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La legge crispina*

[tratto da “Cronaca della guerra d'Italia del 1866” - pag. 121]

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Non è a dire come l’aspettativa della prossima guerra avesse eccitato le ardenti passioni dei reazionarii e dei borbonici specialmente nelle provincie dell’Italia meridionale, e come il partito retrivo fidando ciecamente in un prossimo trionfo dell’Austria sognasse già una prossima ristaurazione dei caduti governi, e non lasciasse nulla intentato per preparare agitazioni e all’uopo anche aperte sommosse. A sventare le mene di costoro ed a provvedere con energia alla sicurezza interna del paese, intanto che gl’intendimenti e le forze del Governo dovevano esser dirette at riscatto della Venezia ed al compimento per mezzo delle armi del nazionale programma, aveva già provveduto la legge che dal nome del suo Relatore Crispi ricevette da molti giornali il nome di Crispina. Da questa veniva vietato «sotto e gravi pene di pubblicare per mezzo della stampa o di qualsivoglia artificio meccanico atto a riprodurre il pensiero, notizie e polemiche relative ai movimenti delle armi nazionali, salva la riproduzione delle notizie ufficialmente communicate o pubblicate dal Governo. Veniva inoltre data al Governo del Re facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno il domicilio coatto agli oziosi ai vagabondi ai camorristi ed a tutte le persone ritenute sospette secondo le disposizioni del Codice penale del 20 Novembre 1859, le quali saranno pubblicate ed avranno forza di legge nelle provincie toscano. Le stesse disposizioni saranno applicabili alle persone per cui  vi sia fondato motivo di giudicare, che si adoprino per restituire l’antico stato di coso, e per nuocere in qualunque modo all’unità d'Italia, e alle sue libere istituzioni.»

La scoperta di vaste cospirazioni per opera specialmente dei Borbonici nelle provincie Napolitane e del clero ostile all’Italia nelle altre parti del Regno, costrinse il Governo ad applicare con rigore le disposizioni della riferita legge, facendo arrestare i colti in flagrante reato, e sbandeggiando e condannando a domicilio coatto i sospetti di più pericolosa indole.

L'attività maggiore ed il cresciuto numero delle bande dì briganti nel territorio napoletano limitrofo al pontificio, provava ad esuberanza l’agitarsi dei Comitati borbonici che avevano a Doma il loro centro direttivo, quantunque l’ex-re Francesco II si scolpasse dall’accusa di fomentar tali perverse mene col seguente proclama, che dall’Union di Francia riproduceva l’Osservatore Romano del 22 Giugno.

«Al momento in cui la guerra probabilmente deciderà di nuovo della sorte d'Italia, io mi credo tenuto, come re, di manifestarvi le mie intenzioni, e come cittadino, i miei consigli.

«Dacché lasciai Gaeta, sci anni or sono, sempre ho tenuto fissi gli occhi verso il mio regno, ed ho potuto osservare, in conseguenza, tutti i disastri dei quali, in così breve tempo, voi siete stati vittime. Poiché non era in mio potere impedirli, ho dovuto limitarmi a protestare al cospetto dell’Europa intiera per tutelare i vostri e i miei diritti.

«Voi non avete dimenticato che, lasciando Napoli, vi raccomandava la più grande moderazione, affinché l’eccesso del vostro attaccamento alla mia corona non divenisse per voi la causa di più grandi mali, e che l’ardore della vostra devozione alla mia persona non vi spingesse ad atti sanguinari. Ma il solo affetto per voi mi decise ad abbandonare la mia capitale. Ed è questo stesso affetto che, più tardi, mi fece deplorare la resistenza popolare, allorquando essa degenerò in opera di sangue e di ladroneggio.

«Ma le vostre sventure vi spingevano a' queste intraprese disordinate, sempre seguite da repressioni sanguinarie, che facevano nascere in voi odii profondi e indomabili. Io ho riprovato questi eccessi e questi atti inumani, rincrescendomi di non avere nel mio esiglio, il potere d'impedirli. Ho sempre disconfessato quelli che si servivano del mio nome o del pretesto dell’indipendenza nazionale per velare le detestabili passioni che li facevano agire, ma ho dovuto sventuratamente limitarmi a voti impotenti.

«Ora io vedo sorgero sull’orizzonte giorni supremi. Che non v'abbiano tra voi ne fazioni né discordie civili, ma tutti, qualunque d'altro lato siano le vostre opinioni politiche, non abbiate altro scopo che il bene del nostro paese; che ninno di voi si lasci trascinare ad atti colpevoli contro la patria. Io lo dimando in mio nome e a nome del nostro paese, che tutti quelli che, colla loro nascita, il loro sapere, la loro esperienza o la loro fortuna, hanno influenza sui loro concittadini, l’impieghino a ralmare gli animi e a dissipare gli odii, a conciliare le diverse opinioni e fare il loro possibile acciò tutti contribuiscano alla pace, all’ordine e alla tranquillità del regno. Io lo dimando principalmente alle guardie nazionali che furono istituite a questo nobile scopo.

«Nelle diverse congiunture, in cui potrà trovarsi l’Italia se scoppia la guerra, il mio desiderio e la mia volontà è che ognuno individualmente faccia tacere le sue opinioni politiche, deponga gli odii e le rivalità di partito, e che tutti si mostrino animati dallo spirito di concordia e da un all'etto fraterno, pel maggior bene del paese che ci ha veduti nascere.

«Sarà questa la testimonianza più preziosa ch'io potrò ricevere dell’amore del mio popolo, al quale devo il mio eterno affetto.»

Roma, 1 maggio 1866.

Francesco.

Questo proclama dell’ex-re Francesco veniva seguito in città di Roma 29 Maggio dalla seguente lettera del suo ministro del Re al Barone di Winspeare, agente del Borbone presso la Corte Austriaca, e che noi riportiamo nella nostra Cronaca come singolare documento storico.

Signor barone,

                           ignoro se sia per giustificare il regimo arbitrario che il governo usurpatore fa in questo momento pesare, con un raddoppiamente di rigori, sulle infelici popolazioni napoletane, ovvero per dissimulare nuove macchinazioni, che la stampa rivoluzionaria ha ripreso, da alcuni giorni, il suo odioso sistema d'invettive e di calunnie contro il re Francesco II o i suoi ministri, a proposito del brigantaggio che desola 1' antico regno delle Due Sicilie.

Fra gli articoli più violenti, e nei quali la calunnia si manifesta colla maggiore audacia, citeremo in particolare quello del giornale francese la Patrie, in data del 24 di questo mese. Il silenzio, Io so, è la dignità della sventare, e fino al presente il re non ha permesso che si rispondesse ai suoi detrattori. Ma quando un giornale serio e così diffuso come la Patrie, si abbandona ad attacchi tanto violenti e giunge fino ad assimilare ai briganti la persona del re, mio, augusto signore, il silenzio addiverrebbe una colpa. Ed e per ciò che S. M. mi ha ordinato di scrivervi, per intrattenervi di questi attacchi così penosi al suo cuore.

Da cinque anni che il re è a Roma, non si è cessato, voi lo sapete, di accusarlo di fomentare in questa città il brigantaggio napoletano. Malgrado la falsità di questa accusa, S. M. non poté, sul principio, disapprovare con un atto pubblico i movimenti popolari, qualunque si fossero, che avvenissero nel suo antico regno. Sarebbe stato giusto, infatti, lo sconfessare questi fedeli e coraggiosi cittadini che combattevano per la patria loro e pel loro re? Ma, come sempre accade in simile caso, questi corpi di partigiani si sono cangiati a poco a poco in bande di briganti. S. M. è stato il primo a condannarli; e la malevolenza, per quanto pure fosse sfrontata, non ha potuto, senza ricorrere alla calunnia, riescire a far rimontare fino all’augusta persona del re la responsabilità degli eccessi di ogni sorta, commessi da questi assassini di strada.

Come il re, in vero, avrebbeli incoraggiati e soccorsi, egli che mai non obbedisce che alla voce della sua coscienza, e che, nel timore di far subire ai suoi sudditi le conseguenze d'una resistenza inutile, ha sempre ricusato d'organizzare una reazione armata, anche quando alti personaggi politici gli consigliavano di farlo? Se ciò non basta per convincere i detrattori del re, e se persistono a disconoscere i sentimenti così nobili e così elevati che l’animano, loro opporremo un argomento al quale non sarà possibile di rispondere. Come il re, spogliato della sua fortuna privata, non avendo neppure più a sua disposizione l’eredita della sua augusta madre, avrebbe potuto, supponendo che l'avesse voluto, impiegare, per riconquistare il suo trono, i mezzi di che i suoi nemici hanno tanto abusato per togliergliela?

A convincersi che la reazione è stata spontanea e che non fu preparata a Roma, basta considerare che le bande si formarono isolatamente, senza organamento, ed hanno combattuto sempre senza direzione comune, senza piano deliberato; di più, che la resistenza più viva e più ostinata, si è sempre manifestata nelle provincie più lontane dagli Stati Pontifici, come ciò fu provato dalle terribili repressioni esercitate dai Piemontesi, per esempio a Pontelandolfo ed a Casalduni.

Noi l’abbiamo già affermato, le bande reazionarie hanno ceduto, a poco a poco il posto a vere bande di ladri, che attaccano indistintamente i Napoletani fedeli ai Borboni e i rivoluzionari. Queste bande il Re le riprova e le condanna, come si riprovano e si condannano gli assassini. Non è dunque assurdo il dire che gli arruolamenti di briganti si fanno per suoi ordini e sotto la sua sorveglianza? È impossibile di ammettere, e l’autore dell’articolo della Patrie stesso non potrebbe crederlo, che, per mantenersi la fedeltà de’  suoi popoli e conservarsi la loro affezione, il Re diffonda in mezzo a loro lo spavento e il ladroneggio.

Se Francesco II avesse voluto che si levasse nel suo regno la bandiera della insurrezione, non l'avrebbe fatto prima, quando era ancora a Gaeta, donde poteva gettare nelle provincie napoletane i 16,000 uomini di truppe che aveva in quel tempo a sua disposizione? Noi volle fare; e si sa che questo corpo fu disciolto e disarmato sotto gli occhi dello autorità militari francesi, e che gli uomini che Io componevano furono poscia rimandati ai loro foco lari. Si sa ancora che il Re inviò alle guarnigioni di Messina e di Civitella del Tronto l'ordine di capitolare.

Quelli che, più giusti e meno prevenuti deh' autore dell’articolo della Patrie, si limitano a deplorare gli eccessi commessi nel regno delle Due Sicilie, in seguito all’usurpazione piemontese, ricercando quali ne possano essere le muse, questi, io dico, dimenticano la storia del regno e disconoscono il suo stato attuale. Non è noto, infatti, che in questi paesi le bande reazionarie si sono sempre formate dopo le invasioni, tanto al tempo degli Alemanni e degli Aragonesi, che al principio di questo secolo, quando la casa di Borbone si ritirò in Sicilia? Non è noto che sempre questa effervescenza popolare si è calmata nelle restaurazioni della Monarchia, come lo si vide nel 1734 o nel 1815?

Aggiungiamo che se il carattere indipendente del popolo napoletano non avesse da sé solo bastato per eccitarlo alla rivolta, vi sarebbe stato spinto infallibilmente dalle vessazioni e dai rigori che i Piemontesi gli hanno fatto subire, e da tutti quei trattamenti odiosi ai quali il governo tanto calunniato dei Borboni aveali così poco abituati. .

Vi prego, signor Barone, di far uso di questa lettera per ismentiro, nella vostra qualità di agente officiale del Re presso la corte di Vienna, tutte le calunnie e le ingiuste accuse di cui è vittima.

Leopoldo del Re.

* Titolo nostro [NdR – www.eleaml.org ]









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