire più del presente tristo e doloroso, invoca il passato, e lo benedice. Ma lungo sarebbe il dire tutto che

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di bene facevasi; e la sol» narrazione dei fatti, senza ornamenti, che ne potessero per avventura accrescere la mole o il lustro, basterebbe per far conoscere, che non era nero ed infingardo, come la malignità umana pretende, l'antico governo delle Sicilie.

I fautori della rivoluzione hanno raccolto con una solerzia, cui mente umana non raggiunge, ogni neo, han dato corpo ad ogni ombra, hanno i piccoli errori e i diletti, insiti ad ogni umano reggimento, accresciuti, ampliati, denigrati in modo che più non si ravvisano, facendone tal massa, che opprime e spaventa.

Il pensiero dell’illuso o del malvagio dimentica il bene, o lo falsifica, ingigantisce il male, lo diffonde, ne fa tema d'insensate calunnie.

La signoria passata dunque (signoria che tornerà, quando men tel credi, perché Dio non potrà permettere molto, a luogo tanta incredibile nequizia) fu provvida, fu prudente. I fatti lo dimostrano La qual cosa è stata per me medesimo sostenuta» e provata nei tempi della fortuna, là dove parlai della civiltà d'Italia, e del suo progredire (nella tirannide non si progredisce), la promulgo ora nei tempi della sventura, nei quali la voce m favore dei caduti è un delitto, che sveglia ira, e scatena il furore di codarde passioni: ma le scateni pure, poiché questo è il primo elemento della vita presente, e glielo lascio tutto. Io parlo non per odio altrui né per disprezzo, parlo per rivendicare le verità tradite, con petto tetragono ai colpi di ventura, onde la mia coscienza non mi possa mai rinfacciare, che parlai quando il Sole splendeva, tacqui quando tramontò. La verità è una, ed è un gran conforto il manifestarla, quando essa è più odiata, e minaccia.

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Né io però dico, né potrò mai dire, che non si cadesse in errori, né si facessero abusi. E dove non si commettono falli? qual'è quel governo, sotto i raggi del Sole, che possa dirsene esente?

Gli abusi non furon mai nell'intendimento supremo di alcuno, ma nella perfida esecuzione degli agenti bassi del potere. Perciocché non vi ha governo, nella contaminazione di questa vile genìa, che possa esser sempre sveglio e lesto a sorvegliarla. La verità leale e pura risplenda sempre, e sia di ammaestramento a tutti. Perciocché gli abusi deggionsi non compatire, ma dannare. Sarebbe delitto il non farlo. Però il lavorio occulto delle sette, che han condotto all'attuale esterminio la società, ed i casi presenti non sono forse una prova del passato? Non si lavorava per rovesciare il governo da quei disperati medesimi, donde i lamenti uscivano? No, non era il popolo, che si doleva, che non ne avea ragione, era la setta, del popol piaga, non del popol parte, che usurpava la voce di esso, e lamenta vasi con mille menzogne e mille calunnie (vecchia usanza del delitto) in nome suo.

Il mal contento attuale della Sicilia, come di tutta Italia, é prodotto dalle violenze di ogni natura che l'opprimono, dai pesi enormi che la schiacciano, dalla schiavitù, sotto di cui languisce, dalla miseria, che la circonda, dal totale difetto d'industria e di commercio, dallo spoglio iniquo, che le si è fatto di ogni elemento della sua grandezza, dal paragone continuo col perduto, che oggi benedice, desidera, potentemente invoca.

La Sicilia manda al parlamento piemontese 49 deputati, e 21 solamente di tanto numero sono andati colà. Così parimente di diciannove Senatori tre! Non sono queste

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cifre statistiche abbastanza chiare per mostrare da sé lo spirito che domina nell'Isola, ed il disprezzo, che quelle istituzioni e quel governo eccitano nei pelli dell'universale?

Ed il negarsi ad ogni costo di servire la bandiera savojarda, ed il rendersi contumaci tutti gli usciti alla leva, ed il confinarsi insieme alle famiglie in paesi stranieri, non curando pericoli e stenti, non ti pare un altro manifesto segno di quanto abbiamo asserito? E fuggono colle famiglie, perché la barbara legge punisce i padri nella fuga dei figli: quindi lasciano insieme il luogo natio, nella speranza di trovare altrove industria e pane, purché all'odiato potere non servano. In Malta sono più migliaja i contumaci, molti sono iti a Marsiglia, altri nelle Isole Jonie.

Ma oggi si raccolgono in bande, e non avendo più mezzi di vita, perché obbligati ad abbandonare i loro uffici e le loro industrie, si sono gittati per le campagne ad accrescere, per disperazione, i mali dell'Isola. Cosi il governo rigeneratore dell'unità italiana, contamina gl'innocenti popoli, ed apre egli stesso i sentieri del delitto a coloro che ne eran lontani.

Il malcontento passato era parziale, circoscritto, perché provocato dagli eccitamenti segreti dei cospiratori, dal tenebroso lavorio delle loro macchinazioni. E se al governo che cadde poteasi dar fallo, era quello di non aver preveduto, e provveduto abbastanza, di non aver saputo ben dirigere le sue linee, e non aver conosciuto i veri fabbri della rivoluzione, poiché quando il tempo del loro trionfo venne, si scoprirono, e mostrarono come gli agenti del governo errassero: che se ciò non fosse stato noi non

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ci troveremmo certamente nelle presenti tribolazioni. Perciocché le congiure si ordiscono, le rivoluzioni si tentano, ma quelle si scoprono si sventano, queste si domano. Ma quando si lasciano in balia di sé medesime, perché s'ignorano, o si smarriscon le vere vie, allora prendono più larghe dimensioni, sbrigliansi, e non possonsi più reprimere. Un provvedimento a tempo salva uno stato; ma dato, quando il tempo non è più opportuno, invece di bene se ne ha male, e lo stato è perduto.

§ XXV.

Storta dei primi fatti. Reazioni popolari:

loro vera natura: loro scopo.

La rivoluzione di Sicilia non fu come in Francia, in America, nel Belgio, nel Portogallo, ed altrove, rivoluzione di popolo, perché il popolo da noi né era le mille miglia lontano, ma tentativo di setta, che tremava, ed era mal sicura dell'evento, sì che non facea che un passo disperato, che poteva facilmente sventarsi ed impedirei, ma sventuratamente non fu.

Difatti avvenne che pochi avventurieri (non eran che mille) ignari sul principio di quel che potesse accadere, spinti ed ajutati segretamente dal Piemonte, con una slealtà, che la storia inorridita non saprà definire, sbarcarono in Marsala alla presenza dei legni napoletani, che potevano impedirlo, e già compri e corrotti nol fecero. Dal che concepirono subito alte speranze, che vennero poco appresso manco, subentrando il timone e lo scoraggiamelo in tutti. Perciocché fondando essi unicamente il loro trionfo


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non sulla forza propria che non esisteva, ma sul tradimento dei generali, e degli ufficiali superiori, che stavano a|la difesa della capitale, e degli altri importanti luoghi dell'Isola, e credendo, per un istante, che questo più non seguisse, il capo della massa avventuriera, male armata e mal composta, si tenne per perduto, e tutti si avvidero del loro stolto ed imprudente operato. Quando però ai primi scontri il tradimento si fece innanzi, e si svelò, rinacquero ardite le speranze nell'audace condottiero, il quale senti nell'anima un segreto fremito, che il sagrifizio d'Italia compivasi.

Erano in Sicilia 25 mila uomini; e i posteri non crederanno, che si facessero vincere da quella picciola massa, aggregato infelice di gente diversa, abbandonando le posizioni strategiche, i forti, ed ogni offesa: quindi tradimento a Marsala, tradimento a Calatafimi, e tradimenti infami seguirono a Palermo, Melazzo, Messina, sì che la rivoluzione fu compiuta, consumato il sagrifizio dell'onore sull'altare della codardia e della colpa.

Soltanto la Cittadella del Faro, ove il tradimento non era penetrato, con un pugno di bravi validamente resistette, e minacciando, si difese. Col tradimento dunque, e con l'infamia non già col valore e colla virtù si vinse. Difatti ad Aspromonte ove tradimento non fu, e si attendeva, la massa garibaldina, collo stesso audace condottiero, disparve in un tratto qual nebbia al vento.

Non si trionfò dunque in Sicilia per opera del popolo, ma per la vergogna, e l'inaudita viltà di quel che doveano difendere lo Stato, e noi fecero: ne più si dica che il popolo siciliano fu il primo in Italia, che innalzasse la bandiera del pubblico esterminio, per essere mal contento del

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suo governo, ed infelice e disperato, poiché il popolo non pensò mai alla rivoluzione, né la voleva né potea volerla con tanta pace, tanta pubblica sicurezza, tanti elementi di prosperità crescente, che gli si presentavano dinanzi, si che il pauperismo che in altri luoghi è piaga che sanguina, e minaccia cancrena, in Sicilia, per il commercio maraviglioso dei zolfi, per l'agricoltura diffusa in modo che noi fu mai, essendosi i terreni innalzati ad altissima ragione, e per le opere infinite di carità, ch'esistevano, e che oggi più non sono, o sono per morire, il pauperismo era fuggito da quelle floride contrade, e più non sentivasi. L'incameramento dei beni dei luoghi pii laicali (disperato consiglio di chi vede l'abisso innanzi ai suoi piedi, e non sa colmarlo che col delitto) metterà il suggello alla pubblica miseria.

Il popolo dunque fu ingannato e manomesso, tradito empiamente il migliore dei Principi, che innanzi agli uomini e a Dio eleva puro ed immacolato il suo pensiero.

In Napoli erano cento mila soldati, ed avvenne lo stesso miserando spettacolo, ed assai più turpe ancora. L'ugual mena agiva da per tutto, ed il Garibaldi entrava nella città capitale del napolitano reame, ove sono mezzo milione d'uomini, invitato dal municipio, che gli va incontro, gli apre iniquamente le porte, ed ei, col frustino in pugno, percorre le pubbliche vie, plaudendo e salutando il popolo: il quale, instupidito, per gli eventi straordinari, che avvenivano, assisteva a quella lurida scena: mentre il tradimento compiva l'opera sua, rompendosi in ogni maniera di lascivie, e di turpitudini.

Ma questo popolo medesimo, conosciuta poscia l'infamia ed il delitto, si scosse, e tutta Europa gli ha veduto

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sollevare la testa sì fattamente, che si è in tutte le province battuto da furibondo, per reclamare il suo amato Signore, e riacquistare gli antichi dritti perduti. E sono odiai tre anni, che questa lotta fratricida continua sempre più aspra e feroce.

E dopo tutto ciò si ha la viltà di parlare della felicità d'Italia, dell'unanime accordo di tutte le opinioni del brigantaggio distrutto, e dell'opera della nazionalità italiana tanto gloriosamente inaugurata, e che tutti gl'Italiani benedicono la sabauda dominazione?... RISUM TÉNEATES AMICI?... E non è questo un insulto sozzo, che si fa all'Italia, alla ragione, al pudore umano?

Ed ardite, o Piemontisti, chiamare brigantaggio il sollevarsi di un'intera gente in tutti i punti di un grande reame? E batter fieramente a petto nudo le vostre schiere, respingerle in tutti i luoghi, in modo che i vostri esecutori, sfogando l'ira loro impotente, han bruciato finora ventotto paesi, han gittato intere popolazioni nel dolore e nella desolazione, si che non hanno più tetto, più famiglia, vagano per le campagne derelitte ed affamate, gridano contro di voi funereo grido, e, per piena di disperato dolore, molti infelici, non potendo più soffrire il peso della vita, si son dati la morte da sé medesimi (1).

E voi, o La Marmora, avete l'impudenza di dire in una relazione officiale, che fate al vostro governo, che nel reame napolitano non esistono che quattro bande solamente, le quali tutte insieme non ammontano che a 670 uomini

(1)Quando il Proto fece la sua mozione d'inchiesta, di che sopra parlammo, tredici erano i paesi bruciati. In un solo anno si sono più che raddoppiati; talché progredendo in si fatta guisa saranno tra non guari la più parte delle città di quel continente italiano un mucchio di pietre e di cadaveri.

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E Voi, per 670 armati, avete bisogno dì novanta mila soldati (cifra confessata da voi stesso), che altri fa ascendere a 120 mila, con artiglierie, con macchine da guerra distruggitrici? E non avete dopo si lunghe stagioni, e dopo tanto sangue versato, tanto esterminio fatto, in guisa che la maturai inorridiste, non avete per anco distratto quella misera mano di gente? Il vostro soffio solo sarebbe stato bastevole per disperderla... E non abbassate gli occhi per rossore? Ed il Pays, che pure in Francia ha difeso la causa piemontista, credendola italiana, osservando tutti gli orrori da voi commessi, scuotesi, e mettendo a calcolo l'esercito, che avete mosso, per far guerra a quel misero brigantaggio Napoletano, vi gitta in faccia l'idea, che questa medesima cifra di novanta mila soldati (sono sue parole) è bastata alla Francia, nei suoi più tristi giorni, per domare molti milioni d'Arabi dai confini del deserto sino alle frontiere del Marocco, e sopra un terreno ben altrimenti difficile, che non è il reame di Napoli... E non avete onta dì voi stesso o La Maratona? Non vi annientate da voi medesimi o Piemontesi e Piemontisti, a questi fatti inconcussi?... Non altro vol dunque far sapete, che bruciare paesi; esterminare popolazioni; impedire agl'innocenti agricoltori il loro travaglio, obbligandoli ad abbandonare i canapi; moschettare i padri, le mogli, i fanciulli, perché non vi denunziano, ove sono nascosti i figli, i mariti, i fratelli! Dio mio, che inaudita contaminazione non è questa? A qual epoca più rea fu mai dannata l'Italia? E i vostri Prefetti avrebbero preso quei temperamenti nefandi, avrebbero fatto quelle circolari da cannibali, per 670 uomini, che scorrazzano pochi paesi delle Puglie, e della Capitanata?...

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E i giornali medesimi della rivoluzione, atterriti, perché veggono vacillare il loro trono di sangue, non confessano esser possente io tutti i punti la reazione popolare?... Sì, possente inestinguibile, perché non è il brigante che insorge, ma il popolo.

Il che è tanto vero che la France, che sopra citammo, e ch'è tra le prime periodiche scritture, che vede Parigi, dice, con maraviglia da una parte, con ironia dall'altra ciò che desta i nostri dubbi non è già il vedere l'Italia impiegare un esercito di cento mila uomini, ed un generale illustre, per inseguire alcune bande di briganti sempre tinte, e sempre rinascenti, ma l'assere obbligati a riconoscere ogni giorno l'inutilità di questi sforzi con bollettini di vittorie, cui il telegrafo ci trasmette, quantunque non valgano quelli di Palestro.

Ed un deputato (1) non annunciava al Parlamento, che un Cannavino, pur deputato, trovandosi a Campobasso e recandosi al suo ufficio, sebbene scortato da un distaccamento di truppa di 150 uomini, pure imbattutosi con una banda di cittadini (chiamati briganti) forte di 300 teste, ha dovuta ripiegare, e ritirarsi? Campobasso, che appartiene alla provincia di Molise, non è né Capitanata né Puglia.

E pochi giorni or sono non riunivansi nella via consolare di Napoli 500 voluti briganti a cavallo, per essere passati a rassegna da non so qual capo, e tranquillamente il furono (2)?

Ma per fino coloro (estraggo queste parole dalla Civiltà cattolica, che riporta le altrui), i quali hanno per

(1)Ricciardi nella tornata del 6 novembre 1862.

(2)Unità italiana. — 18 nov. 1862.

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mestiere di soffiare nel fuoco delle discordie intestine dei popoli, come il Temps, sono stomacali della impudenza con cui si spaccia, che ormai della reazione appena rimangono a spegnere alcune reliquie. E il Temps appunto esclama: A Torino si è fermato il proposito, e si mantiene, d'ingannare l'Europa sopra lo stato degli Abruzzi, e specialmente delle Puglie. E segue a dire: le pretese vittorie delle truppe non esistono che sulla Carta. La strada da Foggia a Napoli è impraticabile: le vetture e i trasporti di merci derubati ad ogni momento; le circolari dei prefetti, e per fino quella del prefetto d'Otranto, si orribile da far drizzare i capelli in fronte, non sono che inefficaci e ridicole minacce. Di che la France, dopo ristampata questa corrispondenza, Vuole scolpare d'ogni complicità il governo francese, mostrando che tutta su di quello cade la colpa di tante miserie, e dice: Fu ella forse la Francia, che spinse il governo italiano ad impadronirsi delle provincie meridionali? Se egli è impotente a mantenervi, se ad ogni istante egli urta contro sentimenti, ed istinti radicati, e contro necessità cui non può provvedere, e contro la forza di tali congiunture, che non si cambiano per virtù d'un decreto, la colpa è forse della Francia?

Persino la Patrie, fremente alla vista di sì orrido spettacolo, si duole, che oggimai la repressione in Italia si estende dalla vetta delle Alpi all'estrema Sicilia; che le carceri riboccano di prigionieri politici, che l'entusiasmo è morto, e che il di più si dee tacere per pudore! E pure tal repressione non basta, e il La Marmora chiede nuovi battaglioni,

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per mantenere il simulacro di governo istituito in quel regno, pocanzi così florido ricco e tranquillo (1).»

Ed ora per colmo di angoscia si aggiugne, quasi a suggello della ferocia, e della tristizia, che ha accompagnato gli atti degli usurpatoti, il risultamelo, che la Commissione d'inchiesta sul brigantaggio, ordinata dal governo sardo, fa conoscere al mondo. Perciocché essa per coprire quasi col carattere officiale i fatti successi, e scemarne l'orrore, fa nolo che sette mila solamente sono stati in due anni i fucilati in Napoli, per ordine delle autorità costituite.

Questa fredda confessione tutta racchiude l'empietà presente, e manifesta, in suo linguaggio, le scellerataggini, che nel continente napolitano il turinese governo ha eseguito, non che il terrore che invade gli usurpatori, e la pressura sotto di cui geme quel desolato paese.

E se la Commissione d'inchiesta presenta oggi l'inaudita cifra di sette mila moschettati in soli due anni, per diminuire il pondo di quella tirannide, e quasi rinfrancare gli spiriti, egli è certo che il numero delle vittime immolate, debb'essere, com'è difatti, di gran lunga maggiore. Ma non vogliamo accrescere il pubblico dolore, poiché quella cifra basta, ed è tale per sé stessa da muovere ad orrore la storia, a riempire di spavento, e di desolazione l'umanità.

Ma se volessi ricordare tutto quanto gli stessi deputati del Parlamento han palesato, nelle commozioni del loro animo, e pei rimproveri lor fatti dai medesimi Toro costituenti; se volessi dire di tutti i documenti officiali, che,  non volendo, si son dovuti conoscere, e tutto ciò che i giornali non sospetti al Piemonte

(1)Serie V. Voi. IV. Quad. 305.

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han detto e dicono della tribolata Italia, e dello stato miserrime delle province meridionali, non finirei per ora la dolorosa istoria. La consorteria piemontese nega i fatti, ed ingannate genti, per non confessare la propria impotenza, e tener forte il velo, che copre l'insorger tremendo dei nostri popoli.

§ XXVI.

Tracotanza degli usurpatovi Con quei modi di incredibile impudenza sostengano l'unità italiana. Osservazioni. Insulti che dirigono alle province meridionali dopo di tenerle oppresse, e di averle flagellate. Gloria e grandezza di queste medesime province negli antichi e nei moderni tempi: quanto più grandi, e gloriose elle sono, tanto più disperati gli sforzi del governo di Torino. Assurdo e frenesia di esso nel credere alla durata della sua dominazione in Italia

Or mentre noi siamo allagati di sangue, e tanta desolazione si annida nei petti italiani, tante miserie coprono da cima a fondo i nostri paesi, il Rattazzi e i suoi seguaci hanno l'inverecondia di chiamare province schiave dal governo sardo redente (1) gli stati annessi al Piemonte, che dall'opulenza son passati alla povertà, dalla indipendenza alla servitù, dalla felicità all'infortunio, gemendo da tre anni sotto il ferro di una gente, che mai non empie (dirò con Dante) ma bramosa voglia, e dopo il pasto ha più fame che pria.

Ed a questo insulto del Rattazzi si unisce, e non finiremmo più,

(1) Discorso pronunziato al Parlamento in dicembre 1862.

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se li volessimo tutti raccogliere, quello del Peruzzi, ministro sardo anch'esso, il quale, dopo tutto ciò che stiam noi discutendo, e che ha discusso l'Europa fremente, osa dire che l'unità italiana, nata dalla volontà unanime dei popoli, risplende del suo maggior folgore (1).

L'impudenza di costoro non è immaginabile da chicchessia. Vi sodo stati in Italia tempi furibondi e sfacciati. Ma capovolgendo tolta per intero la italiana storia non si trova un'epoca più codarda, e più invereconda di questa.

Or senta il Peruzzi, il Rattazzi, il Ricasoli, il Farini, il Minghetti, con tutta la schiera dei loro seguaci, ciò che dice Niccolo Tomaseo, da loro ben conosciuto, qual uno dei più egregi intelletti, che la patria nostra si abbia, avendola nobilmente illustrata in. più branche dell'umano scibile, ed essendo egli maestro in Italia di sapienza: dal 1846 al 1848 (sono le sue parole) divisi sotto governi diversi, noi eravamo più concordi, e più italiani che adesso. Non c'erano due stranieri in Italia; Nizza non era francese; non s'avvolgevano sulla terra medesima anime cospiranti per più Principi e per più principii; non si aveva nelle piazze e nei gabinetti, nei villaggi, nelle cattedre, la discordia religiosa... E proseguendo il suo forte ragionare domanda, se sia ubbia cattolica la moralità ed il pudore, lasciato oltraggiare peggio che nella Mandragora, la quale almeno non si vendeva, e non si mostrava alle vetrine, se uomini che sozzure tali non osano sbrattare, o non curano, possano volere Roma per dimettere nella sua dignità la religione di Cristo!...

L'Italia debbe pensare che unità c'è più intima e più

(1)Circolare di dicembre 1862.


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ampia insieme dell'Italia, l'unità cattolica dico; un Parlamento più serio di tutti i Parlamenti politici, la Chiesa pregante; un suffragio universale più sincero è unanime di tutti i plebisciti, il battesimo... I governanti ringraziino chi differisce ad essi la terribile prova di Roma. Roma è nome che schiaccia! (1)

Alle quali cose, dal Tomasèo con molto senno ragionate, è mestieri che io aggiunga novelle idee, secondo l'importanza dell'argomento richiede.

Accennai altra volta che le italiche divisioni, anziché formare l'infortunio d'Italia, erano state cagione della sua grandezza. Perciocché ogni stato emulava l'altro, e sorsero per ogni parte della Penisola quelle stupende opere in ogni ramo di civiltà, che hanno formato l'ammirazione delle genti. Ed ornai si dovrebbero i colti uomini, e gli amici veri d'Italia persuadere, che i tempi della gloria, e della felicità dei popoli non sono stati mai quelli della riunione di grandi masse, che hanno un centro solo di luce, e tutto il resto del corpo giace nell'abbandono e nelle tenebre. Perciocché governati i popoli da proconsoli lontani, sono schiacciati per tema che non si sollevino, avviliti dalla violenza, spogliati per arricchire, e far grandeggiare un sol punto. La storia è la stessa tanto nelle passate età, quanto nelle moderne. La felicità dunque, la fortuna, il buon governo possono essere nelle brevi circoscrizioni degli stati, non mai nelle grandi: che in queste milioni d'uomini son destinati a trascinare il carro dei trionfi di una piccolissima massa, che sebbene sparisca innanzi alle altre, che sono brute ed oppresse, pure domina sulle lagrime dell'universale.

(1)Lettera ad Enrico Cenni. Firenze 1862.

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Dunque il congiungere insieme i vari corpi, per formarne dei grandi, è tale errore che la soia ambizione può sostenere, ma contro di cui l'umanità tutta si ribella; essendo questo principio contrario ai dritti degli uomini, al progresso vero dell’umanità. Quindi civiltà vera nel mondo, fortuna vera dell'umana società non potrà esser mai fra le genti raccolte in grandi masse. Le piccole, o le mezzane gareggian fra loro, splendono tutte egualmente, cercano di trovare in sé stesse la pubblica felicità colle savie leggi, le buone istituzioni, Fazione diretta dei governi, ch'è sollecita, energica, provvida; mentre lenta, ed egoistica diviene nei grandi stati, che riconcentrano in un sol punto tutti i pensieri della fortuna pubblica, non curando il resto.

Storia benedetta dell'umanità vieni tu in mio soccorso a stenebrare le menti cieche degli uomini, che non veggono, in questo grande errore dell'unità, l'elemento che arresta e petrifica gli umani consorzi, abbrutendo i miliardi, e, rendendo a danno dei molti, felici i pochi... E vuoisi poi chiamare il cruento secolo che viviamo, secolo di umanità e di progresso? No, secolo di egoismo e di tirannide è desso. È dunque possibile che l'impostura dei nostri tempi debba giungere al segno di capovolgere il significato di tutte le parole, e tradire tutte le idee, che rappresentano?

Guarda la miseria ed il pauperismo, che nei grandi stati sono piaga putrida, che avvelena l'umanità, la contamina, la strugge. Osserva per contrario come nei piccoli e nei mezzani governi ogni cosa splende, a fiorisce.

Volgi gli occhi alla Confederazione germanica, volgili alla Svizzera, guarda il Belgio, mira col pensiero il regno Lombardo-Veneto, e vedi come fosse ricco, commerciante,  opulento; guarda la Toscana prima delle sue sventure

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ch'era giardino fiorente in ogni maniera di belle istituzioni e di ricchezza; guarda tutti gli altri luoghi d'Italia prima che fossero annessi al Piemonte. Essi certo non eran potenti nelle armi, ma eran pieni di sapere, di civiltà. E non sono forse le grandi armate, che desolano il mondo? Non sono esse che rendono infelici gli stati? E non è un grande infortunio quello di aver bisogno, per reggersi, del soccorso perpetuo d'infinite punte di bajonette, senza le quali cadrebbero stritolati al suolo? E ciò non mostra lo state di violenza, in cui si trovano? Ma questo stato non può esser duraturo, perché contrario a quello di pace e dì amore, ch'è lo stato della natura non contaminata e rea. Quindi la perenne voce, che grida disarmate, perché i grandi eserciti ci desolano; e i lamenti dei popoli, che veggono impoverire le finanze, accrescere i balzelli fino alla disperazione, stancare le sofferenze: donde la lotta ora segreta, ora aperta, accanita e fratricida sempre, tra cittadini e soldati, e cittadini liberi: lotta che non può far mai felici i popoli, non mai stabili e sicuri i governi, i quali, reggendosi sopra una base, che minaccia sempre di crollare, come cento volte è crollata, riempiono di affanni il mondo.

Nei brevi stati non si hanno questi mali, non possonsi temere questi disordini: né v'ha d'uopo di eserciti, che mentre assorbono le pubbliche fortune, e mantengono le ire cittadine, accecano le fonti delle nazionali prosperità. Perciocché in quelli ogni cosa egualmente fiorisce, e risente i vantaggi dei supremo potere, ciò anima tutta intera la vita civile del popolo: e gli uomini facilmente tra loro si affratellano, e nei progressi del pensiero, che si agita fra l'emulazione degli uni e degli altri, trovano gloria, e potenza.

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Ed è doloroso il considerare che mentre la dottrina dm Comuni in tutte te menti si feconda, e per ogni dove si spande, mentre i mali prodotti dalle grandi circoscrizioni territoriali si lamentano, e i filosofi gridano perché spariscano, onde trionfi il principio vero ed inconcusso di umanità e idi civiltà, voglipqsi poi in questi tempi di emancipazione generale e di filosofia, congiungere insieme popoli da secoli indipendenti, per farli sparire dalla faccia del mondo, ed incatenarli sotto il fallace pretesto di una più larga, e più estesa nazionalità. Guarda Italia, e piangi.

Or se, a tutto che siam venuti discutendo, aggingnesi l'aria del disprezzo di chi conquista, esterminando, come i Vandali gli Unni, i Visigoti facevano, la misura dei delitti è colma, e trabocca.

Difatti non si può credere quale burbanza si adoperi da costoro, quale orgoglio qual aria di superiorità si tenga, in guisa che altri legami non vi sono che quelli che uniscono il vincitore al vinto... il conquistato (tradito avvilito ma fremente) in faccia al conquistatore, glorioso per le sue vittorie e pei suoi trofei.

Ecco di nuovo l'effetto del plebiscito, e l'espressione della volontà del popolo!

Né questo è tutto; poiché a suggello di ogni maniera di viltà e di contumelie, la consorteria burocratica sarda, alla quale manca pure, col suo scorretto linguaggio, la bella voce del si, insulta le provincie del mezzogiorno, chiamandole l'Africa italiana.

E questo non per altro che per la forza e l'energia, che han dimostrato nel difendere il loro  paese, e resistere alle usurpazioni, alla violenza, alla tirannide del Piemonte: mentre gli stati meridionali, cui la natura fu sì ricca di

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doni che maggiori non possono, formano la più bella e splendida parte d'Italia: e per l'antico e moderno sapere, pei gloriosi servigi resi alla scienza e all'umanità, vanno compresi tra i primi, che abbiano aperto le vie della civiltà, e versato torrenti di luce nel mondo. Così dunque ignorasi nel Piemonte la storia del pensiero e delle cose umane? Cosi oltraggiasi la sacra terra; ove nacquero e crebbero alla gloria le maggiori celebrità del tempo antico?

E non sa il Piemonte, che Iceta da questo piagge, che ora opprime e flagella, il movimento dì rotazione del globo scopri, segnando la via alle età future, che Galilei e Copernico, dopo dieci e più secoli, videro, ed indicarono alle genti?

Da qui pure, il grand'uomo, afferrò il concetto del moto molecolare dei solidi, in mezzo alle tenebre, fra etti là natura nasconde le sue leggi. Qui Empedocle il principio della civile uguaglianza degli uomini stabili, e penetrando, col potente pensiero, negli occulti segreti di Dio, le più grandi verità fisiche scoprì, e colle due potenze di amore e di odio, regolatici dei fatti della natura, l'attrazione e repulsione universale dei corpi fondò, guidando quasi per mano il più possente ingegno dell'Inghilterra, a cui fu solenne maestro (1).

Non sa il Piemonte, che qui Petrone la pluralità dei mondi annunzio; che qui Antioco compose la prima storia civile, e ad Erodoto, aprendo gli occhi dell'intelletto, spianò la via dell'immortalità? Non sa che ivi la tragedia fonda vasi, ed Eschilo dalla sicula terra, ove nacque, e sua ragione formò, scoteva ed ammaestrava, col sentimento del terrore,

(1)Isacco Newton.

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in lui potentissimo, i petti degli uomini, dicendo, coi sublimi esempi, a Sofocle ed Euripide, che venner dopo, ed il seguirono, calzate il coturno, e riempite i secoli di gloria..., e il fecero.

Qui Epicarmo della, commedia, correggitrice di corrotti costumi fa salutato creatore, raccogliendo eziandio la gloria di avere, con i suoi mirabili fatti, abbattuto la scuola aspra a crudele di Aristofane, che irrita gli animi, accresce e perpetua le inimicizie, deprava lo spirito, rendendo facile a Menandro la via della commedia nuova, che riannoda i cuori, e migliora la vita.

Qui Stesicoro inventava la buccolica, e la lirica poesia elevava a tale altezza, che Dionigi d'Alicarnasso lo pose a capo di tutti i lirici.

Qui Cotace Gorgia e Lisia facevansi a Grecia maestri del dire: qui Teocrito scriveva, e la poesia campestre, che addolcisce i costumi, moralizza gli animi, spinse a tal meta che niuno seppe o poté mai raggiungere; sì che Virgilio, inspirandosi nelle eterne pagine del Siracusano, fu nel Lazio Teocrito redivivo chiamato.

Qui Caronda, correggendo la rigidezza colpevole di Dracone, e la durezza di Licurgo, diede al mondo leggi sapientissime, e la suprema ragione di Solone scosse e sviluppò.

Qui Eratostene, rivendicato dalla posterità di essere il vero autore della ritirata dei dieci mila, trasmise alle genti una delle migliori storie della mente umana, che di Senofonte erasi per tanti secoli, erroneamente creduta (1).

Qui Dicearco grandi opere in ogni ramo di sapere scrisse,

(1)V. Consigli a mia figlia. Parte seconda: Archeologia e storia del pensiero, t. II. Gap. II. pag. 214. Palermo poi tipi di Fr. Lao. 1859.

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ed illuminò le menti in guisa che Marco Tullio parole di grande encomio gli tributa. E noi lo ricordiamo con orgoglio in queste pagine, perché oggi nobilmente rivendicato dall'ingiuria antica di essere sostenitore di empie dottrine (1).

Qui Callia, Filisto, Diodero scrissero, con sapienza e senno le cose di Sicilia, ch'era a que' tempi una grande scena dell'umanità, e quelle de’ vari popoli, che nel mondo erano, Della qual verità fen solenne testimonianza gli antichi scrittori, talché noi lamentiamo, con infinito desiderio, le opere perdute. Ed ogni sapiente conosce che i libri del gran Diodoro, che il tempo ci ha  risparmiato, sono stati una fiaccola, che ha diradato le tenebre dell'età passata, si che le nazioni moderne a lui unicamente debbono tanta luce dell'intelletto.

Qui Gelone, dopo di avere abbattuto, con meraviglia delle antiche genti, la cartaginese potenza, fondò un secolo di sapienza e di civiltà, raccolse i luminari del mondo, aprì le fonti della pubblica ricchezza, innalzò monumenti meravigliosi, disse ai coronati della terra, che solo nell'amore dei popoli, poteano far saldi i troni su cui seggono.

Qui Gerone le sue agricole leggi istituì; ed un'era nuova aperse all'industria del suolo, tergendo i sudori dell'agricoltore, rendendo proficuo il travaglio, ed elevando a somma altezza la primogenita e là più grande arte dell'uomo, sì che scosse il pensiero di tutti, ed il mondo le geroniche leggi segui.

Qui Dione mostrò che non già, secondo l'espressione di

(1)V. il libro di Celidonto Errante sopra Dioearco. Palermo presso Lorenzo Dato.

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Platone, col mercato della democrazia, che inghiotte ne' suoi abissi le nazioni né coll'assolutismo dei Dionigi si governano i popoli, ma vi ha una via, quella della giustizia e dell'amore che regola il mondo, e lo allieta.

Insomma qui, o Piemonte, in questa sacra terra, che freme sotto il tuo piede, e soffochi di affanno, ogni virtù fioriva, ogni valore fu grande: e qui nacque Archimede, qui i suoi prodigi furon creati, e riempiron di maraviglia e di stupore le genti: si che tutte le umane invenzioni, che oggi fan bella e grande l'Europa, nelle sue immortali scritture (i filosofi tutti il confessano) trovansi ampiamente segnate (1).

E seguendo col rapida pensiero le antiche idee, come la mente le raffigura, ci è caro il dir pure chi Sicilia fu maestra a Roma nella misura del tempo. Perciocché ivi fin da epoche antichissime eran comuni gli orologi a Sole, ch'ebbero origine dalla gnomonica scienza, nota agli Ebrei fin dai più remoti tempi, splendida presso gli Egizi, dimenticata dai Greci, mantenuta sempre viva dai Siciliani. Roma fino al 476 della sua fondazione non misurò il tempo, che con mezzi informi, ma nel 477, i Sicoli, con maraviglia della cittade eterna, quel mirabile sistema v'introdussero.

E nelle età moderne una grande gloria è certamente quella, che in Sicilia nacque pare il dolce linguaggio, che Italia onora, ed ivi fiorirono i primi poeti italiani, ivi la prima donna, che in italica rima gli affetti del cuore cantasse.

E qui, nelle corti di Sicilia e di Napoli, Federico ed Alfonso, fecero rivivere, in mezzo alla barbarie, tempi che innalzano l'uomo a gran dignità,

(1)V. Guglielmo Libri—storia delle matematiche. Parigi 1852. Opera insigne.

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ed illustrano i periodidella vita. E quanti grandi ingegni nei secoli nostri non sono colà fioriti? Ivi Maurolico, Panvinio, Caruso, Spedalieri, Gregorio, Testa, Palmieri, Aléssi, Scinà. Ivi Giovanni Meli le più soavi fantasie dell'antichità, abbellite di alta filosofìa, in suo linguaggio rinnovò, sì fattamente che andò glorioso, che tre grandi potenze intellettuali dei nostri tempi, Alfieri Foscolo Monti, somme lodi gli tributassero. E quivi Bellini le prime aure della vita respirò e riempì il suo petto di si celeste armonia, che la sparse per tutti gli angoli della terra.

E qui le arti elevarono pure nobile grido. Antonello da Messina la pittura ad olio inventava, ed il mondo lo segui. Il Morrealese, studiando profondamente la natura, la maniera pura di Raflaello introdusse, e riempi Sicilia di grandi opere, che gareggiano colle migliori delle italiche scuole. E qui tre illustri pittori dei nostri tempi Velasquez, Riolo, Patania, seguendo le orme di quell'insigne artista, raccolsero allori degni di non peritura memoria (1).

Alle quali cose per amore della verità conculcata, e con infinito compiacimento dell'animo nostro aggiugniamo, che il presente secolo, celebrato nei fasti dell'astronomia, per la scoperta di quaranta sette asteroidi, e di Nettuno, l'ultimo dei pianeti, ed il più lontano dal Sole, ignoti all'antichità non solo, ma ai moderni fino al termine del secolo che passò, deve alla Sicilia il primo trofeo in questo campo glorioso del Cielo. Imperciocché Giuseppe Piazzi, coll'assistenza perenne di Niccolo Cacciatore, famosi astronomi ambidue, scoprirono in gennaio 1801,

(1)Molti uomini illustri vivono al presente, ed, onorano il paese e l'arte. Ma l'autore non ba toccato che di quelli che più non sono.


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dalla specola di Palermo, un pianeta, fra Marte e Giove, a cui davano il nome di Cerere Ferdinandea. Il che fu reputato un gran fatto, che segnò una via d'immortale luce, non essendosi mai fatte nel cielo scoperte così importati e numerose.

Il Galilei avea trovato i satelliti di Giove, Huyghens Fanello di Saturno, Herschel Urano. Ma gli asteroidi si sono ai nostri giorni rinvenuti.

Napoli seguiva quel fortunato evento; perciocché il Gaspari, illustre osservatore, trovava pure, negli anni 1849 e 50, tre pianeti, che nominava Igea. Partenope, Egeria.

In tutta Italia dunque, Sicilia e Napoli solamente segnalavansi, poiché tutti gli altri asteroidi furono scoperti in Francia, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti. Ma il sipario di questa grande scena della natura si alzò nell'Isola nostra all'intelligenza umana, e scosse lo spirito di coloro che studiano le maraviglie del firmamento. Difatti quella schierò imponente di asteroidi sono stati tutti scoperti fra Marte e Giove, secondo Piazzi e Cacciatore aveano, indovinando il cielo, indicato alle genti.

Ed in Sicilia sotto quel cielo stesso, e da quei sommi, compilavasi il famoso catalogo di sei mila e più stelle, che offuscò tutti i cataloghi delle età passate.

Questa fu, ed è Sicilia.

Ed in quest'altra parte del Reame Borbonico, sì glorioso e si grande, che tu, o Piemonte, calpesti con piede insanguinato e reo, non nacque Marco Tullio, quella mente, che ha fecondato di luce e di sapienza ogni luogo, in cui il pensiero non è muto? E qui non videro la vita, e non s'inspirarono a quest'aere di eterne bellezze, Orazio ed Ovidio, e tante altre nobili intelligenze del inondo antico?

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E cosi copresi di obblio la Magna Grecia; così vengonsi spregiando quei luoghi, ove Pitagora tonò la sua parola, fondò la sua scuola, maestra a tutte le genti? Cosi lasciasi da sezzo San Tommaso, l'aquila di Aquino, che val per mille?... E qui non nacque Flavio Gioja? Qui l'illustre pensatore scopri la bussola, che cangiò la faccia della navigazione, e scosse la mente di Cristoforo Colombo a scoprire le maraviglie dell'occidente, congiungendo all'antico un nuovo mondo... Qui il De Luca tutta raccolse la sapienza della ragione antica, ed un nuovo teatro di giustizia presentò alle genti... E qui surse ai sospiri della vita quel sublime spirito dell'umanità, Torquato Tasso, innanzi a cui non vi ha mente, che non s'inchini, non vi ha cuore, che non palpiti. E qui nacque Giambatista Vico, quell'altissimo ingegno dei secoli moderni, a nessuno secondo. Qui il grand'uomo concepì e scrisse quell'opera insigne, i Principi di una scienza nuova, che tutti non comprendono, e di cui non san valutare il pondo, stando alla leggiera filologica scorza della parola, e non al sovrano scopo, e alla somma sapienza che racchiude, sì ch'è un gran fatto della niente umana, e quasi scintilla del pensiero di Dio.

Qui l'economia politica vanta le sue prime glorie; che il Serra fu il creatore della scienza economica, ed aprì il sentiero ai grandi pensatori dei tempi avvenire. Perciocché nel mondo antico, padroneggiato dalla forza materiale, che governava la società (ricordo un bel pensiero del Rossi), ed in cui il lavoro libero era in certa guisa sconosciuto, la scienza venne appena da lunge mirata. Il Serra fece un gran passo, e vide da sé medesimo ciò che agli altri era per lunghi secoli sfuggito. E malgrado de’ suoi errori, poiché non si

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risale di un sol colpo ai principi delle cose, e l'uomo comincia per lo più dai tentativi e dall'empirismo, il napoletano filosofo avrà sempre nella storia delle scienze un nome caro ed onorato. Né a questo ci arrestiamo, poiché qui respirarono le prime aure della vita Gian Vincenzo Gravina, Giannone, Porzio; qui Salvator Rosa, Costanza, Signorelli, Mario Pagano; qui Conforti, Cirillo, Coco, Cotugno; qui Genovesi e Filangieri, stelle di prima grandezza; qui Galiani, Palmieri, Monticelli, Ventignano, ed altri molti, famosi in cento svariate branche dell'umano scibile, che la storia ha raccolto con tale culto, che torna a gloria dell'uomo. E la storia pur dice con forte grido che qui si sono, come un prodigio, svolti, tradotti, commentati i papiri dell'antica sapienza, che la catastrofe di Ercolano e di Pompei quasi adusti ci salvò. Opera maravigliosa, in cui non si sa se più l'industria o la dottrina primeggi.

Insomma qui ebbero la culla le scienze più severe congiunte alle più elette fantasie. E qui nacquero alle dolcezze del creato quei due primi luminari dell'armonia Paesiello e Cimarosa, che colle loro placide note allettavano i cuori, gli spogliavano delle natie durezze; seminando le vie di conforti, ed aprendole ai portenti avvenire,

Alessandro il grande, in mezzo alle combustioni del Peloponneso, ordinò che le sue falangi risparmiassero, e rispettassero Tebe, perché ivi era nato Pindaro, si che l'ombra sola del sovrano lirico stava possente in difesa della città. Guarda i tempi nostri, e piangi!

Sicilia e Napoli dunque son terre sì feconde di grandi uomini antichi e moderni, che maraviglia il mondo!

E pure sotto la dominazione dei Sardi sono avvilite, calpestate, e per ispregio chiamate l'Africa italiana!

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Ecco come forman costoro l'Italia una!

Oh storia tremenda dei fatti nostri ove sei?... Sì tu fremente narrerai un giorno eventi inauditi in guisa, che i posteri, essendo in età meno selvaggie; noi crederanno,

Com'è possibil dunque che paesi di tanta gloria, quali sono le Due Sicilie; possan divenire provincia dell'ultimo stato d'Italia? Com'è possibile che una gente, ch'è si grande nella storia dar pensiero e dell'umanità, di tanta forza ed energia ne' suoi fatti possa essere schiava del Piemonte; e schiacciata da esso? Avete voi dunque, o Piemontesi scambiato forse le Due Sicilie, per San Domingo o per Cuba? E cosi loschi avete gli occhi dell'intelletto?. E come vi potete mai persuadere; in fede vostra, di tenerle nei vostri artigli, insieme agli altri Stati annessi, col pretesto di una sì misera illusione, qual è l'unità d'Italia, che avete visto stritolata dalla ragione, ed annullata dalla volontà dei popoli, appena che essi conobbero il tradimento ed il delitto, che nelle catene gli strascinava?... Volontà solenne, e gagliardissima, sostenuta ornai dalla giustizia del potere altrui, innanzi al quale il vostro è un'ombra, che ai dilegua al primo soffio. È che uomini siete voi se il credete? Ed il crederlo è tal frenesia, fole assurdo da eccitate lo ischerno universale. Sembra quindi fuor di natura, che vi siano italiani, che possano avere sì stolta opinione dei loro fratelli, i quali han raccolto sì grandi trofei per ogni sentiero di gloria, ed han dato le prime e più vigorose intelligenze, che sorgessero nel mondo.

Il Piemonte può, colla bruta sua forza, abbattere gli altari, ammiserire, incendiare, distruggere, contaminare le famiglie; moschettare in massa disperdere le popolazioni,

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riempire le carceri d'innocenti, come ha fatto sinora, ma non potrà mai dire di aver dominato, perché chi distrugge ed insanguina non domina.

Questo evento momentaneo della contaminazione umana non sarà mai un fatto, non potrà essere che meteora sanguigna che passa. La terra è scossa dai suoi cardini, e finché non ritorni tutto nell'ordine antico, Italia non avrà mai pace, gli spiriti saranno sempre conturbati, e l'ira, che in ogni petto si annida, non potrassi mai, per qualunque umana forza, estinguere, si che rinascerà sempre più fiera ed ardente.

Non si creda dunque alla nequizia di coloro che intendono di celare il Sole che saetta. Inique voci son desse dal sozzo elemento della menzogna della calunnia sostenute, e l'Europa ha visto con quanta impudenza si mentisca, e come le vie ingombre di cadaveri e di delitti si presentino fiorite di beni e di letizia.

§ XXVII.

Libro giallo della Franca. Guerra al cattolicismo. Difesa potente e maravigliosa, che in ogni luogo della terra sorge por essa e trionfa.

Or dopo questo quadro, che fa raccapricciare la natura, vi ha uomo nel mondo, il quale possa credere, che la Francia presti in buona fede assentimento alla felicità italiana, consegnata nel suo libro giallo? No, la Francia è troppo alta, il suo governo troppo sapiente, per inchinarsi alle astuzie, che la rivolutone consiglia. Ma rimpetto alla Francia, la rivoluzione della italica setta è assai cosa meschina per aver vita e vigore. Oggi si scrive, e dimani si cancella lo scritto, si predica grande il movimento settario, mentre nell'animo si annida bea altro concetto,

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e l'abbiano letto le mille volte negli organi della opinione francese, e nei libri dei dotti, i quali han misurato le cose avvenute, e che avvengono, coll'altezza del pensiero, colla guida della esperienza, col sentimento del dritto: non già coll'abbietta spanna di un partito, che volge alla perdizione ogni umana giustizia, purché vinca la mazziniana idea, che dissolve i consorzi civili.

Chi noi vede, o mentisce di non vederlo, è stolto o malvagio, lo dunque alla Francia mi appello, ed il libro giallo è polve. Mi appello alla sua coscienza, tipo incancellabile di una grande nazione, e a quella generosa lealtà, che sì alto l'onora, e che non è venuta mai meno in nessun secolo della sua vita. Perlochè son sicuro, che le virtù magnanime sue faran trionfare la verità sull'altare della ragione. Il che appunto la Francia, che si è coperta di tanta gloria guerriera, e civile non meno, dee fare in faccia al mondo, e ai secoli avvenire. La sua storia ha tali periodi, che innalzano l'uomo a gran dignità, e la nazione ad un apice, che l'umano sguardo rapisce. La Francia dunque, lasciando le piccole passioni da banda, che non possono esser sue, facciasi rivendicatrice della civiltà d'Europa, e la salvi. Ella ne avrà tal gloria, che ogni altra vince: ascolti i voti, che s'innalzano da ogni anima, che vede, tremando, la vandalica scena, che innanzi agli occhi di tutti si schiude.

Nel progresso vero dell'umanità è racchiusa la religione cattolica, fonte della civiltà morale del mondo. Tutti sanno, né vi ha più dubbio, né più bisogno di dimostrazioni, che la guerra attuale dirigesi al cattolicismo, e la lotta contro il Papato non ha altra mira, che quella di raggiungere lo scopo, tante volte tentato, ed invano sempre,

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di annientare la fede di Cristo. La religione nacque coi romani Pontefici, è stata da loro difesa e sostenuta, essendo il Papato l'anima della religione stessa. Ecco dunque la ragione, per la quale tanto fiele si versa sopra Colui che rappresenta in terra il Cristo delle umane genti, nel quale l’Eterna giustizia simboleggiasi.

Non credano però i seguaci di Lutero, di Calvino, di Zuinglo, e degli altri settatori, i quali tanto si sforzano, per generalizzare i loro principi eterodossi, corrompendo le anime, ed avvelenando le menti con i mille mezzi, che hanno finora adoperato, che l'opera della rivoluzione rispetti i loro culti; poiché ella se ne serve oggi, come mezzo, della stessa guisa che vuoi fare colle istituzioni politiche, le quali non son fine, secondo abbiam detto, ma mezzo, per manomettere più facilmente, negl'impeti e nelle vertigini di sfrenate plebi, la società civile. Donde la necessità che le costituzioni sieno sagge, e moderate le libertà, opportune ali' indole svariata dei popoli, e alle loro morali e civili condizioni. I principi astratti sono un grande errore. Essi debbonsi ponderare, ed applicare, in ciò sta la filosofia e la verità, ai casi, ai tempi, agli uomini. Così del pari si vuoi far diffondere il protestantismo non perché vuoisi, che domini solo, e sul cattolicismo trionfi, ma per raggiungere più facile l'esterminio di ogni principio cristiano, acciocché torni l'uomo alle bruttezze dell'idolatria, e all'ignominia di essa. In effetto molti attacchi a questo fine si son fatti; il cammino, che si segna da un secolo e più, a quella via conduce.

E la rivoluzione di Francia nol dice chiaro? Lo scopo dei segreti delle sette, ornai svelato, nol manifesta? La Dea Ragione sull'altare del Riparatore dell'umana salute non parlò?

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La Venere meretrice, in luogo della pudicizia, salvaguardia della virtù, non ubbriacava ogni mente, non corrompeva ogni santità di costume?... L'idea dell'Ente Supremo annullayasi; sulle are dei tempi canestri di fiori e di frutta, simboleggiando il culto della natura,  esponevansi; in faccia alle pareti iscrizioni mondane s'incidevano; le feste cattoliche, colle quali s'invitano le anime ad onorare la potenza di Dio, supplironsi colle feste alla gioventù, alla vecchiaia, all'amore, all'eroismo, alle quattro stagioni, agli avi, al coraggio, allo stoicismo al regicidio, alla sovranità del popolo (1).

Donde ognun vede, che l'ateismo, frutto delle dottrine dell'empietà passata, si stabiliva, l'idolatria fondavasi. Ecco il ritorno dei principi, cui volgesi ogni mente,  concitata dalle idee presenti, per abbrutire l'uomo, ed  atterrare tutto che vi ha di più sublime, e di più sacro sulla terra. E l'idolatria avrebbe di nuovo contattata l'umana esistenza, ed ottenebrata la luce  dei secoli rigenerati alla vita, se Iddio, dopo la corretta ragione, non avesse consolidato nel cuore dell'uomo la sua eterna idea, ed istituito  il cattolicesimo a difesa delle sue verità. Quindi vani gli attacchi  saran sempre, perché vigile sta la Onnipotenza, che solleva a quando a quando gli elementi morali della terra, e suscita le tempeste della vita, per iscuotere e ammaestrare le genti; ma non mai perché l'opera sua perisca, e che l'uomo, innalzato fino al suo trono, ricada novellamente nella polve. Ma la guerra, or  occulta, ora aperta, si fa con tutti i mezzi della nequizia umana; quindi è dovere il difendere l'opera che Dio fece, ed affidò all'uomo.

(1)Decreti degli 8 di maggio 1793, e dei 24 giugno 1794.

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Perciocché gli lasciò tutta intera la forza della sua difesa; e Dio vuole che la sua creatura non si assonni, non aspetti la grazia dormendo, ma si difenda, si sagrifichi, che le ha dato intelletto, anima generosa, e potenza di volere, perché contro l'errore rioperi, e stia sempre salda all'urto della violenza, e della colpa. E i fatti, che son caduti ai dì nostri, sotto i sensi di tutti, meravigliando le genti, mostrano in qual supremo vigore sia lo spirito cattolico in terra: si che dolce scende in ogni cuore la speranza, che la causa della giustizia e della verità, uscirà vincitrice dalla lotta, nella quale l'umana stoltezza la gittò.

Il Sovrano Pontefice inerme, senza appoggio, vede rapire al suo scettro le provincie, che costituivano la forza e la ricchezza del suo stato, e si volge pei suoi bisogni all'orbe cattolico, e l'orbe intero profonde tesori nelle casse dell'abbandonato Pastore, onde sia sostenuto in mezzo alla tristizia delle crudeli passioni, che lo guerreggiano.

Egli ha d'uopo del concorso dell'Episcopato, nei momenti in cui la religione di Cripto è minacciata da mille furie, che tentano di scrollarla, e alla voce dell'umile, ma sublime successore di Pietro, dai più remoti lidi corrono i cattolici Vescovi: né vi fu stento, vecchiaia 0 lontananza, che li facesse desistere dal generoso proponimento di venire ai piedi del sommo Gerarca, fargli corona, sostenerlo, e della loro potente voce soccorrerlo. Fu magnifico, non mai visto spettacolo, quello di osservare tre cento Vescovi, tutti, in occasione della santificazione dei martiri giapponesi, raccolti insieme da ogni parte del mondo, per lo stesso obbietto. Ah fu questa la crociata del pensiero... fu un atto inspirato da Dio!


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E la Francia fu a capo di questo gran fatto, poiché tutti i suoi Vescovi, celebrati per sapienza per carità per virtù cittadine, pieni di ammirazione per Pio, di amore e di fede nel Cielo, onoravano l'illustre paese cui appartengono.

La loro voce è eco dei popoli, che alle virtù cristiane e civili ammaestrano. E la Francia, cattolica sempre e sempre grande, dee aver visto, con infinito desiderio, come tutta la Germania siasi pur mossa nello stesso spirito, eh" è spintogli progresso, e di civili virtù. Imperciocché tutte le varie congregazioni cattoliche di quell'insigne paese, spontanee fra loro s'intendono, e mille e dugento deputati insieme si riuniscono, per acclamare l'opera del cristiano episcopio, unire ad esso la loro voce incorrotta, onde si protegga ne' suoi diritti il romano Pontefice, e si difenda in tutti i modi la cattolica fede.

Veramente il secolo, che si é deturpato per le tristizie di parte, per le ambizioni, pei delitti sociali, s'innalza glorioso in sostegno dell'elemento ortodosso, e della ragione che lo sostiene.

L'oro del mondo cattolico dunque corre spontaneo a sostenere l'Uom giusto tradito, la voce di lui raccoglie a sé dattorno tutto l'Episcopato dell'Orbe, la Germania si solleva, le cattoliche congregazioni insieme si congiungono, animate dallo stesso spirito, tutta intera la cristianità si commuove... Oh queste frutta non marciscono...

Opera di Dio è questa!

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§ XXVIII.

Proposizioni del Ministero inglese. Confutazione. Disordini del governo Piemontese, abisso nel quale si trova. Odio implacabile degl'Italiani contro gli usurpatoti. Necessità che si torni ai principi eterni di giustizia, e per mezzo della Confederazione all'ordine e alla pace.

Ma in mezzo a tal quadro sublime una fosca nube si solleva, ed arresta lo sguardo pieno di maraviglia e di sdegno. L'intemperanza dei tempi (non saprei qual voce usare... tanto è codardo il fatto!) giunge al segno di far tema di proposizioni di discussioni e di pubbliche scritture, l'idea, che l'Inghilterra, o, a dir più proprio, il Ministero inglese (e se ne leggono i documenti*) offre al romano Pontefice, al rappresentante di Dio in terra, un asilo, dovendo ben presto abbandonare la sua Capitale, nell'Isola di Malta... È, o non è questo fatto? Dobbiam credere, o no, a quel che leggiamo? Possibile che si giunga a tal delirio? Come) si dice a Chi siede glorioso in Vaticano, scendi dal tuo trono di carità di fede di pace di sapienza, donde tu spandi i benefìci raggi della vita, scendi, o Tn che sei a capo di dugento milioni di Cattolici, e vatti a rannicchiare sopra un pezzo; di terra africana, che io ti offro, sotto i dardi di un Sole, che brucia, e che la natura privò fin d'acqua, altro non avendo che il fischio quasi continuo di un mar tempestoso chela circonda... È dunque ironia questa, o è verità?...

V. Carteggio diplomatico stampato dall'Osservatore romano N. ° 25. Anno III. — V. Débats—Seduta del Senato di Francia del 29 gennaio 1863.

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Io nol so, ma qualunque sia è un oltraggio inconcepibile, è tale insulto quale di più inverecondo abbia potuto ideare l'uomo nei momenti de’ suoi maggiori deliri; talché non vi può essere anima, cred'io, la quale abbia un atomo di ragione o di coscienza, che non si muova adira, e a generoso disdegno per cosa di simil fatta. Ma il sacco della maraviglia sarà colmo, quando si leggerà, che lord Russel scriveva in tutta serietà di essere vivamente rincresciuto nel vedere che il Papa non fosse per il momento disposto ad accettare le sue proposte, aggiungendo che Sua Santità si troverà assai prossimamente nella, necessità di profittarne (1).

Ingiurie sopra ingiurie, minacce a minacce... Ma l'Inghiltenra può intanto permettere, che vi sia voce sulla terra, la quale pronunci una così stolta bestemmia?... L'Inghilterra fece morire di dolore e di disperazione sullo scoglio di Sant'Elena, sotto un clima distruggitore della vita umana, uno dei più grandi uomini, che avesse visto il Sole: e l'Inghilterra vuole ora gittare sopra lo scoglio di Malta il glorioso padre delle cattoliche genti, vuole strapparlo dalla sedia che Cristo (quel Cristo che pur l'Inghilterra adora) lasciò a Pietro, perché in eterno i suoi successori vi stessero... E che, tempi son questi, quali idee mai vanno gli uomini ravvolgendo nel contaminato pensiero? Vi sono certi fatti, che non possono formare obbietto di nessuna discussione  perché rifuggono dalla mente, si ribellano al cuore. Essi non lasciano che una striscia sanguigna di affanno, che opprime per l'enormezza sua, e soffoca la vita. Pio IX è ima delle più belle glorie della terra.

(1) V. Carteggio diplomatico—L. C.

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Egli vivrà nel pensiero, e nel cuore dei popoli più lontani, i quali, mentre pieni di maraviglia e di gioja, leggeranno i suoi fasti, sentiranno agli arsi di vergogna le fibbre per l'età codarda che passò.

Ma in mezzo a queste ambagi di dolore, ci è caro il dire, che l'Inghilterra, come abbiam sempre pensato, è ignara di questi fatti, e che è innocente; sicché il solo inglese Ministero, tenero in questo momento dell'unità italiana (dimani non sappiam che sia); butta giù tal proposta, senza calcolarne il peso, e dice parole di cui esso stesso ora spregia; ora valuta Io spirito, perché non sono l'espressione di principi statili, che han per base la morale e la ragione, ma  effetto di  un ondeggiar continuo, e di un'ira senza consiglio. Difatti il Ministro Billaut dicevar non è guari, alla Camera legislativa della Francia, che il governo italiano non ha simpatia in Europa, e al di là dello stretto, esso ha le simpatie teoriche, dell'Inghilterra. Il che significa le simpatie non della nazione inglese, ma delle teorie dei Ministri inglesi che cangiano, secondo il ministero cangia. Anzi cangiano giusta le circostanze del momento, che consigliano una cosa più che un'altra, qualunque ella sia. In effetto quell'Inghilterra, che ora protegge l'unità italiana a oltranza, ed incita la Francia ad evacuar Roma, onde il governo italiano si abbia là sua pretesa capitale, scrive forte al medesimo italiano governo di non pensar però mai a Venezia, di rispettar Venezia.

L'Inghilterra non vuol dunque l'unità; poiché  Italia senza il Veneto, e quella parte di Lombardia al Veneto congiunta, e all'austriaco rimasta, non è l'Italia una. Dunque vuole, o non vuole l'unità? Se vuole l'unità dee voler Venezia:

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volendo però che Venezia resti all'Austria, non vuole l'Italia. Che vuol dunque? Vuoi solo cacciare il Santo Padre dall'eterno suo seggio, vuole che la religione cattolica, ch'è veramente quella, che le da grosso fastidio, sia manomessa col manomettere il suo supremo Gerarca.

Ed è tanto vero che l'Inghilterra non ha voluto mai l'unità italiana, e non ha avuto nessuna simpatia per l'Italia, quanto che il medesimo Ministro Billaut manifestava alla tribuna del Corpo legislativo un fatto, che il pensiero afferra con orgoglio. Nel luglio del 1860 (egli dice) il ministro degli affari esteri scriveva al Conte di Persigny, nostro ambasciatore a Londra, il risultamento di un colloquio avuto con lord Cowley. Da quel dispaccio si deduce, che il governo inglese a quell'epoca (e non è molto lontana) giudicando degna di serio esame la situazione del regno di Napoli, esprimeva il desiderio, ch'esso conservasse un'esistenza politica, e che la Sicilia costituisse un Vice Regno alla monarchia napoletana. Il governo inglese dunque preferiva tale stato di cose all'annessione alla Sardegna (1).

Che vuoisi di più?... Nulla certamente. E noi lasceremo questi fatti nella polve, donde un giorno la storia indignata, e presa di onta per l'età che fu, li presenterà con orrore alle genti.

Intanto ci giova, per amore della verità, e per l'onore d'Italia, non che per rispondere alle frenesie, che mettonsi avanti, onde ingannare l'Europa, e far credere perduta l'opera, che non si potrà mai perdere, che il governo

(1) V. Debats — Tornata del 10 febbraio 1863.

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usurpatore è già caduto in tale abbiettezza, che non vi ha mente, che la raggiunga. Ed ognuno osservando, com'ei lacero da tutte parti si presenti, mostrando alla terra le putride sue piaghe, vede qual sia la sua vita, qual possa essere la sua fine.

Difatti i suoi debiti sono enormi; il cammino che segna è di precipizio. Mettiamo da banda le ridicole sparate che eccitano compassione in tutti gli animi, poiché è noto a chiunque abbia un atomo di buon senso, che un governo, il quale voglia reggersi con menzogne  e coprire colla rete il Sole è governo di sprezzo.

Io    qui discenderò di volo alle cifre che li costituiscono, perché sono di ragion pubblica, e i medesimi deputati al Parlamento ne han fatto subbietto di grave e ponderata discussione.

Chi dicesse il deficit di molti milioni fino al 1862, chi lo facesse risalire in pochi anni fino a miliardi indeterminati, non direbbe che il vero provato dagli altri. Ma venghiamo ai fatti particolari.

Il    ministro delle finanze Minghetti ha proposto oggi (1) un nuovo prestito, che faccia entrare nella cassa del tesoro altri sette cento milioni effettivi. Il che (secondo osservano tutti i giornali, i quali spaventati, si occupano di questa terribile crisi) produrrà una gravezza per lo stato di altro miliardo, e dugento milioni almeno, e un aumento annuo nel bilancio   circa sessanta milioni pel pagamento dei frutti.

E con questi settecento milioni, che, per ottenersi, costano al tesoro mille milioni, il Piemonte (osserva l'Armonia

(1)Febbraio 1863.

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sotto gli sguardi del torinese governo) va glorioso di aver sulle spalle un debito di quattro fatto milioni colla giunta di altri seicento quarantanove milioni (1).

L'eloquenza delle cifre è assai più valida di quella delle parole. Vi fissi quindi ogni uom di senno il pensiero, e vegga qual sia il vero stato della misera Italia.

Mai il ministro Mughetti ha ben alti gli omeri suoi, e non si atterrisce punto. Perciocché dice, alla impazzata, e come un furibondo, le economie sugli esiti sarebbero in gran parte sui soldi degl'impiegati e sulle pensioni di qualunque natura, la tassa sulla ricchezza mobile, il dazio consumo, i sali e tabacchi in Sicilia, la vendila dei beni della cassa ecclesiastica, del tavoliere di Puglia, del clero di Napoli e Sicilia, dei beni demaniali, di quelli dei comuni e delle opere pie, e finalmente la vendita delle ferrovie, faranno fronte a quella colonna di fuoco:

Ma questo semplice quadro della desolazione italiana basta per mostrare l'abisso in cui Italia si trova. Porlochè malgrado tale dispetto procedere la voragine materiale non si colma; e se ne aprirà un'altra più tremenda, che scrolla troni, ed incendia popoli.

Manomesse le industrie, paralizzato il commercio, accecate le sorgenti della ricchezza nazionale, non vedi dappertutto nella infelice Penisola  che uomini scontenti del presente, senza speranza dell'avvenire. E non essendo i popoli che l'aggregato degli individui ne è nata l'angoscia universale, e con essa l'abbandono e l'apatia.

Quindi essendo gl'italiani gravati in modo che più non si può, pagando ormai il tradito cittadino fin l'aria

(1)Armonia — Torino 30 febb. 1863.

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che lo circonda, e non potendosi più accrescere, per essere ogni cosa arrivata al suo culmine, ne deriva che l'infelice Sardo, non godendo nessuna fiducia nell'interno, nessunissima presso lo straniero, per aver con sé tutti contrari gli elementi della vita politica e sociale, non trova che la misura detta colpa ornai calma.

Al che si aggiunge che la sparizione dei capitali ha fatto venir meno le grandi industrie, e la mancanza di circolazione dei danaro effettivo, per tutti i bisogni della vita, surrogata da forti emissioni di carta moneta, come altro disperalo mezzo di esistenza, hanno accresciuto a dismisura la miseria, circoscritto i valori negativi nel paese, ed inaridito te fonti del commercio collo straniero. Quindi i mali sono di tal pondo, che descriver non si possono. Ma la storia di tutti i tempi, e di tutti i popoli dovrebbe ammaestrare il sardo, se altri fatti non vi fossero, che la violenza non è condizione normale della società civile; i prestiti le imposte la carta moneta schiudono un sepolcro, che inghiotte qualunque stabile governo. Che dir poi d'un governo, dominatore di stati non suoi, diviso conquassato? … privo di: forza morale, ed incapace la sua forza bruta a  spegnere nel sangue, come ha procurato di fare e procura; tutti i sospiri degli uomini, che invocano i dritti loro, le loro autonomie, la loro libertà. Ma i sospiri rinascea più disperati, il sangue non finisce mai, grida vendetta, e feconda sangue. Donde sorge che l'odio contro l'usurpazione è mortale, la vendetta bolle in ciascuno, ogni popolo vive miserrima vita, e geme fra l'ambasciata e la dispersione; sì che la barbarie questo carro di misfatti e di vergogne, ohe su i sentieri della civiltà  passa  ed inaridisce.

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E noi che credevamo ad un progresso, che migliorasse le condizioni della vita, torneremo, e stiam tornando, a precipitarci nel lezzo dell'età di ferro.

Ma in mezzo a queste tenebre di un avvenire che spaventa, l'animo si apre alla speranza, che la Confederazione potrebbe salvar l'Italia dalla sua ultima ruina. Perciocché arresterebbe la piena del torrente impetuoso, che la rivoluzione trascina, e struggerebbe le mene, che intendono al funesto ritorno del terrore: poiché oggi a questo unicamente mira l'empio consiglio di chi spinge la ruota di questa macchina infernale. E la Confederazione, capovolgendo la rivoluzione, spegnerebbe gli eccessi della demagogia, che minaccia la, pace d'Europa, e la civiltà dei popoli.

§ XXIX.

Mezzi che ti adoperano per non far eseguire la

Confederazione Italiana.

Or certamente, in mezzo a tanta violenza di passioni, e ai tanti flagelli dell'ingiustizia umana, l'ira degli uomini trabocca, e l'Italia è perduta, se i potentati del  mondo, e la Francia fra tutti, non concorrano a salvarla, per via della italica Confederazione. Ma pure questo gran bene, promesso, sperato, dall'Europa saggia voluto, si frastorna, e si fa di tutto per tenerlo più ch'è possibile lontano. Perciocché si aspetterà forse) dagli eventi il conseguimento di un fine, che mira alla distruzione di quanto vi è di più sacro nel mondo. Quindi la questione, che stiam trattando, è vitale non solo per l'italiana penisola,


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ma per la pace dell'umana famiglia. Imperocché se l'Italia proseguirà nelle misere condizioni, in cui si trova, andrà sempre più contaminando sé stessa; le sue piaghe diverranno più profonde e cancrenose, si che ne verrà, e non potrà non venirne, la pubblica mina. Il lavorio tenebroso, che da più tempo la rivoluzione prepara, non lascia dubbi in contrario. Prima ignoravasi ed il tenebroso lavoro, ed il perfido fine; oggi tutto è allo scoperto, ed è palese.

Io qui non vo' riandar col pensiero le sozze pratiche, che si son fatte, le dottrine, che si sono pubblicate, i segreti che si sono svelati, i precetti di corruzione, che si sono insinuati nelle masse dei giovani con un veleno mortale, perché sarebbe un fuor d'opera, avendolo già altri maestrevolmente eseguito. Solo desidero, che fra tanti scritti, che svelano questa turpe scena, leggansi almeno i primi dieci capitoli, che son quelli che fanno all'uopo nostro, della recente opera del signor di Ségur, intitolata la Révolution (1). Ivi son registrate cose, che innalzano a principi il delitto, ed ogni uomo onesto, che ama il suo paese, e desidera il bene della società, in cui Dio lo collocò, dee inorridire a quel quadro spaventevole, che innanzi'agli occhi presentasi.

La Prussia, la Russia, l'Austria, la Spagna aveano scritto fortissime note contro i fatti, ch'eransi in Italia consumati, aveano elle dimostrato l'erroneità dei principi, ch'eransi messi avanti dalla rivoluzione; avevano manifestato la falsità dei plebisciti, coi quali, ingannati e traditi i popoli, si pervenne a rovesciare i legittimi troni.

(1)Paris—1862.

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Se poi la Russia e la Prussia declinarono dalla santità delle loro idee, riconoscendo non già il regno italico, che questo non fu mai, ma il semplice titolo di Re d'Italia dato a Vittorio Emmanuele, ciò fu in faccia  alle complicazioni, che si succederono, e alla violenza delle circostanze momentanee, che il consigliarono. Ma ora la Prussia dichiara innanzi l'Europa, che nel suo formale riconoscimento, non avrebbe fatto che prender nota della composizione attuale dell'Italia, senza assumere veruno impegno, per il futura, come senza accordare una saazione implicita ai mezzi, pei quali essa vi pervenne. Inoltre viene in tal documento chiaramente dichiarato, che le pretese messe in campo dal generale Durando (ministro piemontese) nella famosa circolare intona gli affari di Roma, costringono la Prussia a protestare energicamente contro tutto ciò che potesse farsi a danno della sovranità temporale dal romano pontefice.

La Russia segui la Prussia (1). Gli stati più grandi dell'Alemagna, la Baviera il Wurtemberg la Sassonia, fremono per le cose avvenute in Italia, e per le fogliazioni fatte ai legittimi Principi, per via di trame, che fanno arrossire lo storico, che dee tramandarle alla posterità, e sono il ludibrio degli uomini e dei tempi.

La Francia, spregiando le codarde minacce della rivoluzione, non soffrendo, nell'altezza de’ suoi generosi intendimenti, straniere pressure, ch'è troppo forte per temer chicchessia, tuona la sua voce, per salvare la società, non che difendere la religione, che Dio ci diede,

(1)V. Giornale di Verona — Pungolo — Osservatore romano, ed altri — Nov. 1862.

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e vuoisi empiamente distruggere. Difatti la sua nuova politica riceve gli applausi dei più potenti, apre il cuore alle speranze universali. Ma in tanta commozione dei grandi stati, in favore della giustizia calpestata, la sola Inghilterra prosiegue nel suo fatale e tortuoso cammino. Ella vede la verità, e la nega o la mentisce. L'unità italiana, idea dei secoli, andati, è ora divenuta sogno di menti inferme, che fa ridere le genti. E pure l'Inghilterra, in mezzo al conquasso generale, la difende e la sostiene.   Perciocché, se vacilla o vien meno, crolla l'architettato edificio. Quindi necessità di puntellarlo con tutti i mezzi qualunque siano. Ma qui è mestieri che si scenda ai particolari, e si rimuova il velo della tradita coscienza, se pur questo nome ha più valore ai tempi nostri, in cui la ragione è muta, e l'umana dignità vinta dalla pubblica contaminazione. Il subbietto è tale che dee premere a tutte le generazioni presentì, onde si vegga a quali estremi siam giunti, e come convenga che la voce onesta sorga da ogni luogo, e sveli l'inganno, appoggi il dritto. Il bisogno sociale il vuole, la quiete del mondo l'invoca.

I fatti che si sono compiuti, le cose che si sono bandite nel corso detta rivoluzione, ed anche pria, onde prepararne le fila, da Gladstone, Layard, Palmerston, Russel. sull'amministrazione del governo delle Due Sicilie, e sul governo stesso, calunniato, e con ignominiosa mano oppresso, colmano d'ira gli animi onesti. Ma quello che ora si fa, capovolgendo ogni dritto, negando in faccia alla verità tutto che cade sotto i sensi di tutti, per non far raggiungere lo scopo della italiana confederazione, fa maravigliare Europa, come a tanta vergogna si giunga.

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L'Inglese è franco, generoso, di nobile istinto; l'inglese nelle contrattazioni private è specchio di onestà; nelle amicizie è fedele; l'Inglese è tipo di lealtà; l'Inglese insomma, pel suo alto carattere, onora la natura umana. Ma, Dio mio, i predetti individui son pure inglesi, ed in alto locati! È possibile dunque che snaturino si fattamente il loro tipo» da mettersi... la parola mi manca, la reticenza supplisca. Falso è tutto ciò che contro Roma, ed il romano governo si è detto: falso tutto che contro il governo delle Due Sicilie si è divulgato: tutto è stato vile inganno, per nascondere la verità, tradire le genti. Vecchio sistema è questo. Noi abbiam già detto, ed ognun sa, che la menzogna e la calunnia sono le uniche armi, che imbrandiscono i settari, e quelli che, nel sozzo buio dei loro sistemi, li sostengono, per atterrare la religione cattolica, che in Inghilterra faceasi strada maravigliosa, ed illuminava i popoli; rovesciare i troni legittimi, per piantarvi lo stendardo della colpa; seccare le fonti della ricchezza di tutti, onde accrescere le proprie; e cosi opprimendo ogni gente, e nulla curando l'odio ed il disprezzo universale, sostenere il loro dominio nel mondo.

Ma Iddio è troppo giusto, per non vedere più oltre tanta ignominia, che fa piangere e fremere al tempo stesso. Egli cammina a passi di piombo, ma raggiunge alfine, e schiaccia.

Il popolo inglese però (è. dolce nuovamente il ricordarlo) non partecipa in tutte quelle miserie, che hanno, con cifre di affanno e di dolore, segnato l'epoca presente. Difatti veggasi, come dall'Inghilterra medesima si corra dai più grandi, e da ogni condizione di uomini ad onorare il sovrano Pontefice:

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veggasi come spontaneo dalle stesse Isole britanniche vada il danaro di San Pietro a soccorrere le casse pontificie, per sostenere i bisogni del sommo Gerarca, che in mezzo alle sue angustie, e ai suoi dolori, terge le lagrime di tutti.

Guarda poi, come le Dame di Londra, imitando quelle di Francia e di Alemagna, abbiano onorato quell'anima casta e virile di Maria Sofia, regina delle Sicilie, inviandole una corona di onore: corona, che innalza la sventura sul putridume umano, e rende più nobile la virtù.

Guarda eziandio come i più notabili, e i più illustri di quel grande paese, alto pregino il valore, il merito di un giovane Monarca, che magnanimo scendeva dal trono, per non calcare minimamente la mano sopra il suo popolo, ingannato da una schiera di empi, ch'eransi venduti al tradimento, e all'infamia. Guarda com'Ei difenda l'ultimo baluardo del suo reame!... il suo pensiero è degno dei tempi antichi... l'Europa ne fu scossa di maraviglia... Guarda com'Ei lo lasci, quando, scrollato da tutti i punti, minaccia ultima ruina..... e lo lascia accompagnato da una gloria, che non fu mai seconda a nessuno... Ebbene! l'Inghilterra sorpresa lo mira, sì che i più esimi, e i più notabili, recando l'espressione di un intero popolo, che altrimenti non sarebbero andati contro la pubblica opinione, inviano una spada di onore all'insigne difensore di Gaeta.

Ecco dunque come da un lato stiano i più illustri d'Inghilterra, e il popolo inglese, dall'altro Gladstone, Layard, Palmerston, Russel, i quali tremano entro sé stessi, ed il loro terrore nascondono, ed impallidiscono innanzi la storia, che bieca li guarda, e terribile li giudica.

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Ma per onore della verità, è mestieri ricordar pure, olle illustri intelletti inglesi battano gli errori, svelano l'impostura, e difendono, generosi, il giusto oppresso e conculcato. Vedi lord Derby, vedili marchese di Normanby, vedi Disdraeli, vedi Bowyer, che colla potenza della parola e del pensiero, mettono nel nulla le menzogne, e le ingiurie di costoro; vedi, come l'ultimo forte gl'interroga, e gli annienta! Ed essi non avendo il coraggio e la virtù di dire ci siamo ingannati, che altrimenti dovrebbero scendere dai loro seggi, e stender la mano, o almeno non aggravarla più oltre sul caduto (ed ignominia maggiore di questa, non può darsi) prendono l'impudente consiglio di rispondere con cose sì badiali, e sì false, che manomettono la dignità di uomo ed offendono la più rinnegata coscienza. Perlochè si leggano due giùdiziosi libretti non è guari pubblicati (1), e si vedrà, a guisa della luce in pien meriggio; quante bestemmie abbian costoro vomitato contro la ragione, e la verità, e come vengano stritolate nel fango. Perciocché coi fatti alla mano, presentati da quei medesimi, che avrebbero avuto premura a sostenere il contrario, si smentiscono le miserande voci in guisa da non aver più bisogno di ristornare sull'infausto tema; sì che giova il dire; per onore dell'umanità, che il sentimento del vero non può celarsi lungo tempo, e scoppia in ogni petto.

Dunque non già l'Inghilterra, che abbiam visto quanto sia generosa; e grande, ma il gabinetto radicale, o come altri lo chiamò della rivoluzione, non  vuole le autonomie italiane,

(1)I difensori confutati dai difesi. —Note ad un periodo del litro del cav. Gio. Manna intitolato le province meridionali. del Regno d'Italia.

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reclamate dai vari popoli, perché con loro ritornerebbe l'ordine la pace il ben essere: non vuole la Confederazione, perché sarebbe il mezzo di render potente l'Italia, prospera a lontana dai disordini civili, che ha esso medesimo continuamente eccitato, discreditando i governi, diffondendo calunnie preparando i mali. Chi dimentica le lettere di Gladstone? Chi obblia gli altri scritti del medesimo tenore? Chi, le recenti pubblicazioni, di cui stiam ragionando? Quel gabinetto agitatore vuole dunque l'unità italiana per mantenere il disordine, nega il disordine, per sostenere l'unità, ed attendere nel suo temporeggiare; che i mali si accrescano, la religione cattolica si abbatta, l'esterminio si compia. Ma Dio è giusto, e l'opera nefanda cadrà maledetta da sé stesso.

Ognuno conosce, poiché le maschere ai strapparono, i misteri si svelano, quanto il governo piemontese debba essere, nemico della Confederazione italiana. Perciocché coll'unità vede congiunte al suo stato le più nobili, le più popolose, e le più ricche parti d'Italia: colla Confederazione ritorna negli angusti suoi limiti. Il Cavour era nell'interno dell'animo suo persuaso, che con tutti i tradimenti e tutte le ignominie consumate, non si sarebbe potuto mai ottenere quello cui la natura ripugna, e ch'è contrario all'indole del cuore umano, contrario alla storia della vita: e fu detto e provato da me medesimo in altro povero scritto (1), che l'unità di un popolo era un bel pendero, la nazionalità imprimeva un carattere solenne ad una gente intera; ed m Italia, colla nazionalità italiana, sparivano i napoletani, i siciliani, i toscani, i genovesi,

(1)Intorno l'unità d'It. nel 1860 — Considerazioni.

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i lombardi, i parmigiani, i modenesi, i vendi, i romani, poiché tutti si fondevano in uno, tutti divenivano italiani. Certamente se questi popoli sorgessero ora dalla barbarie, potrebbesi dar loro quella fisionomia, che meglio convenisse, ed andasse a grado di chi ne avesse conquistato il paese, o che, per qualunque siasi causa, ne fosse divenuto padrone. Perciocché avrebbe allora un popolo vergine, e potrebbe dividerlo in più, o raccoglierlo in un solo, senza lamenti e senza contrasti.

Ma non avviene lo stesso ad un popolo vecchio, che ha trovato in sé medesimo tutti gli elementi del viver civile, per lungo correre di secoli, ed ha avuto un nome glorioso, ed una faccia che ha sempre difeso. Questa faccia distintiva non si può né si vuoi mutare, questo nome fa parte di noi, e non si vuoi perdere, non si vuoi confondere. con altri. Così è costituito l'uomo, e non può cangiarsi l'opera della natura, poiché ella è eterna, e non va soggetta a mutamenti... è eterna come Dio, che la creò.

Conosceva dunque bene il Cavour, ch'era un tentativo fallito e disperato. Quindi la sua ultima idea era l'accrescimento del suo piccolo paese, e, nel disordine universale, prender dagli eventi consiglio. Roma era uno scoglio, al quale urtava qualunque impresa, ed ogni desiderio frangevasi innanzi alla sua morale potenza. Vedeva poi bene che qualunque forza avesse potuto muovere, avrebbe trovato innanzi al quadrilatero la sua tomba, e cimentava (il che hanno luminosamente i ratti posteriori dimostrato) la medesima esistenza del trono di Torino, che si sarebbe scalzato dalle sue basi, com'era già per avvenire, dopo i fatti di Novara.

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E questo timore agita forte tutti gli spiriti non illusi, non già le sfrenate menti, che negl’impeti loro gridano le stesse voci, senza senno né consiglio. Oh! così avessero attaccato il quadrilatero, che allora le italiche angosce avrebbero avuto un fine, e sarebbe tornata fra i nostri miseri popoli la ragione e la giustizia. Il Cavour sentiva, nell'animo suo, tutte queste grandi verità, ed io mezzo alle segrete ambasce, che fieramente lo agitavano, e lo condussero anzi tempo al sepolcro, si avvedeva, avvegnaché il simulasse, che diveniva sempre più schiavo della rivoluzione, la quale schiantava il piemontese reame. Egli però non potea più ritirarsi dall'agone in cui era disceso, poiché sarebbe caduto vittima dei furori demagogici, che non era più in sua balia il rattenere o temperare. Quindi andava innanzi; e, dovendo servire al suo programma, sosteneva sempre la stessa tesi, sperando, poiché la speranza non abbandona mai nessun povero mortale, nei disordini, e negli eventi, dell'avvenire. Difatti quando i Siciliani, pria del plebiscito, annunziarono al governo sardo, ch'essi voleano fare una votazione condizionata, cioè che se per caso l'unità italiana non si fosse verificata (il che sentivasi bene da tutti quelli che leggono nel libro di questo mondo), allora non intendevano unirsi al Piemonte, poiché voleano perdere la propria autonomia innanzi l'altare dell'unità, ma non mai per divenire tribolata provincia di un lontano paese. Ma il Cavour intese bene la forza di quel pensiero: e siccome ne' suoi cupi intenti non era l'unità, perché la vedeva un impossibile, ma l'impinguamento del suo stato, cosi forte ed energico rispose, che non si ammettevano votazioni condizionate, ma pure e semplici.

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Il qual comando fu seguito da intrighi e da vergogne senza numero: e da Torino emissari in Palermo, e nei luoghi principali dell'Isola,   spedirono, comprarono i più violenti  e i più disperati, loro si promisero danari, onorificenze, potere; sì che una mano di perduta gente, da quei traditori sostenuta, colla minaccia del pugnale e dell'esterminio delle case, obbligavano al sì gli onesti cittadini, i quali doveano portarlo, pel terrore, che in quel momento spargeva  e prima che il plebiscito si eseguisse impresso sul dinanzi del cappello e chi nol portava era svillaneggiato, ucciso. Le quali cose si osservarono più o meno in tutta Italia, donde nacque che i plebisciti italiani furon dichiarati l'ignominia dell'uomo.

Il Cavour dunque nemico di ogni patto, che unitario non fosse, veggendo nella Confederazione uno scoglio, al quale rompevansi tutte le concette speranze, avea mestieri di votazioni, che non avessero potuto inviluppare le questioni, essere di esempio agli altri stati, per reclamare lo stesso, e poter quindi ritornare all'idea primitiva della federazione italiana.

Per le quali cose il  Piemonte, perduta oggi interamente la speranza dell'unità, ch'è già finita, fa ogni sforzo, disperato che sia, per non perdere il male acquistato dominio.

L'inglese ministero dunque ed il Piemonte sono entrambi nemici della italiana confederazione, la quale, sendo per mire diverse, contraria ai loro interessi, ha trovato sinora ostacoli di ogni maniera, per non attuarsi.


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§ XXX.

Conchiusione. Voto.

Napoleone III, salendo la prima volta (1) sullo scanno dell'impero di quel Grande, da cui discende, disse ai tre supremi Corpi dello Stato, che a Lui si presentarono, Imperatore salutandolo, quelle memorabili parole, che la storia ha raccolto, per tramandarle sacre alla posterità: Je reconnais non seulement les gouvernemets qui m'ont précédés, mais j'hérite en quelque sorte de oe qu'ils ont fait de bien ou de mal, car les gcmermmmts qui se succedent,  sont, malgré leurs origines différentes, solidaires de leurs devanciers (2).

L'Europa (fu voce universale) accettò queste parole, come un prezioso pegno della leale esecuzione dei trattati conchiusi fra essa, e i differenti governi, che si erano in Francia seguiti Quindi si conforti l'Europa nella magnanimità di quella Mente, e nella speranza, che tutte le genti ne hanno giustamente concepito.

Nel trattato di Zurigo sviluppasi, per le complicazioni successe il pensiero costante dell'Imperatore, donde serge che sendo esso fondato  sulla verità non potea in una grand'anima venire mai meno. Quindi, lontano dalle utopie e dalle astrazioni, che scavano la tomba  alla società civile. Ei vuole il ritorno ai principi di giustizia e di dritto, dimenticanza del passato moderate libertà,

(1)In dicembre 1852.

(2)Louis Debràuz —La Paix de Vill, et les Conf. de Zur.— Paris 1862— Quat. edit.

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conformi alle morali e civili condizioni, in che i popoli si trovano, per il ben essere loro, e per la pace del mondo. Ecco le fondamenta dei supremi concetti di Napoleone III, che sono quelli eterni della natura, che mai non crolla.

La colpa è sempre colpa in tutti i tempi; e chi l'annienta, e la giustizia rivendica, è dichiarato benefattore dell'umanità.

Fu stabilito, che i Sovrani, iniquamente traditi, dovessero ritornare su i loro seggi, acciocché nel mondo non resti l'esempio funesto, che nell'epoca attuale, e in mezzo alla più grande civiltà, che le genti conoscano, il delitto impunemente trionfi.

Dugento milioni d'uomini, quanto sono i Cattolici, han visto fremendo l'iniquo spoglio, che al più antico e legittimo regno d'Europa si è fatto. Il Papato, ch'è stato gloria d'Italia, non può rimanere, per l'onore del mondo, nella misera condizione, in cui l'umana perfidia l'ha gittate.

Nei preliminari della pace di Villafranca, e nelle Conferenze di Zurigo non parlossi del Reame delle Due Sicilie, né poteasene parlare, perché ancora i tremendi casi, che han ridotto quelle contrade un lago di sospiri, e di sangue, non eran successi a spaventare la terra. E se cento ragioni fan forti i Principi dell'Italia centrale, a maggior forza si presentano per il magnanimo e glorioso Monarca delle Due Sicilie, che nel più bel fiore della vita ha sentito tutto il peso di una immeritata sventura, di cui pochi simiglianti esempi offre la storia.

Egli era tutto intento a far felici i suoi popoli, che lo benedivano nelle Città, nelle campagne, nelle case dei ricchi, nei tuguri dei poveri; ed il mondo l'ha visto, con

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istupore e maraviglia, negli eventi che han seguito; quindi non può Egli non isvegliare l'affetto e le cure dei potenti in favor suo come sveglia oggi il plauso del mondo, fremente pei tanti mali, che su quell'anima grande son piombati.

Ma non ostante la nequizia dei tempi, la pressura nella società civile non dura gran fatto, e la violenza si frange sotto il peso detta sua stessa crudeltà: sì che verrà tempo, e non sarà lontano, in cui, se la giustizia non ci aiuta, grandi e terribili casi succederanno. Oh si scongiuri questo tempo, e Dio non abbandoni all'ira dell'uomo, l'uomo stesso.

Ecco il quadro dei nostri affanni... Ma dileguisi ormai dal pensiero; ed io l'ho messo innanzi agli occhi di tutti, che amano l'Italia, la società civile, l'umanità, onde ognuno vegga che la Confederazione italiana è il mezzo più sicuro, e più potente, per metter nel nulla i vaneggiamenti degli uomini, e far conseguire il grande scopo della pace del mondo.

Né è da temere, che questa desiderata Confederazione venga mai meno, e che qualche stato se ne allontani, o si sciolga. Perciocché sendo l'Italia non isminuzzata geograficamente in cento corpi, come la Germania; non divisa in cantoni naturali, come la Svizzera; non separati i suoi Stati, gli uni gli altri da forti distanze, come l'America, non dovrebbe aver luogo in veruna tempo lo smembramento di nessuna delle sue parti.

E poi gli Stati italiani son retti da Principi italiani, che hanno gli stessi interessi, e regnano ugualmente su province continentali tra loro finitime.

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I soli Monarchi della Francia e dell'Austria non hanno le  ragioni altrui, perché Principi stranieri; ma essi stanno in faccia l'uno all'altro, e questa medesima condizione è di tal pondo, che non li farà scioglier mai.

Al che si arroge, che la Francia ha una ragione di più, e potente, per aver sempre in Italia uno stato italiano, quella che la Confederazione si obbliga di riconoscere i suoi nuovi possessi, talché viene a consolidarli, e ad assicurarli per tutti gli eventi avvenire. Quindi basta la Francia par bilanciare l'influenza austriaca, e far che l'equilibrio federativo italiano non vacilli, e si mantenga incolume il patto.

Per le quali cose è da sperare, che l'italica Confederazione si effettui. La Convezione di Villafranca la stabilì, le Conferenze di Zurigo solennemente la suggellarono. Perché dunque tradirne o allontanarne le speranze? Ella debb'essere scolpita nel magnanimo pensiero di chi la ideò, la promise, al cospetto, di Europa spontaneo la promulgò. Perciocché l'unico mezzo di toglier l'Italia dalle miserrime condizioni, in cui si avvolge, e rimetterla nello splendore delle sue antiche è storiche autonomie, è quello di collegare le sue parti con un patto, che ne promuova la prosperità, e ne assicuri la forza.

Ecco il conforto che abbiamo io tante pubbliche e private tribolazioni: e tutti che siam nati, nel bel paese, ove il si suona, e a cui scalda l'anima verità e giustizia, siam sicuri, che la pace tornerà nella lacerata nostra terra, e che la luce ci verrà, donde l'avevamo da gran tempo spenata. Quindi l'Imperatore dei Francesi, conscio del fatto suo, ed amico dell'Italia sì perché da essa prende origine, si perché gran parte delle glorie

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napoleoniche sono in essa immedesimate, si perché è padrone d'Isole e di continenti italiani, procurerà, coi validi suoi mezzi, a far eseguire il trattato di Villafranca, di cui Egli è promotore magnanimo, in guisa che noi potrà mai vedere, per la gloria stessa del suo nome, deriso e messo al fondo.





INDICE
PARTE PRIMA

§ I. Introduzione

5

§ II. Errore di quelli che credono dannevole all'Italia l'italica Confederazione

6

§ III. Le Confederazioni risguardate in relazione al dritto pubblico, e quanto antiche, quanto utili

10

§ IV. Lega Achea, e cenno sulle altre antiche

13

§ V. Lega Lombarda detta Pace di Costanza

15

§ VI. Lega delle Città anseatiche —1296

16

§ VII. Confederazione svizzera — 1304

17

§ Vili. Confederazione di Principi italiani contro Germani — 1331

19

§ IX. Confederazione delle province di Olanda —1572

20

§ X. Confederazione delle province dei Paesi-Bassi col Principe d'Orange e gli Stati di Olanda —1576

21

§ XI. Confederazione degli Stati Uniti di America —1775

22

§ XII. Confederazione della Russia, Svezia, e Danimarca contro Inghilterra —1780

24

§ XIII. Confederazione degli Stati dell'America centrale —1824

25

§ XIV. Confederazione germanica — 1815

26


PARTE SECONDA

§ XV. Utilità di una Confederazione italiana

29

§ XVI. Possibilità non solo, ma facilità d'istituirsi una Confederazione saggia e duratura

ivi

§ XVII. Roma seggio e centro della Confederazione

33

§ XVIII. Possibilità di un governo uniforme; libertà possibili; possibilità che i reggimenti interni siano diversi, e che gli stati si governino con leggi diverse, sotto il patto federale

39

§ XIX. Unità italiana

41

§ XX. Influenza austriaca

43

§ XXI. Mezzo di equilibrare l'influenza austriaca nella Confederazione italiana

44

§ XXII. Forza dell'Italia confederala nella bilancia europea

49

§ XXIII. Beni che l'Italia può sperare dalla Confederazione italiana

80

§ XXIV. Stato miserrimo d'Italia. Lamenti universali. Tirannide piemontese. Qual parte prendessero i popoli italiani nei cangiamenti avvenuti. Ricordi intorno al governo di Sicilia, come il più calunniato fra tutti i governi d'Italia

54

§ XX. V. Storia dei primi fatti. Reazioni popolari: loro vera natura: loro scopo

78

§ XXVI. Tracotanza degli usurpatoti. Con quai modi d'incredibile impudenza sostengano l'unità italiana. Osservazioni. Insulti che dirigono alle province meridionali dopo di tenerle oppresse, e di averle flagellate. Gloria e grandezza di queste medesime province negli antichi e nei moderni tempi: quanto più grandi, e gloriose elle sono, tanto più disperati gli sforzi del governo di Torino. Assurdo e frenesia di esso nel credere alla durata della sua dominazione in Italia


86

XXVII. Libro giallo della Francia. Guerra al cattolicismo. Difesa potente e maravigliosa, che in ogni luogo della terra sorge per esso, e trionfa

101

XXVIII. Proposizioni del Ministero inglese. Confutazione. Disordini del governo Piemontese: abisso nel quale si trova. Odio implacabile degl'Italiani contro gli usurpatovi. Necessità che si torni ai principi eterni di giustizia, e per mezzo della Confederazione all'ordine e alla pace

107

XXIX. Mezzi, che si adoperano, per non far eseguire la Confederazione italiana.

114

XXX. Conchiusione. Voto

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