Eleaml


RIVISTA
CONTEMPORANEA

NAZIONALE ITALIANA
VOLUME XLV. — ANNO XIV
TORINO
AUGUSTO FEDERIGO NEGRO Editore
Via Provvidenza, 3
1866

Pag. 236
RASSEGNA POLITICA

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Accade talvolta nella vita dei popoli, che cause latenti e da lungo maturate, sebben forse non avvertite, erompono in effetti repentini e mirabili, e con potente scossa sconvolgono e trasmutano lo stato di prima, e creano, come in un rapido mutar di scena, un nuovo periodo storico.

Di uno di cosiffatti subitanei trapassi siamo stati testimoni sullo scorcio del mese andato. Le condizioni dell'Europa accennavano da qualche tempo a guerra prossima e grossa; i diarii del partito moderato italiano erano bellicosissimi: concentrazioni di truppe in Prussia, in Austria, in Italia. Eppure fino agli ultimi giorni del mese fu vero ocello che nell'ultima nostra rassegna politica, datata il 25, abbiamo asserito, che il popolo italiano era freddo anzi che no, e che i democratici nostri si mostravano in parte restii anzi che no alla guerra contro l'Austria. Sulle cagioni di quell'attitudine di parte della democrazia e del popolo d'Italia, abbiamo detto qualche cosa nella nostra rassegna; e molte altre osservazioni si potrebbero aggiungere. Senonchè le condizioni a un tratto mutarono; l'Italia fu invasa da una febbre guerresca; uscente il mese, tutta la democrazia, tranne una piccolissima frazione dissenziente, gridava a gran voce, come grida tuttavia: guerra, guerra. Importantissimo e stupendo momento storico, che riempie di orgoglio ogni sincero patriota italiano a qualunque partito appartenga; ch'è ammirato anche dai nostri dubbi amici; che mette sgomento nei nemici, e toglie loro la baldanza, la fiducia nelle proprie forze, assicurando anticipatamente la nostra vittoria!

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Così è: come diceva benissimo un giornale democratico: « II popolo italiano, sottoposto per sette anni alle più dure prove, gravato di enormi balzelli, lasciato da un Governo inetto in balia dell'ignoranza, del pregiudizio, della discordia seminata a piene mani dai nostri nemici, ridotto quasi a rimpiangere i sacrifici fatti, ieri ancora pareva affidare disperato le sue sorti al destino. A un tratto sono deposti i rancori, le offese perdonate; e il popolo italiano, che sembrava diviso e morente, concorde si leva, pieno di letizia. , di entusiasmo e di vigore, disposto a nuovi e più grandi sacrifici ».

Come e quando avvenne questo grande e subito tramutamento?... Crediamo di non errare, affermando che data dalla discussione della Camera dei deputati sull'esercizio provvisorio del bilancio e soprattutto dalla votazione della legge sugli straordinarii provvedimenti finanziarii, il 30 aprile: la chiamata dei contingenti e. l'appello ai volontarii compirono l'opera.

Il Ministero aveva chiesto l'esercizio provvisorio sino all'approvazione definitiva del bilancio, e scaltramente; imperocchè, sendo poco probabile che il bilancio del 1866 sia sottoposto a regolare discussione particolareggiata, ne veniva di conseguenza che in tal modo il Ministero si sarebbe assicurato per lungo tempo la gestione della pecunia pubblica. La concessione di cosiffatte larghe facoltà avrebbe corrisposto ad un voto di fiducia, che la Camera ha sempre negato al ministero Lamarmora, il quale vive giorno per giorno, vive della vita di chi doman morrà.

Gli uffici erano stati unanimi nel dichiarare, che il voto sull'esercizio provvisorio doveva essere puramente amministrativo, e che si era escluso qualunque argomento di fiducia o di sfiducia. Il ministro delle finanze aveva asserito dinanzi alla Commissione quello che poi ripetè alla Camera, che il termine di due mesi che si proponeva, era troppo breve; perché in tal modo e' non avrebbe potuto disporre dei fondi bilanciati, che fino ai due dodicesimi, la Corte dei conti (diceva) non gli avrebbe consentito di fare altrimenti. E a guisa di chi va mendicando sua vita a frusto a frusto, ne chiedeva almeno tre. Gli era stato risposto dalla Commissione quello che gli fu in Parlamento: che il sistema dei tre mesi non Io salvava dagl'impacci della Corte dei conti; dai due ai tre dodicesimi poco ci corre. Ma benchè fosse desiderio del Ministero. , di alcuni fra i membri della Commissione e di qualche democratico sbrancato dai suoi,

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che si evitasse ogni discussione politica rispetto all'esercizio provvisorio, vi tenne il campo; e se non fu tanto ampia, massime per parte del Ministero, odiante era desiderabile, bastò a gettar qualche luce sulla situazione ed a cominciare quel movimento che poscia ingigantì per il voto del 30.

In quella discussione il Laporta deplorò il dinamismo artificiale dei partiti nella Camera, il lavorìo di coalizione, la contesa delle ambizioni personali. La successione del Ministero (disse) è aperta; l'inventario è fatto; ma la discordia dei successori li costringe a galvanizzare un cadavere. Accusò il Ministero di frapporre ostacoli alla formazione di una stabile maggioranza: questa dovrebbe essere costituita sulla base dei principii, alla luce della pubblica discussione, sotto la sanzione dell’opinione pubblica. Affermò che l'unico modo di combattere la reazione è il ristabilimento dei grandi principii liberali, l'adito del potere aperto all'elemento veramente rivoluzionario; ma che il Lamarmora ne aveva più paura che della reazione. Biasimò il Ministero che avesse fatto il disarmo; perché, o ignorava la politica che doveva preparare gli avvenimenti e la sua diplomazia lo serviva male, o la conosceva, e allora il disarmo fu inganno; ed enumerò le cagioni per cui dava un voto di sfiducia al Ministero. Certamente il Laporta parlò da boccadoro; ma egli poteva accennare, che il disegno, che ora si svolge in Europa, era chiuso nella mente dell'uomo che ci detta la legge, Napoleone III, e ch'egli non lo aperse o (per meglio dire) non ne aperse una parte ai nostri reggitori. , che quando gli parve bene di farlo.

Il Massarani, moderato, mise il dito sulla piaga stessa che il Laporta aveva toccato, e, in un linguaggio corretto ed elegante come si sente di rado nella Camera italiana, espose la situazione.

Nessuna parte politica (disse) ha nella Camera tanti amici che le bastino nonchè a governare robustamente, ma né tampoco ad afferrare il Governo: si vuole lasciar vivere il Ministero, ma il più stremenzito che si possa. E acconciamente aggiunse, che il paese attende e vuole che i suoi interessi abbiano il passo sulle gare di parte; che l'azione parlamentare riesca più che ad apparecchio di dotte parole, a sostanza di opere. Il paese (disse ripetendo una frase di Guerrazzi) attende e vuole la tregua di Dio fra i suoi rappresentanti; vuole che facciano sull'altare della patria olocausto dei loro dissidii.

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Il Guerrazzi si adoperò a porre il Ministero fra l'uscio e il muro con una serie d'interrogazioni categoriche. Siamo (disse) in guerra o in pace? Si è fatta provvisione di danaro per sostenere la guerra? Si farà tesoro di tutte le forze vive? Si provvederà ad accordare gli animi offesi, a chiamare i cittadini benemeriti e graditi al popolo a tenere ordinato il paese e sicuro? È vero che non si cederà nessuna parte di terra italiana?...

Il Lamarmora, il quale aveva già brevemente risposto al Laporta che lo accusava di porre ostacolo alla formazione di una maggioranza, brevissimamente rispose al Guerrazzi, protestando contro qualunque supposizione di cessione di territorio, e affermando che se fossimo in guerra, il suo posto non sarebbe in Parlamento. Colle quali parole e' fece intravedere un cangiamento di Ministero alle prime ostilità. Ma alle altre richieste di Guerrazzi non risposero verbo né il Presidente del Consiglio, né gli altri ministri, pallidi satelliti intorno all'astro maggiore... Ora chi avrebbe creduto una volta che Lamarmora dovesse un giorno apparire astro maggiore fra minimi satelliti... a un banco ministeriale!

Né alcuno sorse a difendere il Ministero contro le filippiche del Guerzoni e del Bertani, che favellarono sulla necessità della guerra e sulla sfiducia che hanno nei nostri governanti. Base e vertice della politica italiana (disse per bene il Guerzoni) è la guerra all'Austria: e' non respinge le alleanze, purché siano basate sulla omogeneità dei principii, sui veri interessi dei popoli, non sopra ambizioni personali e dinastiche, non sottoscritte a condizioni umilianti. Bertani scagliò a Lamarmora impassibile e silenzioso l'invettiva, ch'egli era il tipo della negazione, dell'odio alla rivoluzione, e gli fece sottosopra le stesse interrogazioni che gli aveva fatto Guerrazzi, ed altre per giunta: p. e. gli chiese se prometteva di non lasciar entrare nel territorio nazionale eserciti soverchianti per numero e sospetti per pretensioni, vale a dire eserciti francesi. E mentre quegli aveva avuto una risposta breve ed evasiva, e a modo soldatesco, Bertani non poté strappare nemmeno una parola al Lamarmora.

Finalmente il De Boni espose il voto stesso che abbiamo noi pure manifestato nella rassegna precedente, ed è che si formi un Ministero di conciliazione, in cui tutti i grandi partiti liberali siano rappresentati.

Rigettati gli ordini del giorno di Bertani, di Cairoli e di altri suoi amici, e quello di De Boni, la Camera approvò con 179 voti contro 100 l'ordine del giorno di Massarani, per l'esercizio provvisorio di tre mesi.

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Ma prima di andare più oltre e dì pattare degli altri voti più importanti della Camera, che furono quelli sugli straordinarii provvedimenti finanziarii, sulla legge dei sospetti, e sull'articolo 5 delle nuove leggi di finanza, vogliamo, per causare equivoci, spiegare il nostro voto di un Ministero di conciliazione, o di coalizione, e fare qualche osservazione sulla crisi ministeriale permanente.

Un Ministero di coalizione ha per sé pochi elementi di vita, è un palliativo di mali, è un rifugio in una situazione falsa. Senonché la disgregazione degli elementi nella Camera (la quale non mai fu cosi manifesta, come nella votazione del famoso articolo 5), le lotte delle ambizioni individuali, la mancanza in tutti i partiti di un programma noto, senza equivoci, esteso a tutta la cosa pubblica ed attuabile, lo scandalo che danno all'Italia e a) mondo i dissidii de’  deputati al nostro Parlamento e il contrasto fra questi dissidii e lo slancio della nazione unita in un grande pensiero, il tristo spettacolo di un Ministero che procede a urti, a scosse, e che non ha altro saldo articolo di fede che la dipendenza della politica italiana dalla napoleonica, ed al quale si misura la vita a guisa d'olio che si rinfonde a poco a poco nella lampana; l'impossibilità di formare un ministero costituzionale tutto di un partito e compatto; tutte queste ragioni rendono necessario uno spediente, imperocchè di più mali sia da preferire il minore.

Si è detto che il barone Ricasoli assumerebbe la presidenza del Ministero allo scoppio della guerra; e noi vorremmo bene, che sotto i di lui auspicii si formasse il Ministero di conciliazione, che desideriamo: ma se quel nome può ispirare qualche fiducia sotto l'aspetto di un ostacolo alla prevalenza francese nelle cose nostre, è da dubitare se riesca a raccogliere con sé gran parte della democrazia, tenuto conto delle aderenze abbastanza conosciute dell'illustre personaggio, e di talune accondiscendenze da lui mostrate, e poco accordantisi colle espressioni della pubblica opinione.

D'altronde il Ricasoli, o quell'altro Presidente del Consiglio, che si potrà trovare più adatto a codesto ufficio di composizione o nella Camera o forse meglio ancora nel Senato, potrà egli accettare una situazione interamente preparata da altri? Essere semplice esecutore di un disegno da altri ordito? Potrà egli cosi alle strette provvedere a quanto non fu fatto da Lamarmora riparare agli errori che questi avesse per avventura commesso?

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Non Io crediamo; questo non converrebbe né alla sua dignità, né al paese. Onde vorremmo che la formazione di un Ministero di conciliazione si facesse prima di cominciar la guerra, senza por tempo in mezzo.

Certamente desideriamo un connubio fra il partito moderato, e qualcuno dei più autorevoli deputati della sinistra: ma il dare a questi uomini della sinistra portafogli d'importanza secondaria ci sembra cosa poco degna e di loro e del partito che hanno finora in qualche modo capitanato; ci sembra improvvida cosa, avvegnachè sarebbe un creare intestini dissidii nel Governo italiano appunto ne' supremi momenti in cui v'ha maggior necessità di concordia. E qualunque sia il giudicio che si porti sulla legge dei sospetti, notiamo che ci fece maraviglia come uomini tanto accorti quanto il Crispi e il Mordini l'abbiano votata prima di avere la certezza ch'essi formerebbero parte del nuovo Ministero, anzi prima di esservi entrati. Doveva forse essere questo il primo atto di un Ministero formato per un connubio di Ricasoli colla sinistra, cioè con quella parte di essa che altri chiama sinistra moderata, non precederlo. E molto più maraviglia ci fece l'impetuosa invettiva di Crispi in una successiva tornata contro le pessime amministrazioni italiane degli ultimi sette anni, amministrazioni di cui formò parte o fu sostegno il Ricasoli. Oh che! il bene auspicato connubio dov'è?... Così presto si sono rotte le uova nel paniere?

Arrogi, che se tutti i partiti liberali saranno partecipi come all'azione nella prossima guerra, così pure in qualche modo anche alla direzione della cosa pubblica, è da sperare che in quei solenni momenti meglio si mantenga la concordia, e il vigore dell'azione stessa ne venga accresciuto, e sia più sicuro il trionfo.

Tornando ora a parlare delle sedute più memorabili della Camera nel mese di cui presentiamo la cronaca, a buon diritto annoveriamo quella del 30 aprile. Nella seduta ordinaria, senza discussione e previe alcune dichiarazioni del Corte, del Farini e di altri, la Camera, accolto ad unanimità l'ordine del giorno proposto da Mordini, in cui affermava essere concorde nel desiderare che in cosiffatti supremi momenti fossero operate tutte le preparazioni guerresche possibili, approvò pure la legge presentata dal Ministero per la spesa di due milioni nei fortilizi! di Cremona. In seduta straordinaria notturna fu conceduta al Ministero la facoltà di provvedere con mezzi straordinarii alle finanze per la difesa del paese;

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però mutando la formola proposta, in quanto questa facoltà, chiesta senza limite di tempo, fu limitata a tatto luglio, e fu aggiunto che non si dovesse alterare l'assetto delle imposte. La Camera volle dunque evitare ogni apparenza di un voto di piena fiducia, e nello stesso tempo lasciare al Ministero la scelta di fare un prestito volontario o un prestito forzoso, ovvero di decretare un mutuo della Banca Nazionale al tesoro dello Stato, sciogliendola dall'obbligo di pagare in danaro contante e a vista i biglietti. Il Ministero scelse quest'ultimo partito, e chiese alla Banca un mutuo di ducentocinquanta milioni. Nel bollore dell'entusiasmo per la lotta contro Io straniero, che si sperava e sembrava imminente, nella fretta di provvedere ai preparativi guerreschi, la Camera si astenne da un dibattimento sul modo da presciegliere per cotali gravissime e necessarissime spese.

Quello che fu scelto dal Ministero è il più spiccio, ma è pure molto pericoloso, massime se cosiffatte emissioni di carta-moneta dovessero rinnovarsi. Noi crediamo che quando la guerra fosse sicura, anzi già cominciata, e reggesse le sorti d'Italia un Ministero sicuro della fiducia della Camera e della Nazione, riuscirebbe ottimamente un grande prestito nazionale volontario; chè nelle condizioni attuali del nostro credito non c'è nemmeno da pensare ad un prestito all'estero. E converrà forse ricorrere anche ad un prestito forzoso, per Io ripartimento del quale sarebbe da studiare e imitare il sistema in simile caso tenuto a Venezia nel 1848-49, sistema, la cui attuazione forma una delle più belle pagine, e non abbastanza conosciuta, di quella gloriosa difesa.

Gl'inconvenienti inevitabili nel corso forzoso dei biglietti di banca, massime in un paese nuovo a cosiffatti supremi spedienti ed in cui una parte degli abbienti è avversa all'ordine attuale di cose, furono aggravati da due circostanze. Tutti i grandi servizi dello Stato e le grandi società industriali adottarono il sistema di non accettare i biglietti di banca se non a patto di riceverli come parte di un pagamento che superasse il loro valore. Anche a costo di una piccola perdita eventuale, il Governo avrebbe dovuto sostenere la fiducia pubblica nel segno di valore di cui imponeva il corso, e ordinare a quelle società che facessero altrettanto. Inoltre il numero dei biglietti di 20 franchi in corso era minimo; mancavano affatto biglietti di minor valore, onde l'agio dell'argento contante e più quello dell'oro salirono tino all'otto, al nove per cento,

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con grave sconcio del commercio e nocumento dei privati, massime della classe meno agiata. Solamente un mese dopo si cominciò a mettere in giro biglietti di dieci franchi. Onde il ministro delle finanze s'ebbe la taccia, se non di colpevole connivenza con ingordi speculatori, almeno d'inesperienza e di poca previdenza per così lungo indugio. È vero che i popoli si redimono per via di sacrifici di ogni maniera; ma quelli che il popolo italiano sostiene, sono e saranno abbastanza gravi; e la sapienza di chi lo governa dee provvedere che la somma non ne sia fuor di necessità accresciuta.

Quella unanimità, che si trovò nella Camera per accordare al Ministero straordinarie facoltà per le finanze, mancò quando gli furono concessi altri straordinarii poteri per provvedere alla sicurezza pubblica. E non di questo è da far maraviglia, ma piuttosto del piccolo numero degli oppositori, massime chi ponga mente ai precedenti di molti fra coloro che approvarono quella legge. Notiamo innanzi a tutto che il Ministero chiedeva a dirittura pieni poteri... Stranissima cosa che un Ministero vacillante, non sicuro del domani, che non ha la fiducia di alcun partito, chiedesse. , in uno Stato che fu ben nominato di pace incerto, ma non ancora di guerra, quello che solamente alla vigilia della guerra fu accordato a Cavour, all'uomo che in sé accoglieva la fiducia della grandissima maggioranza della nazione e de’  suoi rappresentanti. E' doveva aspettarsi che la Commissione per questo eletta, al solito, sostituisse un altro disegno di legge a quello che le era presentato. E così avvenne infatti. Il progetto della Commissione, benché meno ampio di quello del Ministero, stabiliva restrizioni alla libertà di stampa e alla libertà personale.

Si noti che i motivi che precedono il progetto di legge del Ministero e alcune parole del ministro degli interni alla Camera svelarono che il vero scopo del Governo non era tanto di frenare, per via di quelle straordinarie facoltà, la reazione, massime nelle provincie meridionali, quanto di opporsi ad atti inconsulti di liberali, di reprimere o prevenire moti incomposti, cui potrebbe dar luogo lo stesso entusiasmo per la patria; insomma d'impedire le anormalità prodotte da quel sacro entusiasmo. Poniamo caso che in qualche popolare adunanza si volesse proclamare che le armi italiane non debbono posare prima che l'Italia non abbia acquistato i suoi naturali confini,


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condannando ogni sosta, fosse pare all'Isonzo; che si dee stigmatizzare come traditore della patria chiunque chiami in Italia, anche come amico, Io straniero; che la guerra si dee affrettare e por fine agl'indugi che c'impone la diplomazia. Il Chiaves, uomo di quell'autorità e sapienza politica che tutti sanno, armato di quella legge, avrebbe mandato a vedere il sole a scacchi chi con tali eccessi di sacro entusiasmo avesse turbato l'azione governativa. E guai se i volontarii stanchi d'indugi avessero accennato di voler precipitare la inevitabile soluzione, la guerra!

C'è tra l'altro una differenza essenziale fra il progetto del Governo e quello della Commissione, che fu adottato dalla Camera. Il Governo parlava chiaro: l'arma ch'egli voleva brandire, si potea torcere contro le esagerazioni dei partiti liberali. In sostanza questa facoltà c'è anche nel progetto della Commissione, ma prudentemente si cela in certa frase dell'articolo terzo.

Nelle discussioni su quella legge che l'opinione pubblica ha già battezzato col nome di legge dei sospetti, il Chiaves, come abbiamo accennato, chiarì le vere intenzioni del Governo. Ara dichiarò che non aveva fiducia nel Gabinetto attuale, e probabilmente non l'avrebbe nel gabinetto ch'è in travaglio di parto, lungo travaglio; ma che tanto è il suo amore per l'Italia e per la concordia, che ora e sempre accorderebbe a chiunque sedesse al banco azzurro tutte le facoltà che chiedesse. Asproni citò gli esempii di Roma e di Venezia nel 1848: deliberavano le assemblee intanto che i cittadini combatteano contro lo straniero: egli è avverso ai pieni poteri e non li accorderà mai.

Avrebbe potuto aggiungere l'esempio dell'America del Nord in tempi recenti; e ricordare che ai pieni poteri in Italia sono associati' la sventura nazionale di Novara, la sosta al Mincio e Villafranca, la cessione di Nizza e della Savoja. Crispi disse calde parole sulla necessitò della guerra, ma crediamo che abbia errato Dell'asserire che non si è ancora fatta una guerra in cui l'Italia siasi misurata sola collo straniero. E siamo proprio certi che questa guerra la faremo soli, non dipendenti da un altro straniero? E Venezia, nel 1 849, sola davvero, non ha sostenuto per più mesi lo sforzo dell'Austria?

Lovito notò acconciamente che la legge proposta dalla Commissione è più severa dalla legge Pica tanto imprecata, notando che vi manca la guarenzia di una Commissione provinciale che ne applichi le disposizioni draconiane.

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E dicea tanto vero, che poscia il Chiaves, vinto il partito, rinunciò all'arbitrio che poteva far esercitare dai Prefetti e ordinò che appunto fossero create tali Commissioni.

Il Lovito notò che la legge implicava il voto di fiducia, ch'egli non volea dare al Ministero. Anche Laporta biasimò l'illimitato arbitrio che la legge accorderebbe al Ministero, e chiese che la Commissione dimostrasse la necessità di provvedimenti tanta severi: egli accetterebbe l'articolo 1° sugli abusi della stampa relativi ai movimenti militari, non gli altri. Citò alcune parole pronunciate dal Crispi nella passata legislatura contro ogni concessione di pieni poteri, quando diceva che non in cosiffatte straordinarie facoltà, ma nell'indirizzi interno del Ministero stava la garanzia del buon esito dell'impresa nazionale: finì col provocare un voto di sfiducia al Ministero.

Il ministro della giustizia De Falco, in un discorso scolorito e che non merita di essere analizzato, chiese le facoltà proposte dalla Commissione. Crispi si dolse di dover esser relatore di una legge eccezionale: si protestò tuttavia avverso ai pieni poteri e amicissimo della libertà. Si apparecchiano (disse) in Italia delle insurrezioni per opera dei nostri nemici: meglio prevenirle che reprimerle nel sangue. Civinini dichiarò che non si stupiva per nulla di veder il Ministero chiedere facoltà straordinarie, ma bensì di vedere lo Ara pronto a concederle; e più si stupiva, anzi si sbigottiva di vedere anche il Crispi. «Una gran tempesta (disse) ci travolge tutti; io dubito dell'avvenire della libertà in Italia». Se in tempo di pace incerta si chiedono poteri tanto larghi, che si farà in tempo di guerra combattuta? La severità contro la stampa reazionaria è superflua: i nemici d'Italia si serviranno di artifizii tenebrosi che sfuggono alla vigilanza del Governo. Per la stampa liberale basta un consiglio, un appello in nome della patria. È iniquo sottrarre i delitti di stampa ai giudici naturali, che sono i giurati. L'articolo 3° riproduce sostanzialmente la legge Pica, per cui egregi cittadini furono incarcerati e mandati a confino insieme coi ladri e coi camorristi. Le leggi vigenti bastano a provvedere alla sicurezza dello Stato: coi provvedimenti proposti s'insegna al paese a disprezzare le istituzioni. L'ordine del giorno in cui il Civinini avea formolato il suo pensiero, fu rigettato dalla Camera.

Fra le cose dette contro la legge, nella discussione degli articoli, fu notevole specialmente quanto asserì il Corte,

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che il modo migliore per indurre in errore il nemico sui movimenti di un esercito è il lasciare che tutti i giornali ne parlino: queste notizie false e contraddittorie lo indurranno in errore.

Il più valente campione della legge dei sospetti fu il Boggio. Parlò della necessità d'infrenare., di circoscrivere, di temperare la libertà in occasioni straordinarie: questi freni, queste circoscrizioni, questi temperamenti sono, secondo il Boggio, la miglior prova di un amore sincero per la libertà. Annunciò che quando tuoni il cannone, il Parlamento dovrà investire il Governo di molto più larghe facoltà.

Il Guerzoni disse che si contentava in tempi eccezionali di veder frenata la libertà di stampa, ma che non la voleva annientata. E Crispi opinò che l'articolo primo della nuova legge giova anzi che no ai giornali italiani poco amici della causa nazionale, perché, vietando loro di pubblicare certe notizie, li salva dall'ira popolare, cui forse si esporrebbero pubblicandole. Anche l'Assemblea costituente e la Convenzione in Francia votarono severissime leggi eccezionali.

Approvato il primo articolo che vieta la pubblicazione di notizie militari fuor di quelle già ufficialmente comunicate o pubblicate dal Governo, e il secondo che determina le pene di questo reato e le persone cui si possono applicare, si discusse l'articolo terzo relativo alle persone da condannare al domicilio coatto per un anno. Venne fatto al Mancini, d'accordo in questo col Bertani e coll'Allievi, di far sostituire a qualche espressione del progetto di legge qualche altra che temperasse alquanto l'arbitrio del Governo. Anche il Mancini credette necessario di fare ampie dichiarazioni del suo tenero amore per la libertà, al pari degli altri oratori che propugnarono questa legge.

Ricciardi citò esempi di una iniqua applicazione della legge Pica, e ne preconizzò di simili anche per questa nuova legge, massime ne' paesi in cui la repressione del brigantaggio ha seminato odii inestinguibili, e in mano di cattivi Prefetti. E consigliò la Camera di non fare leggi odiose in un momento, in cui abbiamo bisogno di unire gli animi tutti in un solo volere.

Provvedimenti eccezionali, disse d'Ondes Reggio, si reputano necessarii alla salute dello Stato. «È con queste parole che si sono sempre commessi nel mondo fatti scellerati ed orrendi»; e ne citò di molti esempi. La libertà de’  cittadini sarà (disse) ludibrio della più vile genìa, le spie delle autorità.

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Allora lo spirito di parte si rianima, le passioni si scatenano, gli antichi odii si rinfocolano, si sperano le vendette; onde coloro che la medesima fossa serra, si fanno a vicenda accusatori e giudici; e sovente fra i perseguitati sono più gl'innocenti che i rei. Coteste leggi di arbitrio e di sospetti o sono inutili, o sono dannose allo Stato. Si riporti una splendida vittoria, e allora i nemici interni del Regno d'Italia spariranno.

Con linguaggio serio-faceto Guerrazzi enumerò le ragioni per cui aveva, come membro della Commissione, aderito al progetto di legge, per far piacere a Lamarmora e non mandarlo scontento al campo, per frenare i reazionarii e per impedire stragi nelle provincie meridionali. E' non vuole che gli sia trucidata in grembo la libertà in nome della libertà.

Uno dei più gagliardi sostenitori della legge, il Camerini, confessò il pericolo di gravi abusi nella sua applicazione, e disse: «Sappia il Governo che a suo tempo gli chiederemo severo conto degli errori che avesse commesso di proposito deliberato; e conto egli dee chiedere agli agenti suoi responsabili, a coloro che ha scelto per eseguire la legge».

Finalmente dopo lunga e laboriosa discussione fu approvato il famoso articolo terzo, per cui si ponno, ad arbitrio del Governo, mandare a un anno di domicilio coatto, oltre gli oziosi, ecc., anche coloro per cui vi sia fondato motivo di giudicare che si adoperino per restituire l'antico ordine di cose, o per nuocere in qualunque modo all'unità d'Italia e alle sue libere instituzioni... Parole molto elastiche!. . I 44 voti contrarii, piccolissima minoranza in confronto dei 234 favorevoli, furono dati da una frazione della sinistra, dai clericali e da alcuni moderati delle antiche provincie.

Abbiamo esposto alquanto estesamente la discussione sopra questa legge, perché è di gravissima importanza e perché dette occasione alla sinistra di scindersi in due frazioni, in una delle quali sono compresi tutti quelli che hanno qualche probabilità di diventar ministri, e nell'altra altri deputati influenti, ma che non hanno, almeno per ora, speranza di sedere al banco ministeriale... Ed è curioso l'osservare come alcuni giornali, che avversarono un giorno fieramente la legge Pica, ora (per così dire) si scusano di aver sostenuto questa nuova legge, ch'è sottosopra di quella risma. P. e., secondo il Diritto, essa fu voluta dal popolo italiano, il quale,

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avvezzato dal malgoverno a non muovere un passo senza credersi assalito da fantasmi, a cercare una tutela, ad affidarsi al più forte, ha paura della libertà. Il paese (disse) batterà le mani... — E infatti così fu. Solamente alcuni democratici puritani riprovarono la legge de’  sospetti, dichiarando che non è necessaria, perché quando il popolo ha fiducia nel Governo, con esso pensa e opera e veglia a che l'opera comune non sia turbata. E l'Associazione operaia democratica di Milano deliberava, che «l'arbitrio e il capriccio personale presi a governo della cosa pubblica, innestando negli animi diffidenza e odio, distruggono ogni unità di proposito, e preparano inevitabilmente debolezza e sconfitta; che la legge dei sospetti prova insieme lo spirito liberticida e l'assoluta mancanza dei principii più elementari della giurisprudenza in coloro che l'hanno redatta; e che i membri della sinistra che l'hanno votata sono immeritevoli del nome di democratici. Questa protesta non trovò eco in mezzo al plauso dei paurosi e dei tepidi amici della libertà, e nell'entusiasmo del popolo per la guerra creduta certa, imminente, il quale fa posporre ogni altra cura, ogni altro pensiero a quello della redenzione delle provincie soggette all'Austria, della guerra a oltranza per questo scopo.

Ma quando si farà questa guerra, divenuta ora più che mai necessaria, inevitabile per l'Italia? E con quali alleati saremo noi? E il probabile nostro alleato, la Prussia, in quali condizioni si trova? E chi avrà l'Austria alleata a sè, e chi contro, nella lotta?

Riprendiamo innanzi a tutto la esposizione della fase diplomatica della questione italo-germanica che abbiamo, nella nostra ultima rassegna, interrotta al 25 aprile.

I Gabinetti continuarono a palleggiarsi fino a sazietà l'accusa di avere con un'attitudine bellicosa provocati gli armamenti dell’avversario. «L'imperatore (diceva una nota austriaca del 26 aprile alla Prussia) è pronto a ordinare, che le truppe dirette verso la Boemia per inforzarvi le guarnigioni, sieno ritirate e rientrino nell'interno dell'Impero, mettendo così fine ad ogni apparenza di un concentramento contro la Prussia. Ma l'Italia si apparecchia ad attaccar la Venezia; perciò l'Austria è costretta a mettere il suo esercito d'Italia sul piede di guerra». Bismark, il 30, rimbeccava che le disposizioni militari prese dall'Austria nella Venezia non poteano tornare indifferenti alla Prussia; che «questa aveva il più grande interesse che l'esercito italiano

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non fosse esposto agli attacchi dell'Austria, poiché quell'esercito tiene ora il suo posto nell'insieme delle forze militari dell'Europa, è necessario all'equilibrio di queste forze, e avrebbe una parte importante nelle complicazioni che potrebbero sorgere». Queste dichiarazioni del Ministro prussiano accertavano un accordo fra l'Italia e la Prussia, sia che esistesse fin d'allora un formale trattato, ovvero sia stato più tardi concluso.

Il generale Lamarmora inviava ai rappresentanti italiani presso le varie Corti, in data 27 aprile, una circolare. «In questi ultimi tempi (diceva) il Governo del Re e il Parlamento si occupavano soprattutto del riordinamento dell'amministrazione interna, delle riforme e delle economie da introdursi nelle finanze. Nessune concentrazioni di truppe: nessun incominciamento o preparazione d'imprese contro i territori limitrofi per parte di privati. D'improvviso l'Italia si vide fatta segno a minaccie dirette dell'Austria, la quale moltiplicò i suoi apprestamenti militari e prese un'attitudine ostile contro di essa. Ora la sicurezza del regno richiede che le nostre forze di terra e di mare siano senza ritardo aumentate».

Alla fin fine l'Austria pensò di finir la commedia, ed era tempo, in un'ultima nota alla Prussia, in data 4 maggio, dichiarava esaurite le trattative per un contemporaneo ritiro delle disposizioni militari della Prussia contro l'Austria, e dell'Austria contro la Prussia. Questa non aveva da temere da essa alcuna offesa; assicurò pure che non intendeva di assalire l'Italia... Datata lo stesso giorno è una circolare prussiana, in cui si ripeteva che la Prussia era disposta a seguir l'Austria nel disarmo, ma gli apparecchi guerreschi austriaci in altri punti non le permettevano di farlo: gli apparecchi dell'Italia essere provocati dall'attitudine minacciosa dell'Austria.

Intanto tutta Germania si armava, incerta ancora dove e contro di chi dovessero rivolgersi quelle armi. Più di tutti gli altri Stati affrettava gli armamenti la Sassonia, perché è minacciata direttamente dalla Prussia, il cui esercito potrebbe attraverso alla Sassonia difilarsi alla Boemia per la valle dell'Elba, e perché vivono tuttavia le vecchie ruggini per i trattati del 1815, onde la Prussia crebbe di tanto per le spoglie sassoni. Bismark intimò duramente alla Sassonia di disarmare; ma questa rispose che non aveva promesso di tenere una neutralità assoluta; non essere stata garantita che il suo territorio sarebbe rispettato; essa, ch'era lo Stato più esposto, doversi tener pronta a disposizione della Dieta; i suoi apparecchi essere solamente preventivi, non minacciosi per alcuno.

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Mentre tutta Europa aspettava che Bismark cogliesse questo pretesto per cominciare le ostilità, continuò invece la incruenta guerra delle note, e in data 9 maggio presentò una dichiarazione alla Dieta, in cui affermava che i preparativi dell'Austria e della Sassonia erano evidentemente in correlazione; se si credeano minacciate, dovevano rivolgersi alla Dieta, non porsi in caso di farsi giustizia da sè: chiedeva che la Dieta le inducesse a sospendere gli armamenti. Indi crescevano le ire, e il rappresentante della Sassonia alla Dieta proponeva che fosse intimato alla Prussia di disarmare, e la s'invitasse a rassicurare la Dieta con una spiegazione in base all'articolo 11, per cui i confederati debbono alla Dieta medesima rimettere la decisione dei loro litigi; intanto fosse autorizzata la Sassonia a continuare gli armamenti. Bismark replicava, al solito, che gli armamenti prussiani erano difensivi, e si appellava al futuro Parlamento tedesco.

Le spavalderie della Sassonia governata da un ministro ambizioso e irrequieto, il barone di Beust, e l'attitudine ferma e risoluta della Dieta avevano fatto sperare all'Austria di aver seco nella lotta imminente gli Stati secondarii della Germania, tanto più che tutti sono direttamente o indirettamente minacciati dalle tragrandi ambizioni prussiane. L'Austria credeva che questo accordo definitivo si stabilisse nelle conferenze che i rappresentanti degli Stati medii tennero a Bamberga, e che quindi la Dieta, decidendo il disarmo simultaneo delle due grandi potenze tedesche, e, in caso di rifiuto della Prussia, l'esecuzione federale contro di essa, riserbasse alla sua esclusiva competenza la soluzione della questione dei Ducati. Senonché più miti consigli prevalsero alla corte di Sassonia, massime per le proteste delle adunanze popolari contro la guerra civile; e le velleità dispotiche e bellicose della Dieta vennero meno: altra ragione di dilazione per un conflitto. La Dieta decise d'indirizzare ai Governi tedeschi, che hanno fatto gli armamenti, la domanda se e sotto quali condizioni sarebbero disposti a ordinare simultaneamente il ristabilimento delle loro forze militari sul piede di pace. Nel caso molto probabile che questi tentativi di conciliazione falliscano, è da credere che essa voterà la mobilizzazione dei contingenti federali, affinché gli Stati secondarii possano difendere le loro neutralità. Non è dunque probabile che quell'assemblea, già logora e screditata, osi adottare un partito così audace come la guerra contro la Prussia;


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e nemmeno che la Confederazione agisca come una sola potenza in pro o contro delle parti contendenti. Il fascio male unito si scomporrà nel momento supremo: vedremo qualcuno degli Stati minori o piccoli per forza trascinato nell'orbita della Prussia, prender parte alla guerra in favore di questa; altri seguire l'Austria sui campi di battaglia; altri finalmente o spontanei o forzati tenersi neutrali. Per esempio nella Germania settentrionale l'Annover avrebbe forse talento di azzuffarsi colla Prussia, ma la sua debolezza lo costringerà all'inazione; e nella meridionale il Baden, che forse starebbe contro l'Austria, cinto di Stati avversi alla Prussia, dovrà contentarsi di essere spettatore della lotta.

Lo Stato medio germanico che l'Austria più desidera di aver seco, è la Baviera, sua alleata secolare, la quale però non ebbe mai a lodarsi della sua gratitudine e fu sempre da lei abbandonata nei momenti più difficili. La Baviera, nel caso che l'Austria si sfasci, spera di annettersi il Tirolo e altri frammenti dell'impero, e di contrapporsi alla Prussia, come grande potenza tedesca meridionale. Siccome nel caso di una conflagrazione generale, in cui prendesse parte alla lotta anche la Francia, la Baviera sarebbe minacciata di perdere il palatinato del Reno, è tuttavia indecisa sul partito da scegliere; provocò l'azione comune degli Stati medii, e probabilmente sino ad una nuova fase della questione terrà una neutralità armata.

Dopo di avere accennato l'attitudine della Dieta e degli Stati secondarii della Germania, diciamo qualche cosa anche dell'attitudine del popolo tedesco. Essa è tal quale era nel mese passato; anzi le ire contro la Prussia e il suo audacissimo ministro si sono inciprignite. Il fiero dispregiatore dell'opinione pubblica, l'avversario implacabile della democrazia e di ogni specie di freno all'autorità governativa, l'uomo che dichiarò in Parlamento che non per via di discorsi parlamentari e di voti di maggioranza, ma bensì di sangue e di ferro si risolvono le grandi questioni dei tempi, il Bismark ha sentito il bisogno di aver seco l'opinione, l'appoggio dei rappresentanti del paese. Dopo avere proposto la convocazione del Parlamento germanico, ha convocato le Camere prussiane. Certo egli è uomo straordinario, è uomo fermo, imperterrito e scaltro, ed ha per le mani una grande impresa, l'unità germanica, chè alla fin fine a questo scopo egli mira.

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Ma in ciò particolarmente è diverso dal Cavour, che questi, d'istinti aristocratici, sebbene meno arroganti di quelli di Bismark, e legato fino a un certo segno coi reazionarii, sentì il bisogno di rinnovellarsi, almeno nelle apparenze, prima di por mano alla grande impresa nazionale, e mostrò di tener gran conto dell'opinione pubblica, ch'egli riuscì ad accaparrarsi, e delle assemblee rappresentative, ch'egli sapeva dominare e far suo strumento. Tutto il contrario del Bismark!. . Ora s'egli riesce a conciliarsi l'opinione e la rappresentanza del suo paese, in questi momenti supremi, sarà un prodigio di abilità e più ancora di fortuna. Ma se non gli vien fatto, oserà di far una guerra, da cui la Prussia può uscire vincitrice e grande ed egemone in Germania, ma può anche uscire disfatta e smembrata, e soggetta ad altra egemonia?... È molto da dubitare.

La Società nazionale tedesca dichiarò il 14 maggio che una politica di gabinetto arbitraria minaccia di dominare la volontà del popolo; che i motivi e gli scopi della guerra sono involti nelle tenebre; che la responsabilità della violazione della pace cadrà come una maledizione sul capo dei suoi autori; che la Prussia non ha la fiducia del popolo tedesco finché lo statuto è una lettera morta; si convochi al più presto il Parlamento germanico sulle basi del 1848-49. E una grande adunanza popolare a Berlino adottò per conclusione, che i deputati avranno a sostenere il diritto costituzionale, e a non fare alcuna concessione al Governo, prima che non sia risoluto il conflitto interno: così sottosopra altre radunanze popolari. E il congresso dei Deputati tedeschi a Francoforte decise che ogni guerra civile in Germania per ambizioni dinastiche, ogni negoziato per una riforma federale in un congresso europeo, è un alto tradimento dinanzi alla nazione tedesca; condannò il progetto prussiano di annessione violenta dei ducati; affermò che se il Governo prussiano volesse far trionfare la sua volontà in luogo del diritto, è dovere della nazione e del popolo prussiano stesso l'opporre resistenza; che i Governi avversi al prussiano debbano ricevere tutto l'appoggio possibile; che se lo straniero volesse approfittare di questa controversia per acquistare la più piccola particella di territorio tedesco, la nazione debbe alzarsi tutta a difender la patria; che si deve formare un'alleanza offensiva e difensiva dei medii Stati. Se la Prussia è vittoriosa, disse il relatore di queste proposizioni, sarà questo il trionfo dei retrivi e del dispotismo militare.

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Si noti che la società nazionale e il congresso dei deputati rappresentano il partito unitario monarchico che vorrebbe far la Germania per iniziativa e direzione della Prussia liberale: c'è pure un altro partito organizzato e potente, ch'è il democratico-federativo. Se quello è tanto esacerbato, or si pensi che sarà questo!... E infatti nell'assemblea tenuta a Francoforte decise, fra le altre cose, che la Germania deve resistere colle armi al Governo prussiano; che la neutralità (consigliata dai monarchici-unitarii) sarebbe viltà e tradimento; che il Parlamento proposto dalla Prussia si debbe rigettare senza condizioni.

Certamente è deplorabile che i liberali tedeschi abbiano in una lotta ad aiutare indirettamente l'Austria e specialmente le caldezze dei democratici ci fanno stupore e dolore insieme.

Il più saggio consiglio per i liberali tedeschi, sarebbe di raccogliersi intorno alla Prussia, ben s'intende con alcune condizioni ben determinate ]e con alcune garanzie. Ufficio di Bismark è di offerire al popolo prussiano, a tutta la nazione tedesca, quelle condizioni, quelle garanzie: bisogna soprattutto che egli rassicuri la Germania, che teme un assorbimento, una prusstficazione, un concentramento cui ripugna. Altrimenti le 500, 000 baionette prussiane non gli assicurano la vittoria. E se non riesce a riconciliarsi almeno il partito unitario, crediamo poco probabile (lo ripetiamo) che la Prussia faccia la guerra.

Come noi non crediamo che la Prussia cominci la guerra senza aver prima fatto una sorta di riconciliazione e di patti coi liberali tedeschi, così crediamo che l'Austria non oserà di principiare le ostilità prima di avere stabilito qualche transazione coll'Ungheria, prima di avere sciolto con soddisfazione degli Ungheresi la spinosissima questione degli oggetti comuni alle due parti dell'Impero, al di qua e al di là della Leitha. Oggetti comuni, secondo la Gazzella universale d'Augusta, dovrebbero essere la Corte, l'esercito, il debito pubblico, il bilancio dei ministeri dell'Impero, la gestione dei monopolii dello Stato, la commisurazione e il modo di riscossione delle imposte indirette, le monete, le cedole di banco, i dazii, i telegrafi, e i mezzi più importanti di comunicazione stradale. Intorno a questi oggetti avrebbe a deliberare una Camera sedente a Vienna, e composta metà di membri eletti dalla Dieta ungarica e metà di membri eletti dalle altre Diete dell'Impero. Due cancellieri aulici, uno per l'Ungheria coi regni annessi e uno per gli altri territorii dell'Impero, sederebbero nel consiglio dei ministri.

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L'Ungheria sarebbe autonoma nelle altre parti dell'amministrazione, affari interni, colto, giustizia, istruzione pubblica, strade, ecc., e avrebbe per questi un particolare ministero presieduto dal tavernico... Siamo molto lontani dalle leggi del 1848!... Si contenterà l'Ungheria di quelle concessioni? E tante volte ingannata dalla casa d'Austria, si lascerà ingannare un'altra volta?... E non sonerà anche sul Danubio e sulla Tissa il datale: È troppo tardi?

Ma quando pure l'Austria riuscisse a conciliarsi un'altra volta i Magiari, fallirà certo nella questione ancor più spinosa di stabilire un definitivo accordo fra le altre razze dell'Ungheria e degli altri territorii dell'antica corona di Santo Stefano. Certamente i Croati-Serbi sono irreconciliabili coll'Austria: uomini semplici e rozzi, ma tenacissimi, non le hanno mai perdonato i suoi inganni dopo i sacrifici che hanno fatto per essa nel 1848-49, e il suo perfidiare nel mantenere nei confini militari un organamento ed una giurisdizione eccezionale. Ivi appunto chi scrive queste pagine udì ne) 1862 cantare da una sentinella sulle sponde solitarie della Sava una canzone, di cui ecco una strofa: «II sangue serbo è molte volte corso per il trono imperiale; ma la parola imperiale data al Serbo è stata sempre menzogna (1)...

La sola potenza dunque che sia veramente pronta alla guerra, che possa farla oggi, è l'Italia. Ed è la sola che abbia un programma chiaro, noto, conforme ai principii più sacri del diritto dei popoli. L'Italia vuole i suoi naturali confmi al Nord-Est: la cerchia dell'Alpi fin dove il Quarnaro ne bagna i termini estremi, né più, né meno. Chi invece conosce i reconditi fini di Bismark e del suo re? Chi quelli di Napoleone, che alla fin fine ha il mestolo in mano, è il primo motore di tutto questo commovimento?... Arrogi che a noi più che ad altri nuoce l'indugio... E noi anche soli potremmo fare la guerra, chè l'irresistibile impeto del nostro popolo, coadiuvato dalle insurrezioni dei popoli soggetti al giogo dell'Austria, basterebbe a sgominarne tutte le forze, a sfasciarla. Ma il Governo italiano non ha fede nelle nostre sole forze, o piuttosto non vuole adoperare le più preziose fra queste, le armi popolari, o meno che è possibile, pieno di stolte diffidenze e di più stolte paure. Indi le dilazioni a formare il corpo dei volontari e la sospensione degli arruolamenti e l'organamento

(1)Kro e srbska za tron swasbfky-mlogo putì teda A reec' zarska Srbu danaSwagdase porecla.

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dei battaglioni decretati finora, non in tutto conforme ai desiderii dei democratici.

È evidente che il Governo teme che un corpo di volontarii bene organizzato possa prendere quella iniziativa che porrebbe fine a tanti indugi, tagliando il nodo gordiano. È noto che l'Italia attaccherebbe l'Austria nel caso che questa attaccasse la Prussia, e questa farebbe altrettanto nel caso che noi fossimo assaliti. Questi sono i patti finora conclusi colla Prussia, non altri. Un'insurrezione nelle provincie nord-orientali d'Italia potrebbe accelerare gli eventi... Ma i Veneti non sorgono; aspettano a braccia aperte i liberatori, colpa non di quel popolo generoso, ma dei capi.

Queste lentezze dell'Austria, della Prussia e dell'Italia rendono credibile una sosta più o meno lunga per un Congresso, come vien proposto dalle tre Potenze mediatrici. Nessuno crede però che la guerra si possa evitare. Imperocchè se anche l'Austria cedesse il Veneto fino all'Isonzo, per compensi territoriali in Germania o altrove, non è da credere che in mezzo a tanto moto, a tanto entusiasmo, un drappello di audaci non si gettasse nel Trentino e nell'Istria, accendendo quella guerra che ora tanto si teme o si spera.

La qual cessione delle provincie venete potrebbe anche essere un tranello dell'Austria: le darebbe agio di gettarsi con forze intere contro la Prussia, salvo poi forse a tornare vittoriosa in Italia per tentar di ritorci quello che la paura le avrebbe strappato.

Sull'attitudine della Francia e dell'uomo che la domina e la rappresenta, molto ci sarebbe a dire. Ma il più importante, le vere intenzioni di Napoleone, è ignoto. Gl'improperii di Thiers, che altro nome non meritano le triste parole di quel retrivo famoso contro l'Italia, e di Pelletan e di altri uomini dei vecchi partiti, impotenti, ora che sono disfatti come furono quando tenevano il campo, nelle grandi questioni europee, i pessimi servigi che hanno reso quei finanzieri col far cadere così basso la nostra rendita, le tergiversazioni e la inesplicabile condotta di una parte dei democratici francesi, non sono certo grandi ostacoli sulla nostra via, né ci tolgono forze e coraggio... Un popolo che vuoi essere grande, di cosiffatti impedimenti non si cura per nulla. Quello ch'è più grave si è l'ignoranza in cui siamo sui veri intendimenti di Napoleone: chi sa ove e fin dove vuoi andare, ove e fin dove vuoi condurci?

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La Francia si terrà davvero neutrale nella lotta?... — Ed è tristo per noi che dobbiamo contrapporre a così scaltri e profondi politici come Napoleone e Bismark, il generale Lamarmora! Onde urgentissima è la formazione di un nuovo Ministero.

Delle leggi finanziarie in questo mese votate dal nostro Parlamento, meglio tacere che dirne poco; e a dirne molto ci manca lo spazio. Un altro mese ne daremo una sommaria rassegna. Notiamo solamente che se la ritenuta sulla rendita fosse approvata anche dal Senato, avremmo un nuovo impedimento a fare un prestito all'estero e necessità di trovare tutti in Italia, e certo non mancheranno, i mezzi per fare la guerra.

E della vittoria, in ogni caso, abbiam fede, purché il Governo sappia approfittare dell'impeto maraviglioso della nazione, ad accrescere il quale, a moltiplicarlo a mille doppi, gioverebbe un viaggio di Garibaldi per l'Italia prima della guerra. Ei potrebbe dire, con maggior ragione che Pompeo: «Picchiando il piede in terra farò sorgere legioni».

I moti di Oriente che avevamo annunciato come prossimi nell'ultima rassegna, furono troppo precoci. Un capo di armati Greci, Leonida Bulgaris, fu sconfitto dai Turchi e condotto a Salonicchio. È uomo coraggiosissimo, generoso: merita lode e compianto. Altri la seguano con migliore successo!

Il principe di Hohenzollern ha corrisposto ai voti dei Rumeni: è a Bucarest. Possa egli adempiere la sua difficile missione! Possa quel popolo infelice con senno e con valore compiere la sua rigenerazione e prendere il posto che gli compete fra le nazioni!

Firenze, 26 maggio 1866.

Marco Antonio Canini













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