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LETTERE
AD UN MORTO
DI
CARLO PISANI





TORINO
STAMP. DELLA GAZZETTA DEL POPOLO
Via Sant'Agostino N. 3.

LETTERA VIII.

Prendo commiato da lei, signor Barone, con quest'ultima lettera, perché parmi, colla conclusione di quella di ieri, d'averle detto tutto. — Mi frulla il ticchio di cominciare una litania verso la maggioranza, e chissà che dopo questa, io non le canti tonde, come è mio stile, anche a quei signori onorevoli.

Oggi io mi stacco da lei, con un esame sulla posizione delle provincie meridionali; — il guaio più serio per un Ministro dell'Interno, fu sempre la bète noire delle piaghe del Napolitano.

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Ella, signor Barone, con onesta franchezza, parlando dei mali di quelle provincie (che fortunatamente ora sembra vadano molto scemando), disse che non v'ha medico che li possa sanare; — il solo medico essere il tempo. — La Camera poteva risponderle: «Ve l'accordiamo; siccome però voi non siete, il tempo, favorite di lasciare la cura dell'ammalato, perché voi intanto confessate, di. non essere il medico che possa guarirlo: ne proveremo un altro.»

Ella dirà, che nelle condizioni eccezionali in cui versa il paese,

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con l'aggregazione precipitata (mantengo la parola, se anche mi vogliano scorticar vivo, in omaggio della libertà d'opinioni) di paesi non affatto maturi alla libertà; con la morte dell'architetto che aveva disegnata l'Emancipazione Italiana, apparecchiati i materiali a costruirla, e rapito improvvisamente, quando occorreva trovare la composizione, che avesse cementate solidamente queste parti nuove; non bisogna esser poi tanto severi, verso gli uomini che si sobbarcano all'ardua impresa, e doversi quindi usare un po' di tolleranza, d'indulgenza, e di calma.

D'accordo, signor Barone: e se le cose andassero trattate in due, in quattro, forse forse arriveremmo a metterei un po' all'unissono. Ma chi può disporre delle impazienze febbrili, delle passioni individuali di 22 milioni d'uomini, e pretendere che tutte queste teste, la. pensino come una testa sola? Bisogna subire il mondo com'è. Napoli ci ha consumati una fila d'uomini rispettabili, e forse non ha ancora finito. Santena ne consumerà altrettanti, e forse più, signor Barone. — Bisogna adattarsi.

Napoli fu un frutto acerbo, spiccato dall'albero prima del tempo. — Oh non abbia paura di farsi complice del mio codinismo, coll'ascoltare proposizioni così reazionarie! Me ne piglio tutta la responsabilità sullo stomaco; ma le voglio dire, io, le mie opinioni, signor Barone.


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Napoli ora l'abbiamo, e bisogna che stia coll'Italia, caschi il mondo. — Ma se ci avessimo pensato due volte, più colla testa, che col cuore, io credo che il lasciarci cadere sul naso da per so il pomo maturo, anziché andarlo a strappare innanzi tempo, ci avrebbe risparmiato molto sangue generoso, molta semente di odii sparsa per codesta guerra di briganti, e molte accuse goffe di conquista, quasichè il far libero un paese, sia conquistarlo.

A buon conto né a Milazzo, né a Palermo, né a Capua, né a Gaeta, né a Messina, né a Civitella del Tronto, ci hanno ricevuti a braccia aperte, né ci han gittate in viso delle melarancie. — Bombe e palle di cannone tanto fatte!! Era un modo nuovo di salutare i liberatori!!! Che cosa prova codesto? Che, per Dio, la questione nazionale, almeno dall'esercito napolitano, era poco capita.

Le pare, Barone? Non so se mi spiego. Se invece noi avessimo, prima che a Napoli, intesi i nostri sforzi sopra Venezia, il Bombicello, che col vento che tirava adesso, non poteva rifare un 15 maggio, avrebbe dovuto consumarsi nel suo lardo-, friggere nella Costituzione, e, senza poterla distruggere, veder i suoi popoli educarsi a di lui spese, e man mano che si svegliavano, esser attratti dalla felicità del regno settentrionale, a romper essi i confini, per gittarsi nelle braccia di Vittorio Emanuele.

Quel benedetto uomo di Garibaldi, che ha un cuore


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che non pensa, come d'altronde tutti i cuori generosi, non volle saperne di queste nenie educatrici: impugnò bravamente la sua formidabile spada, e chi si è visto, s'è visto. Ci tirò dentro, volente, nolente, il Governo; e qui cominciaron le dolenti note.

La gente che governava colle massime del moralissimo sistema Borbonico, dovea andarsene naturalmente colle gambe in aria. Gli uomini che importava seco la rivoluzione, han mostrato coi fatti quale scienza amministrativa possedessero.

Per salvare la barca dal naufragio, il Governo accettò la responsabilità dei fatti, e tutelatili del suo manto, in faccia ai cerberi delle Potenze, che minacciavano seriamente di non lasciarci ballare più oltre la polka, mandò, un dietro l'altro a farla da Curzi, i Farini, i Nigra, i San Martino, i Cialdini, ed ora il Lamarmora, che pare abbia trovato il segreto, di mettere un cerotto ben saldo su quelle benedette piaghe, perché da qualche tempo si sente un beato silenzio.

Signor Barone, fa un freddo invernale, e con tutto che il Vesuvio erutti lava bollente, mi dicono che quest'anno a Napoli, faccia più freddo che nelle selve del Nord.

Io credo che il generale Lamarmora, senza torgli la sua gran parte di merito, debba ringraziare questo provvido veglio, che colla sua falce di gelo ha sfrondati gli alberi delle foreste, e costretti i briganti a non far più capolino, fino all'estate ventura.


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Se procederemo innanzi con accorgimento e con attività instancabile; se diffonderemo sode lezioni di libertà; se romperemo in fretta i monti, perché quei di qua dagli Appennini, stendano la mano a quei che sono di là; se getteremo ponti, perché ogni torrente, ogni fiume sia varcato, da quei che stanno alle due sponde, e si conoscano per galantuomini, per fratelli, per figli della stessa famiglia; se lancieremo a migliaia di metri, in fretta e in furia i binarii, su cui corrano i paesi del Nord, a confondersi coi paesi del Sud; se in questo lavoro brioreo interesseremo. tutti coloro che cercano un pane onestamente, e vi costringeremo colla frusta, tutti i vagabondi e gli oziosi; se contemporaneamente al comparir delle foglie, mostreremo una siepe di baionette e di brandi, e avremo gli arsenali forniti a montagne di bombe e cannoni; allora, signor Barone, possiamo attender tranquilli la primavera e la state, e apparecchiarci a far le fiche non solo ai briganti, ma anche all'Austria.

Ma tutto questo lavorìo di gestazione nazionale, se lo si lascia in cura agli ostetrici odierni, me lo perdoni, io tremo che ne venga fuori un aborto.

Il conte Cavour era Ministro degli Esteri, degli Interni, delle Finanze, e della Guerra anche, se occorreva; ma quando l'Italia era chiusa qui, in questa piccola cerchia, dove quindi potea veder tutto prestamente, e provveder a tutto;.... eppoi,... eppoi, era Cavour!


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Ma lei, signor Barone, col grave peso del portafogli il più intricato, quello degli Esteri, tenersi sul collo anche quello degli Interni, ora che il Ministero degli Interni è il Ministero d'Italia, non è solamente atto di fenomenale abnegazione, è atto di un coraggio da Atlanti.

E Dio la conservi nella sua santa custodia.








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