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Libro interessante, questa Cronaca della Guerra d'Italia, se non altro per la notevole mole di documentazione diplomatica che viene messa a disposizione del lettore. Dalla quale si evince che la fine del Regno delle Due Sicilie era segnata, tutti ne erano consapevoli, finanche il papato che anteponeva la propria missione universalistica a qualsiasi altra cosa.

La Francia gioca un ruolo di primo piano alleandosi con Cavour, l'Inghilterra per non lasciarle campo libero nel mediterraneo vista la posizione geopolitica strategica occupata dal regno borbonico lavora su due tavoli:

  • sul piano diplomatico, tenendo d'occhio l'Austria durante l'impresa garibaldina;

  • sul piano operativo, utilizzando le logge massoniche per raccogliere fondi a favore di Giuseppe Garibaldi (finanche nelle Americhe come è stato recentemente dimostrato) e spianando la strada all'avanzata garibaldina organizzando comitati cittadini che provocano insurrezioni e scalzano dal potere le amministrazioni borboniche.

Altra notazione di rilievo è che questa è una delle poche opere che cita alcune cifre riguardanti i soldati borbonici morti nei campi di concentramento. Cifre che non si trovano nel volume che pubblichiamo ma in un altro. Qui si trova solamente una indicazione riguardante i prigionieri portati  a Genova:

“verso la meta di Gennajo arrivarono a Genova i convogli dei soldati napolitani, in numero pressoché di 20,000 uomini. Di questi si formò in principio due grandi depositi nella riviera della Liguria: l'uno a Savona sotto la direzione del colonnello Nicola Ardoino, l'altro a Chiavari, comandato dal colonnello Pietro Guattari.”

Invece nulla dice sulla mancata presa di Potenza da parte di Crocco, un grande mistero su cui si interroga anche Alianello senza trovare una risposta convincente.

Probabilmente è vera l'ipotesi che fanno taluni sui presunti contatti di Crocco con ambienti murattiani. Questi contatti spiegherebbero, a nostro avviso, anche la freddezza con cui Crocco accolse Borges. Le nostre, però, sono solo ipotesi che forse non verranno mai suffragate da prove.

 I giacobini nostrani si preoccupano di cianciare delle rivelazioni di WikiLeaks (non è detto che non siano pilotate!) ma si guardano bene dal chiedere che si faccia piena luce sul primo decennio di vita dello stato italiano, decennio che vide nascere tutte le storture che caratterizzano  passato, presente e futuro di questo paese.

Zenone di Elea – 3 gennaio 2011


CRONACA
DELLA
GUERRA D'ITALIA
1861-1862
PARTE QUARTA

RIETI
TIPOGRAFIA TRINCHI
1862

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CAPO I.

SOMMARIO

1. ASSEDIO DI GAETA - DESCRIZIONE TOPOGRAFICA DELLA CITTÀ E DEI DINTORNI-CENSO STORICO - FORTIFICAZIONI DELLA PIAZZA, DALLA PARTE DI TERRA. E DI MARE - SITUAZIONE MATERIALE E MORALE DELLA GUARNÌ GIONB PERSONALE DELL'ARMATA AL SERVIZIO DI FRANCESCO II. - II POSIZIONI OCCUPATE DALL'ARMATA PIEMONTESE - IL GENERALE CIALDINI AL COMANDO DELL'ASSEDIO IL GENERAL MENABREA DIRIGGE LE OPERAZIONI DEL GENIO LE TRUPPE BORBONICHE, LE QUALI NON ERANO STATE SITUATE NELLA PIAZZA, ACCAMPATE AL BORGO ASSALTO DEL BORGO PER LE TRUPPE PIEMONTESI CHE SE NE IMPADRONISCONO. III. CATTIVO APPROVIGIONAMENTO DELLA PIAZZA E DEGLI OSPEDALI-IL S. POZZO DI BORGO E' INVIATO PARLAMENTARIO AL GENERAL CIALDINI - SUO ARROCCAMENTO COL GENERALE SARDO - SORTITA FATTA DALLA GUARNIGIONE, E DIRETTA DAL GENERAL BOSCO IL CAPITANO MIGG RIMASE UCCISO - ALTRA SORTITA DELLA PIAZZA PER FARE SALTAR VIA TRE CASE DEL BORGO - ORDINE DEL GIORNO DI FRANCESCO II ALLE SUE TRUPPE - IV. OPERE DEGLI ASSEDIATI IL NUMERO DELLE LORO BATTERIE 8' ACCRESCE OGNI GIORNO - V. PROGETTO FATTO ALLA CORTE DI GAETA DI UNA SPEDIZIONE ALLE CALABRIE - QUESTA SPEDIZIONE ALLE CALABRIE QUESTA SPEDIZIONE, PIÙ' VOLTE AGGIORNATA, NON HA LUOGO A CAGION D'ESITANZA PER PARTE DEI CAPI INDIRIZZO DEGLI UFFICIALI DI GAETA AL RE - VI. IL GENERALE CIALDINI FA COMINCIARE IL BOMBARDAMENTO IL 7 GENNAIO CON 90 ROCCHE DA FUOCO, DI CUI 12 MORTARJ FRANCESCO II, E SUA CORTE, SI RITIRANO NELLE CASAMATTE -

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ARMISTIZIO PROPOSTO DAL GOVERNO FRANCESE E TRATTATO DALL'AMMIRAGLIO BARBIER DU TINAN ESTRATTO DEL MONITORE FRANCESE SOPRA QUESTO ARMISTIZIO LETTERE DEL GENERALE CIALDINI E DEL GENERALE RITUCCI ALL'AMMIRAGLIO FRANCESE VII. GLI AMBASCIATORI E PLENIPOTENZIARI DEL

LE POTENZE PRESSO FRANCESCO II, PROFITTANO DELLA SOSPENSIONE DELL'ARMI PER ANDARE A COMPLIMENTARE IL RE ALL'OCCASIONE DELL'ANNIVERSARIO DEL SUO NATALE, E GLI APPORTANO IN DONO DA ROMA DEI VINI, FRUTTI, E DOLCI, A NOME DELL'EMIGRAZIONE NAPOLITANA - UN OFFICIALE LEGITTIMISTA FRANCESE PORTA A ROMA UNA PALLA DEI CANNONI CAVALLI, LANCIATA DAI PIEMONTESI SOPRA GAETA, B LA QUALE NON AVEVA FATTO ESPLOSIONE.

I.

Abbiamo già promesso a' nostri lettori di riunire in un capitolo speciale tutti i fatti più importanti dell'assedio di Gaeta dopo l'investimento della piazza fatto dall'armata Sarda, il 4 Novembre, fino all'epoca, in cui abbiamo lasciato il racconto degli altri avvenimenti correnti della nostra Cronaca, vale a dire fino ai primi giorni del Gennajo 1861.

Per la migliore intelligenza della narrazione descriveremo il terreno, dov'è situata Gaeta, e quello dove l'armata piemontese stabiliva i suoi lavori d'assedio, appoggiando, cornee nostro solito, la descrizione con un piano topografico. (1)

La città di Gaeta è fabbricata in un promontorio che s'avanza a occidente del golfo, o per dir meglio sovra una penisola scogliosa che forma a sud-Ovest il golfo, del medesimo nome. La città si stende in forma di triangolo sui fianchi del Monte Orlando, collina d'un altezza di circa 120 metri; la cui cima è sormontata da

(1) Vedi il piano che pubblichiamo in capo del 4.

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una torre che serviva di telegrafo aereo. Un istmo strettissimo, d'un chilometro appena di larghezza, separa la riva del golfo di Gaeta da quella regolare del mare, che già fu designata col nome di rada Serapide: quest'istmo era formato d'una collina chiamata Monte secco, la quale fu fatta spianare da Ferdinando II, perch'essa mascherava il tiio dei bastioni. Alla spianata del Monte secco esiste in oggi un campo di sabbia sovra base di scoglio. Da Gaeta al principio delle colline non vi si conta più che 5 in 600 metri. A pie della prima collina comincia il Borgo, situato intieramente lungo la strada marina. La popolazione del Borgo è di circa 15000 anime.

La città di Gaeta propriamente non ne chiude più di 3000, di popolazione civile.

Il golfo s'aggira fra Gaeta e Mola (l'antica Formia) di cui le truppe sarde s'erano impossessate il 4 Novembre venendo dalla volta del Garigliano. La distanza fra Mola e Gaeta è di circa 8 chilometri. La strada consolare da Napoli a Roma è a poca distanza di Mola: all'Est s'inalzano le prime montagne, primi contrafforti della Catena degli Appennini; più dappresso si eleva a guisa d'anfiteatro, fra la via consolare e la strada marina che conduce a Gaeta, una serie di colline, il cui aspetto non offre nulla di aggradevole; le loro coste sono irregolarmente seminate di olivi, a traverso de' quali non si vede che alcune rare case di campagna; le cime interamente nude. La prima cinta delle colline è formata dal Monte Atratina, più in addietro si trovano il monte Catena, monte Cristo, il monte del convento dei Cappuccini.

La fortezza di Gaeta ha richiamato a sè più volte l'attenzione dell'Europa.

Ebbe a sostenere quattro memorabili assedii, degli anni 1550 1707, 1734 e 1806. Quello del 1550, fu fatto da Alfonso V. Re d'Aragona, che prendeva Napoli come eredità: il Duca di Milano sosteneva Senato d'Angiò, suo competitore. I soldati di presidio vedendo che scarseggiavano i viveri, perché il nemico, dominando il mare, impediva l'approvvigionamento, sgombrarono la Piazzo di tutte le bocche superflue, donne, vecchi e fanciulli. Questa povera gente correva quindi pericolo di perire di fame, ma Alfonso,

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ch'era Principe buono e umano, ordinò che fossero assistiti, dicendo che non era suo costume di far la guerra a persone che non possono difendersi. Presso Gaeta era una casa che appartenne a Cicerone, e abbisognando pietre ad uso di projettili, fu intimato al proprietario di demolirla; ma Alfonso lo impedì, per riverenza alla memoria del grande oratore romano. Nel 1707, la piazza fu investita vigorosamente dagli Austriaci, e sostenne tre mesi di assedio, senza capitolare. Nel 1734, un esercito francoispano di 16, 000 uomini assalì quella fortezza; i difensori erano soltanto 1, 500 con 140 pezzi di artiglieria, e scarso munizioni; nondimeno resistettero cinque mesi, e si resero soltanto per discordie tra loro. Non toccheremo nel 1799, quando Gaeta con 4, 000 soldati, 70 cannoni, 22 mortai e munizioni ad esuberanza, si arrese al generale Rev, che comandava l'avanguardia di Championnet.

Ma nel 1806, sotto il comando del principe d'Assia Philipstadt. resistette con gloria agli assalti di un esercito francese, dal 13 febb. al 18 luglio. È ben vero che avea aperto il mare, e per mezzo della squadra inglese riceveva sussidii di provvigioni e di gente; ma convien considerare, d'altro lato, che la difesa, sebbene vigorosa, fu censurata assai, così che il merito fu più dei soldati che del comandante.

Nel 1849 Gaeta fu l'asilo del Papa che fuggiva la rivoluzione de' suoi stati.

Il sistema delle fortificazioni di Gaeta, tuttoché irregolare a cagion della situazione stessa della piazza è non pertanto pressoché inespugnabile. Due grandi facciate si tagliano ad angolo retto: l'una del mare da parte del golfo, l'altra di terra da parte dell'istmo. Il terzo lato del triangolo è formato dai fianchi del Monte Orlando che si bagnano in un mare sovente fluttuoso, e che sono anche difesi dalle fortificazioni del castello che ripara i magazzini.

La facciata di terra composta di tre piani di batterie stabilite sui fianchi del monte Orlando è più stretta ohe quella del mare che è composta d'un solo piano» salvo che in alcuni punti è anche di due.

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Si contava nella facciata di terra un totale di 54 cannoni di 84 12 colubrine, 76 cannoni obici di 60 o di 804 pezzi rigati 17 mortai, in tutto 179 bocche da fuoco, ripartite in 22 batterie, di cui ecco i nomi col numero rispettivo de' loro pezzi rispettivi.

La batteria Trinità - 8 obici da 80 - due pezzi rigati da 4, ed un rigato di 12,

Ridotto Trinità - 10 obici da 60,

Transilvania - I obici da 60.

Malpasso - 2 obici da 60.

Sani' Andrea 5 cannoni da 24, e 7 mortai.

Piatta forma - 4 cannoni da 24, e 2 obici.

Dritta dente di sega 3 mortai

Dente di sega - 10 cannoni.

Malladrone - 1 cannone da 24, e un obice.

Avanzata - 3 cannoni da 4, e due obici.

Nuovo ridotto - 4 colubrine da 16, e 4 obici.

Fronte a scalone -3 cannoni da 12.

Falsabranca S. Andrea - 1 cannone da 12. e 4 obici.

Cinque piani - 4 cannoni da 24 e 5 obici da 24.

Capelletti - 4 cannoni da 24 - 5 obici da 60.

Conca - 4 cannoni da 24 - 3 cannoni obici da 60 e due mortai,

Fico - 4 obici da 80.

San Giacomo - 7 cannoni da 24

Philipstad - 1 cannone da 12 - 6 da 24 - una colubrina da 12 2 obici, e 3 mortai.

Regina - 1 cannone da 24 - 38 obici da 60 - e un pezzo rigato da 12.

Tabacco - 3 obici da 60 e 2 mortai.

La facciata di terra non formava che una sola sezione sotto la direzione del colonnello Gabriele Ussari. La facciata di mare essendo divisa in tre sezioni, l'una sotto il comando del Conte di Caserta, la seconda sotto il general Palumbo, e la terza sotto gli ordini del colonnello Garofano. Le batterie componenti queste tre lezioni, erano:

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Duca di Calabria - 11 obici da 60

Torrione francese - 11 obici da 80, e due cannoni da 12.

Maria Teresa - 11 obici da 60

San Montano - 5 cannoni da 36.

Guastaferri superiore - 8 obici da 80, e 18 cannoni da

86.

Guastaferri inferiore - 3 obici, e 6 mortai Santa Maria - 13 obici da 80 - 6 cannoni da 30, e due obici.

Vico - 6 obici da 80 - 4 cannoni da 30, e due obici.

Petorna - 2 colubrine da 24, e due obici

Gran guardia - 6 pezzi da 36 - 1 obice e 2 mortai.

Ferdinando a favorita 18 obici da 80 - 1 cannone da 30 3 obici da 60, e 2 cannoni da 12.

Spirito Santo 1 cannone obice da 60, e due cannoni da 12. Riserva - 2 cannoni da 30.

Il totale della fronte di mare era di 82 cannoni obici da 60 a 80. di 44 pezzi da 36, e d'un calibro inferiore; di 8 obici, o 8 mortai - vale a dire 142 bocche da fuoco.

Vi era ancora un' altra batteria detta straniera che apparteneva a vicenda alla fronte di terra e a quella di mare. Essa non riceveva ordini che dal conte di Caserta, che vi presiedeva quasi continuamente. Si suddivideva in quattro denominazioni: Controguardia Cittadella Cappelletti, e Fianco basso, d'un totale di 25 bocche da fuoco - Questa, batteria straniera, non era servita che da svizzeri e da Francesi

La fronte di terra era sotto gli ordini del general Roedmatten (svizzero). La fronte di mare sotto il comando del general Sigrist.

Il comando generale della piazza era affidato al vecchio general Rittucci.

Il General Sehaccmacher (svizzero) era sopra gli approvvigionamenti.

Il re Francesco II esercitava il comando superiore anch'egli

Le munizioni non mancavano punto; il rinnovamento delle

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vettovaglie si poteva far liberamente mercé la presenza della flotta francese, che impediva il blocco della piazza - I servizi amministrativi erano nel più gran disordine, il materiale del Genio, tutto era in istato di difetto.

La negligenza, e lo scoraggiamento, regnavano nella piazza, di cui tutta la forza di resistenza sembrava consistere soltanto nella solidità delle muraglie.

La guarnigione ordinaria di Gaeta si componeva di 2 reggimenti d'artiglieria, un battaglione del Genio, uno di veterani svizzeri, e 2 di cacciatori - Il 3 Novembre essa fu rinforzata di 3 reggimenti di Guardia, e più tardi, come noi abbiam visto dopo la ritirata dal Molo, di tutti gli avanzi dei corpi respinti verso le mura della fortezza. Fu l'indomani di questa ritirata, che il general Salzano radunò i comandanti delle truppe accampate fuori e fe' loro conoscere che la guarnigione era di già troppo numerosa, che per conseguenza S. M. lasciava tutti liberi di tornarsene a casa, o puro internarsi negli Stati Romani - l'erano là 3 battaglioni stranieri, che si trovavano gettati al suolo a 200 leghe dal loro paese, i cui condottieri protestarono, contro questo modo di procedere, al re. Ma il re allora non poteva più nulla per loro, ed essi dovettero mettersi in marcia verso la frontiera romana.

Abbiamo già veduto nel volume precedente i 22 mila uomini sotto gli ordini dei generali Ruggeri e Clary giungere a Terracina e deporvi le armi nelle mani delle truppe francesi.

Non restò di corpi stranieri a Gaeta, cioè di quelli che vi furono respinti dopo l'affare di Molo, fuori che i cacciatori sotto gli ordini dei generali Barbalonga e Colonna: la batteria straniera, e 4 compagnie del 3. ° battaglione straniero - Questo truppe furono accampate a Borgo, e sulle alture distendendosi da S. Agata al monte catena.

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Fu tentato di riorganizzare questi corpi, ma sombrava l'incuria degl'intendenti rendesse malagevolissima quest'operazione: frattanto gli avanzi del 3° battaglione straniero congiunti ai veterani svizzeri, furono riuniti in un nuovo battaglione straniero sotto gli ordini del capitano Wieland - Cavalieri e Marinari furono trasformati in artiglieri, e fanti in zappatori per i lavori di difesa.

Dopo aver avuto sotto le sue mani, a Gaeta stesso, dei soldati di tutte armi, Francesco II fu ridotto a questi tristi spedienti. Vero è, che tutti i suoi generali s'erano dileguati l'un dopo l'altro. Barbalonga, Colonna e Salzano parimenti. La guarnigione era a volta a volta vettovagliata per l'arrivo d'alcuni volontari che sopraggiungevano dall'estero, ma pareva che non tutti fossero della miglior lega seguendo noi i ragguagli che ne dà il maggioro Wieland, uno dei più coraggiosi difensori di Gaeta. Noi citiamo le sue stesso parole «Un elemento di difesa da menzionare ancora, era formato dai legittimisti francesi, venuti da Roma per servire la causa d'un Borbone. La loro stessa tenuta aveva qual che cosa di sorprendente. Erano dei Zuavi del Papa con una callotta grigia di taglio spagnolo fregiata di croce a rovescio; alcune guide di Lamoriciere nella loro elegante giubbetta nera; dei cavalleggieri, e dei cacciatori a piedi - I loro portamenti non avean nulla certo di edificante: essi cavalcavano molto, e parlavano altissimo d'eroica difesa per i caffè, fino all'ultima stilla del loro sangue. Ma que' che veramente intendeano a far qualcosa di bene, si separavano ben presto dalla gran massa, e quando l'assedio cominciò seriamente, e sopravvenne il pericolo, non vi furono che ben pochi di quelli che si distinsero, e questa è la verità. Quanto poi ai fanfaroni venuti per loro «speculazione, essi disparvero a poco a poco.

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II.

L'armata Sarda lotto il comando del general Cialdini, e col personale, che noi abbiamo di già enumerato fin dal suo entrare nel regno di Napoli, occupava dal Molo a Ponte Corvo, nell'innanZi d'Uri, con gli avamposti agli approcci del Borgo, al convento dei Cappuccini, ed a MonteCristo.

II general Menabrea incaricato dei lavori d'assedio aveva a superare di ben gravi difficoltà per investir la piazza. Del cammino della marina, solo sentiero rotale che si estende lungo la rada, essendo stato completamente abbandonato dai borbonici dopo che una batteria di quattro piccoli cannoni era stata stabilita sul monte dei cappuccini dagli artiglieri sardi aiutati dai marinari della squadra, si trattava di profittarne per il carriaggio dei materiali d'assedio: ciò che in fatti ebbe luogo per l'attacco e la presa del Borgo, che era occupato dalle truppe degli assediati. Questo attacco fu effettuato dai Piemontesi l'11 Novembre.

La linea napoletana si componeva di 9 battaglioni, il 2. 3. 6. 7. 8. 9. 10. e 15. cacciatori, più il piccolo battaglione straniero a sinistra. Appena era cominciato il combattimento, che l'8. e il 15. di questi battaglioni passò all'inimico, comandante Pinelli del 15. in capo.

Così trovandosi disorganizzata la linea di battaglia, la ritirata fu necessaria. Intanto il battaglione straniero volle resistere in campo, ma per bravamente che si difendesse, fu circondato e fatto pressoché tutto prigioniero. L'avanzo di truppe che si salvò dal conflitto si rifugiò nella piazza: allora cominciò l'assedio propriamente detto, e i Piemontesi entrarono in possesso del Borgo, posizione delle più importanti contro la fortezza.

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Il 12 i loro avamposti si stabilirono sugli stessi punti ove il giorno innanzi erano i posti napolitani: e tantosto delle batterie furono in via di costruzione sulla collina S. Agata e sul Monte Cristo, ma fu d'uopo in antecedenza praticar lo strade di Borgo a questi punti per il trasporto dol materiale. Ciò ch'ebbe luogo con molta attività, malgrado le difficoltà del terreno.

Frattanto, in seguito dell'attacco del Borgo, la posizione degli abitanti di questa località, era divenuta eccessivamente pericolosa. Questi adunque s'indirizzarono al general Cialdini, chiedendogli che loro accordasse un giorno di dilazione per mettere in sicuro se stessi con ciò che avessero di più prezioso.

Il general piemontese non era il solo in cui risiedesse la facoltà di effettuare questo disegno a pro dell'umanità, di modo che tutto dipendesse dal suo assentimento. Vi bisognava eziandio il concorso della volontà degli assediati: ond'egli il 19 Novembre dimandò alla piazza una breve tregua che dovesse durare dalle 7 del mattino sin alle o della sera per dar tempo agli abitanti del Borgo di ripararsi in luogo sicuro. Questa tregua fu accordata. Intiere famiglie si traslocarono a Uri e all'isola d'Ischia.

Ad Ischia si contava più di 1500 di queste sventurate vittime della guerra, che le autorità locali alloggiarono nell'ampio ospedale del Monte della Misericordia, destinato a ricevere i feriti dell'armata, ai quali si voleva amministrare l'uso dei bagni termali.

Lo stesso giorno 19 Novembre il general Bosco giunse a Gaeta nel battello a vapore delle messaggerie imperiali. Credendosi egli sciolto della parola data in Caserta a Garibaldi, accorreva al fianco del suo re: e ciò fu per il re e per la guarnigione un grande avvenimento. I soldati aveano fiducia in lui. Col general Bosco furono sbarcate a Gaeta due casse piene d'oro e che doveano contenere assai forti somme, poiché giusta lo Journal du siede pubblicato dal S. Carlo Garnier, vi bisognavano quattro marinari per portarne una sola. Questa risorsa era veramente desiderata a Gaeta, ove la cassa era omai quasi al fondo.

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III.

L'approvvigionamento della città risentiva assai della condizione delle finanze regie, e sovrattutto della mancanza d'ordine e di previdenza delle amministrazioni napoletane.

Le botteghe di commestibili s'erano chiuse. Spesso avveniva che molte famiglie non avevano ancora del pane a 2 ore pomeridiane, e quando lo avevano, conveniva loro di pagarlo fino a 16 grana il rotolo, cioè 14 bai. e mezzo il chilogramma. I beccai non uccidevano quasi nulla, e della pessima vacca era riservata per gli ufficiali. I pomi di terra erano rari e si vendevano 5 baiocchi il rotolo cioè la libra Non si trovava riso fuorché per intervallo, i maccheroni tre doppi più cari che a Napoli apparivano qualche rara volta: li fagioli non si trovavano che in alcune case, dove s'era avuta cura di fornirsene d'avanzo, il pesce non entrava più. Quando si discopriva una cassa di fichi, o d'uva secca apportata da qualche vapore, insorgevano fiere contese col venditore, e cosi si questionavano perfino i sacchi di guainelle, se ne capitavano. Le castagne che dapprima abbondavano, disparvero intieramente. Verso il 10 Novembre gli osti non davano più mangiare, tranne allo persone che apportava» da se stesse gli alimenti da preparare.

La razione del soldato nella piazza assediata consisteva in un mezzo rotolo di pan fresco, una mezz'oncia di lardo, e quattro oncie di fagioli.

I cavalli ed i muli mancavano di provvisioni non meno che gli uomini. Una gran parte di questi animali era stata inviata negli stati Romani. Quelli che restavano nella piazza, erravano magri per le strade laccando le porte, o rosicchiando le tavole dei arri, o delle mostre di botteghe.

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né più soddisfacente si era lo stato sanitario della piazza; e dei bratti sintomi già facevano presagire il tifo. Gli ospedali male provveduti, erano ingombrati di più di 800 malati. Pozzo di Borgo ufficialo di stato maggiore di Francesco II fu deputato parlamentario al general Cialdini per chiedere che gli assediati potessero far levare e sotterrare i cadaveri che da 10 in 12 giorni distesi sovra i bastioni cagionavano una vera infezione: e questo fu accordato.

Citiamo su questo soggetto l'estratto d'una corrispondenza di mola di Gaeta, del 29 Novembre, alla Perseveranza:

«Il fuoco della piazza, che negli ultimi giorni era divenuto più rado, è ieri ricominciato con insistenza maggiore. Le palle lanciate dalla batteria Regina giungon sino a Vivano e al di qua del Monte Conca, dove i nostri lavoratori sono occupati nella costruzione della batteria e delle due strade che a quelle devono condurre. E quindi fuori di ogni dubbiezza che l'inimico ha potuto montare cannoni rigati che hanno una portata di 4100 metri. Ad onta di questo infuriare di bombo e di granate, i nostri lavori hanno siffattamente progredito, che molti dei pezzi di maggior calibro son già appostati sullo alture di Sant'Agata e dei Cappuccini. Ieri l'altro due ufficiali dello stato maggiore napoletano si presentarono, in qualità di parlamentarii, al quartier generale di Cialdini. Il conte Borromeo andò ad incontrarli e condotti alla già villa reale, ebbero con lui un abboccamento. Le dicerie di offerte di resa furono rinnovate quindi colla solita insistenza, dicerie che furono ben presto smentite dal rinnovato fragore delle artiglierie nemiche. Credo essere in condizione di asserire che la missione di quei due parlamentarii non si riferisce che alla condizione sanitaria della piazza.

Gli ospedali di Gaeta son mal provvisti di medicinali: più di 800 ammalati ne ingombrano lo sale, ed a quanto mi si assicura si voleva negoziare il trasferimento di quegl'infelici a Caserta.»

» Prima di rientrare a Gaeta il S. Pozzo di Borgo ebbe col general Cialdini una lunga conversazione che getta un gran lume sull'insieme della operazioni dell'assedio. Noi crediamo di doverla riassumere.

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Il general Cialdini possedeva, dic'egli, il giornale di Massena, e se ne serviva per diriggere l'assedio. Egli fece rimarcare poi al parlamentario, che Gaeta occupa una posizione topografica eccezionale. Ordinariamente dello trincee si sviluppano a dritta e a sinistra allo scopo d'ingrandire la linea d'attacco, circondare la piazza e quindi dispargero le forze della difesa. A Gaeta tutto il contrario, a misura che gli assalitori avanzano, la fronte d'attacco si restringe, perché la lingua di terra, alla cui estremità la fortezza è situata, si termina quasi in una punta. La piazza si distacca quando il nemico si avvicina, e i fuochi della difesa convergono sovr'un sol punto. Queste osservazioni del general Cialdini assai ben fondate e savie colpirono il giovine parlamentario, il quale ricevette egualmente l'assicurazione che fra poco avrebbe sentita l'armonia imponente dei suoi cannoni.

IV

Infatti i Piemontesi lavoravano con attività dietro la collina dei Cappuccini e alle rovine di S. Agata allo stabilimento della batterie di mortari. E del pari su questo punto era diretto il fuoco della piazza.

Le batterie della fronte di terra tiravano vivamente, spesso incommodavano assai forte i lavoratori.

Il 20 Novembre, domani del giorno che arrivò il general Bosco, era stata tentata una piccola ricognizione notturna, comandata dal capitano Kalkrent, sino al di là della Madonna della catena. Questa sortita non aveva fatto che segnalare i preparativi del nemico, ma non aveva constatato la posizione delle fortificazioni. Fu adunque deciso di fare un tentativo per riconoscere

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con cor

Non si sa per che cagione s'impiegasse più d'una settimana a preparare questa sortita, che fu fissata pel 29 Novembre. Verso lo spuntar del giorno 440 uomini uscirono per la porta segreta che mette sul campo, e si diressero sul monte Atratina, e su quello dei Cappuccini. Questa spedizione era condotta dal luogotenente colonnello Migy. Il generale Bosco ne aveva l'alta direzione. quest'effettivo fu diviso in tre colonne che dovevano visitare le valli, e le colline di là dal campo. L'istruzioni dato al luogotenente colonnello Migy gl'ingiungevano di schivare al possibile il combattimento. Una riserva di 500 uomini era discesa sullo spianate per sostenere gli esploratori e protegger la loro ritirata. L'una delle tre colonne, quella del maggiore Steiner s'avanzò dalla parto di Caligano, forzò un muro di trincieramento, uccise un ufficiale, ed alcuni soldati d'un posto piemontese, che ricusarono di rendersi. Ma il nemico destato dal sonno all'improvviso riunì ben tosto le sue forze e rispose con una viva fucilata. Tre battaglioni di bersaglieri si misero appresso a' Napolitani, che rientrarono nella piazza in disordine malgrado che fossero appoggiati dal fuoco delle batterie Philipstadt e Regina, clic fulminavano i bersaglieri. Il luogotenente colonnello Migy ricevette nell'aziono una grave ferita, di cui morì il giorno dopo, con lui altri cinque officiali, e molti soldati rimasero uccisi o feriti. Ecco una lettera dal Molo di Gaeta del 1. Decembre, che dà i dettagli di questa sortita.

Scrivono da Mola di Gaeta, 1 dicembre, alla Perseveranza:

«Era a prevedersi che l'eroe di Milazzo a Gaeta avrebbe offerta occasione ai Napoletani di tentare qualche colpo di mano sulle nostre linee d'assedio.

«Ordinata quindi jer l'altro una colonna di 1000 fra cacciatori e fanti della linea, la faceva uscire da Gaeta sotto la protezione i un terribile fuoco d'artiglieria e la spingeva contro le nostre pos

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L'

«La ritirata dei Napoletani, ordinatamente dapprima incominciata, si cambiò come al solito in fuga, quando i nostri bersaglieri si diedero ad inseguirli a passo di corsa. Fu gran ventura pel nemico che il fuoco micidiale della piazza valesse ad arrestare il corso dei nostri, che senza di quello, bersaglieri italiani e cacciatori borbonici sarebbero rientrati alla rinfusa entro le mura dell'assediata città. Questa fazione costò al nemico qualche morto e buon numero di feriti e di prigionieri.»

Frattanto i Piemontesi avevano potuto recare a termine la costruzione d'una batteria di 4 cannoni rigati di grosse calibro sul Monte-Cristo, e il 1 Decembre a mattina aprirono un fuoco di prova ad una distanza di 1000 metri. Il tiro da principio fu poco giusto; dei projettili caddero innanzi agli spalti, mentre altri passavano di sopra alla città fiinivano per cadere nel muro. Il giorno 5 uno dei cannoni Cavalli, ch'era stato messo in azione scoppiò il colpo per la culatta, e ferì un gran numero di soldati e d'artiglieri. Dopo lo stabilimento di questa batteria il trar di cannone fu ripreso ogni giorno, e massimo la sera per alcune ore senza danno grave della città. Le batterie della piazza erano nell'impossibilità di rispondere con vantaggio, stante la tratta assai debole dei loro pezzi. Due cannoni rigati soltanto della Trinità ebbero qualche successo, e fecero di molte vittime: al qual proposito estragghiamo da una lettera di Gaeta in data del 4 dicembre il seguente passo:

Scrivono da Gaeta, il 4 dicembre:

«Abbenché ciò non fosse che un semplice saggio, alcune delle nostre batterie del Monte Cristo hanno aperto il fuoco nella giornata di sabbato.

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Non vi sono che 27 pezzi, ma, peri guasti che essi fecero nelle batterie del Monte Orlando, si può anticipatamente giudicare qual sarà l'effetto del bombardamento quando il Generale Cialdini sarà in grado di aprire il fuoco coi 107 pezzi ch'egli sta per mettere in batteria.

«l'artiglieria della piazza ha risposto con un fuoco terribile, fuoco che va sempre crescendo dopoché gli assediati sono stati in grado di scoprire i lavori che noi facciamo dalla parte dell'istmo e al di là del Monte Conca.

«Le nostre perdite sonosi adunque sensibilmente aumentate da quattro giorni. Gli ospedali, e particolarmente quello del Borgo, sono già stipati di feriti; e si è presso a prepararne degli altri. Noi abbiamo al campo un certo numero di ufficiali stranieri che il desiderio di assistere al gran duello che è alla vigilia d'impegnarsi, ha qui condotti. Evvi dei Russi, dei Prussiani e degli Svedesi.»

Il 4 Deccmbre una spedizione fu intrapresa dal General Bosco, l'uomo d'azione dello stato maggiore di Gaeta. Si trattava di far saltar in aria tre fabbricati all'entrata del Borgo. Si propose al re Francesco II nel suo consiglio di far saltare il Borgo intiero, come nocivo alla difesa della piazza; ma il partito fu rifiutato. Fu risoluta adunque la demolizione dello tre case le più avanzate. Il general Bosco chiamò il 3 a sera due officiali francesi il capitano De-Christen, e il sottotenente De-Maricourt per comunicar loro il disegno, e incaricarli dell'esecuzione. Questi officiali interrogati presentarono al generale un progetto che fu adottato; e che riusci intieramente, seguendo il rapporto che ne fu indirizzato a Francesco II, e che noi estragghiamo dalla gazzetta di Gaeta con un ordine del giorno, alla data del 4 Decembre:

Gaeta. 4 Ottobre 1862

Il giorno 4 una sortita era stata disposta per far saltare le prime case del Borgo, le quali nascondevano alla piazza le operazioni e gli assembramenti di truppe che il nemico avrebbe potuto disporre nel villaggio. Ma avvedutosi il general Bosco che

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accortosi dell'uscita dei nostri soldati, si preparava a respingerli, non volle senza utilità esporre la vita de' pochi animosi che a quell'opera si accingevano; ed immediatamente li fece ritirare nella piazza.

Il giorno seguente fu ripetuta la stessa operazione, e con miglior successo; imperocché 120 uomini prescelti dal 7, ° 8, ° e 9, ° Cacciatori, e guidati dal valoroso ajutante maggiore Simonetti, eseguirono con risolutezza ed impeto la bella missione.

Uscita la truppa in tre piccolo colonne, come prima si vide scoverta dalle sentinelle nemiche, senza titubare un istante e nulla curando le fucilate degli avversari, le aggredirono alla bajonetta con ammirevole sangue freddo e bravura.

Fra tanto il 1. tenente di Artiglieria Corrado, seguito da dodici inermi artiglieri, cui eransi affidati otto barili di polvere, garantito dallo ardire e dalle posizioni del distaccamento, dava sollecitamente opera all'ideata distruzione. A lui stesso lasciavasi la cura di comandar la ritirata, quando fosse raggiunto lo scopo della missione; ed alle truppe si comandava di continuare a combattere sino a che non udissero il tocco convenzionale.

Alle 2 e 20 minuti dopo la mezzanotte il distaccamento iisciva dalla piazza, e dopo 20 minuti all'incirca vi rientrava bello del suo trionfo, al grido festoso di Viva il Re, ed al chiarore di due esplosioni, senza ricondurre niun soldato ferito.

In questo piccolo ma glorioso fatto, di cui non sappiamo, se debbansi meglio ammirare il provvido concepimento o l'intrepida esecuzione, tutti gareggiarono di bravura e di ardire; e la munificenza sovrana non sarà certo avara di ricompensa per coloro che sentono cosi bene il dovere e l'onore del soldato.

Non potendo nominare tutti i valorosi che parteciparono a quella impresa, oltre i nomi dei distinti Uffiziali già indicati, citeremo quelli del capitano Carubba, dell'alfiere Renda, del capitano conte de Christen e dell'alfiere di De Maricourt, or ora giunti a nostra conoscenza.

Ordine di S. M, il Re alla Guarnigione di Gatta.

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Soldati!

Sopraffatti dal numero, e non dal valore dei nostri avversari, siamo chiusi, dopo molti combattimenti, già da un mese in questa Piazza. L'Europa ha ammirato i vostri sforzi nei mesi di settembre ed ottobre passati, ora attende vederli continuati in questo assedio.

La brava guarnigione di Messina, rammentando quella che sostenne bravamente nel 1848 e 1849 la Cittadella, disposta a tutto fare, soffre i disagi e le privazioni da cinque mesi, ed è altera di difendere la causa del diritto e l'onore della bandiera napolitana.

Voi avete ad emulare una guarnigione più antica, quale è quella che nel 1806 resistette con impareggiabile valore in questa Piazza, priva degli attuali mezzi di difesa, agli attacchi dei primi soldati del mondo. La storia ancora glorifica nello sue pagine questi memorabili fatti.

Ora perfezionata la fortezza, dopo molti anni di continuo lavoro, parte del quale da voi stesso attuato, voi dovete difenderla con egual gloria e con maggior fortuna.

Dopo tante spese, e fatiche per fare che questa fortezza potesse resistere a lungo assedio, dopo che questo esercito Napolitano ha conquistato sui campi aperti del Volturno e del Garigliano onore e rinomanza, saprà al certo acquistare altra gloria e reputazione con la valida difesa cominciata contro il nemico, che viene a rapirci la nostra antica indipendenza, conculcando tutti i principii di onestà e di religione.

La vostra disciplina sarà salda, ed emulando a gara, Uffiziali, Sott'Uffiziali e Soldati, saprete con ciò ottenere la gratitudine della vostra Patria che vi ammira, e la stima dell'Europa, che vi osserva.

Gaeta 4 dicembre 1860

Firmato Francesco

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Nel mentre che si effettuava la sortita, di cui abbiamo reso conto, Francesco II passava la notte disteso sovra delle casse nel piccolo corpo di guardia che è al primo cancello della piazza. I principi erano sulle batterie donde contemplavano lo spettacolo della distruzione di quelle tre case del Borgo che andarono in frantumi al grido di Viva il re, molte volte ripetuto in italiano ed in francese.

I Piemontesi procedevano con esattissime metodo verso la piazza; il 7 Decembre discoprirono una nuova batteria a Sant'Agata, ad una distanza di 3000 metri. L'8 Decembre il general Cialdini scrisse al governator della piazza per avvertirlo, che per ordine del suo sovrano egli sospenderebbe il fuoco per tre giorni. Il general di brigata Morelli, facente funzioni di governatore invece del locotenente generale Ritucci malato, rispose che dalla sua parie anche la piazza cesserebbe il fuoco por cortesia, se il General Cialdini impegnasse la sua parola di non far lavorare alle trinciere sino allo spirar dei 3 giorni. Il 10 la risposta di Cialdini alla proposizione del gen. Morelli giunse; il ritardo era stato cagionato dalla condizione procellosa del golfo, onde alcun vapore non aveva potuto traversare. Il general piemontese lasciava la piazza libera di tirare, ed egli non voleva prendere alcuno impegno di far cessare i lavori. Del resto i lavori erano sta! i interrotti per la pioggia violenta che veniva giù da due giorni a guisa d'un vero diluvio. Il giorno 13 intanto una nuova batteria apparve sul monte Tortamelo a 3200 metri. Quella di S. Agata era composta di pezzi di grosso calibro rigati, uguali a quelli del Monte-Cristo: quella di Tortanello fu in principio di 2 pezzi, poi di 6, d'un calibro più piccolo.

II 17 tutti trassero fortemente, e il 20 il fuoco divenne vivissimo. L'ospedale di S. Caterina visitato spesso dai proiettili erasi dovuto sgombrare. Una palla rigata scoppiò il 10 novembre nell'ospedale S. Francesco, e ferì alcuni malati: fu evacuato anche questo, e si stabilì nelle casematte della batteria Regina un ospedale provvisorio. Una finestra della cattedrale ed un rampante della sua scala furono percossi e danneggiati.

La torre d'Orlando che serviva alla piazza per luogo


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d'osservazione

I lavori degli assedianti s'avanzavano. Essi avevano tre batterie stabilite il 21 Decembre sul monte Tortano, composte di più che 12 pezzi di grosso calibro. Malgrado la neve che scendeva assai copiosamente durante la notte del 22 al 23, le loro fatiche non si rallentarono punto. Le batterie della casa Occagno o della casa Tucci furono compite, e il 25 più di 20 pezzi rigati di grosso calibro erano in posizione, e tiravano con forza sulla città. In tre o quattr'ore gli assedianti lanciarono più di 500 palle rigate. Le batterie della piazza furono impotenti a causa della lontananza.

Il 26 una nuova batteria fu scoverta alla casa quadrata, altrimenti detta casa Masseria.

Il 27 si sparse voce a Gaeta che Vittorio Emanuele prima di rientrare a Torino s'arresterebbe a Mola per visitare i lavori dell'assedio, cosicché la batteria straniera aveva appuntato da questa parte i suoi cannocchiali, e il solo cannone rigato ch'ella possedeva. Si credette di scorgere un istante gran personaggio seguito da uno stato maggiore. Furono tirati vari colpi sovr'esso, ed al quarto, corteggio e personaggio disparvero dietro una rovina.

Era il general Fanti, venuto colà ad assicurarsi da se stesso delle operazioni d'assedio adottate da Cialdini e Menabrea.

Il ministro della guerra se ne mostrò pienamente sodisfatto e ripartì per Napoli la mattina appresso.

Il 28 il fuoco raddoppiò; avendo gli assedianti portato a tre, come noi abbiamo veduto, il numero delle batterie di Tortanello, e avendo scoperte le altre tre della casa Massena, Tucci, e Occagno, queste ultime a 2000 metri dalla piazza, le perdite vi divennero molto più frequenti tanto fra i cittadini quanto nella truppa a una diecina di persone al giorno.

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V.

Verso la fine di Deeembre, accadde nella guarnigione di Gaeta un fatto degno da menzionare.

Si trattava di sapere che cosa si farebbe dei soldati che erano nella piazza. L'esitanza dei generali assediati rendeva il numero dei difensori imbarazzante piuttostoché utile. Francesco II non osando rinviarli apertamente, lasciò facoltà di ritirarsi negli stati romani a tutti que' che lo desiderassero. I legittimisti francesi vedevano con rabbia disparire questi uomini che avrebbero potuto servire la causa ch'eglino stessi eran venuti a sostenere. Essi adunque proposero al re di spedire tre mila uomini nelle Calabrie per alimentare l'insurrezione delle provincie napoletane. II progetto venne adottato; ma la spedizione che doveva partire per via di mare il 1 gennajo, allorché tutto parea preparato fu aggiornata pel di vegnente a causa della incertezza del tempo. Il giorno appresso accadde il medesimo, finalmente vi si rinunziò. Un certo numero d'officiali e di soldati furono trasportati a Roma. La guarnigioni» presentò al re l'indirizzo seguente:

Sire.

«In mezzo ai deplorabili avvenimenti, di cui la tristezza de' tempi ci rese spettatori dolenti e indignati, noi sottoscritti ufficiali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l'omaggio della nostra fedeltà dinanzi al vostro trono reso più venerabile e più splendido dall'infortunio.

Cingendoci la spada, noi giurammo che la bandiera affidataci da V. M. sarebbe da noi difesa, anche a prezzo di tutto il nostro sangue.

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Ed a questo giuramento noi vogliamo rimanere fedeli, qualunque sieno le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi; noi sacrificheremo con gioja lo nostre fortune, la nostra vita e qualunque altro bene per il trionfo e pei bisogni della causa comune. Golosi custodi di quell'onore militare che solo distingue il soldato dal bandito,

noi vogliamo mostrare a V. M. ed all'Europa intera che, se molti dei nostri, col tradimento e colla viltà, hanno bruttato il nome dell'armata napoletana, fu pur grande il numero di coloro che si sforzarono a trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità.

«Che il nostro destino sia presto deciso, o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera o dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l'antico nostro grido di Viva il Re»

Non è della nostra cronaca il cercare di sollevar il velo che copre la natura di queste operazioni militari. Francesco II o la sua giovine compagna Maria Sofia mostravano di non mancare di coraggio affrontando in più occasioni le bombo e le palle per far vedere ai loro difensori ch'essi sapevano dividere i pericoli con loro. Ma il coraggio del re non bastava per vincere; sarebbe stato necessario mettere a profitto tutte le risorse della piazza. S. M. Maria Sofia aveva del pari una eroica intrepidezza, ma giovava poco a causa sopratutto della sua condizione. Il Sig. Carlo Garnier cita nel suo giornale dell'assedio di Gaeta un tratto, che secondo noi vale a caratterizzare questa principessa S. Maestà, dice il Garnier, era con l'ambasciatore di Spagna nello sguancio della finestra, quando una palla rigata fece esplosione, e se ne sparsero i vetri Ebbene Madama, disse il ministro spagnolo, voi volevate vedere le palle: eccovi servita secondo il desiderio.» La regina risponde con un sorriso: Io pertanto avrei desiderato una piccola ferita.»

Un parlamentario fu inviato il 4 gennajo al general Cialdini per riclamare contro il tiro delle batterie, diretto sugli ospedali.

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Il generale sardo rispose d'aver ingiunto già di evitare al possibile gli stabilimenti, ma che non poteva rispondere della giustezza di mira degli artiglieri. Le suore di S. Vincenzo (di Paola ere dettero dover allora richiamarsene presso l'ammiraglio francese, il quale rispose ch'egli non vedeva come poter intervenire in loro favore appresso del generale in capo dell'armata sarda. Le suore se ne sarebbero tornate ben malcontente, se la cognata dell'ammiraglio, Mad. la contessa Jurien De la Graviere, donna d'un' immensa fortuna (ch'ella mette a servizio delle sue convenzioni religiose e potitiche) non si fosse diretta con esse verso Gaeta ap portando dei sollievi ai malati degli ospedali. Questa Signora era arrivata per mare da Terracina in compagnia di due giovani austriaci di distinzione, ufficiali nell'armata pontificale, i conti Coronini, e d'Auresperg. II secondo di questi ufficiali fu arrestato dai Piemontesi, che lo sospettarono carico di dispacci, e fu condotto la mattina dipoi a bordo della Brettagna, mentre che il conte di Lecce, veramente apportatore di corrispondenze da Roma, sfuggiva loro dalle mani, e dopo aver adempiuta la sua missione se ne ripartì per andare a mettersi alla testa d'una banda d'insorti negli Abbruzzi.

Fino ai primi di Gennaro il general Cialdini s'era contenuto a tirare a grande distanza nel solo scopo d'intimidire i difensori della piazza. Siccome questi avevano smesso le loro sortite, non erano più infastiditi nell'avanzamento dei lavori, e circolavano liberamente a loro agio, senza trinciere, a schermo dei primi collicelli per istabilirvi a poco a poco di nuove batterie. Il Generale in capo aveva deciso di non por mano al bombardamento prima d'aver messo in linea 140 a 150 bocche da fuoco. s'aspettava l'ultimo invio dei cannoni Cavalli; questi arrivarono il 4 Gennaro trasportati dal naviglio il Volturno. Il parco d'assedio fu parimenti recato a compimento. Noi abbiamo una lettera di Gaeta in data del 5 dello stesso mese, che ci porge dei dettagli interessanti in proposito delle operazioni degli assedianti:

Presso Gaeta 3 gennaio

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I cannoni Cavalli sono qui, sono giunti, sono arrivati a bordo del Volturno, ancorato a un miglio da terra, e fra non molto saranno sbarcati, e faranno parte integrante del parco d'assedio.

«Sono cinque, e non più, imbarcati sul Volturno, e credo che non ne saranno spediti altri. Il parco d'assedio diventa così ogni giorno più imponente, le bocche a fuoco in batteria a tutto oggi sono quasi cento, ma Cialdini ha deciso di non cominciare il bombardamento so non quando avrà 140 ed anche 160 bocche da fuoco, con mille colpi ciascuna. Fatto il calcolo, Gaeta sarebbe coperta di ferro per l'altezza circa di un metro! Sarà una cosa terribile e bella nel tempo stesso: uno spettacolo inaudito.

Cialdini tutto osserva, visita le batterie, gli avamposti; incoraggia dovunque i soldati, egli è veramente ammirabile. quest'uomo di ferro può ottenere qualunque cosa da' suoi soldati; esso è amato da tutti. Ma guai a chi la sbaglia! Ed ha ragione: è così che si deve fare la guerra. Bisogna confessarlo, è uno dei pochissimi generali che conosca cosa sia la guerra, come si debba farla. Egli, al talento veramente militare, unisco una pratica, che ben pochi ebbero occasioni di fare; tutta la sua vita si compendia in questa parola: guerra.

Vi dissi che i nostri tiri recavano immensi danni in città, e ciò fu confermato da un parlamentario borbonico, il quale appunto venne per chiedere si desistesse dal tirare sulla città. Fuvvi un magnifico colloquio fra lui e Cialdini. Il parlamentario chiedeva si sospendesse il bombardamento in città, allegando esser già stata ferita una donna e due ragazzi. Cialdini gli foce una siffatta risposta. «Tralascierò dunque di bombardare Gaeta, onde poi non prenderla! giacché non basta il bombardare le fortificazioni: e cosi comprometterò e le mie truppe ed il mio paese! Signor mio è più preziosa la vita de' nostri soldati, la gloria del mio paese che quella d'una donna e di due ragazzi. Sappia d'altronde che alla difesa d'una fortezza non si tengono donne e ragazzi, ma soldati. Loro signori hanno fatto il contrario, licenziando quasi tutte le truppe, e ritenendo i pacifici cittadini: eppure se si spargerà altro sangue innocente, cadrà questo sulla testa del loro re.

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Del resto, non so come si possano chiamare bombardamento i pochi

VI.

Tutte le batterie non si trovavano ancora in posto il 7 Gennaio, ma ce ne aveva tre nuove, a dritta e indietro dal convento dei Cappuccini a 1500, e nel Borgo alla stessa distanza, i cui fuochi erano diretti ad infilare le batterie Sant'Andrea e Filippotato. Quella di Tortanello fulminava fortemente S. Antonio, la Regina e la Straniera che rispondevano alla sinistra piemontese.

Gli assediati avevano dalla lor parie stabilita una nuova batteria di 1 cannoni rigati sulla cima del monte Orlando presso della torre; quindi coglievano ad una forte distanza e tiravano in tutti i sensi.

Quantunque il general Cialdini non volesse cominciare il bombardamento fuorché quando tutti i pezzi fossero stati situati; nondimeno il giorno 7 gennaio il fuoco fu aperto con una sessantina di pezzi, fra' quali 12 mortai. La cagione di quest'anticipazione fu che l'ammiraglio Barbier du Tinan avendo annunziato in un rapporto che gli assedianti non avevano che pochissimi pezzi di batteria, il general piemontese ordinò di far fuoco il 7 a mattina con tutti quelli che si poteva.

Le batterie della città rispondevano vivamente. Era un fracasso imponente. I pezzi di grosso calibro di S. Agata e della Regina si rinviavano un eco prolungata come il rimbombo del tuono nelle più grandi tempeste.

Francesco II e la sua corte s'erano rifugiati in una casamat

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La situazione di Gaeta diveniva ben seria. Non vi era quartier della città risparmiato. Il tiro degli assedianti da prima incerto e mal diretto, non tardò guari ad acquistare la precisione. Un gran numero di case cadevano in pezzi. L'arcivescovato aveva ricevuto 4 palle Cavalli, la sala di pranzo era stata trapassata da parte a parte e l'enorme proiettile era andato a piombar nel mare. Alla casamatta delle MM. loro, enormi travi di quercia piantati davanti le finestre per proteggerle furono frattumati. Vi ebbe in Gaeta una trentina di morti in seguito di questo bombardamento. Le perdite dei Piemontesi furono di nessun rilievo: tre morti e quattro feriti

Intanto il giorno 8 verso le 5 della sera il fuoco diminuendo cessò. ll general Cialdini aveva ricevute delle istruzioni dal suo Governo a soggetto d'una tregua proposta dal governo francese, ed egli aveva fatto dire all'ammiraglio Barbier du Tinan ch'egli era pronto a cessare il fuoco de' suoi cannoni se la piazza volesse faro altrettanto. Il capo di stato maggiore dell'ammiraglio Sig. Gisqucl de Touches era andato a Gaeta portatore delle proposizioni del governo imperiale. Verso cinque ore della sera quest'ufficial superiore discese di nuovo a terra dopo vari abboccamenti. Allora il fuoco della piazza tacque, e così quello degli assedianti. Sul proposito di questo armistizio riportiamo quel che espresse il Monitore francese del 17 Gennaio:

«L'invio della squadra di evoluzione aveva per oggetto d'impedire che il re Francesco II si trovasse subitamente investito per mare e per terra nella piazza dove si era ritirato. L'imperatore voleva dare un attestato di simpatia ad un principe messo a cruda

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La presenza della nostra bandiera destinata unicamente a coprire il ritiro di S. M. siciliana in condizioni proprie a proteggere la sua dignità, passò per un incoraggiamento alla resistenza e divenne un appoggio materiale. Ne risultarono bentosto incidenti tali che imposero al comandante in capo della squadra l'obbligo di ricordare ora ai Napoletani, ora ai Piemontesi la parte di stretta neutralità che gli era prescritta o nella quale gli fu presso a poco impossibile mantenersi. Importava dunque al governo dell'imperatore non accettare la risponsabilità d'una simile situazione tanto più che dichiarazioni franche e reiterate non autorizzavano alcun dubbio sulla natura delle sue intenzioni.

«Infatti sin dalla fine di ottobre il viceammiraglio de Tinan era invitato a non lasciar ignorare al re Francesco II che le nostre navi non potevano rimanere indefinitamente a Gaeta per assistere impassibili ad una lotta che non dovea tendere se non a più grande effusione di sangue. I medesimi avvisi furono ripetuti più volte a Sua Maestà siciliana il cui coraggio avea così completamente salvato l'onore.

«Frattanto essendosi fatte più gravi le circostanze che abbiamo indicato e volendo conciliare le esigenze di una politica di neutralità col primo pensiero che lo aveva mosso a procurare al re Francesco II il mezzo di operare liberamente la sua partenza, il governo dell'imperatore si è fatto l'intermediario di una proposta d'armistizio che è stata accolta fra le due parti belligeranti. Cessate diffatto fin dall'8 di questo mese, le ostilità restano sospese fino al 19 gennaio; e a questa data egualmente il viceammiraglio di Tinan si allontanerà da Gaeta.»

Tale era la spiegazione data officialmente dal governo francese intorno a questa sospensione d'armi.

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Vediamo intanto alcuniammiraglio Barbier du Tinan si portò presso Francesco II sulla corvetta di Pronv. Egli fu ricevuto nella casamatta reale, ed insistette a più riprese perché le proposizioni della Francia non venissero respinte. Egli si ritirò senza risposta definitiva. L'incertezza su quel che sarebbe stato risoluto durò tutta la mattina, ed una parte della sera del 9. Il capo artigliere ricevette ordine di provvedere per la mattina vegnente a 7 ore le munizioni per sostenere il fuoco durante 6 giorni consecutivi. Verso mezzodì venne annunciato a suono di tromba per le vie di Gaeta, che gli abitanti s'avessero a provvedere di viveri per 6 mesi. Questo provava abbastanza alla popolazione che non si era punto disposti in corte a capitolare.

Finalmente il giorno 11 tutte l'esitazioni avevano cessato. L'ammiraglio du Tinan era stato autorizzato a scrivere al general Cialdini per domandargli la parola di sospendere il fuoco. Il general piemontese rispose in questi termini:

«Il general Cialdini, comandante l'armata d'assedio davanti a Gaeta, all'ammiraglio Barbier du Tinan.

«Castellone l'11 Gennaio 1861.

«Signor Ammiraglio,

«Io bo l'onore di dichiararvi che fino al cadere del giorno 19 corrente non sarà esercitato da mia parte verun atto di ostilità contro la piazza, né fatto alcun lavoro d'approccio, né alcun aumento di numero delle bocche da fuoco in batteria, se però la piazza non mi provoca col suo fuoco oppure co' lavori. In questo caso io mi terrò come libero di ogni impegno, e da mia parte cesserà la sospensione delle ostilità.

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Intanto, Signor Ammiraglio, io non aprirò il mio fuoco senza darvene prima avviso. Voi allora potrete dire a S. M. L'imperatore da qual delle parti dimori il torto.

«Vogliate gradire eco.

«Il generale comandanteL'assedio davanti Gaeta

CIALDINI

Da sua parte il governatore della piazza di Gaeta a nome di Francesco II indirizzò all'ammiraglio francese la lettera seguente:

«Il general Ritucci governatore della piazza di Gaeta al Signor Vice ammiraglio Barbier du Tinan.

«Gaeta il 12 Gennaio 1861.

«Signor Ammiraglio

«Avendo preso gli ordini di S. M. il re mio augusto sovra«no, ho l'onore di farvi sapere che fino al cader del giorno 19 «del corrente non si procederà per parte di questa piazza ad al«cuna costruzione di nuove batterie, né ad alcun accrescimento «di quelle esistenti, e non saranno eseguiti che i soli lavori di i riparazione, riclamati dalle circostanze.

«Se tuttavolta gli assedianti ci provocassero, sia aumentando «le loro batterie, sia formandone delle nuove, chiaro è che in «questo caso noi resteremmo liberi da ogni parola,

A fine di schivare ogni qualunque falsa interpretazione in «caso di ripresa del fuoco dalla piazza, io vi pregherei d'inviare, ir quando sarà venuto il momento, uno de' vostri ufficiali per giudicare da qual parte sarà stato il torto.

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«Vogliate, Signor Ammiraglio', credere all'assicurarono «della mia alta considerazione.

Il locotenente generale comandante

«la piazza di Gaeta

RITUCCI.

La città in vero era stata danneggiata da questo primo bombardamento. Un gran numero di case dal lato della porta di terra principalmente erano andato in rovina. Noi intanto abbiamo, in data del 10, una corrispondenza di Gaeta, proveniente da uno che trovavasi in quella città la quale dichiara, che insomma gli assediati sono stati assai contenti della giornata. Ecco questo documento, che noi citiamo per l'originalità, e che del resto contiene alcuni dettagli interessanti relativamente alle trattative dell'armistizio.

Scrivono da Gaeta il 10 alla Bullìer;

«Il fuoco fu sospeso alla fino della terribile giornata dell'8. Per darvi una idea del fuoco che la piazza ha sostenuto, vi dirò che il numero dei proiettili lanciati dai piemontesi è di 6130 pressoché tutte bombo e palle rigate. Sei pezzi lisci figuravano soli fra i nemici. Le batterie napolitano, che hanno risposto con vigore e precisione, hanno tirato circa due mila colpi. Con un tanto bombardamento sembrerebbe che la città dovesse essere in cenere, sopratutto se si fa attenzione al poco spazio che occupa. Certamente le sue caso hanno molto sofferto e il tiro era diretto su di esse così sovente come sui bastioni; esse sono tristamente danneggiate e non è un bello spettacolo il percorrere le vie. Per

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Ma la caduta di molte d'esse sarà il risultato immediato di un nuovo bombardamento.

«Il numero dei morti in Gaeta non arriva ad una ventina, i feriti sono meno. In questa cifra sono comprese molte persone borghesi.

«Verso sera il fuoco dei Piemontesi rallentò, o dei loro mortai due soli continuarono il fuoco. Alcuni ufficiali spagnuoli, che dalla rada potevano veder distintamente l'effetto dei nostri colpi valutano a 300 i Piemontesi fuori di combattimento.

«Insomma gli assediati sono contenti della giornata dell'8. L'effetto morale fu eccellente. In nessuna parte si è scoperto sintomo di debolezza; su tutti i punti della città si è pressappoco egualmente esposti, ciò nonostante la popolazione non fece intendere la più leggiera lagnanza, ed i soldati sono allegri.

«Sembra che si sia preso il partito di distruggere la città; ma ecco quanto si dice: i bastioni non saranno atterrati; i cannoni risponderanno sempre; la città non verrà presa.

«Da avant'ieri l'ammiraglio francese e il suo capo di stato maggiore vanno e vengono continuamente. Ecco quanto ho potuto raccogliere da buona fonte. L'8 a mezzodì, il general Cialdini, che aveva ricevuto delle istruzioni da Torino, e che non ha voluto inviare parlamentario, perché egli aveva malissimo ricevuto l'ultimo parlamentario napolitano, proponeva per mezzo dell'ammiraglio francese di sospendere il fuoco. Questa proposta della quale non si comprendeva ben lo scopo, non fu gradita a Gaeta. Alla sera arrivò una nuova domanda, ma questa volta l'ammiraglio francese aveva anch'esso delle istruzioni. Se la sospensione non era accordata dalla parte del re, tutta la squadra francese doveva partire immediatamente. Nel caso che la sospensione sia accettata, un armistizio verrà firmato sino al 19 del corrente, sotto la garanzia della Francia, che manterrà, davanti Gaeta, almeno due vascelli, sino a quel giorno.

Durante questo armistizio il re potrà terminare di mettersi

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in istato di difesa, per sostenere la lotta anche dal lato del mare. Ciascuno riparerà i guasti portati dal fuoco; ma né una parte, né l'altra avranno il diritto di costruire nuove opere. Gli ufficiali della squadra francese veglieranno alla esecuzione di questa clausola.

«Negoziami da una quarantina d'ore questo armistizio, allorché una batteria napoletana, che non sapeva quest'ordine (dopo 40 ore? ) ha tirato quattro colpi su una parte del borgo ove apparivano dei lumi. Il re ha immediatamente inviato l'ordine di sospendere il fuoco, qualunque cosa si vegga, qualunque cosa avvenga.

«Io presumo che si finirà per intendersi, e l'armistizio sarà concluso, come lo desidera l'ammiraglio, il quale insiste molto presso il re. Risulta da ciò che la squadra non rimarrà qui più di dieci giorni.»

Secondo questa lettera i difensori di Gaeta avrebbero tutti fatto il loro dovere. Alcun segno di debolezza non si sarebbe mostrato, ma ciò non è confermato da un' altra corrispondenza che noi come fedeli cronisti faremo qui seguito: essa è una lettera indirizzata all'

Ami de la Religion.

Per brevità noi ne togliamo i seguenti particolari sui difensori di Gaeta, i quali ci sembrano abbastanza interessanti:

Il 7 a sera, il nostro ammiraglio ricevette avviso del generale Menabrea, che il fuoco comincerebbe il domani su tutta la linea. Infatti, allo spuntar del giorno gli operai del genio abbatterono la muraglia che mascherava i lavori dei zappatori e potemmo ammirare tre magnifiche batterie armate di 25 pezzi e poste a circa 1800 metri dalla fronte della piazza. Il fuoco cominciò immediatamente, e a mezzogiorno i piemontesi avevano lanciato sulla piazza da 5 a 6 mila bombe ed obici. I difensori di Gaeta stettero qualche tempo a svegliarsi, e per più di un'ora una sola batteria esterna ebbe a sostenere tutto il fuoco dei Sardi. Testimoni oculari hanno assicurato di aver visto alcuni reggimenti di cacciatori, mandati alla batteria Regina, far il giro delle fortificazioni e rientrare in città dal lato del mare.

«Il re ed i principi suoi fratelli furono obbligati a pagar di

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persona per incoraggiare i soldati, il cui spavento non era tuttavia da mettersi a confronto con quello dei loro ufficiali. Infine verso le dieci, il tiro si fece più attivo e più preciso; dopo un breve riposo a mezzo giorno, si ricominciò più energicamente il fuoco, che durò fino alle setto di sera. Non vi fu vantaggio sensibile da nessuna parte.

Sgraziatamente per il successo della sua causa, non tutti hanno l'energia del re, e più d'un capo grigio coperto d'un cappello a piume di maresciallo, indietreggiò a fronte del pericolo che affrontarono Francesco II ed i suoi fratelli.

VII.

Profittando della cessazione delle ostilità, gli ambasciatori ministri plenipotenziarii, o incaricati d'affari accreditati presso Francesco II e residenti da due mesi a Roma si condussero a complire al re il 17 Gennaio all'occasione del suo giorno natalizio: essi gli presentarono dei vini squisiti, e dello ghiottornie che i legittimisti francesi, e l'emigrazione napolitana gl'inviarono in dono.

Nello stesso tempo, come a scambio di prodotti fra la piazza assediata e Roma, un officiale legittimista francese al servizio di Francesco II portò nella città eterna uno strano ricordo dell'assedio: questo era una palla Cavalli del peso di 30 Chilogrammi, che non era scoppiata, e a cui non mancava altro che la capsula. né poto il proiettile giungere senza difficoltà alla sua destinazione; la dogana romana lo sequestrò provvisoriamente, ma il conte di Trapani se lo fe' rimettere.

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La regina madre come ancora quasi tutte le notabilità dell'emigrazione napoletana, vollero esaminare questo strano frutto della guerra.

Noi ci arresteremo qui nel racconto dei fatti dell'assedio, i quali riprenderemo più tardi per esaurirli compiutamente seguendo l'ordine degli avvenimenti, e delle date.

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CAPO II.

SOMMARIO

I. IL PRINCIPI DI CARIGNANO ARRIVA A NAPOLI - COME È ACCOLTO SUO PROCLAMA AI NAPOLITANI PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE ALL'OCCASIONE DELLA NOMINA DEL PRINCIPE ALLA LOCOTENENZA DI NAPOLI PRIMI ATTI DEL PRINCIPE LOCOTENENTE GENERALE EGLI INCARICA

LIBORIO ROMANO DEL MINISTERO DELL'INTERNO - REAZIONE NELLE PROVINCIE NAPOLITANE MANIFESTAZIONE A NAPOLI CONTRO IL MINISTRO SPAVENTA COMITATI ELETTORALI STABILITI A NAPOLI - II. SICILIA AGITAZIONE A PALERMO E A GIRGENTI CONTRO LA FARINA E CORDOVA - RISTABILITA LA CALMA, SI PRENDE CURA DELL'ELEZIONI GENERALI. - III. GARIBALDI RICEVE A CAPRERA LA STELLA DEI MILLE, CHE GLI VA AD OFFRIRE IL GENERAL TURR NEL MEDESIMO TEMPO CH'UNA COLLANA DI DIAMANTI, PRESENTE DI VITTORIO EMANUELE PER LA FIGLIA DELL'EX DITTATORE - DESCRIZIONE DELLA STELLA DEI MILLE - GARIBALDI ACCETTA LA PRESIDENZA DEI COMITATI DI PROVVEDIMENTO - DECRETO DEL GOVERNO SARDO RELATIVO AI VOLONTARJ DI GARIBALDI - IV. A TORINO VI É MOLTA PREOCCUPAZIONE PER L'ELEZIONI E L ANTAGONISMO CHE REGNA TRA GARIBALDI ED IL CONTE DI CAVOUR - LA CITTÀ DI MILANO OFFRE A QUESTI DUE ILLUSTRI PERSONAGGI IL TITOLO DI CITTADINI ONORARI IL GOVERNO SARDO PUBBLICA LA LEGGE RELATIVA ALLA SOPPRESSIONE DELLE COMUNITÀ RELIGIOSE PROTESTA DEI MEMBRI DELL'ALTO CLERO CONTRO QUESTA LEGGE -

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CIRCOLARE DEL MINISTRO DELLA GUERRA PER LA INCORPORAZIONE NELL'ARMATA, DEI PRIGIONIERI FATTI NELLE ULTIME CAMPAGNE - ARRIVO A GENOVA DI 20, 000 UOMINI, AVANZI DELL'ESERCITO NAPOLITANO - IL GENERAL FANTI PUBBLICA IL DECRETO RELATIVO ALLA COSCRIZIONE MILITARE NELLE MARCHE E NELL'UMBRIA - DESTITUZIONE DELL'INTENDENTE MILITARE DI MODENA - V. ROMA - IL GENERAL DECOTON E IL CORPO D UFFICIALI DELL'ARMATA D'OCCUPAZIONE VANNO A COMPLIMENTARE IL PAPA PER L'ANNO NUOVO - RISPOSTA DEL PAPA ALLE PAROLE DEL GENERAL FRANCESE - 85 NOBILI VOLONTARI ARRIVANO DI FRANCIA A ROMA RISPOSTA DEL GENERALE LAMORICIERE AI LEGGITTIMISTI FRANCESI, CHE VOLEVANO OFFRIRGLI UNA SPADA D'ONORE - ALCUNE BANDE DELLA REAZIONE SI RIFUGIANO NEL TERRITORIO PONTIFICIO I ZUAVI DEL PAPA ATTACCANO IL POSTO SARDO DI PONTE CORESE, E SE N'IMPADRONISCONO - L'AUTORITÀ MILITARE FRANCESE S'INTROMETTE PER IMPEDIRE CHE LE TRUPPE PIEMONTESI NON CERCHINO DI VENDICARE QUESTA AGGRESSIONE - RAPPORTO DEL LOCOTENENTE COLONNELLO BECDELIERRE SOPRA QUEST'AFFARE.

I.

Nel mentre che per l'armistizio fermato a Gaeta fu sospesa per otto giorni la lotta fra gli ultimi difensori di Francesco II, e l'armata piemontese, il Principe Eugenio di Savoja Carignano, di cui abbiamo già annunziata la nomina a locotenente generalo del re nelle provincie napolitano, in luogo del Cav. Farini, faceva il suo ingresso a Napoli per pigliarvi possesso delle sue funzioni. La gazzetta officiale del Regno rende conto dell'accoglienza che gli fu fatta, in questi termini:

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«Ieri S. M. il Re ha presieduto il Consiglio dei Ministri:

S. A. R. entrò nel porto di Napoli sabato a mezzodì 12 gennaro.

«Salutato dalla squadra inglese e riverito a bordo della R. pirofregata Vittorio Emanuele, dallo Autorità marittime, fu accolto sulla riva da S. Ecc. il cav. Farini e dal Municipio. Si recò al palazzo in carozza scoperta, dove sedevano con S. A. R. il Luogotenento Generale del Re, il cav. Nigra, segretario generale di Stato, e il Sindaco della città.

La carrozza era scortata dal Comand. generale militare delle Provincie napolitane e dal Generale della Guardia nazionale di Napoli a cavallo, da numeroso statomaggiore e dallo squadrone di Guardia Nazionale a cavallo. Percorse le vie Pigliero Largo del Castello, Largo S. Ferdinando e Largo del Palazzo in mezzo alla Guardia nazionale e alle truppe del presidio fra entusiastiche acclamazioni della popolazione. S. A. R. scese a palazzo, dove, dopo aver ricevuto successivamente il Municipio, i Consiglieri di Luogotenenza, il Soprintendente dei R. R. Palazzi, lo StatoMaggiore della Guardia nazionale e del presidio, passò al balcone del palazzo, donde assistè allo sfilare della Guardia nazionale, numerosissima, e delle truppe di Guarnigione.

Le accoglienze fatte al Principe non potevano desiderarsi migliori.

Ecco il testo dei decreti regi, per i quali fu accettata la dimissione del Cav. Carlo Farini, e in suo luogo nominato locotenente generale il Principe di Carignano.

VITTORIO EMANUELE ecc. ecc.

Udito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposizione del Presidente del Consiglio dei Ministri;

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Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue.

Il cavaliere Carlo Luigi Farini è dispensato sulla domanda dalla funzioni di Nostro Luogotenente Generale nelle Provincie Napoletane ed è nominato Ministro di Stato.

Il predetto Presidente del Consiglio dei Ministri è incaricato dell'esecuzione del presente Decreto, che sarà registrato alla Corte dei Conti:,

Dato a Torino, addi 3 gannajo 1861.

VITTORIO EMANUELE.

C. Cavour.

VITTORIO EMANUELE II, ecc. ecc.

Visto il nostro decreto del 17 dicembre 1860. in virtù del quale le Provincie napolitano fanno parto integrante del Regno Italiano, e con cui si dichiara applicabile ad esse sino alla riunione del Parlamento, l'art. 82 dello Statuto;

Sentito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposizione del Presidente del Consiglio;

Abbiamo ordinato ed ordiniamo.

Art. 1. Il nostro amatissimo cugino il Principe Eugenio di Savoja Carignano è nominato nostro Luogotenente generale nelle Provincie Napolitane.

Art. 2. Egli è incaricato di reggere e governare in nostro nome e per nostra autorità le anzidette provincie.

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Eserciterà pertanto in esse e in nome nostro il potere esecutivo; quello di far grazia, di commutare le pene, di nominare e rivocare gl'impiegati e funzionarii dell'ordine amministrativo e dell'ordine giudiziario; di far decreti e regolamenti per la esecuzione della legge,

Vi avrà il comando delle forze di terra e di mare.

Art. 3. Egli è inoltre investito, sino alla prima riunione del Parlamento Nazionale, dei pieni poteri riserbati a Noi dai suaccennati articoli 2. ° del Decreto nostro del 17 dicembre, e 82. ° dello Statuto del Regno.

Art. 4. E stabilito presso del nostro Luogotenente generale un Segretario generale di Stato per le Provincie Napoletane.

Art. 5. Il Segretario generale di Stato unitamente al rispettivo Consigliera di Luogotenenza sottoporrà al nostro Luogotenente generale e controsegnerà tutti i provvedimenti pei quali sìa necessario il decreto o l'assenso sovrano, e potrà essere incaricato da lui di spedire direttamente gli affari pei quali basti un deereto ministeriale.

Egli inoltre eserciterà tutte le attribuzioni del cessato Ministero della Presidenza.

Art. 6. Il Segretario generale di Stato corrisponderà direttamente con ciascuno dei nostri Ministri pel ramo che respettivamente ne gli risguarda.

Art. 7. A ciascuno dei rami di governo e di amministrazione pubblica, che a' termini delle leggi e degli ordini vigenti in quelle Provincie erano di rispettiva competenza dei Ministeri di grazia e giustizia, degli affari interni, della polizia, dei lavori pubblici, dell'agricoltura, e del commercio, della pubblica istruzione, presiederà sino all'apertura del Parlamento un Consigliere di luogotenenza, sotto la dipendenza immediata del Segretario generale di Stato, salvo in quell'epoca le occorrenti ulteriori determinazioni.

Le attribuzioni del Ministero della guerra e di quello della marina continueranno ad essere direttamente esercitate dai nostri Ministri di guerra e di marina.

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Art. 8. Tutta le autorità delle Provincie Napoletane sono poste sotto la dipendenza del Nostro Luogotenente Generale.

Esse corrisponderanno direttamente col Segretario generale di Stato e coi Consiglieri di Luogotenenza.

Art. 9. Saranno determinate con particolari istruzioni le relazioni tra il Luogotenente Generale ed il Nostro Governo, necessarie ad una perfetta unità nell'indirizzo e nel governo della cosa pubblica. '

Ordiniamo che il presento Decreto, munito ecc.

Dato a Torino addì 7 gennajo 1861.

VITTORIO EMANUELE

C. CAVOUR

Con altro Decreto colla stessa data il Cav. Costantino Nigra inviato straordinario e ministro plenipotenziario è nominato Segretario generale di Stato addetto alla luogotenenza generale delle provincie napoletane.

Lo stesso giorno che il Re V. Emanuele firmava il decreto di nomina del Principe di Carignano, indirizzò agl'Italiani delle provincie delle due Sicilie il seguente proclama;

Italiani delle Provincie Napoletane!

Le cure dello Stato mi costrinsero a separarmi con rammarico da voi. Non saprei darvi maggior prova di affetto che inviandovi il mio amato Cugino, Principe Eugenio, al quale soglio affidare, in mia assenza, il reggimento della Monarchia. Egli governerà le provincie napoletane in mio nome e con quei poteri che esercitai io stesso e delegai all'illustre uomo di Stato cui grave lutto domestico ritrae dall'onorevole ufficio.


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Ponete nel Principe Eugenio quella fiducia della quale mi deste prove non dubbie, e, mentre attendo i vostri rappresentanti al Parlamento, agevolate colla vostra concordia e col vostro senno civile l'opera di unificazione ch'egli viene a promuovere. L'Europa che da due anni guarda maravigliando i grandi fatti che si compiono in Italia, apprenderà dalla vostra condotta che le Provincie Napoletane, se più tardi vennero nel consorzio delle liberate sorelle, non perciò sono meno ardenti nel voler? fortemente l'unità della patria comune.

Torino, 7 gennajo 1861.

VITTORIO EMANUELE

C. CAVOUR

Il principe giungeva a Napoli in un momento di somma difficoltà. L'agitazione elettorale vi aveva risvegliato ancor più lo spirito dei partiti. Il partito d'azione, tuttoché in picciol numero faceva inauditi sforzi per fare riuscire i suoi canditati. Nessuno più si occupava di questioni amministrative, e finanziarie, e militari. Pertanto le questioni amministrative e finanziarie erano della maggior importanza. Esse avevano causato lo scacco subito dal Farini, il quale più che dal cattivo stato di salute onde s'affliggeva da lungo tempo, fu da quelle determinato a dimettersi.

Il nuovo locotenente generale se ne diè subito la maggior sollecitudine, e il suo primo atto fu di chiamare appresso di sè Liborio Romano, domandargli consiglio ed offrirgli il portafoglio dell'interno pregandolo a designare dei nomi per le altre funzioni.

Liborio Romano confermò il principe di Carignano ne' suoi principii di riconciliazione e fusione dei partiti e propose alcuni nomi. Il principe, diceva una lettera di Napoli, vi pensa da tre giorni.

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Distinti personaggi della città vanno e vengono dal palazzo; si pesano le capacità, lo attitudini, le proposte dei vari candidati, e se ne differisce la nomina per meglio garantire la scelta. Molti nomi corrono di bocca in bocca, alcuni bene accolti, altri con un certo stupore.

La difficoltà sta specialmente, nella scelta d'un consigliere delle finanze, rara avis dappertutto, ma a Napoli augello quasi irreperibile, secondo una lettera da Napoli al giornale des Debats, perché non è facile metter qui la mano sopra un uomo che accoppi la scienza, la pratica, l'uso degli affari, la capacità amministrativa, la convenienza politica e che sia nel tempo stesso in armonia cogli altri suoi colleghi, politicamente parlando.

All'indomani del suo arrivo il Principe locotenente generale indirizzò questo proclama ai Napoletani:

PROCLAMA

DI S. A. IL PRINCIPE EUGENIO

Il Re m'affida il Governo di questa parte del Regno Italiano.

Accetto il grave incarico, mosso dall'amore della patria, dall'obbedienza al Re, dalla fiducia nella vostra leale cooperazione.

Queste provincie separate da lungo tempo dal resto d'Italia manifestarono con unanime suffragio la ferma volontà di far parte indivisibile della patria comune sotto lo scettro Costituzionale della Dinastia di Savoia.

Spetterà al Parlamento di dare l'ultima sanzione all'ordinamento amministrativo del Regno Italiano, ma intanto è compito nostro spianargli la via prima che esso si raduni continuando e sollecitando l'applicazione a queste Provincie, di quelle misure legislative che non si potrebbero differire senza nuocere alla unità ed all'assetto costituzionale di tutta la Monarchia. L'unificazione, in quanto possa essere immediatamente applicabile, sarà dunque il primo concetto che informerà gli atti del governo.

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Ma perché i nuovi ordini possano mettere radice e perché il popolo possa provare i benefici effetti di libero reggimento, prima e necessaria condizione è il mantenimento dell'ordine, l'osservanza della legge.

Il paese può esser convinto che il governo non verrà mai a transazione col disordine, e che ogni tentativo d'agitazione illegale sarà prontamente e severamente represso. Dove non regnano la sicurezza e l'ordine, ivi non può allignare la libertà. Per compiere questa parte principale del mio mandato faccio conto sul retto senso di tutta la popolazione e più specialmente sul patriottismo della Guardia Nazionale, che già rese grandi servigi al paese, e che sin da' suoi primordii mostrò disciplina e contegno, degni d'un popolo che ha la coscienza de' suoi diritti e de' tuoi doveri I

Per la stretta ed universale esecuzione delle leggi, per la repressione d'ogni loro infrazione io conto in particolar modo sulla cooperazione energica ed imparziale della Magistratura, che in ogni paese liberamente ordinato deve essere la fedele custode, della logge, l'espressione della pubblica moralità.

E intenzione del Governo che la Chiesa e i suoi ministri sieno rispettati e che nissun incaglio sia posto al libero esercizio del culto. Ma nel tempo stesso egli ripromette dal Clero l'obbedienza al Re, allo Statuto ed alle Leggi.

Il Governo volgerà tutta la sua attenzione sulla condizione economica del paese e sul modo di migliorarla, sullo sviluppo di cui sono suscettibili le grandi risorse della sua agricoltura, del suo commercio e della sua industria, e sui lavori di pubblica utili! a, ai quali sarà posto mano senza indugio.

Sarà pure principale cura il promuovere il pubblico insegnamento, e sopratutto l'insegnamento popolare e tecnico. Istruzione e lavoro, sono le due fonti della moralità e della ricchezza, i due cardini su cui si appoppano le società libere e civili.

La finanza di questa parte del Regno Italiano scomposta dai rivolgimenti politici, e da esigenze straordinarie, abbisogna di un pronto ordinamento.

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Intanto che si preparano gli elementi di un regolare bilancio da presentarsi al Parlamento, farò apportare a questo servizio economia e pubblicità. Nobile ufficio della stampa sarà quello d'indicare al Governo con calma e schiettezza gli abusi da togliere, le riforme da introdurre in questo, come in ogni altro ramo dell'amministrazione. L'Italia si sta facendo, ma non è ancora fatta. Al finale compimento di quest'opera sublime, che fu sospiro di tante generazioni, occorrono tuttavia grandi sacrifizi. Voi accoglierete, io ne son certo, con lieto animo tutti quei provvedimenti, che il Governo Centrale ed il Parlamento stimeranno necessari ad accrescere, riunire e disciplinare le forze di terra e di mare della Nazione. L'appoggio di tutti gli uomini onesti, il rispetto universale alle leggi, la concordia degli animi risponderanno, spero, alla fiducia posta in voi dal re e dalla nazione. Tutta l'Europa tiene in questo momento fisso lo sguardo su questa parte d'Italia, gloriosa per antichissime tradizioni di civiltà, di sapienza, e per grandezza di sventure patite per indomabile affetto alla libertà.

Voi potete, col solo vostro contegno rendere alla patria comune un servizio forse più grande di quanti le sieno stati resi da altre provincie con sagrifizi molti d'uomini e di denaro. Io mi chiamerei fortunato se, caduto in breve, come non dubito, l'ultimo propugnacolo della signoria borbonica, io potrò dire al re d all'Italia: «Se v'occorrono le guarnigioni e le leve delle provincie napolitane, chiamatele pure ai nuovi cimenti: questa parte d'Italia può anch'essa, al pari d'ogni altra, governarsi senza soldati.»

EUGENIO DI SAVOJA

Liborio Romano avendo accettate le funzioni, (di cui gli ebbe fatta offerta il Principe) di ministro dell1 interno, indirizzò il 18 Gennaio a sua Altezza reale una proposizione, il cui scopo era di dar pubblicità a tutti gli atti del governo. Noi pubblichiamo il testo di questa proposta, che fu adottata dal locotenente generale del re:

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Altezza Reale

Nei paesi che si reggono con forme liberali ed in cui le cose si operano alla luce aperta del sole, gli uomini proposti al timone dello Stato debbono innanzi tutto fuggir le tenebre, il mistero, ed invece tenersi quasi in presenza del pubblico con un giornaliero rendiconto degli atti governativi, sia che questi riguardino l'andamento degli affari in generale, sia quello de' privati in particolare.

Un tal sistema, come a me sembra, torna grandemente profittevole ai governanti ed ai governati, perciocché mentre gli uni dicono chiaro e netto quello che vogliono, e mostrano i mezzi di che si giovano per raggiungere il loro scopo, gli altri al contrario chiamati in certa guisa a recar giudizio sull'indirizzo dell'Amministrazione, e fin sull'uso che fecero del tempo coloro che vi presiedono; non possono lasciarsi traviare dall'altrui malizia, né travolgere essi stessi i fatti od isnaturarli a capriccio.

Cosi l'opinione si forma, così la stampa veramente illumina il popolo ed il governo, così la fiducia sorge e si stabilisce come saldo presidio di tutti, e con la fiducia viene del pari la sicurezza ed il benessere e la prosperità de' cittadini.

Questi convincimenti, che in me, ne' miei onorevoli colleghi sono profondi ed inalterabili credo che si avranno pure l'onora dell'approvazione da parte dell'Altezza Vostra. Conviene solo tradurli nella realtà, perché meglio se ne riconoscano i vantaggi, si sappia e si tocchi con mano che il governo, anziché perdersi in vane ed infruttuose discettazioni, si piace di tenersi ai fatti, ne' quali è la sua condanna o la sua forza.

Ed affinché questi medesimi fatti fossero noti ad ognuno e tutti li valutassero con ponderato e giusto criterio, io penso che un rapporto settimanale dovesse scriversi da uno de' Consiglieri intorno ai lavori eseguiti in ciascun Dicastero sui rapporti trasmessi dagli altri rispettivi Dicasteri; e questo medesimo rapporto opino che debba inoltre pubblicarsi

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e diffondersi col mazzo del giornale ufficiale, lasciando così libero il campo od all'approvazione di coloro che spassionatamente vorranno giudicarci, ovvero ad una critica ragionata e gentile che possa rischiararci nell'arduo e difficile cammino in cui siamo entrati, e giovare nel tempo stesso alla verità ed al paese.

Napoli 18 gennajo 1861.

Il Consiglieri incaricate del Dicastero dell'Interno

L. Romano.

S. A. R. approva che successivamente ciascun Consigliere faccia al Segretario Generale di Stato il complessivo rapporto dei lavori eseguiti, o settimanalmente o ad altri brevi periodi, e si pubblichi sul giornale ufficiale.

NIGRA.

La nomina di Liborio Romano fu accolta da una parte della popolazione di Napoli con una grande sodisfazione: onde ebbe luogo, il 18 Gennajo, una dimostrazione molto forte che protestò nel medesimo tempo contro il ministro Spaventa.

Il giornale nazionale giudicò questa duplice dimostrazione, al modo che segue:

Ieri sera verso le 6 una gran folla partiva dal Mercatello, e venne tino a Palazzo, gridando: Viva Vittorio Emanuele - Viva il Principe Eugenio - Viva Garibaldi - Viva il nuovo Ministero, ed alcuni Abbasso - ed altri Viva Spaventa.

Ad intervalli si udiva una voce stentorea, che diceva: Gridate, gridate, o siamo perduti. L'egregia nostra Guardia Nazionale accorsa tutta in armi in un attimo, comportandosi in modo veramente ammirabile, senza disturbare alcuno, tenne dietro con severo contegno alla folla, chiudendola quasi in mezzo. La dimostrazione, a tal guisa, si protrasse placidamente

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fino allo sbocco del Largo S. Ferdinando, dove volendosi proseguire ancora, la Guardia Nazionale si fece avanti e lo impedì collo schierarsi tutta dall'un canto all'altro della via. L'ufficiale si avvicinò alla folla, disse con urbane parole che bastava, che si era espresso quello che si voleva, e pregò con belle maniere di disperdersi.

La calca obbediente non sel fece ripetere, e immantinenti ciascuno andò pei fatti suoi senza che il menomo tumulto accadesse.

Noi non possiamo che ripetere in questa occasione, quello che dicemmo per una dimostrazione fatta tempo indietro contro Ferrigni. Sia che le dimostrazioni si facciano contro o in favore, sono sempre dei moti incomposti, dei fatti illegali.

Ne vale a giustificarli il dire, che sieno dei movimenti spontanei, passionati della folla. Ciò fu vero, e fu anche bello, quando giunse Garibaldi in Napoli o Vittorio Emanuele. Ma per le piccole dimostrazioni, delle quali parliamo, la faccenda procede diversamente.

Due o tre nemici o amici d'un consigliere, volendo sfogare una loro vendetta, o pure farsi merito, ne parlano ai loro aderenti, si decidono a spendere pochi ducati, e mettendo nelle mani di questo pochi carlini, e nelle mani di quell'altro poche grana secondo la condizione delle persone ed il modo onde sono vestite, riescono a mettere insieme un centinajo d'individui. Questi si danno convegno in un luogo: si mettono in cammino, incontrano per istrada degli oziosi o dei curiosi, s'ingrossano e fanno folla.

E questa folla di duecento straccioni, intriganti, curiosi ed oziosi s'immagina di esprimere l'opinione di più milioni di cittadini, gridando abbasso o viva questo o quel Consigliere.

Noi diciamo a questi amici di Spaventa o di Romano qualunque essi siano, e qualunque i loro lini, che la cosa più gradita ch'essi potrebbero fare ad un Consigliere della Polizia o dell'Interno sarebbe di non turbare l'ordine, ch'essi hanno il dovere di mantenere anche a costo di dovere usare la forza contro coloro, che acclamano il loro nome.

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Da queste leggiere dimostrazioni in fuori, la città di Napoli non solo è tranquilla, ma vi continua quel ripiglio di vita sociale, che già era principiato da un mese in qua. L'alta società ha dei ritrovi frequenti e brillanti, nei quali si raccolgono le più eleganti signore dell'aristocrazia o della borghesia, e sono invitati ufficiali dei due eserciti, settentrionale e meridionale. La vita del piccolo commercio è rigogliosa, e fuori che in alcuni pochi mestieri, il lavoro copiosissimo e meglio retribuito. Cosicché quegli i quali hanno accompagnato il principe di Carignano, sono rimasti maravigliati dal trovare la condizione delle cose così diversa da quella che avevan dipinto per iscritto o a voce alcuni affannoni politici, i quali avevan dato a intendere che qui si camminasse sopra un Vulcano.

E invero parrebbe, che l'agitazione ond'era turbata Napoli, fosse più fattizia che reale. La maggioranza degli abitanti voleva la tranquillità, la quale da un piccolo numero d'agitatori era troppo spesso messa in pericolo. Così negli ultimi giorni dell'amministrazione del Cav. Farini, si era veduta una piccola banda d'individui, fra i quali una dozzina di femmine in costume Garibaldiano, attaccare alcune guardie nazionali a Portici.

Fu scoperta parimenti una cospirazione borbonica, il cui piano era d'impadronirsi del castello dell'ovo, del palazzo reale, e di Sant'Elmo. La Polizia di Farini aveva disvelata questa trama, e quattro generali napoletani, capi di questa cospirazione, furono arrestati, cioè i generali Marra, di Liguro (che era stato segretario della capitolazione di Capua), quindi Palmieri e Polizzi. Questo tentativo d'insurrezione non aveva nulla di serio, ma serviva a gettare di nuovo incertezze negli spiriti, di già turbati abbastanza.

La venuta del principe di Carignano, accompagnato dal Nigra produsse un effetto favorevole sulla popolazione. Il Nazionale pubblicò intorno questi due personaggi una lettera, che noi crediamo utile di riportare come notizia biografica:

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Napoli 6 gennajo.

«Il principe di Carignano arriverà nei primi della settimana prossima, a prendere posto di Luogotenente generale di queste provincie napoletane.

«Il cav. Farini, afflitto da un continuo malessere, dacché è giunto fra noi, e colpito così duramente dalla più dolorosa delle sventure, ha chiesto egli stesso al governo centralo di volersi torre di dosso un così duro peso, com'è quello di governare coteste nostre provincie.

«A noi certo dispiacciono le cagioni dalle quali il cav. Farini è stato costretto a questa risoluzione stessa. Giacché noi avevamo fiducia che il cav. Farini colla sua pratica di governo, e colla sua naturale audacia e fermezza di spirito, sarebbe venuto a capo, come già si era avviato, di risanare le nostre piaghe e riordinare le provincie.

«Pure, non si può negare, che, stante la malattia che l'inabilitava ad attendere assiduamente agli affari, stante la sua sventura, che gli rendeva impossibile di vedere la società napoletana e d'accostarlesi, il cav: Farini non rimaneva che con una parte de' mezzi, dei quali poteva disporre per la difficile opera, che gli era stata affidata.

«Il principe di Carignano è persona colta ed amabile, di moltissimo senso e di gran pratica, il solo principe della Casa di Savoia, che, stante la minore età del principe ereditario, possa tenere le redini del governo, piacerà a Napoli e per le qualità sue personali e per il suo rango.

«Posto così alto dalla sua nascita stessa, troverà modo di resistere al sobbollimento di passioni e di smanie, di pretensioni e di desiderii che la subitanea mutazione potrà produrre. La qual cosa, davvero, è necessaria, perché non ci si trovi a dover ricominciare da capo.

» Il Principe sarà accompagnato da un giovine di senno antico, d'ingegno, e di capacità varia, e di tratto elegantissimo, e di molta pratica di mondo.

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Questo giovine è Costantino Nigra, il quale non ha vissuto che per l'Italia, e non ha fatto sinora che difenderla, da prima coll'opera della mano e poi con quella del senno. Al 48 non doveva avere che 24 anni, si arrolò bersagliere, e combattette nella prima e nella seconda campagna. Quando fu tornato in patria, venne, durante il secondo e breve ministero di Vincenzo Gioberti, riconosciuto da questo per giovine di molta speranza, e chiamato in qualità di alunno nel ministero degli Esteri.

«Ivi fu trovato e distinto da Camillo Cavour, il quale, Visto le varie dottrine ed il profondo senno del giovinetto, lo chiamò nel suo Gabinetto a suo segretario particolare. Quando dopo la guerra di Crimea, il conte Cavour andò a patrocinare la causa d'Italia al congresso di Parigi, si fece accompagnare dal Nigra. E d'allora in poi, questi prese parie a tutte le più segrete e rilevanti trattative che intervennero sino alla guerra d'Italia tra il governo di Torino e quello di Francia.

«Quando il Marchese di Villamarina fu mandato in Napoli e richiamato da Parigi, il Nigra lo surrogò; giacché nessuno meglio di lui avrebbe potuto tener ferma e render giovevole un'alleanza, nella cui conclusione aveva avuta tanta parte. Fu fatto da prima incaricato d'affari, e poi ministro straordinario.

Prima d'essere mandato a Napoli a latere del Principe, ebbe nomina di ministro plenipotenziario. E viene qui in qualità di consigliere di Luogotenenza e di ministro responsabile al Parlamento, degli atti del governo di cui il Principe sarà a capo,

«Noi speriamo che i Napoletani si vogliano e si sappiano stringere avanti al nuovo Capo del governo, e fargli ala a sussidiarlo e correggerlo. Giacché nessun governo riesce a contentare senza un aiuto dalla parte del pubblico. Che, se colla solita impazienza e smaniosa furia, s'aspettano di vedere miracoli, né miracoli vedranno, né i beneficii ordinarii di un governo legittimo e regolare potranno aspettarsi. Che i Napoletani non si mostrino adunque meno savii dei Toscani; e che accolgano il Principe con una letizia eguale al dolore con cui i Toscani l'hanno visto partire.

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Abbiamo veduto, che l'accoglienza fatta al Principe, era stata molto incoraggiante per lui. Frattanto la reazione faceva tuttogiorno dei considerevoli progressi nelle provincie.

Negli Abruzzi esistevano già tre corpi organizzati, e composti di soldati congedati e di contadini. Questi corpi operavano ad un tempo in tre punti. L'uno, sopra Sora, comandato da un tal Chiavone il secondo a Valle Roveto, sotto la direzione del conte Giorgi: ed il terzo dalla parte di Corsoli, i cui dintorni erano sollevati, il quale doveva tenersi in riserva per sostenere gli altri due. Eravi inoltre il corpo comandato dal conte Lagrange, che possedeva quattro o cinque pezzi d'artiglieria.

II.

La situazione della Sicilia non era punto più rassicurante. A Palermo avean luogo dimostrazioni pubbliche ogni giorno, al grido di

Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi! Abbasso i nemici di Garibaldi! Abbasso La Farina e Cordova. A fronte di queste agitazioni il Prodittatore aveva fatto affiggere un proclama, nel quale si annunziava che gli attruppamenti qualunque e' fossero, sarebbero dissipati dalla forza dopo le tre legali intimazioni.

Il comandante della guardia nazionale dichiarò al Sig LaFarina, che la milizia cittadina non doveva operare contro le dimostrazioni pacifiche. Nello stesso tempo diversi ufficiali del corpo, in uniforme, e seguiti da alcune semplici guardie nazionali armate percorrevano le strade, e strappavano gli affissi del proclama con la punta delle baionette.

Risaputi simili fatti, La Farina e Cordova credettero bene di dover dare la loro dimissione, la qual fu seguita da quella degli altri loro colleghi.

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Il Sig. di Montezemolo mandò pregando il Marchese di Torrearsa a Trapani che formasse un nuovo ministero, e destituì il comandante della guardia nazionale onde rimpiazzarlo con Carini. Intanto prima di ritirarsi dalla loro amministrazione, Lafarina e Cordova ordinarono di arrestare Crispi, il chirurgo Raffaeli, e l'avvocato Ferro, siccome autori dei tumulti che agitavano la città. Abbiamo una corrispondenza di Palermo alla Nazione sotto la data del 5 gennajo, la quale porge dei dettagli circostanziati degli avvenimenti testé succeduti:

Palermo 5 Gennaio

Pur troppo anche questa volta in Palermo i pochissimi tristi che si agitano, l'hanno vinta sui moltissimi onesti che credono virtù il non far nulla. E chi rappresentò o fece rappresentare questa brutta scena che lascia sventuratamente un addentellato, fu la Guardia Nazionale. Però essendo giustizia che ognuno si abbia il biasimo meritato, ecco i fatti quali si succedettero. L'opposizione era su tutte le furie, perché si consolidava il Governo, il quale dal canto suo nulla faceva per annodare in qualche modo i suoi più caldi sostenitori; troppo contando sull'inerte onestà della nostra numerosissima maggioranza. In tale stato di cose un sottotenente della Guardia Nazionale co' suoi militi, tutti appartenenti a quell'infinita schiera, cui la prodittatura dischiuse una California, trovandosi a cena mentre era di guardia al palazzo delle Finanze, dopo vari brindisi a Garibaldi, tra un bicchiere e l'altro gridò morte a La Farina, e la sua gente gli fece eco. Il fatto venne propalato come una vittoria riportata, ed i rei vedendosi accarezzati e lodati dai pubblici fogli oppositori, invece di vergognarsene, se ne faceano belli. Invano il capitano e gli altri uffiziali di quella compagnia davano la loro dimissione; i colpevoli non potevano risentirne alcuno scorno, mentre il generale brigadiere ispettore della Guardia Nazionale dell'isola, andando in giro pe' corpi di guardia, sparlando per sue particolari ragioni altamente del governo, spingeva ad ogni eccesso.

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Allora l'opposizione ebbe il bandolo per tentare alla peggio una dimostrazione. Se l'intese con parecchi della Guardia Nazionale acciocché i loro clamori obbligassero almeno all'inazione quel corpo che agl'occhi della plebe è coronato di un rispettoso prestigio; e poi si contò sull'odio di Garibaldi contro Cavour e la Farina, si prezzolarono pochi cialtroni; e finalmente l'ultima sera dell'anno si gridò abbasso e morte per La Farina e Cavour. Chi si metteva ad interrogare taluno della torma, perché mai schiamazzasse, udiva ripetere che il pane e scarso. Così passò più di un' ora, durante la quale la Guardia Nazionale spettatrice con la sua inerzia facea accrescere i clamori. In fine le savie parole di molti cittadini fecero dileguare la ciurmaglia, colpevole solo perché ignorante; imperocché appena udiva che Cavour era l'amico di Vittorio Emanuele e nemico dei Borboni confessava che l'aveano voluta ingannare.

Il domani il governo risolse uscire temporaneamente dalla legalità per evitare il peggio, ed ordinò che fossero arrestati coloro che reputava capi autori del tumulto, fra i quali si devono notare il chirurgo Raffaeli, l'avvocato Ferro ed il notissimo Crispi. Però taluno della Guardia Nazionale facea che il Crispi se la svignasse, ed altri dello stesso Corpo liberava pubblicamente il Ferro arrogandosi il diritto di dichiararlo arrestato illegalmente. Quindi la sera, nuova dimostrazione con la stessa inazione della Guardia nazionale, e terminata nuovamente per l'opera dei buoni cittadini che mano mano faceano sciogliere i crocchi al grido di viva il Re!

Però ieri, 2 corrente, il governo credea ancora vincere la prova, e pubblicava un' ordinanza della Questura che vietava gli attruppamenti. Ma allora un capitano della Guardia Nazionale, di cui ognuno dovrebbe sdegnare di pronunziare il nome, scorrendo la città con una pattuglia di sua scelta andò stracciando con parole vituperevoli l'ordine del governo. La bordaglia plaudiva, perché le si diceva che così finalmente si avrebbe il pane a buon patto: altri non sapea che risolvere sul momento ignorando da chi quell'ufficiale si avesse un tale incarico, e temendo di far peggio.

Però i Consiglieri della Luogotenenza saputo il fatto,

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conoscendo non potersi oramai sostenere che con atti di pubblica severità, chiesero ed ottennero la loro dimissione: e Montezemolo incaricò il marchese di Torrearsa, da qualche tempo ritirato a Trapani, di formare un altro Consiglio.

Ora si spera che il nuovo governo sappia preservare Palermo e l'Isola tutta dalla rovina minacciata dagli anarchici. Si comprende che sarebbe inopportuno sciogliere la guardia nazionale; ma se essa non viene energicamente espurgata e retta, porterà il paese ad un abisso. Io tremo a pensare come potrebbe finire, se la sistematica corruzione e i commessi delitti rimarranno impuniti. Dall'altro canto la plebaglia si attende che i nuovi consiglieri facciano sparire il caro de' viveri; e la turba infinita degli stipendiati prodittatoriali non darà requie a chicchessia, ove i propri averi sieno toccati per altro che per essere accresciuti. I consiglieri ritiratisi aveano stabilito di temporeggiare, mentre erano stati avvertiti che la fazione facea proseliti tra la guardia nazionale; ora che faranno mai i nuovi essendo svelati gli umori? Se i buoni si riconoscessero tra loro, si vedrebbe che i tristi sono in sì poco numero da non potersi credere che abbiano osato tanto. Però essisi sono stretti in uno; mentre gli altri troppo fidenti nella forza de' più, accorrono tardi al riparo. Così la gran maggioranza della stessa guardia nazionale, ieri soia era decisa di mettere al dovere gli assalitori; i quali però, non avendo ragiona di compromettere il loro indegno trionfo, se ne stettero cheti; ma pronti all'occasione a mostrarsi di nuovo.

A Girgenti il 13 Gennaio a sera varii incidenti allarmarono grandemente il paese. Da più giorni il partito reazionario si è messo in moto spargendo delle voci sediziose onde turbare l'ordine attualo di cose. - Per avviso dato due giorni fa al Maggiore di terza categoria si sapeva che quel partito preparava una dimostrazione nel senso repubblicano.

Ieri sera giorno di Domenica per talune dissenzioni nate nella nomina di un nuovo ufficiale nella seconda compagnia seconda categoria si ebbe l'imprudenza dalla maggior parte dei militi di assentarti dal servizio.

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A causa quindi del numero sparuto dei militi sotto le armi pare siesi creduto quello un momento da profittarne. - l'ora scelta era senza dubbio più tarda di quella in cui avvennero i fatti, che siamo per narrare. - Una questione nata per affari d'interesso fra un certo Favarese ed un forestiere li fece venire alle mani. - Il Favarese imprudente brandì un' arma contro quel tale, che per difesa gli scaricò un colpo di pistola alla testa. La sentinella della Gran Guardia gridò all'armi, e molti militi accorsero all'appello.

Fin qui nient' altro che un affare privato - Però i tristi che erano apparecchiati per quella sera, ebbero a credere quel colpo un segno - Appena i primi militi della Guardia arrivare no nel mezzo del piano di S. Domenico, un colpo a fuoco si parti da un angolo di strada, che ferì in faccia Cesare Lopresti: altri colpi seguirono ma senza danno.

Il famoso ex compagno d'armi Carmelo Borzellini assaltò l'uffiziale di Guardia Nazionale Antonino Cardella, il quale, tratto il revolver, avventò due colpi all'aggressore, e lo fugò - Così ebbe termine la dolorosa scena; e bisogna saper grado alla Guardia Nazionale che in un attimo fu tutta sotto le armi, e ristabilì con ammirevole energia la calma nel paese.

Questa effervescenza si calmò intanto e poco a poco, e il 20 Gennaio a Palermo si era occupati, tranquillamente per le nomine dei Candidati alle prossime elezioni. Il 18 eravi stata una numerosa riunione preparatoria in casa del Baron Bizo affine di costituire un comitato elettorale patriottico, e procedere alla scolta dei candidati da proporre ai quattro collegi della città di Palermo.

Il Marchese di Torrearsa,

Il Cav. Emerico Amari,

Il General Giacinto Carini,

e Michele Amari (lo storico)

furono designati dal comitato.

Del rimanente in seguito dei fatti, che aveano avuto luogo a Palermo, il Marchese di Torrearsa aveva accettato l'offerta di comporre un nuovo ministero di locotenenza; e il locotenente generale pubblicò, il 7 gennaio questo proclama:

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CITTADINI E GUARDIA NAZIONALE

Dl PALERMO

In un momento d'ansia pubblica io chiesi alla popolazione ed alla Guardia Nazionale di Palermo d'aver fiducia nel Governo del Re, tutore di tutti i legittimi interessi, emanazione di quella sovranità, di cui il Plebiscito del 21 ottobre 1860 costituisce la legale espressione.

Come io fidava nel criterio e nell'intelligenza del popolo, egli fidò nella lealtà del Governo, e la pubblica quieto consentì di comporre pensatamente un consiglio di Luogotenenza, nel quale il governo del Re è certo di trovare quel sussidio di lumi, di opera, di autorità di cui temporaneamente lo privava il ritiro dei cessati consiglieri.

Nel rendere testimonianza al sentimento della dignità civile e della solidarietà politica che produssero questo risultato, si annunzia che i cittadini a far parte del Consiglio di Luogotenenza sono:

Presidenza e pubblica istruzione - Marchese di Torrearsa Interno - Cav. Emerico Amari

Sicurezza pubblica - Barone Turrisi Colonna

Grazia e Giustizia Filippo Orlando, sostituto proc. gen. alla Corte Civile

Lavori pubblici - Principe S. Elia.

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III.

L'ultima volta, che nella nostra cronaca si è parlato di Garibaldi, noi l'abbiamo lasciato a Caprera, ricevente numerose visite d'amici, e di stranieri d'alto grado, scrivendo lettere e proclami: noi lo ritroveremo intanto in uno dei più bei giorni, secondo lui della sua vita; vale a dire ricevendo dalle mani del general Turr la stella dei mille: questa decorazione gli ebbero decretata i suoi compagni d'arme, ed ora gliela mandarono ad offrire. L'otto Gennaio il general Turr partivasi da Milano ed arrivava a Genova l'undici, onde s'imbarcava per Caprera. Il viaggio era stato commentato, al solito, dai giornali, clic n' avevano fatta quasi una missione politica di riconciliazione, o fra Garibaldi e il Re Vittorio Emanuele, o fra Garibaldi e il Conte di Cavour. Tutte supposizioni prive di fondamento. Il general Turr si portò soltanto a Caprera per offrire a Garibaldi la stella di onoro che i suoi mille gli avevano decretata, con insieme una collana magni! ira di diamanti, che il re diriggeva alla figlia del suo amico l'ex dittatore delle due Sicilie.

Questa stella, unica decorazione che doveva brillare sul petto di Garibaldi, è uno squisito lavoro uscito dalla fabbrica d'oreficeria del gioielliere Manini di Milano. Ella è in diamanti montati a giorno e a sette punte: nel mezzo è un campo di smalto azzurro, nel quale si rappresenta la Trinacria, intorniato d'un nastro in ismalto a colori nazionali, bianco rosso e verde, sopra del quale a piccioli caratteri formati di diamanti si legge. I mille al loro duce.

Al disotto della Trinacria è il motto Arturo, allusione alla costellazione celeste, onde Garibaldi nella sua carriera navale s'è mostrato amico a preferenza; e parimenti a quel celebre re Arturo, che istituì l'ordine di cavalleria, chiamato della tavola rotonda.

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Garibaldi ricevette con giubilo e tenerezza questa decorazione, dicendo sarebbe la sola che brillar si vedrebbe sovra il suo cuore.

E questo fu l'ultimo atto dei volontari, di cui i mille erano stati i primi a far parte. Infatti un decreto reale in data 16 Gennaio ai comandi dell'esercito con circolare del ministero della guerra del 28, riguardante i volontari dell'Italia meridionale, prescriveva,

Che dal 1. febbrajo il detto corpo s'intenderà sciolto, e per le paghe e competenze sul piede di accantonamento a datare dal 16 detto mese, ordinando agli uffiziali e truppa trovarsi allo seguenti destinazioni, cioè a

Torino, il comando generale, l'intendenza, il personale sanitario e farmaceutico, treno e corpo d'amministrazione.

Casale, comando e truppe del genio.

Pinerolo, cavalleria.

Veneria, artiglieria.

Il rimanente delle altro truppe uffiziali e bassa forza appartenenti alle diverse divisioni avranno stanza a Mondovì, divisione Turr, Asti, divisione Cosenz. Biella, quella di Medici, Vercelli, quella di Bixio.

La commissione di scrutinio per l'esame dèi titoli degli ufficiali è trasferita a Torino. Rimarranno solamente in Napoli quattro commissari per dare corso e termine alle pratiche pendenti sotto la dipendenza dell'intendenza militare di quella città.

Saranno consegnati al comando generale di Napoli prima della partenza di detto corpo tutti i carri, cannoni, muli, cavalli, materiale, munizioni, e le armi in specie della forza attuale ecc. , i soli ufficiali porteranno i loro cavalli. La partenza avrà luogo per divisioni e la direzione dell'imbarco non che i modi da eseguirsi è affidata al comandante di piazza di Napoli. Giungendo a Genova i vari drappelli saranno tosto indirizzati alla loro destinazione. Tutti coloro che senza documenti validi non giustificheranno il motivo di non aver raggiunto il corpo all'epoca indicata, saranno cancellati dai moli.

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Circolare

Miniamo Della Guerra.

Direzione Generale in Napoli

Questo Ministero, in seguito al parere conforme della Commissione, nominata con R. ° Decreto 22 novembre 1860 per l'esame dei titoli e proposte circa gli ufficiali dei Corpi dei volontarii, ha determinato che:

1. Col giorno 15 febbrajo prossimo cessa il tempo utile per ottenere il benefizio della gratificazione accordata dagli articoli 2, 3, A, e 5 del R Decreto 11 novembre 1860. Quindi ogni domanda di essere esonerato dal servizio fatta posteriormente a detta epoca, non darà più alcun diritto a veruna gratificazione.

2. A partire dallo stesso giorno 15 febbrajo, ogni ufficiale, sottufficiale e soldato che sia stato esonerato dal servizio, non potrà più far uso della divisa militare né portar distintivi di grado.

Napoli. 23 gennajo 1861.

Pel Ministro

Il Direttore generale G. REVEL

Abbiamo veduto che un gran numero di città avevano indirizzato al general Garibaldi delle lettere offerendogli l'incarico di rappresentarle come deputato all'assemblea nazionale: il simile avveniva in tutte le società patriottiche italiane. Fra le altre se n'era formata una col nome di Associazione del comitato di


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Caprera 13 gennajo 1861

Onorevole Comitato!

In vista della nota del 7 corrente trasmessami da cotesto comitato centrale, riassumo la mia risposta nel modo seguente: Accettando la presidenza dell'associazione dei Comitati di provvedimento e dando la mia adesione ai tre articoli formolati dall'assemblea generale il di questo mese, nomino come mio rappresentante presso il comitato centralo il general Bixio, autorizzandolo a farsi sostituire, occorrendo, da una terza persona di sua fiducia. (1].

Il comitato centrale, invocando il patriottismo degl'Italiani, insisterà tenacemente presso tutti i comitati di provvedimento eccitandoli a promuovere nuovo oblazioni tra i nostri concittadini, e

a riunire tutti i mezzi necessarii

ad agevolare a Vittorio Emanuele la liberazione della rimanente Italia.

Altra delle precipuo cure del comitato centrale dovrà essere quella d'istituire comitati in tutti i punti della penisola, ove non esistessero ancora, onde al più presto da un capo all'altro dell'Italia, non esclusa la Venezia, né Roma, si trovi l'associazione

(1) Il generale Bixio non ha accettato l'incarico riservandosi di conferirne col generale Garibaldi a Caprera.

Nota dell'Opinione.

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organizzata, od operi simultanea, concorde e rapidamente obbedendo a un medesimo impulso.

Il comitato centrale dovrà come parola d'ordine di tutti i giorni, d'ogni momento ripetere incessantemente a tutti i comitati e cercare per ogni altra via di farlo penetrare nell'animo di tutti gl'italiani: -che nella prossima primavera di quest'anno 1861, l'Italia deve irremissibilmente porre sotto le armi un milione di patrioti: unico mezzo a mostrarci potenti ed a farci veramente padroni delle nostre sorti e degni del rispetto del mondo che ci contempla.

Credo debito mio rendere avvertiti i volontari che nessun arruolamento è stato da me promosso, né consigliato per ora.

Un giornale col titolo di Roma e Venezia, il quale ispirandosi ai concetti enunciati predichi la necessità della Guerra Santa, a far cessare una volta la vergogna che pesa sull'Italia, e che in pari tempo inculchi agli elettori come uno dei mezzi più efficaci a raggiungere l'intento, la scelta di deputati che mirando anzi tutto al totale affrancamento ed integrità d'Italia, impongano al governo il generale armamento della nazione dev'essere fondato in Genova senz'altro indugio.

G. GARIBALDI

Tutti questi onori, e questa grande popolarità spesso apportavano dei dispiaceri al general Garibaldi: fra i quali si può annoverare l'effetto, che gli produceva la pubblicazione per i giornali, di lettere e proclami, che a lui venivano falsamente attribuiti. E del nostro dovere di segnalare, che il giornale La Patrie aveva messo a luce una lettera diretta da Garibaldi al popolo di Napoli, la qual poi fu smentita completamente, come più sotto vedremo.

Ecco lo strano documento, che il giornale francese attribuiva all'ex-dittatore delle provincie napolitano:

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Italiani di Napoli!

«Se allontanandomi da voi provai dispiacere lo sa Iddio. Ciononostante la mia missione presso di voi era terminata e dovetti prender congedo. Lo feci col cuore infranto.

«Ora, colle vostre lagnanze aumentate il mio dolore, e mi chiedete di ritornar in mezzo a voi. Io non lo posso, amici miei, perché promisi a me medesimo di non far ostacolo colla mia presenza alla vostra felicità, alla vostra prosperità che si compiranno sotto lo scettro del re galantuomo.

«Credetemi adunque; se la mia missione è questa di liberare i popoli italiani dalla schiavitù e dalla tirannia, io lo feci, o Napoletani, col mezzo delle vostre forze e del vostro coraggio.

Si, voi siete liberi, e la mia presenza in mezzo a voi non sarebbe d'alcun profitto, sarebbe un ritardo al miglioramento. Voi foste ancor più felici degli altri, poiché vi sono italiani tuttora nella schiavitù,

perché v'inquietate? perché mi richiamate senza bisogno? Lasciate che per alcuni mesi riposi il mio corpo e il mio spirito, poiché altre fatiche mi aspettano, altri lavori ed altre sofferenze. Ma ciò non è nulla; si tratta dell'Italia, ed è per l'Italia che si consuma la mia vita.

«Roma e Venezia aspettano il mio aiuto. Esso pure fanno parte dell'Italia; i loro abitanti sono nostri fratelli, e gemono tuttora sotto la dura schiavitù dell'Austria e de' I... . Lasciatemi riprender la lena necessaria per far fronte alla tempesta che minaccia.

«Sentite il leone che rugge? il suo ruggito è di rabbia poiché conosce che il suo orgoglio sta per essere abbattuto. Egli teme questo braccio, che Dio fece possente per abbattere il suo orgoglio brutale.

«Vedete i nipoti degli antichi romani? Il sangue dei loro vi scorre ancora nelle loro vene, ma furono rovesciati per terra,

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Essi hanno bisogno di una mano che li aiuti a rialzarsi e a riprender la loro fierezza, e questa mano ha d'uopo di riposo per ricuperare la forza che gli è necessaria.

Che la ragione e la filantropia cedano luogo all'amore che nutrite per me. Io ritornerò in mezzo a voi da qui a qualche mese; mi rivedrete ancora, ma allora mi abbisognerà una prova del vostro amore.

«Se è vero che voi mi amiate, del che non dubito, seguitemi, miei cari, seguitemi allorquando ci riuniremo per liberare i nostri fratelli di Roma e di Venezia. E tutti contenti, uniti gli uni agli altri, faremo l'Italia una, indipendente e degli Italiani, sotto lo scettro del Re galantuomo Vittorio Emanuele II.

Addio! alla fine di marzo ci abbracceremo.

«Caprera, 11 novembre 1860.

GARIBALDI

Ecco frattanto la lettera di Garibaldi a questo soggetto indirizzata al giornale il Diritto;

Caprera 20 gennajo

Vedendo già riportata da vari giornali italiani ed esteri una lettera che mi si attribuisce avere diretta al popolo napoletano il di 11 novembre scorso, che sarebbe due giorni dopo la mia partenza da Napoli, perciò io debbo ricorrere alla di lei gentilezza col pregarla di voler dichiarare nel suo accreditato giornale essere la indetta lettera intieramente apocrifa.

G. GARIBALDI

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IV.

Nei primi giorni di Gennaio l'elezioni generali erano il soggetto il più importante dei discorsi e della meditazione degli uomini politici del Piemonte. Il Sig. Buoncompagni aveva presa l'iniziativa di formare a Torino un comitato destinato a riunire tutti i capi delle diverse frazioni liberali, che costituivano la maggioranza monarchica del parlamento ancora esistente. Ma questo progetto non potè mandarsi ad esecuzione ebe a metà per ragione che il Sig. Radazzi e suoi amici, sul cui concorso aveva fatto assegnamento il Buoncompagui per questa riunione di tutti gli elementi liberali, ricusarono di farne parte allegando che il comitato componendosi d'un gran numero d'uomini riguardati da Garibaldi come suoi nemici personali, non si sarebbe potuto riunirsi a costoro. senza fare atto d'ostilità contro l'ex dittatore.

Frattanto il Sig. Di Cavour, capo del gabinetto, non si rimaneva senz'operare. quest'uomo di Stato che incontrava tanti ostacoli nell'organizzazione dell'Italia, faticava senza mai rallentarsi, malgrado la malferma salute, con una vigoria d'animo, e costanza incrollabile, onde trionfare quando dei Mazziniani, quando della reazione borbonica, o di tutt'e due nel medesimo tempo. Egli era però quasi certo, secondo che affermava, d'avere nel parlamento italiano una maggioranza di 350 deputati sopra 450, e su questa base egli dava ordinamento alle sue combinazioni. Ei si credeva egualmente in caso di poter impedire ogni tentativo imprudente per parte del partito d'azione. Del resto, un fatto che venne per un momento a consolidar più forte le sue speranze, fu la notizia venuta a Torino del rifiuto di Garibaldi a qualsiasi candidatura per il parlamento nazionale, e dell'appello fatto da lui alla concordia. Noi abbiamo di già veduto quale antagonismo passasse fra il Cavour e Garibaldi.

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I nemici del nuovo ordi

Scrivono da Torino alla Patrie.

Voglio dirvi qualche cosa intorno alla lotta elettorale che sta per impegnarsi e a cui ciascheduno si prepara.

Si capisce di leggieri che le elezioni avranno questa volta un significato politico da cui dipendono non solo i destini dell'Italia, ma ancora la pace dell'Europa.

Trattasi di sapere a chi sarà lasciata la direzione del movimento Italiano; poiché sono in presenza due candidati: Cavour e Garibaldi. Il primo, uomo destro che sa piegarsi a tutte le esigenze del momento, senza abbandonare per questo il programma che segue; il secondo, più fiducioso nelle forze della rivoluzione che nell'arte dei negoziati, che attacca a viso scoperto tutti gli ostacoli e crede vincere colla forza della sua spada e colla giustizia del suo diritto. L'accordo di questi due uomini, di cui l'uno può essere considerato come il capo, l'altro come il braccio del movimento italiano, era cosa desiderabile: tutti gli uomini assennati lo desideravano ardentemente. Se la vertenza avesse potuto comporsi fra Cavour e Garibaldi, l'alleanza sarebbe certamente fatta, e l'Italia ne raccoglierebbe già i frutti. Il corteggio di ciascheduno di questi uomini rese il ravvicinamento difficile.

Cavour, al punto di partenza, non vide forse abbastanza questo splendido cammino di Garibaldi che comincia a Marsala per non finire che a Capua, passando lo stretto; e partendo non ha pensato all'entusiasmo, alla popolarità che si sarebbe collegata a quel gran nome divenuto la leggenda dei popoli.

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Garibaldi, ed è questo il suo lato debole, ha per gli uomini del gabinetto, per tutti quelli che non portano una spada, un disprezzo che non si studia di dissimulare. Il conte di Cavour, alla sua volta, ed in questo ha ragione, non accorda alla forza altro valore che quello che deriva dal suo accordo colla nazione e col buon senso.

Un fermento di discordia, che è stato usufruttato con poco leale abilita da quelli che circondano Garibaldi, è la cessione di Nizza, che sta tanto a cuore del generale. Egli ha risentito dolorosamete la cessione di una provincia, sua patria, che a torto o a ragione egli considera come una terra italiana, e senza fare la parte delle difficoltà della politica, considerò Cavour come cessionario spontaneo, mentre che non v'è chi non conosca la resistenza opposta dal gabinetto di Torino. Da ciò tutto il male.

Ecco il solo serio dissenso che esista tra Cavour e Garibaldi. Duole che quest'ultimo non abbia saputo dissimulare il suo dolore e i suoi risentimenti, usufruitati poscia con destrezza da un partito che non vuole ammettere riconciliazione. Dunque, le difficoltà che separano Garibaldi e Cavour non sono spianate, ed è su questo terreno che la lotta elettorale si accende.

I comitati della destra elettorale sono formati, scelti i loro candidati, disposti con arte; il loro programma è ben noto; fare l'Italia senza nulla precipitare, appoggiandosi ora sui negoziati ed ora sulla forza dell'armata, aiutandosi del concorso e della protezione della Francia e lasciando specialmente la direzione del movimento italiano a Cavour che ne fu iniziatore.

Questo programma è saggio per quanto non si separerà da Garibaldi nella sua esecuzione. I candidati sono pressoché tutti presi nell'antica maggioranza parlamentare. Evvi uomini di tutte le provincie dell'Italia, ci piace di vederli ricomparire alla nuova camera addestrati come sono agli usi parlamentari.

Il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia, le Marche, l'Umbria daranno una gran maggioranza al ministero. Genova forse sarà più indipendente.

La grande difficoltà si presenta a Napoli e in Sicilia. E d'uopo che a Napoli, tra pochi giorni, il principe di Carignano

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si

Si pensa generalmente che nelle provincie napoletane, ove la popolazione è disseminata sopra un'estensione considerevole,

ove la vita politica si manifesta per la prima volta

, vi saranno molte astensioni, e si conta sopra questa atonia per rinforzare la maggioranza ministeriale. É questa forse una falsa sicurezza,

La sinistra parlamentare si è organizzata: un giornale, Monarchia costituzionale, fu fondato per la circostanza. Rattazzi e Depretis si sono riuniti, cioè le due frazioni della sinistra si sono fuse e il nuovo giornale è il loro organo.

Vi fu da parte d'alcuni uomini parlamentari d'unopposizione timida, a capo dei quali s'era posto Boncompagni, un' abile tentativo per unire la sinistra, Rattazzi e Depretis. Un programma era stato discusso tra questi tre capi, sembrava che sintendessero, ma tutto andò a monte sul punto di conchiudere.

Il sig. Boncompagni proponeva di sostenere la politica del ministero, spingendolo però all'armamento generale.

I sigg. Rattazzi o Depretis, che questo programma costituiva come satelliti del ministero Cavour ch'essi aspirano a surrogare, hanno senza dubbio visto l'agguato e ti sono ritirati, allegando che la loro alleanza colla frazione rappresentata da Buoncompagni non farebbe che accrescere il funesto antagonismo che esiste tra il garibaldiano e quello di Cavour.

Questa comparsa del partito garibaldiano è affatto nuova. Questa frazione ben determinata è nata dall'opposizione tra Cavour e Garibaldi. Sono i bianchi e i rossi; nessuno vuole restar neutro. Il partito garibaldiano è dunque un partito serio, e la sinistra parlamentare lo ha si bene compreso ch'essa dà ora la mano a questa nuova incarnazione dell'opposizione

Se Garibaldi discendo nella lizza, la parte sarà scabrosa. Egli ha personalmente rinunziato ad ogni candidatura, ma ecco che circola una lista di cento deputati di sua scelta.

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Si è tentato di

Ecco dunque un soccorso inaspettato che arriva all'opposizione che trovavasi agli estremi. E' vero che il sig. Rattazzi durerà fatica a stringere la mano a Zuppetta, a Mario, a Crispi che sono nel novero degli eletti, ma, come ordinariamente, si andrà d'accordo sino all'indimani della vittoria, poscia si vedrà. L'opposizione non ba ancora giudicato a proposito di render pubblica questa lista.

Si citano i nomi Cattaneo, Macchi, Bertani, Bixio, Turr, Sirtori, in una parola tutti gli amici di Garibaldi vi sono completamente.

Ora, che questa scelta venga da Garibaldi, e che sia dovuta alla sua iniziativa, io ne dubito, vi furono certissimamente vive istanze dalla parte de' suoi per determinarlo ad occuparsi d'elezioni nel momento io cui, gli occhi fissi sul cammino che gli resta a percorrere, egli sta per riprendere la sua spada e ripartire alla testa de' suoi soldati imberbi. Nullameno, la tattica è destra dalla parte dell'opposizione, e le difficoltà si moltiplicano nel campo ministeriale, mercé questo soccorso inaspettato che si metterà a profitto quando l'ora sarà giunta.

Per far cessare siffatto antagonismo, la città di Milano offri al conte di Cavour e al general Garibaldi il titolo di cittadini onorari]. Allorché i diplomi diretti a questi alti personaggi, furon loro presentati, così rispose il primo ministro al sindaco di Milano.

Torino 26 Dicembre,

Illustrissimo Cavaliere, la testimonianza d'onore che mi vien conferita da codesta illustre città, accordandomi il diritto di cittadinanza, è gradito al mio cuore oltre ogni espressione. Il nuovo regno italiano, che la nostra generazione avrà il merito d'aver creato, lungi d'abbassare le gloriose tradizioni delle municipalità italiane, le illustra e le restaura, facendo di esse il fondamento della gloria e dello splendido avvenire della nazione. Io dunque non potrei ambire una più bella ricompensa per quel poco che ho avuto la fortuna di fare per la patria,

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fuorché quella di essere

nello stesso tempo cittadino dello più cospicue municipalità italiane, 1'ossa bentosto essere restituita all'Italia ciascuna delle sue grandi città; possano tutti i più antichi comuni italiani essere di nuovo, come Milano, i centri molteplici del nuovo periodo della civilizzazione italiana.

Vogliate, o signore, ed illustrissimo sindaco, farvi l'interprete della mia riconoscenza presso i membri del consiglio comunale, e gradite ecc.

C. Cavour

Ed il general Turr rispose così a nome di Garibaldi:

Caprera 18 Gennajo 1861

Signore il general Garibaldi, accettando con riconoscenza il diploma, che voi gli avete fatto rimettere per mio mezzo, m" ha incaricato di farvi aggradire i sensi della sua più viva riconoscenza. Egli si riserba di rispondervi di suo proprio pugno in altro tempo, non potendolo fare oggi a cagione d'una indisposizione. Egli mi prega nello stesso tempo, di ripetervi, che non può accettare candidatura alcuna che gli venisse offerta per le prossime elezioni. Egli vi porge avviso di questa sua determinazione, per evitare gl'inconvenienti d'una seconda elezione. Io profitto di questa occasione per dirmi vostro devoto servitore

TURR

Il governo piemontese aveva allora di ben gravi questioni da regolare prima della riunione del parlamento. La legge sulla soppressione delle corporazioni religiose fu promulgata, e il 4 Gennajo si leggeva sul Corriere delle Marche il seguente passo.

Pubblichiamo oggi la legge sulla soppressione delle corporazioni e degli stabilimenti di qualsivoglia genere degli ordini monastici e delle corporazioni regolari e secolari, esistenti nelle Marche,

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eccettuate le suore di carità, le suore di San Vincenzo, i missionarii Lazzaristi, i padri Scolopii, i fate Bene-Fratelli e i Camaldolesi del monte di Catria, territorio di Serra Sant'Abondio, in memoria del soggiorno che vi fece Dante Alighieri, in compenso del culto che vi fu sempre conservato a quel sommo, e perché mantengono in quei luoghi selvaggi le abitudini dei pii uffizi, dello studio e di ospitalità, che li fanno desiderati in quel paese.

La legge non differisce da quella pubblicata dal regio commissario Popoli nell'Umbria.

Il capo della Chiesa e un gran numero di vescovi non avevano atteso fino a quest'epoca per protestare contro siffatta legge, ma le proteste energiche furono senz'effetto. Fra le altre noi crediamo bene di segnalare quelle dei vescovi di Orvieto Monsig. Vespignani e di Monsig. De Angelis vescovo di Fermo.

Una delle quistioni che interessavano sommamente il governo piemontese, era l'organizzazione dell'armata che s'era già accresciuta d'una grande quantità di truppe degli stati annessi, e massimamente del regno di Napoli.

Una circolare del ministro della guerra in data del 6 Gennajo venne a regolare l'incorporamento, nelle file dell'armata, di tutti i prigionieri fatti nelle ultime campagne. Questi seguenti sono i termini, in cui fu emessa la circolare:

Tutti, senza eccezione, i prigionieri di guerra napoletani saranno incorporati nel reggimento, Deposito o Battaglione presso cui attualmente sono aggregati, e la formola del loro assento sarà per continuare la ferma di servizio contratta sotto il cessato Governo.

Coloro che risultino essere entrati al servizio sia per effetto di leva, sia come cambi o come volontari durante gli anni 1857, 1858, 1859 e 1860, saranno trattenuti sotto le armi e provvisti dell'occorrente corredo.

Coloro invece che entrarono al servizio anteriormente al 1857, saranno muniti di congedo illimitato ed avviati a Genova, dove per cura del Generale Comandante di quella Divisione, verranno provvisti d'imbarco e mandati allo case loro, coll'obbligo di ritornar sotto le armi alla prima chiamata.

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Se fra gli individui che sono liberi di ritirarsi alle rispettive case con congedo illimitato, ve ne fossero di quelli che bramassero continuare a prestar servizio effettivo, potrà ritenersi sotto le armi.

Per coloro che fossero stati obbligati a un aumento di sei vizi» per punizione, si considererà come annullato tale obbligo, ed essi correranno la sorte della rispettiva leva cui appartengono.

Cosi dicesi per quei militari che, terminata la propria ferma, abbiano assunto una nuova capitolazione non come cambi, ma come volontari, i quali seguiranno la sorto della leva a cui primitivamente appartenevano, a meno che, per propria elezione, manifestino di voler rimanere sotto le armi.

I prigionieri che già si sottoposero volontariamente all'assento prima della data della presente Circolare, correranno la sorte della leva di cui fanno parte, vale a dire, avranno facoltà di tornarsene alle case loro in congedo illimitato, se risultano fare parte delle leve anteriori al 1857.

Questo spediente era di massima urgenza, perocché verso la meta di Gennajo arrivarono a Genova i convogli dei soldati napolitani, in numero pressoché di 20. 000 uomini. Di questi si formò in principio due grandi depositi nella riviera della Liguria: l'uno a Savona sotto la direzione del colonnello Nicola Ardoino, l'altro a Chiavari, comandato dal colonnello Pietro Guattari. Secondo un quadro approssimativo, che fu diretto al ministro della guerra, risulta che il numero degli ufficiali napolitani ammogliati ascendeva alla rispettabile cifra di 1700 e che quello dei soldati che si trovavano nello stesso caso non era forse minore di 24 mila. Giusta le medesime informazioni gl'invalidi della stessa armata avrebbero fra tutti un numero di figliuoli non minore di tre mila.

Nel medesimo tempo il general Fanti pubblicava il decreto seguente, che stabiliva la coscrizione militare nelle Marche e nell'Umbria:

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Gazzetta ufficiale del regno

Art. 1. É autorizzata una leva militare simultanea dei giovani nati negli anni 1839 e 1840 nelle Provincie delle Marche e dell'Umbria.

Art. 2. Il contingente di prima categoria è fissato per queste due classi di leva a 4800 uomini complessivamente.

Art. 3. Gli inscritti designabili che sopravanzeranno dopo che sarà completato il contingente di prima categoria', formeranno la seconda categoria, giusta il disposto dell'art. 2 della legge 13 luglio 1857.

Art. 4. Gli inscritti di leva delle Marche e dell'Umbria, i quali al giorno 6 novembre 1860, epoca in cui fu pubblicata e resa esecutoria in quelle Provincie la leggo sul reclutamento, erano ammogliati o vedovi con prole, e che si trovino in una di tali condizioni nel giorno fissato pel loro assento, saranno esenti dal servizio militare.

Art. 5. Gli inscritti che in virtù del precedente articolo 4 verranno dichiarati esenti dai Consigli di Leva, e che per ragion del loro numero d'estrazione avessero a far parte del contingente di prima categoria, non dovranno esservi rimpiazzati da altri inscritti, ma saranno calcolati numericamente in deduzione del contingente del rispettivo Mandamento.

Il Ministro della Guerra è incaricato dell'esecuzione del presente Decreto, ecc. ecc.

VITTORIO EMANUELE

M. Fanti.

La gazzetta ufficiale del regno portava nella stessa epoca l'avviso della destituzione dell'intendente militare di Modena, in termini molto severi. Questa destituzione era stata motivata dalla tolleranza di quest'ufficiale superiore

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verso gli arrolamenti fatti dall'ex-duca, e i quali in grazia delle promesse e dell'argento effettivo erano potuti ammontare a 150 o 200 contadini sotto le bandiere austriache per conto del duca di Modena.

V.

Il primo giorno dell'anno 1861, secondo il costume, il Papa riceve una visita dal general di Goyon accompagnato dal corpo d'officiali dell'armata d'occupazione. Il generale si tenne a pronunciare alcune parole soltanto per offrire al S. Padre, per sò e per l'armata, i voti del buon anno. Il Papa rispose presso a poco in questi sensi, secondo il giornale che s'intitola. Il cattolico:

Gradisco, signor Generale, con tutta la soddisfazione dell'animo mio gli omaggi e i voti dell'ufficialità di quell'armata, che mi ha reso importanti servigi e alla quale professo la mia gratitudine. Io benedico l'ufficialità qui presente, benedico l'armata francese, e desidero che gli uffiziali comunichino ai loro soldati i miei sentimenti e le mie espressioni. Sì, benedico tutta la prode e generosa armata francese; essa in un mare a noi vicino protegge un giovine re tanto degno e tanto indegnamente trattato; essa in luoghi più lontani, nella Siria, difende il nome cristiano, salva i miei figli dalle sevizie degl'infedeli, e prodiga loro generosi soccorsi; essa entra vittoriosa nella capitale dell'impero cinese, inalberando a quegli infedeli il vessillo della Redenzione, che opererà prodigi simili a quelli del serpente di Bronzo innalzato da Mose nel deserto, farà splendere a quei popoli la vera luce della fede, e li chiamerà tra le braccia del Salvatore del mondo.

Si estenda la mia benedizione su tutta la generosa e cattolica nazione francese; entri nella casa dell'afflitto e lo conforti; entri nel palagio del grande e lo illumini.

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Di nuovo benedico voi tutti qui presenti e vi benedico con tutta l'espansione dell'animo mio: Benedictio Dei Omnipotentis descendat super vos et maneat semper. Amen.

ll S. Padre pareva riposarsi intieramente sull'appoggio dell'armata francese: nulladimeno la nobiltà di Francia si dava un grande moto da sua parte per proteggere il poter temporale del Pana. Mentre che il Duca De La Rochefaucaud inviava a Roma un presente di due batterie di cannoni rigati, fabbricati nel Belgio, So giovani volontari, nobili, prendevano la stessa strada. Fra questi si notava il Sig. Quatre-barbes (nipote), De Cooze, De Boigne, De Beanfonds, d'Aigueviver (un fratello dello Scudiere dell'imperator Napoleone), d'Aremberg, d'Iressan, De Montbrun etc.

A stimolare lo zelo di questa cavalleresca gioventù, il partito legittimista aveva aperto una soscrizione in Francia per offrire una spada d'onore al generale Lamoricière. Ma costui credette doverla rifiutare, con la seguente lettera indirizzata al giornale l'Union de l'Ovest.

Al Signor Redattore dell'Union de l'Ovest.

«Voi vi compiaceste parteciparmi l'intenzione che un numero di cattolici avrebbe di conferirmi una spada d'onore in memoria della campagna che io ho fatta l'anno scorso nelle Marche e nell'Umbria.»

«Io sono profondamente commosso dell'estrema benevolenza colla quale si apprezzano i miei sforzi materialmente sterili per difendere il potere della Santa Sede; ma è il mio dovere di far notare che se accettassi la spada che mi è offerta mi porrei fuori di tutte le tradizioni e di tutti gli usi ricevuti a questo riguardo sul nostro paese, ove tutto ciò che si riferisce alle case militari è affare di tutti.»

«Secondo quelle tradizioni, si dà una spada di onore adcircostanze memorabili,

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per aver difeso valorosamente una fortezza oltre il tempo assegnato alla resistenza dalle persone del mestiere. Ora è pur troppo noto, non ho fatto nulla di simile. Le provincie che io difendeva furono invase, le città prese, il materiale di guerra fu perduto, e tutto l'esercito condotto in cattività.

«Che se dopo i nostri disastri, la condizione morale del «potere temporale della Santa Sede pare migliorarsi, che se la fiducia e la fortezza sono ritornate ai difensori del dritto mentre che lo spirito di divisione, d'incertezza e di vertigine s'impossessava de' suoi nemici, che se la Francia, questo nobile ed antico campione della causa di Dio, non ha cessato di sentire il proprio cuore commosso di que' generosi slanci di divozione e d'audacia che a lei non mancano mai nei grandi giorni, non è la mano degli uomini che bisogna cercare in tutte queste cose ed io non posso dimenticare che un generale il quale non ha fatto che salvare l'onore della sua bandiera non merita e «non può ricevere alcuna ricompensa.

«Tali sono Signori, le ragioni che mi obligano a ricusare in modo assoluto la spada che voi avete ricevuto la missione di offrirmi. Permettetemi di contare sulla vostra compiacenza per far conoscere la mia risposta, e vogliate gradire l'attestato dell'alta mia considerazione.

«Brouxelles 12 Gennaio 1861.

«GENERALE DE LAMORICIERE

La maggior parte dei volontari francesi entrava nel corpo dei Zuavi pontifici; alcuni si diriggevano verso le frontiere napolitano per pigliare un comando nelle bande del colonnello Lagrange e di De Cristen, stabilite allora, la prima verso Fresinone, la seconda dalla parte di Carsoli e di Tagliacozzo, dov'ella pro

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Questa città situata a 16 miglia incirca da Subiaco, era stata occupata dalle truppe piemontesi comandate dal maggiore Ferrero; il quale veduto il loro piccolo numero, e lo spirito rivoltoso della popolazione, di circa 10, 000 abitanti, aveva dovuto ritirarsene per gettarsi su Avezzano, dove esiste un antico castello baronale attorniato di mura, dietro le quali poteva la milizia difendersi, ed aspettare i rinforzi del general di Sonnaz.

Dalla parte di Frosinone la banda di Lagrange era giunta a procurarsi dei fucili, ed armare 600 Svizzeri, già soldati dell'armata borbonica.

L'autorità francese aveva inviato una compagnia di linea per fare rispettare il territorio pontificio; ma già la banda della reazione s'era diretta verso Ceprano e il convento dei Certosini.

Alcuni giorni dopo, verso il 27 gennaio, questa banda si trovava in faccia d'una forte colonna piemontese dalla parte di Bauco: il fatto dello scontro ch'ivi ebbe luogo fu narrato dal giornale di Roma al modo che segue:

«Corrispondenze di Frosinone ci annunziano come in Bauco, paese di quella Delegazione, essendo convenuto un corpo di militi napoletani il quale era riuscito a procurarsi clandestinamente armi e munizioni, eludendo col favore di quei luoghi alpestri e delle circostanti macchie, la vigilanza dell'Autorità e della forza Pontificia, il nostro Governo per mezzo del conte Carpegna, comandante militare nella piazza di Veroli, erasi dato premura di far intimare a quel corpo di militi di sciogliersi ed andarsene disarmati; alla quale intimazione si rifiutarono di aderire.

«Mentre il lodato comandante dava le opportune disposizioni per obbligarveli colla forza,

una colonna di circa due mila Piemontesi con cavalleria e con sei pezzi di artiglieria,

partita nella notte del 27 al 28 corrente dall'Isola di Sora, territorio del regno venne sull'alba del 28 a circondare Bauco, e circa le ore otto antimeridiane di quel giorno lo attaccò con fuoco vivissimo di artiglieria e moschetteria.

«Gli assediati risposero gagliardamente cagionando gravi perdite ai Piemontesi in morti e feriti,

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parte dei quali vennero tra

«Intanto un' altra forte colonna di Piemontesi di fanteria, cavalleria ed artiglieria proveniente dall'Isoletta, venne lo stesso dì 28 nel territorio pontificio ad occupare Coprano spiegandosi sopra Strangolagalli; e, del pari che altre truppe venute a Falvaterra, sembravano pur esse mirare a Bauco, le quali tutte requisirono provvigioni nei diversi paesi anche per altre truppe che dicevano essere aspettate. Ma invece all'alba del giorno 29 abbandonarono tutto il paese occupato nel territorio di Ceprano.

«Con questo riscontro pienamente concorda un altro di Veroli, pur esso in data del 29, nel quale è detto come il corpo dei Piemontesi comandato dal general di Sonnaz, erasi ritirato alle 3 e mezzo pomeridiane del 28 da sotto Bauco dopo sette ore di fuoco, lasciando le milizie napoletane padrone di quel paese. Il capo di queste ultime, nella sera diede ad un messo del comandante pontificio della piazza di Veroli, l'assicurazione che Bauco sarebbesi da loro sgombrato nella notte medesima.

In Bauco i guasti cagionati dall'artiglieria all'abitato sono di niuna entità. Nessuno della popolazione, per quanto fin qui si conosce, è rimasto offeso.

Questa continua vicenda di lotte sulle frontiere, dietro le quali le bande della reazione inseguite dalle truppe piemontesi venivano a rifugiarsi, creava agli Stati del Papa una situazione che di giorno in giorno si rendeva più difficile. Dalla parte di Coress la molta vicinanza delle truppe Sarde e dei Zuavi del Papa non tardò guari a produrre un conflitto che poteva cagionar delle gravi conseguenze ove non fosse stata l'intervenzione dell'autorità militare francese. Un assalto fu diretto dalle truppe papali contro i posti piemontesi dal ponte di Corese nella notte del 25 Gennaio. Questa spedizione condotta dal colonnello dei Zuavi Becdelièvre alla testa di tutto il suo battaglione, era stata preparata la vigilia per una esplorazione notturna, fatta su questo. punto dal capitano Chillas.

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Il 25 verso la mezzanotte, il comandante co' suoi Zuavi si

Terminata questa spedizione, dei rinforzi giunsero agli aggressori per la via del Tevere e di terra. Il capitano d'artiglieria Daudier s'era portato a Coreso a 8 ore del mattino con una batteria di campagna, e verso le 10 il colonnello Blumentteil, e l'intendente pontificio Ferri sbarcavano su questo punto con uomini, munizioni, e dei viveri, trasportati in un battello a vapore. L'autorità francese, ragguagliata di ciò che avveniva colà, affine di prevenir le conseguenze di questo attacco, di cui non appartiene a noi giudicare il carattere, spedì a Corese un distaccamento di truppe, e bastò piantare sull'estrema linea del territorio pontificio una bandiera francese, perché ogni tentativo d'invasione o d'assalto da parte delle truppe Sarde fosse arrestato. L'autorità piemontese s'apparecchiava in fatti a trarre vendetta di siffatta aggressione contro il posto offensivo di Corese. Leggemmo nella Perseveranza del 28 Gennajo una lettera di Perugia, la quale fa conoscere i movimenti, che s'erano fatti da parte dei Piemontesi:

Scrivono alla Perseveranza da Perugia, in data del 29 gennajo:

«Siamo attaccati dai pontificii. Seicento zuavi pontificii han passato ieri la frontiera a Ponte Corese, ossia sull'estremo confine nella Sabina. I nostri avamposti, di Guardie mobili, si sono battuti; ebbero però un morto, due feriti e gli altri 20 o 25 furono fatti prigionieri. Poco dopo rimontando il Tevere alcuni vapori, sbarcarono sulla riva sinistra circa duemila uomini con una batteria e due cento cavalli.

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Subito si fortificarono in tre punti anche l'impiegato telegrafico che era a Ponte Corese.

«Il 2. battaglione umbre di Guardia nazionale mobile si concentrò subito, e le Guardie nazionali locali corsero sotto le armi. Pel momento ninna altra forza si è potuta opporre al nemico giacche manchiamo affatto di truppe regolari. Però il battaglione Toscano di Guardia mobile che è qui, e che domani doveva rientrare in Toscana (dopo vari mesi di assenza) parte invece questa notte alla volta di Rieti.

Frattanto il colonnello Masi co' suoi cacciatori del Tevere marcia rapidamente da Orvieto a Narni per trovarsi pronto ad accorrere ove il bisogno lo chiami. Domani stesso qui reduce da Torino il 1 battaglione di Guardia Nazionale mobile umbra: che invece di disciogliersi proseguirà la sua marcia verso Terni. Intanto, senza perder tempo, in tutte le città dell'Umbria si è aperto l'arruolamento per formare un terzo battaglione mobile umbro.

«Subito 400 giovani si sono inscritti per marciare. Il signor Bruschi, già difensore di Perugia nel giorno 20 giugno, prenderà il comando di questo terzo battaglione che doman l'altro si porrà in marcia. Di maniera che in tre giorni vi saranno cinque battaglioni umbri, tra guardie mobili e cacciatori del Tevere, ed un battaglione toscano a fronte del nemico. Veramente difettiamo, di tutto! ma ad ogni cosa si supplirà co' sacrifici e col buon volere

«Il maggiore Guillichini che comanda i Toscani essendo malato, ha assunto il comando il duca Bonelli, romano, antico ufficiale di cavalleria.

Questo sconfinamento era il segnale di una generale reazione la quale doveva mandare a fuoco l'Umbria. Il 27 era scelto per impedire anche le elezioni, ma i conti furono fatti male.

«Si voleva anche intorbidare l'esecuzione del decreto di soppressione dei conventi, che come saprete, deve avere esecuzione il 29 corrente Tutto andò fallito.

Del resto è buono vedere su questo particolare il rapporto


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A Sua Eccellenza Monsignor ProMinistro delle armi

«A dodici miglia di Monte Rotondo a Corese, distaccamenti nemici, di cui il numero variava dai 50 a 200 uomini, si erano appostati in una osteria all'estremo confine della provincia di Rieti. Questi si erano impadroniti del ponte e della strada di Terni, situati per intero l'uno e l'altra nel territorio della Comarca. La gendarmeria pontificia, da unaltra osteria che trovasi al di qua del ponte, mi faceva apprendere tutti i giorni, che i Piemontesi dall'osteria vicina, non cessavano di tendere loro degli agguati, di eccitarli alla diserzione, di offrir loro del denaro e di spandere pel paese la voce che essi andavano quanto prima ad occupare militarmente in nome del Piemonte l'intera provincia. In presenta di questo sistema di corruzione in faccia all'armata pontificia, e di minaccia contro la quiete del paese, ha dovuto il posto piemontese esser tolto.

«Il giorno 24 inviai il capitano di Chillaz a fare ricognizione, durante che esso osservava la posizione, gli uomini del posto facevano pompa di cantare canzoni rivoluzionarie contro il Papa e i soldati della sua armata, che trattavano da assassini e da briganti.

«Il 25 a mezzanotte, sono partito senza strepito alla testa del mio battaglione; i miei nomini hanno eseguito rapidamente, con un silenzio ed un ordine perfetto, una marcia che gli ha condotti, verso 3 ore del mattino, in vista del posto piemontese. Gli ho divisi in due colonne (la prima comandata dal capitano de Chillaz) e gli ho lasciati al passo di corsa su l'osteria. Le sentinelle hanno fatto fuoco, ma gli uomini del posto non hanno avuto il tempo di riconoscersi e di organizzare una difesa, che avrebbe potuto, stante la posizione che occupavano, causarci molto

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«Durante questo tempo io faceva circondare la casa da una compagnia di tiragliori tagliare il telegrafo. Noi ci siamo impossessati di tutta la corrispondenza che ho fatto immediatamente trasmettere a V. E. , di parecchi chilometri di filo telegrafico, e d'un numero di armi molto più considerevole di quello de' soldati che abbiamo trovati al posto. Una parto degli uomini del distaccamento piemontese passava a quanto mi ò stato detto, la notte dentro una cascina vicina, e nel mezzo dei campi, e così hanno potuto sottrarsi.

«Quest'affare terminato, io mi sono immediatamente ripiegato sopra l'osteria situata nella Comarca, limitandomi a far guardare la strada ed il ponte.

«Alle ore otto del mattino il Sig. capitano d'artiglieria Dandier è giunto con una batteria da montagna, e quasi nel medesimo tempo il Signor colonnello Bumensthil di artiglieria, il Signor sottointendente Ferri ed un ufficiale di amministrazione mi recavano con un battello a vapore i viveri per la mia colonna, delle pale, delle zappe, delle tavole, dei pali e tutti gli altri oggetti necessari! per fortificarmi; ne ho immediatamente profittato per metterci in istato di difesa in caso di avvenimento, e fare delle feritoie nella nostra osteria.

«Ho lasciato sul luogo due pezzi di cannone ed un distaccamento dei miei uomini. Il resto è ritornato a Monterotondo conducendo seco una spia che io aveva fatto arrestare e che si era trovata portatrice di carie sospette. Le unisco a questo rapporto.

«I prigionieri nel numero di 50 sono stati diretti a Roma. V. E. si rallegrerà meco pei riguardi di cui i medesimi sono stati l'oggetto per parte dei miei uomini incaricati di condurli. Essi hanno ricevuto da loro del denaro, degli effetti di abbigliamento; e si mostravano assai meravigliati di non essere maltrattati. A loro dire, sarebbero stati arruolati per forza in Toscana, e secondo le notizie che han dato, i corpi mobilizzati cui appartengono sarebbero organizzati nel modo il più deplorabile.

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«A Monterotondo il ritorno dei miei uomini ha prodotto il migiior effetto sulla popolazione; la città è stata illuminata.

«Tale è, monsignore, il rapporto esatto e dettagliato degli avvenimenti di ieri.

Non credo di essere uscito dal mio programma di moderazione e vigilanza armata nell'occupare nella Comarca e confine della provincia di Rieti derubata l'anno scorso al sovrano pontefice in onta a tutte le leggi dell'onore militare, un posto nemico che era per noi causa continua d'inquietezza e che stabiliva d'altronde un avanguardia per una nuova invasione, ed è nella fiducia che V. E. sarà soddisfatta della riuscita di questo avvenimento, che attendo gli ulteriori ordini che vorrà communicarmi.

«Avrò l'onore, monsignore, di rimettere a V. E. , appena avrò potuto riunire i documenti necessarii, uno stato degli uomini che si sono maggiormente distinti in questo affare.

ten. col. com. il hatt. de' zuavi pont.

DE BECDELIEVRE

CAPO III.

SOMMARIO

I. LA FLOTTA FRANCESE S'ALLONTANA DA GAETA, IL 19 ALLO SPIRARE DELL'ARMISTIZIO - FRANCESCO II INVITA GLI AGENTI DIPLOMATICI ACCREDITATI PRESSO DI LUI A FERMARSI NELLA PIAZZA - ESITAZIONE DALLA PARTE DI QUESTI ULTIMI - IL MINISTRO CASELLA RIMETTE LORO UNA NOTA, NELLA QUALE E RINNOVATO IL MEDESIMO INVITO - IL NUNZIO, L'AMRASCIATOR D'AUSTRIA, E IL MINISTRO DI SASSONIA E QUEL DI BAVIERA SI DECIDONO A RIMANERE L'AMMIRAGLIO PERSANO FA NOTIFICARE IL BLOCCO A GAETA- IL VAPORE FRANCESE LO SFINGE PERVIENE AD ILLUDERE LA SORVEGLIANZA DELLA CROCIERA PIEMONTESE - MA IL VAPORE LA SENNA E OBBLIGATO DI TORNARE ADDIETRO - PROTESTA DI CASELLA INDIRIZZATA ALLE POTENZE IN NOME DI FRANCESCO II CONTRO IL BLOCCO DI GAETA - II. LA PIAZZA RIPRENDE LE OSTILITÀ - LE BATTERIE PIEMONTESI RISPONDONO SUBITAMENTE CON VIOLENZA - LA FLOTTA SARDA PRENDE PARTE ALL'AZIONE - NELLA GIORNATA DEL 22 IL FUOCO É DEI PIÙ INTENSI D'AMBE LE PARTI - LA FLOTTA IN SUL CADER DEL GIORNO RIENTRA NEL SUO ANCORAGGIO A MOLA - L'AMMIRAGLIO INGLESE MUNDI COMPLIMENTA L'AMMIRAGLIO PERSANO CON LA SUA MARINA GUASTI E PERDITE IN GAETA E FRA GLI ASSEDIAMI NELLA PIAZZA SI MANIFESTA IL TIFO - III. SFORZI DEGLI ASSEDIATI PER PROVARSI A CONTROBILANCIARE QUELLI DELL'ARTIGLIERIA SARDA - SI FONDE QUALCHE CANNONE RIGATO, E SE NE RIGA DEI LISCI. LA FASE CRITICA DELL'ASSEDIO COMINCIA IL i FEBBRAIO PER L'ESPLOSIONE Di UN DEPOSITO DI POLVERE - IL 5 GRANDE ESPLOSIONE DELLA POLVERIERA DELLE BATTERIE CITTADELLA E 8. ANTONIO

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- GUASTI ENORMI - IL GENERALE DEL GENIO TRAVESI É FRA LE VITTIME DI QUESTO DISASTRO LA PIAZZA CHIEDE AL GENERAL CIALDINI UNA TREGUA DI 48 ORE PER CAVAR FUORI DALLE ROVINE QUELLE VITTIME - LA TREGUA É ACCORDATA CONSIGLIO DI GUERRA ADUNATO A GAETA PER DELIBERARE SE LA RESISTENZA E' ANCORA POSSIBILE QUESTA QUESTIONE E DECISA AFFERMATIVAMENTE DOMANDA D'UNA NUOVA TREGUA DI 12 ORE CON AUTORIZZAZIONE DI EVACUARE 1 MALATI SU TERRACINA CIALDINI ACCORDA QUEST'ALTRO TEMPO B FA EGLI STESSO TRASPORTARE I MALATI A NAPOLI - IV SPIRATA LA TREGUA GLI ASSEDIATI RICOMINCIANO IL FUOCO - LA CITTÀ NE VA IN ROVINA - UNO SCUDIERO DELL'IMPERATORE NAPOLEONE PORTA A MARIA SOFIA UNA LETTERA DELLA IMPERATRICE EUGENIA - UNA NUOVA TREGUA DI 15 GIORNI B DOMANDATA DAGLI ASSEDIATI PER TRATTARE DELLA DEDIZIONE DELLA PIAZZA - RIFIUTO DEL GENERAL CIALDINI, IL QUALE SI DICHIARA DISPOSTO A TRATTARE DELLA CAPITOLAZIONE ABBOCCAMENTI -

h'

ESPLOSIONE DELLA POLVERIERA TRANSILVANIA DECIDE FRANCESCO II A SEGNARE LA CAPITOLAZIONE TESTO - PARTENZA DI FRANCESCO II, E DI SUA CORTE SUL VAPORE FRANCESE LA MUETTE SUO PROCLAMA ALL'ARMATA - LE TRUPPE PIEMONTESI PRENDONO POSSESSO - ORDINE DEL GIORNO DEL GENERALE CIALDINI EFFETTO PRODOTTO IN EUROPA DALLA NOTIZIA DELLA CAPITOLAZIONE DI GAETA - V. LE CITTADELLE DI «VITELLA DEL TRONTO E DI MESSINA RIFIUTANO DI ARRENDERSI - GIOIA DEGLI ABITANTI DI MESSINA RISAPENDO LA PRESA DI GAETA - IL GENERALE CIALDINI SI RECA SOTTO LE MURA DI MESSINA, E FA DEGLI INTIMI I PIÙ ENERGICI AL GENERAL PERGOLA, GOVERNATORE DI QUESTA FORTEZZA.

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Riprendiamo la narrazione dei fatti dell'assedio di Gaeta, sospeso per l'armistizio concluso il 12 Gennaio fra i generali Cialdini e Ritucci. Questa sospensione d'armi doveva terminare il 19 a sera. Essa durante, la piazza aveva spediti a Terraciua quasi trecento malati, mentre gli ambasciadori delle potenze presso Francesco II erano venuti a visitarlo apportandogli dei presenti, offerti dalle famiglie napolitano emigrate a Roma.

Queste visito dei rappresentanti delle potenze straniere avevan senza dubbio un' altra cagione più seria che quella di complimentare il re assediato per l'anniversario della sua nascita. Questi diplomatici erano venuti a cercare in Gaeta una risposta ai tentativi fatti per ottenere una soluzione alla questione da trattarsi nell'armistizio, e che doveva essere seguita dalla partenza della flotta francese.

Francesco II avendo creduto di dovere persistere nella sua resistenza, l'ammiraglio Barbier du Tinan si recò il 18 appresso di lui ad accomiatarsi. Egli quindi si portò a visitare le sorelle della carità all'ospedale, e lasciò loro di numerosi soccorsi in argento per gli infermi.

Il 19 un poco prima di notte, la squadra francese levò l'ancora, salutò la bandiera di Francesco II. Questo saluto fu restituito alla bandiera francese dalla batteria Santa Maria. Nello stesso tempoi bastimenti spagnoli s'allontanarono da Gaeta, e similmente quattro vapori di commercio marsigliesi, noleggiati per il servizio della piazza.

Quando la flotta francese fu partita, Francesco II dichiarò agli ambasciadori delle potenze ch'erano presso di lui, che siccome egli doveva subire il blocco,

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ch'eglino si rimanessero a Gaeta, là dov'egli aveva bisogno di testimoni officiali della sua condotta in faccia all'Europa.

Gli ambasciadori furono sorpresi e sconcertati da questa dichiarazione. Diversi fra loro al primo arrivo ebbero fatto coraggio a Francesco II, e l'aveano impegnato a combattere sino all'estremo: ma trattandosi di rimaner chiusi nella piazza assediata essi cangiaron subito linguaggio, ed obiettarono che l'onore era salvo. Francesco II veggendoli esitare li congedò, ma fece tantosto rimettere a ciascun di loro la nota seguente, nella quale era ripetuta in iscritto la domanda già fatta loro verbalmente.

Gaeta 18 gennaio 1861

Il sottoscritto presidente del consiglio dei ministri e incaricato del portafogli di S. M. siciliana, ha l'onore di rivolgersi a S. E. monsignor Giannelli nunzio apostolico della Santa Sede nella sua qualità di decano dell'ordine diplomatico, per portare alla sua conoscenza che S. M. il re, suo augusto signore, desiderando avere presso la sua persona, in queste contingenze estreme, i rappresentanti dei sovrani suoi alleati ed amici, si è deciso d'invitare formalmente tutti i capi delle legazioni estere a rimanere a Gaeta, dove per l'interesse generale essi sono accreditati.

Se gravissime considerazioni non rendessero questa misura indispensabile, S. M. il re il cui cuore è cosi sensitivo ai patimenti altrui, non vorrebbe certo imporre agli onorevoli rappresentanti delle potenze amiche le privazioni e i pericoli di una piazza assediata. Per questi sentimenti, due mesi or sono S. M. invitò il corpo diplomatico a risiedere a Roma per risparmiargli le pene e i pericoli di un assedio, rimanendo solo il ministro di Spagna in questa occasione presso S. Maestà di cui avea risoluto fin dal principio dividere la sorte e la fortuna.

Animato da questi sentimenti il re, mio augusto sovrano, non ha voluto invitare alcuno dei membri del corpo diplomatico

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a Gaeta, malgrado le circostanze ogni giorno più critiche, e questo a motivo del bombardamento che è cominciato contro questa piana il 1 dicembre.

«Fintanto che le comunicazioni erano libere, il re poteva, almeno indirettamente, rimanere in rapporto col corpo diplomatico residente a Roma, risparmiandogli ogni pericolo, e se una difficile circostanza si fosse presentata, nella quale i suoi consigli fossero stati necessarii, vi era sempre ogni mezzo d'invitarlo a recarsi in poche ore a Gaeta, quest'ultima risorsa presentemente più non esiste. Dopodimani, le comunicazioni marittime sarebbero interrotte: ogni rapporto tra il re e il corpo diplomatico accreditato presso la sua reale persona sarà definitivamente impedito, e S. M. non può e non vuole rinunziare al piacere d'aver presso di so, per illuminarsi dei lor consigli, i rappresentanti dei diversi governi.

«Un' altra circostanza ha ancora determinato Sua Maesta. Quando, nel giorno di jeri, il corpo diplomatico si è presentato al re, i capi della legazione ch'ebbero l'onore d'intrattenerlo sulV assedio di Gaeta, lo hanno incoraggiato a resistere, anche dopo che la partenza della squadra francese avrebbe lasciato il campo libero ad un blocco e ad un attacco dalla parte del mare. A partire da oggi, Sua Maestà annette un prezzo particolare ad ascoltare gli avvisi di ministri pure importanti. I consigli lungamente motivati di questi onorevoli rappresentanti sono stati in favoro della resistenza. Dopo aver ricevuto questi consigli, Sua Maestà non esita più oggi, ed essa ha preso immediatamente la risoluzione di chiudersi in Gaeta o di difendervi sino all'ultimo istante questo resto della monarchia.

«Ma com'è possibile, se lo stato attualo delle cose continua, che questa piazza isolata e abbandonata finisca col cadere, e che allora la persona del re, quella della regina e dei principi siano alla mercé del vincitore? Sua Maestà, che vuol cedere come re, e come re sopportar la sua sorte ha bisogno presso di sé dei ministri esteri per ricorrere, in caso di bisogno, ai loro consigli e averli per testimoni irrecusabili dei fatti compiuti.

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Gli è perciò che S. M. , che ha veduto con molto piacere il

«Il sottoscritto ha pure l'ordine d'informare S. E. Revma. che perle persone del corpo diplomatico che si decideranno a restare, fu preparato il locale più bello e più sicuro che possa offrire Gaeta; il governo del re s'incarica in tal modo di provvedere alla loro comodità personale per quanto lo comportano le condizioni di dna piazza assediata: Quanto a coloro che vorranno mandaro a prendere i loro effetti a Roma, e che non crederanno, per circostanze particolari, dover restare a Gaeta, un vapore è pronto a partire per Civitavecchia o Terracina. ed è da questo momento a disposizione di monsignore il Nunzio Apostolico.

«Sollecitando dall'E. V. Rma. una pronta risposta, il sottoscritto ha l'onore ecc. ecc.

Firmato CASELLA

«Allora, ci dice il Sig. Carlo Garnier, autore del Giornale di Gaeta dal quale noi prendiamo quasi per intiero questi dettagli, allora il corpo diplomatico si scinde in due parti l'una composta dei diplomatici accreditati unicamente presso la corte dello due Sicilie: l'altra di quelli che rappresentano allo stesso tempo la loro corte presso la S Sede.

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Per questi ultimi il pretesto della partenza era bell'e trovato, e s'affrettarono a farlo valere, e non vi si poteva replicar nulla. Quanto all'altra parte, essa agì con minore unità. Il Nunzio e il ministro di Baviera furono i primi a decidersi di restare: il ministro di Sassonia si fé persuadere; ma l'ambasciatore di Russia dichiarò ch'egli era chiamato a Roma dal suo governo. L'incaricato d'affari di Prussia dichiarò che nulla potrebbe ri tenerlo a Gaeta. Finalmente l'ambasciatore d'Austria essendo stato di già biasimato dal suo governo d'essere stato il primo ad abbandonare Francesco II, si rassegnò a separarsi da' suoi colleghi che più fortunati di lui fecero vela por Civitavecchia il 19 al cader del sole, e il domani entrarono a Roma. A questo soggetto ci par convenevole di citare una corrispondenza dell'Armonia in data del 23 Gennaio;

ROMA 23 gennajo.

«Diversi dei ministri accreditati presso il Re di Napoli, andaii a Gaeta per rendere omaggio a S. M. nel suo compleanno, sono rimasti là, e sono monsignor Giannelli, Nunzio Pontificio, il conte Szcckeni ministro d'Austria, il barone di Verger, ministro di Baviera, il conte Kleist de Loss, ministro residente di Sassonia, e il cavaliere Frescobaldi, incaricato d'affari del Granduca di Toscana. Vi erano andati anche i ministri di Russia e del Portogallo; ma questi sono ritornati a Roma. Il ministro di Prussia non vi fu, perché da molti giorni partito per Berlino. Questi rappresentanti sono rimasti a Gaeta per espresso desiderio del Re, e perché non siano fatti commenti sulla partenza del ministro di Russia, dirò come è andata la faccenda. Il principe Wolkowski, ministro di Russia, dopo d'aver complimentato, la mattina il Corpo diplomatico, alla sera ebbe un'udienza dal Re, che durò fino oltre la mezzanotte. In quella circostanza il principe licenziossi, coll'accordo che prima di lasciare Gaeta avrebbe ricevuto da S. M. dispacci per Roma e Pietroburgo.

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La mattina del 17 il ministro di Russia occupossi a scrivere la sua corrispondenza diplomatica, quando prima di pranzo venne dal Nunzio del Papa invitato ad una conferenza. I diplomatici a

«Il Re si persuase e licenziò il ministro. Il Nunzio Pontificio nell'aderire ai desiderii del Re non ha fatto che interpetrare le intenzioni del Papa il quale avrebbe desiderato che il suo rappresentante non si fosse mai allontanato dal giovane Re, como ha fatto il ministro di Spagna. I vincoli di stretta parentela, che uniscono la Regina alla famiglia Reale di Raviera, fecero immediatamente risolvere il rappresentante bavarese a rimanere.

«Questi ministri erano partiti per Gaeta nell'idea di rimanervi tre giorni per cui non si erano provveduti di tutto ciò che ò necessario per un lungo soggiorno. E siccome alla flotta francese il giorno 19 è subentrato il blocco piemontese, i ministri hanno dovuto umiliarsi davanti alla Francia ed al Piemonte, perché fosse lasciato entrare nel porto di Gaeta il bastimento che portava loro gli effetti fatti venire da Roma.

«Il 20 a mezzogiorno l'ammiraglio Persano fece notificare il blocco alla piazza assediata, da un vapore che si presentò con una bandiera parlamentare. Ecco il testo di questa notificazione:

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NAPOLI 23 Gennaio

Regia Squadra di S. M. Vittorio Emanuela

dinnanzi a Gaeta.

NOTIFICAZIONE DI BLOCCO

Considerando il regolare assedio dalla parte di terro di già inoltrato dalle truppe di S. M dinnanzi Gaeta;

Considerando che la città e porto di Gaeta sono una piazza forte, e non una piazza commerciale;

Considerando che l'approdo di Gaeta di qualsiasi bastimento deve essere riguardato come una operazione intesa ad approvvigionare ed assistere gli assediati;

Considerando che l'impedire gli approdi dei bastimenti nella zona marittima di Gaeta, non può turbare il commercio pacifico delle Potenze Neutre;

Io sottoscritto, viceammiraglio comandante in capo le forze di S M. Vittorio Emanuele dinnanzi a Gaeta, di concerto con S. E. il gen. Cialdini comandante in capo il corpo d'assedio, dichiaro con la presente in nome del mio governo, e porto a cognizione di tutti coloro che avessero interesse della cosa, che ho stabilito l'effettivo della piazza di Gaeta, e suo littoriale compreso tra torre S. Agostino da una parte e Mola dall'altra, con lo scopo d'impedire qualsiasi approvvigionamento agli assediati.

Per gli effetti della presente notificazione si terrà conto della dichiarazione delli 16 aprile 1856 stipulata nella conferenza di Parigi per riguardo agli interessi alle potenze neutre.

Dato nelle acque di Gaeta il 20 Gennaio 1861

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Il vice ammiraglio comandante in capo le forza

navali di S. M. dinnanzi Gaeta

DI PERSANO

Fin da questo momento l'armata Sarda circondò Gaeta, E i suoi bastimenti dierono la caccia a tutti i navigli che facessero vista di entrare nelle acque. Intanto un bastimento francese, la Sfinge, carico di farina e di metallo per la piazza assediata, trovò modo di giungere sino al porto. Inseguito durante la notte da un bastimento piemontese, aveva spente le suo lanterne, e col favor delle tenebre era giunto sotto lo schermo dei baluardi.

Un altro vapore francese, la Senna, che similmente portava delle provvisioni, fu meno fortunato. Sorpreso dalle crociere Sarde fu intimato di retrocedere, ma il suo carico non patì verun detrimento a cagion di quest'ordine.

Francesco II aveva di più protestato per mezzo del suo ministro Casella contro il blocco: ma questa protesta rimase priva di risultato appresso le potenze europee, le quali nulla fecero per opporsi al fatto, benché non lo approvassero official mente.

Porgiamo il testo di quella nota, indirizzata agli agenti diplomatici di Francesco II residenti nelle corti straniere:

Gaeta 48 Gennaio 1864

Signor... .

L'ammiraglio della squadra imperiale ha proposto al re nostro augusto signore, in nome dell'Imperatore dei Francesi, un armistizio. Questa tregua cominciando il 9 doveva durare fino al

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se essa era accettata, la squadra resterebbe fino al tramontare del sole del giorno indicato qui sopra. Le ostilità sospese ripiglierebbero allora il loro corso o la flotta sarda potrebbe bloccare il porto e cominciare dalla parte del mare l'attacco e il bombardamento di Gaeta.

Quest'alternativa era trista, perché i due casi implicavano la partenza della flotta, la cessazione di ogni relazione o l'interruzione di ogni comunicazione col resto del. mondo. L'armistizio in se stesso non era favorevole, perché noi avevamo tutti i nostri mezzi di difesa al completo e senza possibilità di aumentarli, mentre i Piemontesi avevano bisogno di questo tempo per trasportare munizioni e preparare, se non compiere, nuove e più potenti batterie.

S. M. per altro accettò non solo per le considerazioni d'umanità che prescrivono di ritardare, ogni volta che si può farlo onorevolmente, l'effusione del sangue, ma specialmente perché questo armistizio era un desiderio dell'Imperatore dei Francesi.

Gli è perciò che il governatore di Gaeta accettò tutti gli articoli proposti dall'ammiraglio, che troverete qui sotto. Ma la presenza d'un ufficiale francese per sorvegliare la sospensione dei lavori dalle due parti, condizione che per noi rendeva facile la nostra buona fede, non fu accettata dal generale nemico. Due giorni dopo il generale Cialdini dichiarò all'ammiraglio de Tinan che un ordine del re di Sardegna confermava il suo precedente rifiuto.

Ciò non ostante rifiutammo di osservare la tregua, e benché tutti i nostri rapporti ci segnalassero d'ora in ora il progresso dei lavori del nemico, noi l'abbiamo rispettata, e domani essa finirà senza che persona possa accusarci di non essere stati scrupolosamente fedeli a quest'armistizio indiretto.

Da domani il porto di Gaeta resta bloccato, ed è aperta la strada agli attacchi marittimi contro la piazza. Da domani i legni stessi di S. M. , consegnati con un tradimento il più infame al ro di Piemonte, verranno a lanciare le loro bombe sopra famiglie di

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Non si può credere che l'Europa assista più lungamente impassibile allo spettacolo di un re riconosciuto da tutto le potenze, spogliato de' suoi Stati dalla più iniqua aggressione, in preda a tutti gli orrori di un bombardamento, senz'altro delitto che il coraggio di difendere valorosamente il baluardo della monarchia contro una vile invasione. I sovrani e i popoli comprenderanno finalmente che si difende a Gaeta qualche cosa di più che la corona d'un antica dinastia; si difendono i trattati in virtù dei quali regnano tutti i sovrani, il diritto pubblico, sulla forza del quale riposano lo tranquillità e l'indipendenza dei popoli.

S. M. il re è deciso d'affrontare fino alla fine tutti i pericoli della sua posizione abbandonata. Bloccato ed attaccato ad un tempo dal lato di mare e di terra potrà cadere sotto le rovine della piazza, potrà essere il prigioniero de suoi nemici. Qualunque sia la sua sorte S. M. ò pronta a sopportarla con quella grandezza d'animo e quella fermezza di cui da cinque mesi dà prove sì numerose e costanti.

Contro quel che accade o può accadere non è d'uopo protestare. La coscienza pubblica, il sentimento morale di tutte le anime oneste protesteranno pel re in questa circostanza decisiva. E se l'Europa abbandona S. M. , S. M. non si abbandonerà. Il re compierà fino alla fine il suo dovere di sovrano.

Avete saputo da tutti i giornali, anche da quelli che difendono colla maggiore insistenza la causa della rivoluzione, qual è il vero stato del regno di Napoli e dell'infelice Sicilia; sfiducia, mancanza di sicurezza, rovina. Da ogni punto dei dominj continentali, le popolazioni si levano spontaneamente per protestare, come possono, in mezzo al generale disordine, in favore del loro legittimo sovrano contro la dominazione straniera. E di fatto il Piemonte li tratta da stranieri.

Mentre i Piemontesi tacciano di barbarie e d'inumanità i mezzi di moderazione e di dolcezza impiegati da S. M. per sedare i tentativi di rivolta, e ciò fino al punto di ordinare al primo annunzio, la sospensione del bombardamento di Palermo; il Piemonte bombarda ogni giorno

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e senza in

Il re in questo circostanze volendo, non salvare la sua persona, ch'egli espone da due mesi ogni giorno a tutti i pericoli, ma assicurare contro l'umiliazione e contro l'insulto la dignità reale che rappresenta, avrebbe diritto a sperare, che nella lotta ineguale che va ad essere continuata, le potenze dell'Europa dichiarassero se esse riconoscano sì o no il blocco che va ad essere stabilito senza dichiarazione di guerra, senza notificazione regolare, dalla squadra ora in possesso del Piemonte. E se questo blocco non é riconosciuto, S. M. nutre almeno fiducia che sarà fatta un intimazione collettiva al re di Sardegna per garantire la libertà di S. M. , se i casi d'un assedio disperato rispettano la sua vita, e per assicurare da ogni oltraggio la persona della giovine regina, che con una magnanimità degna del suo cuore ed insensibile ad ogni rischio personale ha resistito alle più insistenti preghiere per consegrarsi negli spedali alle cure dei feriti.

Siete facoltato, signore, a dar lettura di queste dispaccio a... ... ... ... ed a lasciargliene copia.

Firmato: CASELLA.

Frattanto il tempo determinato per la cessazione dell'armistizio era spirato il giorno 19 al cader della notte, e il 21 a sera i cannoni degli assedianti, come quelli della piazza, tenevano ancora il silenzio. Onde mai simil ritardo alla ripresa delle ostilità? Noi, sappiamo, che da parte degli assediati ebbe cagione per l'arrivo del battello a vapore la Sfinge, carico di metallo, e farina per la piazza, il quale importava di potere scaricar senza pericolo. Questo legno era entrato nel porto il 20 a sera, la vigilia cioè del giorno, in cui il governatore di Gaeta aveva dato ordine d'aprire il fuoco al domani a punta di giorno. quest'incidente fé aggiornare l'ordine al 22 dopo terminato di scaricare il battello.

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Quanto ai Piemontesi non si spiegava così facilmente la causa della loro inazione. Vi erano delle pratiche diplomatiche in

Scrivono da Parigi, 20 gennaio, all'Opinione.

«Si aspettava di ricevere quest'oggi la notizia che era incominciato il bombardamento di Gaeta, tosto partito il resto della nostra flotta, ed invece ricevo notizia che un dispaccio da Torino al governo imperialo annunzia che lo ostilità contro la fortezza sono ancora differite sino a domani, volendo fare presso Francesco II un ultimo tentativo per la resa.

«Il gen. Cialdini sarebbe stato incaricato da Vittorio Emanuele di mandare un parlamentario a Gaeta con proposte di larghissime condizioni.

«Apprezzando l'importanza dell'incarico, il generale Cialdini ha inviato qual parlamentario il generale del Genio, sig. Menabrea. Lo proposte presentate a Francesco II, si assicura essere le seguenti:

«1. Il governo di Vittorio Emanuele metterebbe a disposizione di Francesco II, una o due fregate per trasportarlo dove egli volesse.

«2 Egli potrebbe farsi accompagnare dalle persone addette al servizio di corte, e dalla sua casa militare.

«2. Il governo di Vittorio Emanuele si obbligherebbe a far trasportare a' loro rispettivi paesi le truppe estero ch«sono a Gaeta.

«4. I militari nazionali che ora sono al servizio di Francesco II avrebbero tre mesi di tempo per dichiarare se volessero passare al servizio dello Stato, conservando i loro gradi, stipendi, prerogative, ecc. , in conformità dei regolamenti militari.

«Queste proposte furono fatte nell'intento di indurre Francesco II a rinunciare alla resistenza affine di non pregiudicare la posizione di quelli che hanno partecipato sinora alla sua sorte. La resistenza essendo da Francesco II stesso giudicata inutile, le condizioni offerte sono giudicate abbastanza convenienti.

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«Si esita tuttavia a credere che Francesco II le accetti, essendo incoraggiato alla resistenza dal nunzio e dagli inviati di Austria e di Spagna, i quali sperano tutto nel tempo e nella reazione.

Finalmente il giorno 22 alle ore 9 mezzo del mattino un colpo di cannone uscito dalla batteria Regina diede il segnale a tutte le batterie della parte di terra: e bentosto tutta l'artiglieria di questa parte tuonò con furore. Quella del nemico non tardò a rispondere e scagliò la devastazione sulla città, mentre il trarre degli assediati faceva egualmente dei grandi guasti. La batteria dei Cappuccini, la più vicina, situata a 1500 metri fu sgominata in meno d'un' ora e ridotta a tacere, cosicché non le venne fatto di riprendere il tiro che prima di sera mediante grandi e faticosi sforzi degli artiglieri piemontesi.

Udendo il romor del cannone, l'ammiraglio Persano diede alla squadra il segnale di prepararsi all'attacco, e subito i navigli furono in movimento, prima di tutti la Maria Adelaide seguita dal Carlo Alberto poi dal Vittorio Emanuele dal Garibaldi, dalla Costituzione dal Nosambrio, e da quattro scialuppe cannoniere, l'Ardita, il Vinsaglio, il Palestro, e il Veloce. L'azione della flotta cominciò a 10 ore del mattino e durò con molta energia sino alle 4 e mezzo pomeridiane.

Fu verso le 2 ore, che il combattimento prese un carattere veramente terribile. Gaeta o i suoi monti sembravano un Vulcano in piena eruzione. L'ufficio della flotta era ben duro. Ogni volta che qualcuno dei suoi navigli cercava a stabilirsi per la pugna i proiettili della piazza lo costringevano a prendere il largo. Quando la squadra si ritirò, la sera, al suo ancoraggio di Mola, l'ammiraglio inglese Mundi, che ivi stanziava, indirizzò all'ammiraglio Persano, in un con le sue felicitazioni circa il coraggio de suoi marinari un' amichevole ammonizione di essere più prudente per l'avvenire.

A cinque ore della sera per ordino di Francesco II il fuoco cessò da parte della piazza, che non lanciò più tranne qualche granata in risposta al fuoco dei Piemontesi, il quale fu continuato sino alla mezza notte.

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Nello spazio di 8 ore la piazza tirò circa

Infatti s'era attaccato il fuoco ad un quartiere vicino, e fu con molta attività soffocato,

In conferma del nostro racconto riportiamo una corrispondenza di Mola di Gaeta alla gazzetta di Genova, e il rapporto indirizzato al ministro della marina Sarda, contenente un ordine del giorno del generale Cialdini.

Mola di Gatta 23 Gennajo

«Dopo che ebbe fine l'armistizio e dichiarato il blocco, noi ci attendevamo di essere attaccati dagli assediati di Gaeta. Essi non aprirono il fuoco che ieri a mattina alle 3. Allora le nostre valorose truppe, comunque non preparate a quello improvviso violento attacco, si posero in grado di rispondervi convenientemente. Si scoprirono celermente tutte le batterie mascherate che potevano agire e si cominciò contro la piazza un bombardamento dei più gagliardi. I cannoni Cavalli trassero più volte e con pieno successo. La flotta italiana entrò pure in lizza alle dieci del mattino attaccando la città nella fronte di mare, dal lato che risponde a mezzogiorno. Le abili manovre dei bastimenti e le frequenti e vivo scariche di artiglierie fecero una utilissima diversione. La squadra non si ritirò dal combattimento che verso le cinque della sera.

Le sue perdite ascendono a cinque morti e dodici feriti, tutte di bassa forza, cioè: sulla Maria Adelaide, un morto e due feriti sulla Costituzione due morti e quattro feriti, e sulla Confienza due morti e cinque feriti. Due cannoniere soffersero avarie, una dovette ritirarsi durante il combattimento. Nell'esercito di terra evvi un totale di cinquanta soldati morti e duo ufficiali e pochi feriti. Le palle tratte da nostri legni colarono a fondo il vapore Etna che stava nel porto di Gaeta.

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Si credeva di scorgere ieri sera nella piazza segni di grande agitazione.

MINISTERO DELLA MARINA

«Nelle ore 8 del mattino del 23 volgente, le batterie del nemico avendo ricominciato il fuoco contro quelle del nostro Esercito, la squadra composta in quel mentre delle pirofregate Maria Adelaide, Vittorio Emanuele, Carlo Alberto, Garibaldi, Costituzione, della pirocorvetta Monzambano, delle pirocannoniere Vinzaglio Confìenza, Veloce, Ardita, salpò e si avvicinò disposta in ordine di battaglia alle fortificazioni nemiche poste a difesa di Gaeta dal lato di mare.

La pirofregata Garibaldi, e le pirocannoniere Vinzaglio, Confidenza e Veloce, furono destinate a combattere le batterie a ponente della città, rimanendo gli altri legni contro quelle a levante.

Alle ore 11 antim. le batterie di terra di ponente principiarono il fuoco, i nostri bastimenti risposero senza ritardo. Verso il mezzogiorno il Carlo Alberto e la Costituzione, e poco dopo Vittorio Emanuele presero a far fuoco contro le batterie a levante; ma siccome i loro colpi non producevano il desiderato effetto, il viceammiraglio comandante la squadra che trovavasi a bordo della Maria Adelaide, sotto un vivo e nutrito fuoco, si portò sotto quelle batterie battendo tutta la linea di difesa, manovra che venne eseguita dal Carlo Alberto e dal Vittorio Emanuele, rimanendo la Costituzione a far fuoco contro le batterie della Lanterna.

Alle ore 12 e mezza le batterie di terra, vigorosamente battute sopra tutti i punti, rallentarono il fuoco. Verso le 2 il fuoco del nemico avendo ripreso vivamente, la squadra difilando a mezzo tiro innanzi alle batterie da lavante aprì il fuoco contro le medesime, che per più di mezz'ora continuarono un vivissimo fuoco lanciando una grandine di projettili.

Trascorso di poco le 2 pom. , il nemico cessò il fuoco da

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In questo combattimento, ammirabile per coraggio e sangue freddo spiegato dagl'intieri equipaggi di tutti i regi legni, composti di marinari delle antiche provincie, e di Napolitani, non si ebbero a lamentare che tre morti e cinque feriti, e qualche avaria a bordo di alcuni bastimenti, non però tale da camprometterne menomamente la sicurezza.

A meglio dimostrare in qual modo la squadra abbia compiuto verso il re e la patria il suo dovere. si riproduce la seguente lettera che il generale d'armata, comandante l'esercito d'operazione, diresse il giorno seguente al conte di Parsano, vice ammiraglio comandante la squadra:

Cattelloni SS gennajo 1864.

«Prego la S. V. Illma di aggradire i miei ringraziamenti, e di volerli partecipare alla flotta per l'abile ed energica sua cooperazione nella giornata di jeri.

Dall'alto delle nostre posizioni osservando le ardite manovro de suoi legni da guerra, tutto il quarto corpo d'armata riconobbe e salutò l'ammiraglio e la squadra che espugnarono la Lanterna d'Ancona.

Le rinnovo l'assicurazione della mia distinta considerazione.»

Firmato il gen. d'armata CIALDINI.


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La città di Gaeta ebbe molto a soffrire il giorno 22. I guasti furono di considerevol momento, ma la parte alta fu quella che più ne sofferse. Le strade delle batterie, ed altre ancora erano dapertutto sfondate, e somigliavano in alcuni luoghi a precipizi, onde fu posto molto d'attività a ripararle.

Le perdite sofferte dalla guarnigione ammontarono ad una ventina d'uomini fra i quali il maggiore Solimene, che comandava la batteria S. Antonio; il capitano Filippi fu dei feriti, il cui numero ascese circa a cento dieci.

Fu in questa giornata che la regina Sofia volle montare sulla batteria Ferdinando, o che Francesco II accondiscese a stento ad accordarlene il permesso dietro le istanze del barone Schismacher, che le fu d'accompagno in questa visita.

Le perdite dei Piemontesi furono alquanto più forti: cinquanta soldati e due officiali uccisi, o venti feriti solamente. La flotta ebbe cinque morti e due feriti. Duo delle sue cannoniere furono assai danneggiate, luna delle quali dovette racconciarsi a Napoli, dove non poté giungere che a gran pena.

Il giorno 23 fu per questo un giorno di silenzio, che ambe le partisi dierono a tutt'uomo a riparare i danni. Il 24 i Piemontesi trassero alcuni colpi di cannone, ai quali rispose la piazza languidamente; ond'essi provarono di spingere una trinciera in avanti del borgo, ma essa fu abbandonata. Nello stesso tempo essi scoprirono alla loro estrema sinistra una nuova batteria situata a Castellone, e ne fecero la prova. Questa batteria oltre gli altri pezzi aveva due cannoni cavalli, che lanciavano dei proiettili di 150 libbre, un solo de quali gittò a terra una casa. Il domani e il giorno appresso nuove batterie furono aperte all'estrema diritta verso la Madonna della Catena. Le loro prime prove uccisero nella piazza cinque uomini, ed altrettanti ne ferirono. Ma un novello e più terribil nemico veniva a rovesciarsi nella guarnigione di Gaeta: il Tifo. Il giorno 25 in cui si manifestò, 95 uomini, colpiti da questo flagello, furono portati allo spedale. Il 26 altri 90 subirono la medesima sorte: cosicché si contava nella piazza un totale di 800 malati. Una corvetta spagnola, portante dei dispacci per l'ambasciatore di Spagna a Gaeta ed una lettera della Imperatrice

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Eugenia diretta alla regina Maria Sofia, essendosi presentata per entrare nel porto, ne fu impedita dille crociere piemontesi. Il domani, 26, il naviglio Dahomé, che aveva trasportato dei soldati a Messina con alcuni abitanti di Gaeta, fu catturato al suo ritorno e condotto a Mola, e di là rinviato a Civitavecchia. Il 27 arrivò un vapore francese portatore d'un messaggio dell'imperator Napoleone per il general Cialdini, acclusovene uno aperto e diretto a Francesco II. Con questo l'imperatore consigliava al monarca assediato di ritirarsi a fine di risparmiare a se stesso l'umiliazione d'una capitolazione. Per quest'effetto egli metteva a sua disposizione il vapore La Mouette. Il generale Cialdini fece rimettere il messaggio per Francesco II. al capitano del Monzambano con ordine d'andare a portare il plico a Gaeta. Ciò fu eseguito, e la mattina appresso un parlamentario napolitano si condusse a bordo della Maria Adelaide portando un plico per l'ammiraglio Persano riugraziandolo d'aver communicato il blocco al ministro d'Austria a Gaeta.

III.

Intanto gli assediati ponevano in opra ogni mezzo per lottar contro la formidabile artiglieria piemontese, che di giorno in giorno veniva crescendo di forze. Costruivano due nuove batterie, l'una sulla cima della Lanterna, l'altra verso la porta di terra. Questo lavoro era assai malagevole, perché i zappatori erano esposti d'una parte al tiro del nemico, che troppo frequente li disturbava con un mira infallibile, d'altraparte la tempera dell'atmosfera era giunta ad un rigore intollerabile, e il vento del Nord congiunto a' fiocchi di neve spirava con violenza sovra le alture.

Nell'arsenale il colonnello del genio Alfan de la Rivière tentava di fondere nuovi cannoni rigati, e di rigarne degli antichi; ma si difettava di materiale e d'istromenti, e questi tentativi non ebbero che un risultato quasi nullo.

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Tuttavia si poté fabbricare quattro pezzi di nuovo sistema, che furono destinati alla nuova batteria, che or ora gli assediati conducevano a compimento, e che era situata al disopra del Malpasso al di là della Rocca Spaccata, per potere rispondere a quelle dei Piemontesi stabilite alla Madonna della Catena.

Nel mentre che gli assediati si occupavano in questo espediente di difesa, gli assalitori che avevano in linea 170 bocche da fuoco incirca, lanciavano contro la piazza una grandine di proiettili. Nella giornata e la notte dal 27 al 28 Gennaio più di 1000 bombe o palle rigate piombarono sopra Gaeta.

I giorni 28, 29, 30 e 31 Gennaio il fuoco degli assedianti non cessò d'un momento, e il numero delle vittime nella piazza era di un 10 al giorno. Sei generali di Francesco II erano attaccati di tifo, e di undici suore della carità destinate al servizio degli infermi, sei avevano dovuto porsi in cura. Il 30 Gennaio una bomba penetrò nello spedale di S. Caterina, e soltanto feri leggermente due malati. Un altro proiettile cadde sull'arcivescovato, e nel suo tragitto aveva già incontrato i canonici Crisculo, superiore del seminario, e Notarino curato della Cattedrale insieme con un religioso Alcantarista, ordinariamente ritirati in una cantina del palazzo, ma in quel momento saliti nei piani superiori, dove furono tutti Ire mortalmente feriti.

In presenza di tanti pericoli e in tante privazioni di ogni genere, il ministro di Sassonia conte di Loss, inviò un parlamentario all'ammiraglio Persano, domandandogli un salvacondotto per potersi ritirare a Roma. Se non che l'ammiraglio si rifiutò e il diplomatico Sassone si dovette acconciare a rimanere co' suoi colleghi, che al par di lui trovavano insopportabile il soggiorno di Gaeta. Ma essi non erano che sul bel principio della tribolazione, dacché la fase veramente più critica dell'assedio non cominciò che il quattro Febbraio, allorché i Piemontesi localizzando i loro fuochi, o mirando con precisioni sulle batterie, munite di magazzini, provocavano delle esplosioni, e degl'incendi nella città.

Fu detto che il loro tiro era diretto da un offici al napoletano ex-direttore del genio, che s'era trasferito nelle file dell'esercito Sardo.

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Dopo il 4 Febbraio, infatti, si produssero una serie di esplosioni di magazzini a polvere sotto l'azione delle bombe, e degli obici degli assedianti. La prima fu quella della riserva delle munizioni, che distrusse la batteria di Franco Basso a manca della porta di terra. Il giorno appresso la batteria San Giacomo ebbe il medesimo fatto:

Gli obici dei piemontesi continuando a penetrare da per tutto, sparsero qua e là l'incendio. Verso le quattro ore della sera del 5, la polveriera della batteria Cittadella e S. Antonio fu attaccata. Un tuono spaventevole squarciò l'aria, e il cielo per più minuti rimase intenebrato dal fumo e dai frantumi sparpagliati per la esplosione. Fu spettacolo spaventevole quando si dissiparono lo ombre momentanee. Si vedeva una rovina di circa quaranta metri, trista mistura di selci annerati, di cadaveri triti, di affusti rotti, di mura crollanti ancora: questo era ciò che restava della batteria Dente di sega S. Antonio, della porta di terra, e del suo corpo di guardia. Tutte le costruzioni ch'erano all'intorno si screpolavano, compresovi la cittadella: o per un istante fu creduto, che fossero tutti periti i legittimisti francesi di questa batteria. Essi per contrario non patirono verun danno, ma ebbero corso il più gran pericolo del mondo; perocché s'abbassò loro sotto i piedi la spianata intantochò su i loro capi volava una grandine di pietre, e parie ne cadevano o ferivano intorno a loro.

Furono bentosto spedite due compagnie di lavoratori sul luo ' go del disastro, ma il fuoco nemico rendeva la loro situazione intollerabile. Fra le vittime di questa esplosione si dee porro in primo luogo il generale del genio Traversi, di cui non si potè ritrovare il corpo che a gravissimo stento nello sgomberare. Questo valente uffiziale, quantunque nell'età di 78 anni era continuamente all'erta o infaticabile al suo posto: egli aveva già assistito all'assedio dal 1806. Con lui furono colpiti dalla morte più di 200 uomini in questa accensione della polveriera. Una famiglia di undici persone che s'era rifugiata sotto la porta di terra rimase quivi frantumata intieramente.

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I generali Riedmatten a Sjchumaker s'erano resi sulla breccia con nuovi rinforzi d'operai a fine di restaurarla; ma per contrastare e rendere inutile questo lavoro la flotta in sul cader della notte venne ad unire il suo fuoco a quello dell'esercito. Se non che i bastimenti ebbero molto a soffrire dalle batterie della piazza come ci viene esposto da due lettere di Gaeta in data del S, e del 6, le quali vogliam riportare.

Acque di Gaeta S febbraio

Ieri sera la fregata Garibaldi moveva a bombardare la città dalla parte ove scoppiò la polveriera smantellando una batteria. Il nemico che forse aveva portata tutta la sua attenzione e i suoi sforzi da quella parte, resa più debole dall'avvenuto sinistro, appena udì la prima bordata della Garibaldi, si fece a rispondervi in modo quanto mai gagliardo. Traeva con mortai, cannoni grossi e piccoli a palla e a granate. Gaeta presentava uno spettacolo imponente. Il lampo delle bordate della fregata, quindi quello delle granate che scoppiavano sulla città, unito al fuoco della piazza, presentavano l'imagine di un vero vulcano.

«A vedere la fitta pioggia delle granato che cadevano intorno alla fregata si credeva ch'essa dovesse rimanere incendiata, distrutta. La lotta ferveva col maggiore accanimento quando venne fatto il segnale alla Garibaldi di allontanarsi dal fuoco. Uscita fuori di tiro l'ammiraglio Persano mandò a bordo della fregata medici, chirurghi e medicinali; ma fortunatamente si trovò che l'opera loro era inutile giacche la Garibaldi quasi protetta dal nome del grande eroe, andò illesa dal fuoco del nemico, non ostante le sue più arrischiate manovre.

La notte del cinque fruttò nuovi elogi alla Garibaldi sia dalla flotta intiera che dall'armata di terra che ansiose e trepidanti aspettavano la fine di un combattimento che comunque parziale non fu meno di gloria e di vantaggio agli assediaci.

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Rada di Gaeta 6 febbraio

La piazza comincia a sentire gravi i danni cagionatile in questi ultimi giorni dalle nostre bombe. Due depositi di polvere ed uno di granate scoppiarono a breve intervallo e smantellarono buona parte della batteria a sega che corre fra il bastione di S. Antonio e la Cittadella. Oggi alle ore 4 le vigie segnalarono una lancia che usciva da Gaeta con bandiera parlamentaria. Il governatore di Gaeta chiedeva per mezzo di un parlamentario che gli si concedessero cinque giorni per dar sepoltura ai cadaveri e diseppellire coloro che rimasero sotto le macerie in seguito allo scoppio ieri avvenuto.

«Il generale Cialdini accordò per questo 48 ore e comunque sia certamente lodevolissimo questo sentimento di umanità, l'esercito assediarle ricordò che all'assedio d'Ancona il generale Lamoricière avendo chiesto egualmente un armistizio per seppelire i morti, il generale Fanti rispose che avrebbe continuato a bombardare finché la città non si fosse resa. In fatti alla domane Ancona era costretta a rendersi. Se non che l'umanità e l'incivilimento hanno le lor leggi e questa volta s'interpetrano più in favore degli assedianti.

«Ad onta del fuoco terribilissimo di 13 e 14 ore sostenuto con vero eroismo dell'armata nostra non si ebbe a lamentare un sol morto, un solo ferito. Il vascello il Re galantuomo e la pirofregata Garibaldi uscirono pure illese da un fuoco che pareva vomitato dall'inferno.

«Le cose andarono altrimenti a Gaeta. Gli stessi marinai che condussero il parlamentario confessarono che la giornata di ieri fu micidiale per gli assediati.

«L'esplosione che rovinò due bastioni di una lunghezza enorme fece molta strage di borbonici. Questo luttuoso fatto, al dire sempre de' marinai, cominciò a sgomentare gli assediati, i quali, giova confessare, sostengono la difesa con molto coraggio e valore.

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«A chi la guarda dal mare Gaeta presenta una scena di distruzione che fa stringere il cuore. Specialmente dalla parto che tende alle porte di terra non si scorgono che ammassi di rovino e di macerie. Di alcune case non si scorgono che le vestigie. La parte più illesa è quella verso il porto. Finito l'armistizio si ripiglierà il bombardamento con maggiore gagliardia o con mezzi più potenti, giacché si adopereranno nuovi mezzi di offesa che furono preparati. Sarebbe però a desiderarsi pel bene dell'umanità, che non si dovesse giungere agli estremi di un assalto le cui conseguenze si possono immaginare senza raccapriccio.

l'intensità del bombardamento si diradò alquanto nella mattina del G. Gli assedianti avevano lanciato dalla parte di terra e dal mare dalla vigilia a 4 ore della sera, più di 15000 proiettili. Il governator di Gaeta si decise a dimandare al general Cialdini una tregua di 48 ore per tentare di salvare qualcheduno degl'infelici rimasti chiusi dalle rovine. Questa tregua fu accordata. Il governatore ricevette i generali e i capi dei corpi in consiglio di guerra per avere il parer loro circa la possibilità di una lunga resistenza. Il general Rittucci piantò la questione in cotal maniera, che se ne travedeva il disegno di una capitolazione. I generali Bosco e Palizzi opinarono nel medesimo senso; ma il general Riedmattsn die' vivamente fuori il suo opinare per una resistenza fino all'estremo. Molti de' suoi colleghi furono trascinati al suo parere, e fu deciso di resistere ancora. Soltanto si dimandò al general Cialdini un prolungamento di tregua di 12 ore e l'evacuazione dei feriti per Terracina. La prima di queste dimande fu accordata, e quanto alla seconda, il generale sardo offrì di prender lui stesso i feriti per trasferirli a Napoli: e ciò fu fatto. Un vapore piemontese venne I'8 Febbraio a caricarne più di due cento, i quali furono trattati con tutti i riguardi dovuti all'infortunio, e che provvisoriamente furono depositati a Castellonne in un quartiere di cavalleria, fatto sgomberare a quest'uopo, essendo troppo cattivo il mare per fare la traversata di Napoli. Diversi officiali napolitani feriti furono accolti nel campo piemontese.

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IV

Allo spirar delle 12 ore di tregua accordata agli assediati, i Piemontesi riaprirono il fuoco, aumentato da quello di una batteria nuova, situata in faccia della Trinità. L'armistizio cessava alle 10 del mattino, e a 10 ore e 5 minuti il fuoco ricominciò, ma la piazza non vi rispondeva più con energia. Dalla parte di terra infatti non vi era che le batterio la Regina, la Filipstadt, e S. Andrea, che fossero al caso di rispondere. Tutto il resto lasciò l'azione a poco a poco. Il coraggio aveva abbandonato quasi tutti li difensori della piazza; i soldati stanchi di tante e sì forti fatiche si lasciavano andare spesso ad atti d'insubordinazione, che restavano impuniti. Ecco una strana scena, che potrà darne ai lettori un' idea. Il comandante di una batteria della Torre di Orlando discendeva, la sera dell'8 Febbraio, dalla montagna, preceduto dal suo domestico, il quale portava una lanterna. Nello stesso tempo i soldati della batteria Regina scorgendo l'agitarsi di lumi nel campo nemico, s'immaginarono che questo fosse uno scambio di segnali, e si misero a lanciar delle grida di tradimento tradimento intorno dell'officiale che essi scortavano confino alla casamatta reale. Ne fu sedato che a gran pena il tumulto, e il generale Ricdmatten si contentò di rimproverarli dell'inconvenienza della loro insubordinata condotta.

Il 10 Febbraio il fuoco degli assedianti raddoppiò d'intensità e tuttavia la piazza persisteva nella resistenza. Essa rispondeva ancora con qualche vantaggio alla batteria dei

Cappuccini, ma questo non era che un lieve e sterile successo.

In questo mezzo il Sig. De Pierres scudiero dell'Imperator Napoleone faceva domandare all'ammiraglio Persano l'autorizzazione

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d'entrare a Gaeta per portare alla regina Sofia quella medesima lettera della imperatrice, che già confidata a un bastimento spagnuolo, non aveva potuto pervenire al suo indirizzo. Il Sig. De Pierres ebbe licenza di compiere il suo mandato; ma a patto di limitarlo rigorosamente alla sola presentazione della lettera.

Finalmente l'11, una nuova tregua di 10 giorni, per trattar delle condizioni della resa, fu chiesta al general Cialdini, ìntermediarii il generale Annonelli, il contramiraglio Pasca, e il colonnello delli Franci. Cialdini si dichiarò pronto a cominciare le trattative, ma rifiutò formalmente di consentire ad un nuovo armistizio. Egli rispose ai parlamentari, ch'egli non era stato, com'essi ben potevano attestare, avaro di simili concessioni; che aveva addimostrato per più volte tutta la cortesia e l'onestà possibile, ma che andando più in là egli potrebbe creare al suo governo dei fastidiosi imbarazzi politici; e che potrebbe egli stesso cader nell'accusa di debolezza. Il fuoco adunque fu continuato con più grande vigore: in Gaeta le rovine si ammassavano da tutte le bande. Il 12 e il 13 Febbraio tutto sembrava dar l'ultimo crollo; le casematte si screpolavano, le polveriere si sfondavano, i parapetti delle batterie si rovesciavano; per tutto era P immagine del Caos e della distruzione, e come se i cannoni e mortaj degli assediaiiti non bastassero a quest'opra terribile, due novelle batterie si scoprirono in mezzo al borgo, l'una a 1000 I' altra a 800 metri!

Frattanto, delle trattative si praticavano fra il general Rituali e il general Sardo Menabrea per la dedizione della piazza. Cialdini voleva che si rendesse nel medesimo tempo Gaeta, Messina e Ci vitella del Tronto: Francesco li resisteva. Quanto a Gaeta, egli non voleva consentire a lasciarla occupare dalle truppe Sarde prima del primo di Marzo. Si stava in questa discussione su questi articoli, quando il giorno 13 a 4 ore pomeridiane uno spaventevole scoppio rintronò ancora gli echi della montagna. Era la gran riserva di polvere della batteria Transilvania che giunta dalle palle rigate saltava per aria nello stesso tempo che il laboratorio della medesima, la batteria Malpasso, la batteria Picco del Malpasso, di cui parte andava sparpagliata per l'aria, parte infrangendosi al suolo lo sprofondava a guisa di voragine.

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Francesco II ordinò subitamente di firmare la capitolazione sulle condizioni, dello quali già s'erano quasi accordate le due parti. E noi riportiamo il testo di questa capitolazione

LA CAPITOLAZIONE DI GAETA

Art. 1. La piazza di Gaeta, il suo armamento completo, bandiere, magazzeni a polvere, vestiario, viveri, equipaggi, cavalli di truppa, navi, imbarcazioni, ed in generale tutti gli oggetti di spettanza del governo, siano militari che civili, saranno consegnati all'uscita della guarnigione alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele.

Art. 2. Domattina alle ore 7 saranno consegnate alle truppe suddette le porte e postierle della città dal lato di terra, non che le opere di fortificazione attinenti a quelle porte, cioè dalla cittadella inchiusa sino alla batteria Transilvania, ed inoltre Torre Orlando.

Art. 3 Tutta la guarnigione della piazza, compresi gl'impiegati militari ivi rinchiusi, esciranno cogli onori della guerra.

Art. 4. Le truppe componenti la guarnigione esciranno colle bandiere, armi e bagagli. Queste dopo aver reso gli onori militari, deporranno le armi e le bandiere sull'istimo, ad eccezione degli ufficiali, che conserveranno le loro armi, i loro cavalli bardati e tutto ciò che loro appartiene, e sono facoltati altresì a ritenere presso di loro i trabanti rispettivi.

Art. 5. Esciranno per le prime le truppe straniere, lo altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia, colla sinistra in testa.

Art. 6. L'uscita della guarnigione della Piazza si farà per li porta di terra a cominciare dal giorno 15 corrente allo ore 8 l mattino, in modo da essere terminata alle 4 pomerediane.

Art. 7. Gli ammalati e feriti ed il personale sanitario degli ospedali rimarranno nella Piazza; tutti gli altri militari od impiegati, che rimanessero nella Piazza senza motivo leggittimo e senza

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Art. 8. Tutto le truppe componenti la guarnigione di Gaeta rimarranno prigionieri di guerra finché non siansi rese la cittadella di Messina e la fortezza di Ci vitella del Tronto.

Art. 9. Dopo la resa di quelle due fortezze, le truppe componenti la guarnigione saranno rese alla libertà. Tuttavia i militari stranieri, dopo la prigionia, non potranno soffermarsi nel regno e saranno trasportati nei rispettivi paesi. Assumeranno inoltre l'obbligo di non servire per un anno contro il governo, a partire dalla data della presente capitolazione.

Art. 10. A tutti gli ufficiali ed impiegati militari nazionali capitolati sono accordati due mesi di paga considerati in tempo di pace.

Questi stessi ufficiali avranno due mesi di tempo, a partire dalla data in cui furono messi in libertà, o prima se lo vogliono, per dichiarare se intendono prendere servizio nell'esercito nazionale od essere ritirati; oppure rimanere sciolti da ogni servizio militare. A quelli che intendono servire nell'esercito nazionale od essere ritirati, saranno, come agli altri ufficiali del già esercito napoletano, applicate le norme del R. decreto dato in Napoli il 28 novembre 1860.

Art. 11. Gli individui di truppa, ossia di bassa forza, dopo terminata la prigionia di guerra, otterranno il loro concedo assoluto, se hanno compiuto la loro ferma, ossia il loro impegno. A quelli che non l'avessero compiuta sarà concesso un congedo di due mesi, dopo il quale termine potranno essere richiamati sotto le armi.

A tutti indistintamente, dopo la prigionia, saranno dati due mesi di paga, ossia di pane e prestito per ripatriare.

Art. 12. I sotto ufficiali e caporali nazionali che volessero continuare a servire nell'esercito nazionale saranno accettati coi loro gradi, purché abbiano le idoneità richieste.

Art. 13. E accordato agli ufficiali, goti' ufficiali e soldati esteri provenienti dagli antichi corpi svizzeri quanto hanno diritto per le antiche capitolazioni e decreti posteriori fino al 7 settembre 1860. Agli ufficiali, sott'ufficiali o soldati esteri che hanno preso servizio

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dopo l'agosto 1859 nei nuovi corpi e che non facevano parte dei vecchi è concesso quanto i decreti di formazione, sempre anteriori al 7 settembre 1860, loro accordano.

Art. 14. Tutti i vecchi, storpi o mutilati, militari, qualunque essi siano, senza tener conto della nazionalità, saranno accolti nei depositi degli invalidi militari, qualora non preferissero ritirarsi in famiglia col sussidio quotidiano, a norma dei regolamenti del già Regno delle due Sicilie.

Art. 15. A tutti gl'impiegati civili sì napoletani che siciliani racchiusi in Gaeta, ed appartenenti ai rami amministrativo e giudiziario,

è confermato il diritto al ritiro che potrebbero reclamare, corrispondente al grado che avevano al 7 settembre 1860

Art. 16. Saranno provvedute di mezzi di trasporto tutte quelle famiglie dei militari esistenti in Gaeta, che volessero uscire dalla fortezza.

Art. 17. Saranno conservato agli ufficiali ritirati che sono nella Piazza le respettive pensioni, qualora siano conformi ai regolamenti.

Ari. 18. Alle vedove ed agli orfani dei militari di Gaeta saranno conservate le pensioni che in atto tengono, e riconosciuto il diritto per dimandare tali pensioni pel tratto avvenire ai termini della legge.

Art. 19. Tutti gli abitanti di Gaeta non saranno molestati nelle persone e proprietà per lo opinioni passate.

Art. 20: Le famiglie dei militari di Gaeta che trovansi nella Piazza sono poste sotto la protezione dell'esercito del re Vittorio Emanuele.

Art. 21. Ai militari nazionali di Gaeta, che per motivi di alta convenienza uscissero dallo Stato, saranno pure applicate le disposizioni contenute negli articoli antecedenti.

Art. 22. Resta convenuto che, dopo la firma della presente capitolazione, non vi deve restare nella piazza nessuna mina carica; ove se ne trovassero, la presente capitolazione sarebbe nulla, la guarnigione considerata come resa a discrezione.

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Uguale conseguenza avrebbe luogo ove si trovassero le armi

Art. 23. Sarà nominata d'ambe le parti una Commissione composta di un ufficiale d'artiglieria, di uno del genio, di uno della marina, di uno d'intendenza militare, ossia commissario di guerra col personale necessario per la consegna della piazza.

Camposale in Castellone il 15 Febbraio 1861

Piola Caselli

MENABREA

Per ratifica

G. CIALDINI

DALLE FRAMI

ROBERTO POSCA

ANONELLI

G. MILON

Gov. della Piazza

Dopo la segnatura di quest'atto importante non restava a Francesco II che di lasciare il più presto Gaeta. Egli adunque s'imbarcò all'alba del 14 Febbraio sul vapore la Mouette, che l'imperator Napoleone aveva messo a sua disposizione; e prima di partire pubblicò il seguente proclama:

Generali Ufficiali e soldati dell'armata di Gaeta,

La fortuna della guerra ci separa dopo 5 mesi ne' quali abbiamo sofferto per la indipendenza della patria, dividendo gli stessi pericoli, le stesse privazioni; è giunto per me il momento di mettere termine ai vostri eroici sagrifizii.

Era divenuta impossibile la resistenza, e se il mio desiderio di soldato era per difendere, come voi, l'ultimo baluardo della monarchia lino a cadere sotto le mura crollanti di Gaeta,

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il mio dovere di re, il mio dovere di padre mi comandava oggi di risparmiare un sangue generoso, la cui effusione nelle circostanze attuali non sarebbe che l'ultima manifestazione di un inutile eroismo. Per voi, miei cari fidi compagni d'armi, per pensare al vostro avvenire, per le considerazioni che meritano la vostra lealtà, la vostra costanza, la vostra bravura, per voi rinunzio all'ambizione militare di respingere gli ultimi assalti di un nemico, che non avrebbe presa la piazza difesa da tali soldati senza seminare di morti il suo cammino.

Militi dell'armata di Gaeta, da 10 mesi combattete con impareggiabil coraggio. Il tradimento interno, l'attacco di bande rivoluzionarie straniere, l'aggressione di una potenza che si credeva amica, niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza.

In mezzo alle sofferenze di ogni genere traversaste i campi di battaglie affrontando i tradimenti più terribili che il ferro ed il piombo. Siete venuti a Capua ed a Gaeta seguendo il vostro eroismo sulle rive del Volturno e sulle sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico che disponeva di tutte le risorse d'Italia. Grazie a voi è salvo l'onore dell'armata delle Due Sicilie, grazie a voi può alzare la testa con orgoglio il vostro Sovrano, e sulla terra d'esilio in che aspetterà la giustizia del cielo, la memoria dell'eroica lealtà de' suoi soldati sarà la più dolce consolazione dalle sue sventure.

Una medaglia speciale vi sarà distribuita per ricordare l'assedio, e quando ritorneranno i miei cari soldati nel seno delle lo ro famiglie, tutti gli uomini d'onore chineranno la testa al loro passo e lo madri mostreranno come esempio ai figli i bravi difensori di Gaeta.

Generali. Uffiziali e soldati vi ringrazio tutti; a tutti stringo la mano con effusione di affetto e riconoscenza. Non vi dico addio, ma a rivederci. Conservatemi intanto la vostra lealtà, come vi conserverà la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re.

FRANCESCO.

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Alla partenza delle LL. MM., le truppa napolitane erano disposte in ordinanza appresso la casamatta regia fino alla porta di mare. Francesco II era in divisa di semplice officiale, la sciabola al fianco, e gli sproni agli stivali. Maria Sofia portava un cappello con piuma verde e bianca, emblema del partito leggittimista. La musica suonava la marcia reale. Alcuni soldati laceri ed estenuati presentavano un' ultima volta le armi al loro monarca; la più parte versavano delle lagrime, o si affollavano per baciargli le mani. Nel momento ebe le due regie persone varcavano la porta di mare, alcuni gridi di Viva il Re! si fecero sentire. Alcuni istanti dopo il corteggio era sulla spiaggia, ove l'equipaggio della Mouette rendeva al monarca vinto gli onori reali. Officiali e marinari era no in gran costume: i marinai sulle loro antenne.

La bandiera napolitana sventolava sull'albero con quella di Francia - Per dare più dettagliata notizia noi diamo parte del rapporto del comandante del vapore francese al console francese a Napoli sotto la data del 13 Febbraio:

«La Mouette, partita di notte tenebrosa giunse a Gaeta verso le 7 1|2 del mattino. Essa rasentò tutta la flotta italiana, senza che alcuna domanda le venisse fatta. Appena gettata l'ancora, una barca si avvicinò e domandò del comandante da parte del Re, che era già imbarcato su d'una lancia con la Regina e i due principi di Trani e di Caserta. Siccome gl'Italiani doveano entrare nella città alle ora 8, i membri della famiglia reale non volevano trovarvisi in quel momento, e perciò si erano anticipatamente imbarcati. Il Comandante si arrese immediatamente ai desiderii del Re, la cui barca incontrò a metà di distanza dalla terra, «si mise a di lui disposizione.

«Il Re chiesa di esser condotto e Terracina col corpo diplomatico, e le persone del suo seguito, ed immediatamente cominciò l'imbarco.

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La partenza nondimeno fu ritardata fino allo ore 11 ½ per la difficoltà di trasportare una persona inferma (che il rapporto non nomina) Intanto il generale Cialdini e l'ammiraglio Persano, senza aspettare la partenza della Mouette: per eseguire i loro movimenti, ha il primo fatto avanzare alle otto, un battaglione di bersaglieri verso la piazza, ed il secondo quattro navigli verso il porto.

a Alle 11 1|2 la Mouette avendo imbarcato circa cento persone ed i bagagli, levò l'ancora e due ore dopo, giungeva a Terracina, dove il Re fu salutato al suo scendere da cinque colpi di cannone tirati dalla Mouette, ricevuto a terra dal battaglione di Cacciatori a piedi francesi in grande tenuta, i quali hanno presentato le armi, mentre che la banda musicale eseguiva la marcia reale. Siccome le carrozze non erano in numero sufficiente, una parte del corpo diplomatico e delle persone del seguito rimbarcaronsi sulla

Mouette per Civitavecchia

, e poscia passaron sul

Brandon, che incontrarono per via. Come particolarità aggiungeremo che i membri del corpo diplomatico, partito col Re, erano il Nunzio Apostolico, l'ambasciatore di Spagna, e quelli di Austria, Sassonia e Baviera. Abbiamo ancora saputo che il general Bosco ha seguito il Re.»

Nello stesso tempo che Francesco II procedeva al suo imbarco sulla Mouette,

Cialdini spediva immantinenti un battaglione di bersaglieri a prender possesso delle porte.

Lo sfilar della guarnigione cominciò il 15 e fu annunziato da una scarica di cannoni della flotta e delle batterie di terra. Cialdini marciava alla testa della brigata Regina che precedeva i prigionieri. L'aspetto di costoro era triste, ma non erano emaciati quanto si supponeva. Esalavano un puzzo cadaverico disgustevole per le esalazioni putride di cui i loro abiti erano saturati.

I curiosi dalla parte di terra non riuscirono ad introdursi nella fortezza, ma essendo montati in una barchetta furono lasciati entrare dalle sentinelle all'ingresso del porto.

L'aspetto della città era orribile. Non vi era casa dalla parte

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Nella prima esplosione solo circa 400 rimasero vittime e altre centinaja nelle successive. Alcune compagnie di pionieri erano occupate attivamente a disotterare cadaveri. Il palazzo reale ebbe il tetto sfondato. Fin nella casamatta regia qualche palla si fece strada. Essa è divisa in piccole camerette da partizioni di legno.

La bellissima chiesa di S. Francesco di Paola fu colpita da 7 bombe, però la bella e colossale statua della Fede ch'è in cima alla scalinata d'ingresso, sebbene colpita da una bomba che ruppe un pezzo della cornice del piedistallo, non fu né rovesciata né offesa. La miseria degli abitanti era tale da far ribrezzo. Un ricco proprietario padrone di 7 case non aveva che gli abiti mal ridotti addosso e dimandava soccorsi per protrarre la sua trista esistenza. Moglie e figli di uffiziali i cui sposi erano in Civitella del Tronto o Messina stendevano la mano chiedendo una limosina per Dio, Fin l'aspetto de' muli e cavalli era orribile: quelle povere bestie non erano che carcami o scheletri; giacché si potevano coniar loro tutte le costole addosso, tutti senza code né crini al collo avendoseli rosi l'un l'altro per fame.

La mattina del 14 in ordine di battaglia, con le bande, tamburi e trombe alla testa, sulla spianata così detta di Montosecco, sfilarono innanzi alla Brigata Regina i borbonici, deponendo le armi loro innanzi al generale Casanuova. Ad uno ad uno i vari! corpi veniano noverati e denominati dal generale Ritucci, già comandante della piazza, il quale seguito dal suo Stato Maggiore ed a piedi era allato del Casanuova. Luridi, cenciosi, macilenti, ma pure non sbaldanziti, i soldati borbonici piegavano ed abbassavano le loro bandiere, deponevano lo loro armi con una certa aria di non curanza maravigliosa.

Terminiamo la narrazione dell'assedio e della presa di Gaeta con un documento ufficiale, seguito dall'ordine del giorno che il general Cialdini indirizzò alle sue truppe: ordine del giorno,

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il cui contenuto rivela l'anima grande e il cuor nobile di un valoroso soldato:

16 febbrajo

«Ecco la descrizione dello stato di Gaeta quando vi entrarono i nostri.

Lo scoppio avvenuto a pochi metri sopra la batteria detta del Duca di Calabria oltre all'aver cacciato in aria case, casematte e magazzini per un tratto di alcune centinaja di metri quadrati aveva aperto uno squarcio nel cortinaggio che corre dalla batteria dell'Annunziata verso la batteria della Porta di Terra, uno squarcio largo più di 30 metri. La muraglia era rovesciata in mare e le rovina circostanti offrivano il più comodo accesso per montare all'assalto.

«V'era di mezzo la difficoltà di dovere andare all'assalto per mare; ma la breccia s'era aperta nel punto ove le batterie borboniche erano più danneggiate e dove le tre batterie smascherate dai nostri al borgo e sui mameloni sovrastanti al borgo, incrociando i loro tiri con quelli della squadra, potevano prestare la più efficace protezione allo sbarco, e ridurre al silenzio i fuochi, che dovevano maggiormente molestare gli assalitori. Dimodoché si vuole che in vista della propizia combinazione di queste circostanze, Cialdini e Persano avessero fissato l'assalto pel giorno 15; e tenendo conio della bravura delle truppe nazionali, dello scoraggiamento della guarnigione, e soprattutto dei gravissimi guasti portati alle più formidabili batterie della fortezza, v'era a scommettere cento contr'uno che la città sarebbe stata presa in poche ore. Certamente la carneficina avrebbe dovuto essere orribile, ma del successo non v'era più a dubitare. Gli assediati avevano cercato di chiudere la breccia, portando vi grosse botti che empievansi di terra, ma per porvi un riparo sufficiente sarebbero abbisognati troppo più giorni che non consentissero lo stato generale della fortezza e i vigorosi attacchi degli assedianti.

«Il fianco settentrionale della gran batteria dell'Annunziata presenta i gravissimi danni recativi dai tiri della squadra e prin


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«A meta circa del promontorio che costituisce la fortezza di Gaeta, sorge maestoso il tempio di S. Francesco, bellissima chiesa di stile gotico, innalzala per voto di Ferdinando, la quale compiuta or ora stava per essere inaugurata. Perforalo da Ire bombe, e squarciata nel fianco, essa è ora tutta ingombra di rottami e di vetri infranti.

«Dinanzi alla chiesa, framezzo alle scale che vi conducono, s'erge la statua della Religione, bellissimo lavoro in marmo di Carrara, di Vincenzo Vela. Il basamento ch'è pure di marmo fu anch'esso malconcio nella più strana guisa. Dal piazzale della chiesa si vede uno dei più sorprendenti guasti prodotti dallo scoppio della polveriera. Un giardino sottostante, di parecchi metri d'estensione fu sprofondato di sette in otto metri. Sotto di esso eranvi magazzini fatti a volte, che comunicavano colla polveriera: le volte si scompagnarono per lo scuotimento dello scoppio, e precipitarono con orribil fracasso. Ma il punto a cui s'indirizzarono con maggior vigore gli attacchi degli assedianti, fu il lato settentrionale, che, sebbene il più munito, era però altresì l'unico al quale da terra si potesse accedere, volendo per terra assaltare.

«Dalla chiesa di San Francesco ripigliando la salita per ascendere a torre d'Orlando si può rendersi una esatta ragione della precisione dei tiri delle nostre artiglierie. Non v'è lassù più un palmo di terra che non fosse smosso,

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la scena non offre altro spettacolo che la confusione, il conquasso prodotto da una pioggia di projettili.

«E che facevano i miseri cittadini di Gaeta rimasti nella fortezza, in mezzo a tanto orrore di desolazione di scoppii e di ruine?... Io ben pochi ne vidi e per certo dovevano essere i più miserabili, quelli che non avevano avuto i mezzi di salvarsi, fuggire dal pericolo. Donne livide e sparute, si affacciavano ai balconi dei pianterreni: le pupille stranamente dilatato e sporgenti, i contratti e induriti lineamenti del viso rivelavano le pene orribili di tre mesi d'agonia per fame e spavento. Uomini cenciosi e come instupidìti si vedevano aggirarsi per le case come chi per estremi patimenti rimase stordito. Taluni si guardavano fra incerti e paurosi temendo dai vincitori vendette soprusi o violenze.

«Girando nel posteoro della chiesa di S. Francesco si va in un tortuoso e tenebroso adito dal quale a un camerone oscuro. Là dentro s'era appiattata una famiglia composta di nove o dicci persone e vi stava rannicchiata e tremante, temendo che i vincitori dovessero passar a fil di spada i poveri cittadini di Gaeta. Erano marito e moglie colla vecchia suocera del primo, tre figlie, una delle quali maritata avea portati seco tre o quattro suoi bambini.

Ei raccontarono come avessero dovuto nascondere le provviste fatte pel loro vitto, per involarle alla rapacità dei soldati bavaresi, e come quelli meno ancora che le robe dei cittadini rispettassero l'onore delle donne.

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COMANDO DELLE TRUPPE D'ASSEDIO

Quartier Generale di Mola di Gaeta

ORDINE DEL GIORNO DEL 17 FEBBRAJO 1861.

Soldati!

Gaeta è caduta! Il vessillo Italiano e la vittrice croco di Savoja sventolano sulla torre d'Orlando. Quanto io presagiva il 13 dello scorso gennajo, voi compieste il 13 del corrente mese. Chi comanda soldati quali voi siete, può farsi sicuramente profeta di vittorie.

Voi riduceste in 90 giorni una piazza celebre per sostenuti assedii ed accresciute difese, una piazza che sul principio del secolo seppe resistere per quasi sei mesi ai primi soldati d'Europa.

La storia dirà le fatiche e i disagi che patiste, l'abnegazione, la costanza e il valore che dimostraste, la storia narrerà i giganteschi lavori da voi eseguiti in sì breve tempo. Il Re e la Patria applaudono al vostro trionfo, il Re e la Patria vi ringraziano.

Soldati!

Noi combattemmo contro Italiani e fu questo necessario, ma doloroso ufficio. Epperciò non potrei invitarvi a dimostrazioni di gioja, non potrei invitarvi agli insultanti tripudii del vincitore.

Stimo più degno di voi e di me il radunarvi quest'oggi sull'istmo e sotto le mura di Gaeta, dove verrà celebrata una gran messa funebre. Là pregheremo pace ai prodi che durante questo memorabile assedio perirono combattendo tanto nelle nostre linee, quanto sui baluardi nemici!

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Lo morte copre di un mesto velo le discordie umane, e gli estinti sono tutti eguali agli occhi dei generosi.

Le ire nostre d'altronde non sanno sopravvivere alla pugna.

Il soldato di Vittorio Emanuele combatte e perdonai

Il Generale CIALDINI.

La notizia della presa di Gaeta fu trasmessa dal telegrafo a Torino il 13 Febbraio in questi termini:

«Gaeta ha capitolato. Domani il generale Cialdini occuperà il monte Orlando con tutte le fortificazioni, e dopo la partenza della famiglia occuperà la città.

«La guarnigione resta prigioniera di guerra finché Messina e Civitella del Tronto sieno rimesse. Il re e la regina partiranno sul vapore francese la Mouette.»

Questo dispaccio percorre rapidamente l'Europa, ove cagionò grande allegrezza negli amici d'Italia e una dolce consolazione a tutti gli amatori dell'umanità, che vedevano terminato finalmente questo spettacolo di rovine e di stragi, clic da troppo lungo tempo durava.

Casella, ministro di Francesco II annunciava alle potenze con la seguente noia la capitolazione di Gaeta.

Signore

Le ragioni che portarono la capitolazione di Gaeta furono in parte politiche, in parto militari.

Tra le ragioni politiche, bisogna mettere l'ostilità sistematica dell'Inghilterra, la risoluzione altamente manifestata dall'Imperatole dei Francesi di mantenere il principio di non intervento, finalmente l'inaziono delle altre potenze, ragioni che non lasciarono alcuna sparanza d'un pronto soccorso.

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Quanto alla questione militare, la piazza aveva orribilmente sofferto dal bombardamento prolungalo: il tifo decimava la guarnigione: l'artiglieria nemica era superiore a quella della piazza; duo brecce erano siate aperte dall'esplosione delle polveriere (esplosione alla quale il tradimento non è siato straniero); e nel tempo stesso elio i mezzi d'attacco aumentavano in una considerevole proporzione, le risorse della piazza andavano scemando tutti i giorni.

Gli è in queste contingenze, quando la difesa non avrebbe potuto essere prolungata che per pochi giorni e a costo dei più grandi sacrifizi, che il Re credette dovere agire piuttosto come sovrano e come padre che come generale, col risparmiare gli ultimi orrori dell'assedio a truppe pronte a versare sino all'ultima goccia il lor sangue per I adempimento del lor dovere di sudditi e di soldati. Ma i fatti che, da parte dei Piemontesi, hanno accompagnato le trattative, hanno un carattere che importa di segnalare.

Il generale Cialdini ha ricusato di sospendere le ostilità durante le trattative. Per lo spazio di tre giorni ha coperto la piazza di bombe e di obici.

Tutte le condizioni erano già stabilite; non mancava più, perché la capitolazione fosse compiuta, che la trascrizione del testo di quel lungo documento e le formalità della soscrizione, e le batterie piemontesi seminarono ancora la morte in Gaeta, e l'esplosione d'un altra polveriera seppelliva, sotto le macerie, ufficiali e soldati,

Aggradite ecc.

CASELLA.

Quanto alle altre due fortezze, sulle quali sventolava tuttavia l'insegna napoletana sembrava che dopo la capitolazione di Gaeta esse non avessero più luogo a pensare di resistenza. Ma non fu cosi.

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Civitella del Tronto, vero nido d'aquile negli Abruzzi fa bloccata e cannoneggiata dal general Mezzacapo, nondimeno rifiutò di rendersi.

La cittadella di Messina, guardata dal general Fergola, aveva avute fino allora libere le communicazioni, giusta i termini della capitolazione del 28 Luglio. Ella rifiutò parimenti di sommettersi, malgrado il voto degli abitanti, i quali accolsero con trasporti di gioia la notizia della presa di Gaeta. Su questo riportiamo una lettera di Messina colla data del 14 Febbraio.

MESSINA 14 febbraio.

«Questa notte alle ore 2 ½ del mattino per la via di Reggio si ebbero i dispacci che annunziavano la resa di Gaeta e l'imbarco che andava a prendere l'ex-re Francesco sulla Mouette assieme a quel seguito che avrebbe desiderato. In meno di mezz'ora tutta la città fu a parte della lietissima nuova. Le campane delle chiese tutte suonarono a stormo per la festa, e più ancora per avvertire i borbonici della Cittadella (secondo la convenzione stabilita con alcuni ufficiali) che il loro re non esisteva più. La città fu subito illuminata a giorn chiaro, e pavesata di bandiere, la banda del 36 reggimento di linea, in mezzo ad uno stuolo di popolo esultante di gioia, percorse tutte le strade. Si gridava viva l'Italia, viva il re Vittorio e viva Cialdini e viva Garibaldi. Quell'onda di gente, quando fu giunta sotto l'abitazione del generale Chiabrera, si fermò ebbra di gioia.

«Il Generale si fè al balcone ed arringò il popolo con poche parole piene di entusiasmo nei seguenti termini presso a poco:» Messinesi, io son fortunato di trovarmi fra di voi, e festeggiare in mezzo all'italianissimo popolo di Messina un avvenimento sì grande per l'Italia qual'è la caduta della fortezza di Gaeta. Domani in nome del nostro Re d'Italia Vittorio Emanuele, intimerò al generale Fergola la resa della Cittadella, e qualora questi soldati borbonici più stupidi che cattivi cederanno all'inutile resistenza

,

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io vi prego a perdonarli della loro sconsigliata condotta, ed abbracciarli come fratelli, che alfine anch'essi seno figli d'Italia. Adesso festeggiamo gridando Viva il Re, Viva l'Italia Una. Uno strepito d'applausi seguì questo patriottico discorso, gridando Viva il Re,

«

l'Italia Una.» Uno strepito d'applausi seguì questo patriottico discorso, gridando all'Italia, al Re, a Cialdini e a Chiabrera. Stamane difatti il prefato generale mandò l'intimo di resa al Fergola. Non si conosce ancora la risposta ma si prevede in modo negativo. Io vado nell'opinione che anco qui bisogna usare del cannone.

«

Ecco infatti le ultime notizie della cittadella

Intimo della resa al Comandante della Cittadella.

Resa intimata dal Maggior Generale Comandante le armi della Provincia signor cav. Chiabrera.

Se sino ad oggi la di lei resistenza fu tollerata, di ora innanzi sarebbe delitto.

A nome di S. M. Vittorio Emanuele Re d'Italia e della Nazione, Sig. Maresciallo le intimo la resa.

Maggior Generale

Comandante le armi nella Provincia

Firmato. - C. CHIARRERA.

RISPOSTA ORALE

Del Maresciallo Fergola fatta a mezzo del Colonnello di Stato maggiore, al capitano di Stato Maggiore signor Verani.

Che non si credeva autorizzato di cedere la Fortezza, che la considerava affatto indipendente dalla caduta di Gaeta, per cui sarebbe per resistere fino all'ultima estremità.

Messina 14 febbraio 1861.

Il Maggiore generale

Comandante le truppe della provincia

di Messina CHIARRERA.

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Ciò succedeva il giorno 14. Dopo l'audace risposta, cittadini e soldati disponeansi ad espugnare la cittadella al prezzo di qualunque sacrifizio.

Il general Cialdini si trasferì senza trar colpo con una porzione del materiale di artiglieria, che era servito all'assedio di Gaeta, nel quale si comprendevano due batterie di cannoni Cavalli.

Nello stesso tempo la flotta Sarda bloccava la cittadella dal mare. Al suo giungere innanzi a questa piazza il generale in capo dell'esercito piemontese notificò al governatore Fergola che dovesse renderla,

e sovrattutto astenersi dalla minima rappresaglia contro la città di Messina, sotto pena d'esser egli e la sua guarnigione passati a fil di spada quando la Cittadella sarebbe presa.

Torneremo più tardi sui fatti che portarono la resa di questa fortezza, come quella di Civitella del Tronto.

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CAPITOLO IV.

SOMMARIO

I. APERTURA DELLE CAMERE LEGISLATIVE IR FRANCIA 81 ASPETTANO DEGLI SCHIARIMENTI SULLA QUESTIONE ITALIANA NEL DISCORSO DELL'IMPERATORE NAPOLEONE - NOTA DEL MONITEUR UNIVERSEL A QUESTO SOGGETTO - ANALISI DEL DISCORSO IMPERIALE - OPINIONE DELLA STAMPA SU QUESTO DISCORSO - II. LA REGINA D'INGHILTERRA APRE LA SESSIONE DEL PARLAMENTO ESTRATTO DEL SUO DISCORSO - SPIEGAZIONI DI LORD RUSSEL - III. APERTURA DEL NUOVO PARLAMENTO ITALIANO - DETTAGLI SULLA NUOVA SALA DEI DEPUTATI - LA CITTÀ DI TORINO, PER RENDERE OMAGGIO AL RE VITTORIO EMANUELE, GLI OFFRE UNA CORONA D'ORO, ED UNA STATUA DI MARMO VIAGGIO DEL RE A MILANO - DECRETO CHE ABOLISCE L'AUTONOMIA DELLA TOSCANA - IV. FRANCESCO II SBARCA A TERRACINA - SUO VIAGGIO, E SUO ARRIVO A ROMA - SUO RICEVIMENTO - SUA PROTESTA ALLE POTENZE - V. RIUNIONE DEL PARLAMENTO ITALIANO - DISCORSO DI APERTURA, PRONUNCIATO DAL RE VITTORIO EMANUELE OPINIONE DELLA STAMPA SOPRA QUESTO DISCORSO - APPENDICE.

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APPENDICE AL CAPO IV

I. Documenti diplomatici prodotti al corpo legislativo francese. Esposizione generale - Documenti.

II. Documenti diplomatici presentati al parlamento inglese - Esposizione - Documenti.

CAPO IV

I

Nel mentre che i cannoni dell'assedio di Gaeta richiamavano a sé l'attenzione d'Europa, dei fatti del più gran momento per l'Italia si venivano producendo nel seno dei Parlamenti di Francia, d'Inghilterra, e del Piemonte.

Il senato e il corpo legislativo francese si radunava il 4 Febbrajo, e si aspettava con anzietà il discorso d'apertura dell'Imperatore Napoleone III, perché era giunto il momento, in cui la convenienza o i bisogni dei governi facevan loro una legge di sollevare un poco il velo della politica generale. Da troppo lungo tempo già l'opinione publica era stanca di vagare alla ventura sospinta senza tregua dal turbine degli avvenimenti. Il discorso dell'Imperatore dei Francesi sembrava dunque destinato a fornire qualche rivelazione sulla questiono italiana, ma esso fu di un interesse ben più debole che non si sperava. Noi ne vegliamo fare un sunto.

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Napoleone III si è preoccupato delle modificate condizioni della rappresentanza nazionale francese, e pur non volendo allentare troppo il freno alle passioni parlamentari ha mostrato di andar giustamente altero delle concessioni ultimamente fatte, alle quali la Francia non aveva diritto secondo la costituzione ch'essa stessa ha accettato col suffragio universale di nove milioni di cittadini.

Per la politica estera, egli si è rallegrato delle conseguenze del nonintervento che dice di avere pel primo introdotto nelle questioni nazionali dei paesi esteri e che egli non si dissimula essere stato tanto energicamente deplorato dalle autorità che ne ebbero a soffrire le conseguenze: segno chiaro che egli non ò disposto ad accordare a queste autorità molta importanza.

Napoleone riconosce che il nonintervento ha localizzato le lotte ed impedito un conflitto europeo. In ciò ha in genere ragione, perché se fosse lecito ad ognuna delle forze che sono in lotta in Europa di trovare dappertutto un campo di battaglia, in luogo di vedervi piccoli e parziali abbattimenti nei soli luoghi dove i fatti sono maturi, si sarebbe manifestata un immensa rovina dappertutto, occasionata dall'urto di elementi riuniti o diversi accorsi alla chiamata degli amici o dei cointeressati su tutti i punti del continente.

Gli sforzi che l'Imperatore accenna di avere fatti e mostrati per conservare la pace, quelli che si propone di faro ancora per impedire che sia turbata, non sono però a senso del suo governo tali da attraversare quando che sia un' azione più diretta e più decisiva. E notabile il passo dove dice che è sua ferma risoluzione di non entrare in alcun conflitto in cui la causa della Francia non fosse assistita dal diritto e dalla giustizia, e afferma che una nazione di 40 milioni d'anime non può essere trascinata suo malgrado in lotte di cui non approverebbe l'oggetto.

La prima parte di questa assersione può essere riguardata tanto come avente riguardo a cause che interessino direttamente la Francia, , come ad altroché la interessino come alleata; ma lascia sempre aperto il campo alle supposizioni circa ciò che s'intende pel diritte e per la giustizia.

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Il diritto e la giustizia sono sempre

da una parto quando si trotta di lotte; ma se lotta fosse fuori della Francia, so il diritto e la giustizia chiamassero quella potenza ad una contesa, il nonintervento andrebbe naturalmente in fumo. V'ha qui una lacuna che, o lasciata a bella posta o sfuggita, potrebbe avere una portata notabile e dar luogo all'imprevisto in una maniera assai decisiva.

La seconda parie mostra due cose 1°. che se in Italia si volesse oltrepassare l'oggetto che si prefigge la Francia o piuttosto il governo francese, questo saprebbe astenersi o limitarsi senza lasciarsi attirare in un vortice impreveduto: 2°. che se la reazione volesse prevalersi delle dichiarazioni francesi, a queste non terrebbe dietro un' azione ostile a ciò che è stato fatto pel passato.

Ma non possiamo credere che Napoleone tema nella Francia l'apprensione di una lotta inaspettata; la Francia teme piuttosto che il suo governo abbia intenzioni finora non di molto manifestate o che non fossero totalmente favorevoli alla pace.

In complesso il discorso ili Napoleone è estremamente più rispettoso verso le potenze estere di quanto che nol fosse quello di Guglielmo I, ma lascia ancora molto vano e molta aspettazione delusa.

Frattanto, come nel corso di questo documento l'Imperatore» aveva promesso un esposto leale e completo, da farsi al parlamento» di tutti gli atti della politica del suo governo, il Moniteur universel pubblicò, il 7 Febbraio una esposizione dello stato dell'impero, la quale getta una luce inaspettata sulla politica della Francia in quanto all'Italia: e perciò estragghiamo di questo importante documento il brano che segue;

«Il governo dell'Imperatore, dopo la pace di Villafranca, non aveva trascurato alcuno sforzo per riconciliare le popolazioni dell'Italia centrale coi loro sovrani, ma, tra i mezzi d'azione, egli aveva sempre rigettato l'intervento d'una forza estera. L'idea di un congresso, di cui la Francia e l'Austria avevano fatto la proposta, d'un comune accordo, nel mese di novembre 1859, aveva incontrato gravi difficoltà. Le corti di Roma e di Vienna inclinavano a considerare come inette a soddisfare

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alle necessita

D'altra parte, era stato d'uopo rinunziare a mutare l'andamento delle cose nell'Italia centrale. Il governo di S. M. si era, lo si ripete, impegnato con tanta sincerità (manta perseveranza, ad operare un ravvicinamento tra le popolazioni ed i sovrani spossessati; ma troppo incompiutamente o troppo tardi secondato da quei principi medesimi, egli non era pervenuto né a dissipare i dubbi di cui le loro intenzioni rimanevano l'oggetto, né a sospendere le manifestazioni successive con cui la Toscana, Parma, Modena e le Romagne sembravano affienarsi di chiudersi immediatamente ogni via di ritorno verso il passato.

Non ci era permesso di nulla attendere da pratiche inutilmente ripetute, ed era divenuto urgente di ricercare in altre comunicazioni la soluzione delle difficoltà pendenti.

Preoccupato dapprima di disimpegnare la sua parola in leali spiegazioni colla corte d'Austria, il governo imperiale aveva esposto a Vienna li ostacoli che incontrava nei ducati lesecuzione degli assestamenti di Villafranca e di Zurigo. Dopo essersi assicurato per mezzo delle comunicazioni, d'altronde piene di moderazione, della corte di Austria, clic esso poteva considerarsi come libero di ricercare una soluzione al di fuori ili quelle stipulazioni esso propose una combinazione che i si accostava ancora quanto le circostanze potevano permetterlo.

Questa combinazione, che comportava l'annessione di Parma e di Modena alla Sardegna, aveva per oggetto di salvare l'autonomia della Toscana, lasciandola pronunciarsi sulla scelta di un sovrano, e di conservare alla S. Sede la possessione delle Romagne, dando loro un' amministrazione temporale sotto la forma d'un vicariato esercitato da S. M. sarda.

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Nel suggerire questa soluzione al gabinetto di Torino, il governo dell'Imperatore era stato guidato dalla risoluzione fermamente stabilita di declinare ogni solidarietà nelle annessioni che le popolazioni dell'Italia centrale si mostravano sempre più decisa a compiere.

La responsabilità della Francia, disimpegnata così moralmente, non restava più che a scioglierla materialmente, ritirando l'armata francese dalla Lombardia. E ciò che l'Imperatore si affrettò di fare, non senza aver, tuttavia, acquistato la certezza che la partenza delle nostre truppe non sarebbe il segnale di un ritorno offensivo dell'Austria. Cosi il governo dell'Imperatore, mercé la lealtà del suo linguaggio e de' suoi atti, poteva conciliare le convenienze della sua posizione colla sua sollecitudine per l'indipendenza della Penisola. L'annessione dell'Italia centrale e la formazione, al nord, d'un regno potente, padrone dei due versanti delle Alpi, imponevano alla Francia dei doveri verso di so medesima. S. M. si à spiegata a questo proposito nel suo discorso del 1. marzo 1860 ai grandi Corpi dello Stato e non si ricorderanno le considerazioni nelle quali essa è entrata, se non per annettervi gli incidenti ulteriori. Portando soccorso al Piemonte, l'imperatore era stato condotto dal solo pensiero di assicurare la indipendenza dell'Italia e di chiudere così la Penisola alle rivalità secolari della Francia o dell'Austria. Ma, calcolando la probabilità della guerra, S. M. era stata naturalmente condotta a prevedere la possibilità d'accrescimenti importanti per il Piemonte, e, quando il gabinetto francese è stato interpellato a questo riguardo, esso non ha in alcun modo lasciato ignorare le sue intenzioni.

In tutte le circostanze, secondo le eventualità sembravano più o meno rispondere ai voti della Sardegna, egli ha mantenuto o abbandonato l'idea d'una rettificazione delle frontiere dell'Impero al mezzogiorno, senza dissimulare in nulla il suo pensiero. Il trattato di Zurigo non ha stipulato alcun vantaggio per la Francia, e la lealtà con cui abbiamo proseguito l'intera esecuzione di questo trattato, arrischiando perfino di alienarci la simpatia delle popolazioni liberate a prezzo di così grandi sacrificj, ha bastantemen

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Il disinteresse del governo dell'Imperatore era stato dunque portato fin dove lo permettevano i suoi doveri verso il paese, e quando le annessioni si compivano all'opposto de suoi consigli, egli non poteva più esitare a reclamare la sicurezza che esigeva la nostra situazione strategica dalla parte delle Alpi e chiedere alla corte di Sardegna di estendere a popolazioni già francesi per comunanza d'interessi, di origine e di lingua, gli stessi principii di cui essa faceva a suo pro una sì larga applicazione. Il trattato concluso il 24 marzo a Torino venne a rettificare la nostra frontiera e a darci frontiere che la natura ha fatte tutte per collegare alla Francia.

Gli atti del 1815 attribuendo alla Sardegna la possessione della Savoja avevano inoltre stabilito con una speciale disposizione che in caso di guerra fra le potenze vicine una parto di questa provincia participerebbe al beneficio della neutralità perpetua della Svizzera; Il trattato di Torino avea tenuto conto di questa stipulazione. Era (tata convenuto che il Re di Sardegna non trasferiva alla Francia le parti neutralizzate della Savoja se non alle condizioni alle quali le possedeva egli stesso, e che apparterebbe all'Imperatore d'intendersi a questo riguardo tanto colle potenze rappresentate al Congresso di Vienna, quanto colla Confederazione elvetica.

Tostoché il trattato diventò esecutorio, il governo francese si mise in dovere di dare a questa clausola la esecuzione che consentiva. I gabinetti si divisero sulle nostre proposizioni. Nel mentre che la Svizzera il cui modo di vedere era diviso dal governo dì S. M. Britannica chiedeva che la quistione fosse discussa in una conferenza, le corti di Austria, di Spagna e di Prussia giudicavano utile prima di qualunque riunione di plenipotenziarii, che negoziati preparatorii fra la Svizzera e noi avessero determinato gli elementi di un accordo.

Il gabinetto di Berlino d'accordo in questo punto colla Russia pensava pure che la Francia avendo riconosciuto

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colle sue dichiarazioni officiali non che col trattato di

Se il governo dell'Imperatore non considerasse il principio della neutralità elvetica come una delle basi essenziali del sistema politico dell'Europa, se mai potesse concepire il pensiero di violarlo, non sono le frontiere della Svizzera, da Basilea a Ginevra, che porrebbero il suo territorio al coperto di un' aggressione, e la possessione della Savoja non ce ne rende l'accesso né più facile né più immediato. La sicurezza della Svizzera è nel diritto pubblico, sotto la protezione del quale essa è più specialmente collocata, e il governo di S. M. ha dato nuove arre del rispetto che vi porta, offerendo al governo federale tutte le guarentigie compatibili colla dignità della Francia.

La importanza della neutralità elvetica per la difesa delle nostre frontiere dell'Est non ha bisogno d'altronde d'essere dimostrata. In verun tempo noi non potremmo perderla di vista senza disconoscere un interesse manifesto, e le considerazioni più essenziali ci comandavano non solamente di conformare la nostra condotta a questo principio, ma di fare in modo ch'esso venga osservato egualmente da tutti i gabinetti.

Mentrechè l'affare della neutralizzazione della Savoja portava queste spiegazioni tra la Francia e le altre corti, la situazione dell'Italia continuava ed essere l'oggetto di serie preoccupazioni. Il governo imperiale non avea cessato di usare della sua influenza morale nel senso più conforme a quanto esso credeva essere il vero interesse della Penisola. Ma se da una parte, esso si sforzava di mantenere il rispetto dei diritti antichi, dall'altra, dovea anche consigliare le opportune concessioni, col mezzo delle quali i governi illuminati sanno prevenire le rivoluzioni e conciliarsi i sentimenti dei popoli.

La Francia aveva sventuratamente imparato, dall'inutilità de' suoi sforzi anteriori, quanto difficoltà presentava questo compito.

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Per più anni, e principalmente a seguito del Congresso di Parigi, essa avea fatto intendere sì a Roma come a Napoli avvisi dei quali gli avvenimenti non hanno se non troppo addimostrato la saggezza e la previdenza. Dopo la pace di Villafranca, in cui l'Imperatore aveva stipulato, in favore del Papa, la presidenza d'una Confederazione italiana, Sua Maestà avea nuovamente raccomandato le concessioni ch'essa credeva necessarie, appropriando i suoi consigli alla gravità ognor crescente delle circostanze.

Nella convinzione del governo dell'Imperatore la Santa Sede poteva, dopo la guerra, ricondurre gli spiriti nelle legazioni, accordando immediatamente al paese un'amministrazione separata, con un governo laico nominato dal Sommo Pontefice. Essa poteva pure, nel momento stesso in cui le annessioni erano sul punto d'effettuarsi, ritenere la soprassovranità di questo provincie prestandosi all'idea d'un vicariato del re di Sardegna, il quale sarebbe bastato allora per dare soddisfazione ai voti delle popolazioni: ma nessuna risoluzione era stata presa, e gli avvenimenti avevano seguito il loro corso. Invece di scongiurarle, respingendo ogni idea di transazione, il governo pontificio rinunciava pure a promulgare un progetto di riforma, stabilito in principio, d'accordo colla Francia nel settembre del 1859, e che senza dubbio, troppo insufficiente per modificare l'andamento delle cose nelle Romagne, era nonostante tale da consolidare la tranquillità nelle provincie rimaste sottomesse. La santa Sede subordinava al ristabilimento della sua autorità nelle Romagne le sole concessioni capaci forse a mantenerle nelle altre provincie dello Stato romano.

«Cionullameno la sollecitudine di S. M., lungi dallo scoraggiarsi, si mostrava, per l'opposto, più attenta a misura che gl'interessi della corte di Roma sembravano più compromessi. Il governo dell'Imperatore avea creduto che il carattere particolare della sovranità del Santo Padre potesse autorizzare un accordo delle potenze cattoliche per tutelare le possessioni che gli rimanevano.

La Francia offriva dunque alla corte di Roma di provocare a quest'effetto, una garanzia collettiva. Le potenze cattoliche si

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fossero, nel tempo stesso, intese, per fornirle d'ora in poi le truppe necessarie alla guardia della capitale, nonché un annuo

«Il governo pontificio rispose riclamando ancora una tolta che, precedente a qualunque negoziato, il suo diritto nelle Romagna fosse riconosciuto o consacrato. Esso rifiutava il concorso dei contingenti militari che gli erano offerti e domandava il diritto diretto d'arruolamento ne' paesi cattolici.

«Finalmente, egli non avrebbe accettato tributo se non sotto la forma d'un compenso delle annate e dei diritti canonici sui benefizii vacanti, diritti lungamente contestati e finalmente aboliti in tutti gli Stati dell'Europa.

«Così il governo pontificio rigettava successivamente tutte le idee e tutte le combinazioni proprie a risolvere le difficoltà della sua posizione, e si esponeva a perdero, in nuove complicazioni, le provincie che la Francia proponeva di guarentirgli.

«Il momento approssimavasi, in fatti, in cui sarebbe stato troppo tardi per occuparsi vantaggiosamente a mantenere tra le mani del Santo Padre l'Umbria e le Marche, e in cui diverrebbe necessario il pensare alla sicurezza della sua stessa capitale. Per provvedere a questa situazione il governo di S. H. non ha esitato ad imporsi nuovi sacrifici. Dietro una dichiarazione del governo pontificio, il quale sperava di essere in grado di mantenere colle sue forze la tranquillità ne suoi dominii, era stato convenuto in principio, nello aprile 1860, che le truppe francesi abbandonerebbero Roma.

«Ma ben presto gli avvenimenti della Sicilia e l'agitazione che suscitavano sulle frontiere degli Stati Romani ci avevano determinato a proporre alla Santa Sede la sospensione delle combinazioni prese per lo sgombro. Infine il trionfo dell'insurrezione a Napoli e l'entrata dell'armata sarda nell'Umbria e nelle Marche hanno deciso il governo di S. M. ad accrescere l'effettivo del corpo d'occupazione per mettere in grado di difendere, contro ogni eventualità, la sicurezza del Santo Padre e del suo governo, come il territorio compreso sotto la denominazione di patrimonio di S. Pietro.

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«Tuttavolta il governo dell'imperatore non ha creduto dovere

«Queste considerazioni che hanno guidato la politica della Francia negli affari di Roma si applicano a più forte ragione, a quelli di Napoli. Là pure il governo di S. M. prodigava da molto tempo consigli, cui non si diede orecchio in tempo opportuno. L'assunzione al trono d'un nuovo sovrano, estraneo per la sua età alle passioni del regno precedente, aveva dapprima fatto sperare una mutazione di sistema, ma finché i pericoli non furono imminenti, la corte di Napoli continuò ad abbandonarsi ad una sicurezza ingannatrice. L'insurrezione della Sicilia potè solo determinarla ad entrare in una nuova strada. Questa risoluzione era troppo tardiva per potersi convertire in un mezzo di salute. Il governo di S. M. che non aveva cessato di raccomandare una politica liberale e nazionale, non lasciò di fare tutti i suoi sforzi per secondare queste disposizioni. Esso prestò tutto il suo appoggio ai negoziatori napolitani spediti a Torino con missione di contrarre alleanza fondata sopa una perfetta solidarietà contro ogni aggressione o preponderanza straniera. Per assicurare il successo di questi negoziati, noi eravamo anche disposti a frappor ostacoli al passaggio dei soldati dell'insurrezione negli stati di terraferma.

A nostro credere, questa misura, limitata strettamente al suo

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scopo, e diretta contro vo

Per non esporsi però a veder mettere in dubbio le sue intenzioni, il gabinetto francese ha creduto conveniente di non procedere che col concorso dell'Inghilterra, che dietro recente communicazione del gabinetto di Londra, non sembrava impossibile di ottenere. Il governo inglese per altro negò di associarsi a questo passo. Oltracciò il progresso dell'insurrezione, che dopo essersi estesa a tutta la Sicilia, trionfava egualmente nel regno di Napoli, rese ben presto ogni sforzo affatto inutile.

La dissoluzione sì rapida dell'armata e dell'Amministrazione del re dava il paese in mano alle bande che l'avevano invaso, e per isfuggire ad una completa anarchia, le Due Sicilie rivolgevansi a Vittorio Emanuele e votavano la loro annessione al Piemonte.

In questi estremi il governo dell'Imperatore non poté più che attestare l'interesse che gl'inspirava questo giovine sovrano vittima d'un sistema politico, che non volle modificare a tempo, ma di cui non era l'autore S. M. gliene ha dato una prova luminosa accordandogli la protezione della bandiera francese davanti a Gaeta finché ha potuto farlo senza far contro al principio fondamentale della sua politica verso l'Italia.

«Il governo dell'Imperatore ebbe spesso occasione d'intertenersi colle grandi potenze sugli affari della Penisola e l'ha sempre fatto con una franchezza che gli era resa facile colla sincerità della sua condotta. L'abboccamento degl'Imperatori d'Austria e di Russia e del principe reggente, or re di Prussia, pose la Francia in condizione di far conoscere un' altra volta la sua intenzione.

Gli avvenimenti dell'Italia meridionale avevano commosso i gabinetti del continente, che vedevano a malincuore scalzarsi i diritti dei principi, e le minacce d'un prossimo attacco nel Veneto avevano fissato la loro attenzione anche più specialmente. Importava alla corte d'Austria in questa congiuntura di conoscere le disposizioni delle potenze, e gli è a tal fine ch'essa aveva provocato la riunione dei sovrani a Varsavia.

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«La Russia avendoci fatto conoscere che il suo desiderio sa

«Questa dichiarazione, formolata in un memorandum trasmesso al gabinetto di Pietroburgo, è onninamente conforme alla politica seguita dal governo imperiale dopo l'annessione dell'Italia centrale al Piemonte. La Francia, ridivenuta interamente libera, ha ripudiato ogni solidarietà nelle invasioni del governo Sardo. A suo rischio e pericolo il Piemonte si è impegnato in questa serie d'intraprese che hanno estesa la sua sovranità sino a Napoli e a Palermo; e se cedendo alle passioni che cercano di trascinacelo malgrado i consigli dell'Europa intera, esso prendeva l'iniziativa d'un' aggressione contro l'Austria, energicamente disapprovata dalla Francia, esso non poteva più sperare il suo appoggio. Noi non prenderemo già parte alle ostilità tra l'Austria e l'Italia, e ci limiteremo a tutelare i vantaggi che l'Imperatore e la Francia possono considerare come opera loro, e che la nostra armata ha pagato col suo sangue, vale a dire i risultati della pace di Villafranca.

La dichiarazione del governo delll'Imperatore, comunicata agli altri due Sovrani che si erano recati a Varsavia ha fatto l'oggetto delle loro deliberazioni. La moderazione delle nostre viste, nell'eventualità d'una guerra provocata dal Piemonte, come pure l'evidenza delle considerazioni che abbiamo presentate sui pericoli d'un intervento straniero, sono apprezzate. I gabinetti avrebbero, invero, desiderato che le idee espresse nella dichiarazione della Francia potessero esser prese per base d'un accordo che si sarebbe tentato, fin dal presente, di stabilire;


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ma a seguito della spiegazioni che abbiamo date, le potenze hanno riconosciuto che noi non potremmo metterci a fronte d'un' ipotesi differente da quella che abbiamo presa di mira.

Insomma, dopo gli avvenimenti dell'Isola meridionale e l'abboccamento dei sovrani a Varsavia, la situazione rispettiva dei grandi gabinetti rimane la stessa; i loro rapporti non ne sono stati alterati, e tutte le potenze sembrano persuase come noi che dalla osservanza del principio del nonintervento dipende il mantenimento della pace generale, e tutte egualmente sembrano decise a regolare la loro condotta secondo questa considerazione. L'Austria, finalmente, le cui disposizioni in questa quistione hanno una importanza particolare, ha ammesso con noi che, nelle attuali congiunture la politica di astenzione era la più savia, ed essa ha chiuso lo scambio delle comunicazioni che il colloquio di Varsavia ha prodotto fra il gabinetto di Vienna e noi, rinnovandoci l'assicurazione della sua intenzione di non uscire, quanto al presente, da un' attitudine di aspettativa a meno di non esserci provocata da un attacco contro il suo territorio.

Se dunque l'Italia si limita a ricercare liberamente le basi di un organamento definitivo sotto l'egida del principio del non intervento, se essa non prende una iniziativa che la esperebbe ai più certi pericoli, vi ha luogo a sperare che la pace non sarà turbata: ad assicurare questo risultamelo il governo consacra tutti i suoi sforzi, persuaso che la pace, questo primo bisogno della moderna società è non meno favorevole agl'interessi dell'Italia che conformo ai voti dell'Europa, e che distogliere la Penisola da qualunque pensiero di guerra è darle una nuova prova dell'interessamento della Francia.

La stampa europea interpetrò diversamente il discorso dell'Imperatore, ma il giornalismo inglese in ispecie gli si dimostrò poco benigno; e si può anche dire che i suoi comenti furono improntati di acrimonia e di malignità.

Il Times non trova il discorso abbastanza costituzionale: secondo esso è piuttosto una controversia che una esposizione politica, e quanto alla sostanza il Times non comprende che il governo francese faccia le maraviglie di una diffidenza

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e di un ma

La maggior parte dei giornali, non solo il Times e il Daily News, ma anche il Globe protestano contro il passo del discorso imperiale in cui l'annessione di Nizza e Savoia è presentata come un diritto incontestabile.»

Il tono del Morning Post è più riservato, più conveniente: in questo tono una critica anche ostile sarebbe accettevole. Il Post comprende che l'Imperatore non abbia insistito troppo fortemente su certe quistioni di politica interna o esterna, per lasciare all'assemblea il tempo di discuterlo con maggior comodo senz'aver presentato in modo troppo assoluto le intenzioni del potere.

Esso insiste sul paragone indicato dall'Imperatore tra le antiche assemblee francesi e le presenti. Senza il sistema elettorale e rappresentativo della Francia sotto la casa d'Orleans, dice il Post, questa dinastia avrebbe potuto reggersi ancora. La vera causa della sua caduta è d'avere ignorato ed oltraggiato i più nobili istinti e sentimenti della Francia; d'aver sacrificato per un interesse dinastico la sua influenza morale in tutta l'Europa, e di non avere impiegato tutto il sistema legislativo e amministrativo di Francia che ad organizzare una corruzione gigantesca. «

Il Post finisce accennando la speranza che non mancherà all'Imperatore il concorso illuminato dei Corpi legislativi.

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II.

La stampa inglese accusava il capo del governo francese dì ssersi mostrato poco espansivo nel discorso indirizzato alle camere legislative. Ma quando il parlamento inglese si aprì, si ricercò invano nelle parole di S. Maestà britannica degli schiarimenti più completi di quel che fossero quelli dell'imperator Napoleone. La regina d'Inghilterra si contentò di esprimersi intorno alla questione italiana nella maniera seguente;

Le nostre relazioni con le potenze straniere continuano ad t essere amichevoli, e sodisfacenti. Io nutro fiducia, che la moderazione delle potenze europee preverrà ogni rottura della pace generale.

«In Italia si compiono degli avvenimenti della più grande importanza. Pensando che gl'Italiani devono essere lasciati liberi di regolare da per se stessi i loro propri affari, io non ho creduto essere a proposito di provocare qualche sorta d'intervento diretto nei medesimi affari. Vi saranno sottoposti tatti i documenti su questo soggetto,

Il laconismo di questo discorso fu bentosto corretto dalla spiegazione di Lord John Russel ministro di S. M. britannica alla camera dei comuni, dietro interpellanze di Lord Disraeli. Noi riproduciamo questo discorso:

«sig. Disraeli, considerando la maniera con cui il bill della riforma proposto dal governo nella passata sessione fu trattato dai suoi sostenitori, crede non doversi biasimare il governo stesso per non averne fatta menzione nel discorso reale; ond'egli non si duole di tale omissione. Gli avvenimenti che si sono succeduti dacché la Camera si sciolse, richieggono che il gabinetto dia un

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La diplomazia segreta è stata, come ci vien detto, abbandonata; pure malgrado questo candore dalla parte del governo, lo spirito pubblico è più perplesso e più inquieto che mai. Egli desidera sapere qual è la vera politica governativa, quale lo stato delle relazioni colla Francia. Abbiamo noi stretto, egli domanda, nuove alleanze od abbiamo tentato di stringerne alcuna, e su quali principii? Egli sempre consigliò e sostenne l'alleanza francese; essa soltanto può conservare la pace e la tranquillità d'Europa. Ma l'accordo cordiale fra i due popoli dipende da due assunti.

«1. Che la Francia sia persuasa che la sua potenza sarà stabile e sicura più per mezzo dallo sviluppo delle sue risorse che di alcun incremento territoriale: 2. Che in ogni difficoltà internazionale il punto debole della nazione francese, l'amore della gloria, sia consultato. Ma la politica del nostro ministro degli esteri è stata contraria a quella della Francia e, come la Francia crede, sottile ai suoi interessi. Egli non intende disconoscere l'importanza dell'oggetto propostosi dal governo, l'unità d'Italia: quest'unità conferirà assai ad assicurare la forza e la tranquillità dell'Europa. Ma l'Inghilterra avrebbe dovuto conseguire questo grande fine per altri mezzi che per quelli d'un' influenza morale. Se noi fossimo intervenuti, egli dice, in Italia con mezzi materiali; se avessimo aiutati gli Italiani a conseguire ed a compiere la loro libertà, indipendenza ed unità, allora soltanto noi avremmo avuto titoli alla loro gratitudine ed amicizia (udite, udite). Gli Italiani sarebbero stati i nostri naturali, i nostri più saldi alleati. Ma noi non abbiamo fatto così: il nostro fine è grande, ma il mezzo per raggiungerlo è dubbio e per niente pratico. Io non consiglio a far guerra per questo fine; credo anzi che i popoli debbano essere lasciati a' se stessi. Ma intendo dire che quando la libertà dl un popolo ha bisogno di cure particolari, allora quel popolo diviene l'alleato di chi l'ha liberato non con l'influenza morale, ma colla spada.» Il sig. Disraeli conchiude dicendo che la condotta del governo esige pronti ed ampi schiarimenti.

Lord John Russell: Sebbene l'onorevole gentleman sia in di ritto di domandare schiarimenti sulle vedute e sugli intendimenti

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«Il governo di lord Derby non s'attendeva alla guerra, e quando la vide imminente, si diede tutto ad impedirla; ma non gli venne ciò fatto. Poi intese che la Francia era determinata a liberare l'Italia dalle Alpi all'Adriatico, e che avrebbe domandato Savoia e Nizza in contraccambio. Lord Malmesbury cercò d'investigare presso la Corte di Parigi, a mezzo di lord Cowley se questo disegno della Francia fosse vero; non ne ebbe però risposta alcuna soddisfacente. Avvennero in Italia i fatti noti a tutti fino alla pace di Zurigo.

Il presente governo della regina dichiarò allora, non che volesse l'unità d'Italia; - il che, come dimostrerò in seguito, non era il nostro scopo - ma che gl'Italiani fossero lasciati liberi, e che non s'imponessero loro colle armi gli antichi sovrani se erano da essi ripudiati.

Domando di nuovo all'onorevole gentleman, egli approva o biasima questa nostra decisione.

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Ora, quanto all'unita di Italia, io ho dichiarato

tanto a questa Camera che nelle mie communicazioni coll'imperatore dei Francesi, essere mia opinione che la felicità di quella nazione sarebbe stata più agevolmente conseguita con due regni anzi che con un solo: e dissi che se il re di Napoli si fosse determinato a tempo di dare una costituzione, noi avremmo volentieri veduto l'Italia divisa in due forti Stati insieme collegati.

ò io dicevo che questa era materia da doversi intieramente decidere dagli Italiani stessi. Era questa nostra risoluzione da biasimare? Noi potevamo errare nel nostro giudizio sul miglior ordinamento d'Italia; ma la libertà piena concessa agli Italiani bastava per iscusarci.

» L'onorevole gentleman parla dei due miei dispacci che dice contraddirsi fra loro. Quanto al primo fu esso pubblicato a mia insaputa; né io so com'esso venne alla pubblicità. Ma, ad ogni evento, io posso sostenere che tre sono i fini che il governo s'era proposto in tutti questi negoziati.

Il primo era che gl'italiani non ricevessero alcuna violenza nell'esercizio della loro libertà.

Il secondo che la pace di Villafranca fosse mantenuta come guarentigia di pace all'Europa. Nostra prima cura è sempre stata la pace e l'allontanamento delle calamità della guerra. É per questo che io scrissi nell'agosto in forti termini, ma coll'intenzione di fare il bene dell'Italia, raccomandando alla Sardegna di non muovere una guerra temeraria che avrebbe potuto distruggere le speranze di quella Nazione.

Dissi ancora che il governo della regina sperava che la Sardegna non assalirebbe il regno di Napoli.

Senza saputa di quel governo, ma col solo impulso del popolo una spedizione partì da Genova per la Sicilia; quell'isola fu in breve conquistata, così lo fu il continente napolitano. Il popolo si pronunziò per tutto in favore di Garibaldi. Questi entrò solo in Napoli e vi fu accolto con entusiasmo. Il re con un esercito di 100,000 uomini e una flotta potente rimase vinto e perduto. Io ne conchiudo ch'egli non aveva l'affezione del suo popolo. (applausi)

«Il modo barbaro con cui questo popolo era stato governato aveva reso odioso il sovrano; ed ogni uomo che si fosse presentato come liberatore, sarebbe stato accolto a braccia aperte.

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Stando così le cosa, sorgeva pel re di Sardegna la quistione se poteva rimanere spettatore tranquillo di quegli avvenimenti. Qual era allora la situazione?

Garibaldi non riusciva a fondare un governo stabile e tranquillo a Napoli. Ogni cosa cadeva nell'anarchia. Che sarebbe avvenuto?

Le altre potenze avrebbero detto: e noi vogliamo lasciare gli Italiani liberi di sé, ma non possiamo consentire che l'anarchia e la rivoluzione s'impossessino d'alcuna parte d'Italia: ecco dunque il tempo opportuno per riporre il papa ne' suoi dominii: i duchi nelle loro capitali; gli Austriaci nelle antiche guarnigioni, i Innanzi a tale alternativa non rimaneva al re di Sardegna che d'intervenire e di farsi campione di quell'unita invocata da tutti. Fu in tali congiunture che io scrissi il dispaccio: la Russia e la Prussia ne avevano scritto degli altri, dando lezioni al re di Sardegna e biasimando severamente la sua condotta. Ad un tempo stesso, l'imperatore Napoleone aveva ritirato il suo ministro da Torino.

«Dal canto nostro, noi eravamo nella ferma credenza che il re di Sardegna difendesse una giusta causa, potevamo quindi serbare il silenzio, quando vedevamo che la Russia, la Prussia, l'Austria e la Francia facevano quanto era da loro per ispegnere quella libertà e indipendenza che ci era tanto a cuore? Questo fu che suggerì il mio dispaccio e che m'indusse ancora a pubblicarlo. Se l'onorevole gentleman dice che gli Italiani non ci saranno, per quel ch'abbiamo fatto a loro riguardo, grati, io m'appello al sentimento degli italiani stessi (applausi). Io credo ch'eglino sieno persuasi che l'influenza dell'Inghilterra gli ha salvati nei momenti i più gravi; e che sentano, che senza la nostra mediazione la loro libertà ed unità sarebbe stata posta in terribile repentaglio (

applausi). L'onorevole gentleman prevede due pericoli: o che il trattato di Zurigo sia imposto dalla Francia all'Italia, o che la Francia decida colla spada la questione in favore dell'unità italiana. Quanto al trattato io non credo ch'esso potrebbe più essere imposto se non colla forza delle armi, opponendovisi il sentimento ed il volere degl'Italiani stessi. Ma a ciò è contrario, oltre a noi, l'imperatore Napoleone, il quale ne ha ieri stesso dato una nuova prova.

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L'onorevole gentleman domanda quale sarà la nostra politica avvenire. Rispondo che sui principii generali di politica noi siamo d'accordo coll'imperatore dei Francesi; ma che siamo altresì in termini d'amicizia e d'intimità colle altre grandi potenze. Pertanto se sorgessero questioni in cui noi ci trovassimo opposti alla Francia, o se vedessimo che essa seguisse quella via d'invasione che ha talvolta ispirato le potenze militari, allora noi stringeremmo alleanze cogli altri per combatter la Francia. Io non credo che l'imparatore desideri spedire un esercito in Italia per aiutar gli Italiani a liberar la Venezia dall'Austria. Noi disaproveremmo ogni aiuto dato dalla Francia all'Italia, se questa fosse prima ad assalir l'Austria, e faremmo conoscere le nostre opinioni a Torino ed a Parigi: ma noi non potremmo fare di più; né è nostra intenzione prender parte in questa guerra ov'essa avvenisse.

Termino manifestando la speranza e la credenza, che nonostante i pericoli che soprastano, la pace d'Europa sarà conservata. Sarà cura dell'Austria di comporre le sue controversie coll'Ungheria: sarà cura della Russia e della Prussia di comporre le questioni interne a cui ora esse attendono. Ma ni un» di queste cause di timori condurrà, io lo spero, ad un conflitto. perché, sebbene taluni credano che possa esservi guerra senza che noi vi abbiamo a prender parte, pure io sono persuaso ch'essa potrebbe cominciare senza di noi, ma che nel corso delle ostilità potrebbero sorgere eventi tali da mettere a pericolo l'indipendenza di quelle nazioni per cui noi abbiamo il più vivo interesse. Così noi non potremmo tenerci lungo tempo lontani dai pericoli e dalle lotte europee (udite udite)»

Intorno all'emendamento proposto dal signor White, lord John Russell dice che il governo ha creduto meglio di non proporre un bill della riforma in questa sessione, il quale al tempo presente creerebbe disunioni, senza condurre ad alcun risultamento soddisfacente. Egli è venuto nella persuasione che per avere un bill di riforma che sia utile alla nazione, debbevi essere una manifestazione tale dell'opinione publica in suo favore che valga a farlo adottare tanto dai lordi che dai comuni.

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La nazione ha il mezzo nelle sue mani, e può dichiarare che ad ogni patto vuole la riforma parlamentare. Il governo crede che in questa sera sia meglio occuparsi delle varie materie accennate nel discorso reale.

III.

L'epoca dell'apertura d'un nuovo parlamento, composto di tutti i deputati nominati dalle provincie annesse, s'avvicinava. L'antica sala dei deputati sardi essendo troppo angusta, si era fatta costruire un' altra sala, a cui faticavano giorno e notte un' immensa moltitudine di operai, e la quale fu pronta per il giorno determinato del 18 Febbraio.

Questa nuova sala, costrutta in gran parte di legno e ferro e ricoperta di lastre di vetro, è capace di cinquecento stalli. Essa ha la forma di un emiciclo appoggiato al palazzo Carignano col lato retto in fuori. La parte di quest'ultimo lato supera inelevazione di varii metri il tetto del palazzo medesimo, ed a questa parte è appoggiato il seggio della Presidenza, con a lato i segretari e questori. Ad un gradino più basso della presidenza vi sta la tribuna, la quale potrebbe benissimo servire all'uso cui fu destinata in Francia, di accogliere cioè gli oratori che vogliano pronunciare lunghi discorsi, unico mezzo di rendersi intelligibili a tutti i deputati i quali saranno d'ora in poi pressoché in numero doppio di quanto lo furono pel passato. Ma ove non vogliasi abbandonare l'abitudine fin ora prevalsa nelle camere Sarde di parlare nel proprio posto, potrà sempre la tribuna servire per i relatori delle commissioni per i scrutinii secreti.

Sotto la tribuna vien collocato il banco dei ministri.

In faccia alla presidenza, al banco dei ministri e alla tribuna son collocati 500 stalli dei deputati, divisi in sei compartimenti da corridoi che vi danno l'accesso.

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E al disopra di questi stalli trovano luogo la tribuna dei giornalisti e quella del pubblico, mentre quella della diplomazia e senatori trovansi dal lato opposto, e da quello cioè occupato dal seggio presidenziale.

Comunicazioni praticate fra la nuova aula e il palazzo Carignano fanno sì che gli stessi uffici che servivano fin ora pei deputati potranno servire in avvenire allo stesso scopo.

Chi ha veduto la sala del palazzo Borbone a Parigi ove siede il Corpo legislativo attualmente e ove siedeva altra volta la rappresentanza nazionale, afferma essere questa sala simile a quella.

Nello stesso tempo chela città di Torino vedeva alzarsi come per incanto il nuovo edifizio della nazionale rappresentanza, si preparava essa ad offerire al Re Vittorio Emanuele un omaggio, che fu proporzionato al nuovo lustro, che il suo regno aveva ripreso nel proprio paese.

Una ricca corona era stata votata da una numerosa riunione di sottoscritti Torinesi, e il 5 Febbraio a mattina in un'assemblea ch'ebbe luogo al palazzo di città, fu nominata una commissiono composta di 12 membri, incaricati di presentarsi al re per offrirgli il reale presente.

I nomi estratti sono quelli dei signori:

Bernaroli Daniele Ferrado Ortenzio Masino avv. Giacinto Pertusio Carlo Alberto Zanti dottor Luigi Ostorero Beniamino Balbo avv. Bàrbio Giuseppe Durandi Gaetano Sacerdote e Levi (ragione di commercio) Palcocapa commend. Pietro.

Con altro avviso verrà fatto noto il giorno e l'ora in cui S. M. riceverà la deputazione.

Torino 5 febbraio 1861

Pel Comitato Segretario

A. CERESA

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Nello stesso tempo la giunta municipale di Torino votava al re una statua in marmo con una iscrizione commemmorativa che lo saluta

primo re d'Italia, e il giorno 11 alle ore 12 la giunta municipale aveva l'onore di essere ricevuta in udienza da S. M. per farle omaggio di questa solenne deliberazione del consiglio comunale.

Vittorio Emanuele si mostrò commosso da tale attestato di affetto e di riverenza del popolo di Torino; si compiacque di parlare a lungo coi mandatari della città, a cui riguardo si espresse ne' termini i più lusinghieri, come anche circa la sorte della nazione italiana fatta gloriosa dal valore dell'esercito, e dal senno delle popolazioni.

La statua commessa allo scarpello del Vela dovea essere collocata sotto il portico del palazzo civico dirimpetto a quella di Carlo Alberto.

Prima dell'apertura del parlamento, il re si condusse a visitare la Lombardia, e partì da Torino per Milano, dove giunse il 12 Febbraio. L'accoglienza che gli venne fatta, non cedeva in nulla per l'entusiasmo a quella che quivi gli fu praticata la prima volta.

Ecco a questo soggetto l'estratto d'una corrispondenza indirizzata alla

Perseveranza.

MILANO 12 febbrajo

Milano ha accolto entro le sue mura Re Vittorio Emanuele e il popolo milanese acclamandolo con un entusiasmo il quale non è paragonabile che a tutti gli altri passati, ha dimostrato di riconoscere in lui ed applaudire con ardente animo il primo Re d'Italia. Tale fu il grido fervente, continuo che l'accompagnò dalla stazione di Porta Nuova al real palazzo.

Con Esso erano i due ministri di grazia e giustizia, e dell'interno, il sig. Cassinis e il signor Minghetti: alla stazione lo ricevettero il Sindaco, la Giunta e lo Stato maggiore della divisione.

Lungo tutta la via festosamente adobbata di bandiere e di tappeti, profumata di fiori, facevano bellissima mostra e le regie truppe e le

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Al palazzo reale il Re ricevette varie deputazioni delle diverse autorità e Corpi scientifici, non senza esser costretto ad ogni istante di mostrarsi al gran balcone del palazzo dinanzi al popolo stipatissimo il quale lo salutava con tutti gli evviva della ammirazione, dell'affetto e con quello solenne di Re della penisola.

Nella sera il Re onorava di sua persona il Ballo della Scala dato in beneficio dei poveri. La festa fu splendidissima. Al suo apparire ed al suo ritirarsi echeggiavano grida fervidissime e plausi di Viva Vittorio Emanuele! Viva il Re d'Italia!

Fu a Milano che il re segnò il decreto che aboliva l'autonomia della Toscana

, seguendo un rapporto presentato a S. Maestà dal Ministro Cavour capo del gabinetto. Ecco il rapporto che noi facciamo seguire dal decreto reale:

RELAZIONE

A S. M. in udienza del 14 cor. Febbraio

Sire,

Nell'accogliere i voti della Toscana e riunirla cogli altri tuoi popoli in una sola Monarchia, la M. V. col decreto suo del 23 Marzo 1860 ordinava che fosse provvisoriamente mantenuto per quelle Provincie un centro amministrativo, o che vi presiedesse un Governatore Generale con ampiezza di poteri maggiore di quella dei Governatori delle altre provincie. La Toscana conservava in sostanza, senta detrimento dei nuovi vincoli politici che la univano al Regno Italiano, una spiccata autonomia amministrativa. Temperamento siffatto era consigliato da gravi ragioni di politica prudenza; perocché lo introdurre repentinamente e ad un tratto un nuovo sistema d'amministrazione avrebbe ingenerato confusione ed incertezza, turbato l'ordinato andamento della cosa pubblica.

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Nulladimeno cotesta condizione di governo doveva essere temporanea e cessare appena che le circostanze il consentissero. Vostra Maestà il dichiarava espressamente nel suo discorso ai rappresentanti della nazione il 2 di aprile dello scorso anno, e il Parlamento in varie occasioni esprimeva il voto, che fosse provveduto sollecitamente alla unificazione del reggimento toscano colle altre parti del Regno, unificazione augurata da tutti gl'Italiani per assodare l'opera della nazionale indipendenza. Lasciando al Parlamento il compito di fare quelle leggi e quelle provvisioni che saranno giudicate acconcie a compierla in ogni sua parte, i consiglieri della vostra Corona sono persuasi che sia giunto il momento di fare un passo decisivo verso quell'assetto normale che dovrà aver la Penisola sotto il glorioso scettro di Vostra Maestà.

A questo fine tende il Decreto che il riferente ha l'onore di sottoporre alla sovrana approvazione. Per esso mentre si lasciano alla Toscana tutte quelle libertà che i tempi e le particolari condizioni dell'Italia richiedono a tutela delle comunali e provinciali franchigie, vengono assunte dal Governo centrale le più esiziali prerogative di uno Stato forte ed ordinato.

Ponendo termine in tal guisa all'autonomia toscana, il Ministero sente il dovere di tributar pubblico omaggio di lode ali uomo di Stato che fin qui ne tenne degnamente il reggimento. Se l'opera del barone Ricasoli riuscì di tanto giovamento alla patria quando la Toscana associava i suoi destini a quelli del Regno Italiano cos'i maravigliosamente o provvidenzialmente fondato, con non minoro sollecitudine ed efficacia egli cooperò a far si che la maggiore unificazione della natia sua contrada col resto dello Stato trovasse facile e spianata la via. Ond'è che egli ha pienamente raggiunto quella meta che era prefissa, trasfondere cioè il municipio nella nazione.

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VITTORIO EMANUELE II. ce. m.

Al fine di provvedere al governo ed all'amministrazione della Provincie toscane;

Sentito il Consiglio dei Ministri,

Sulla proposta del Presidente del Consiglio, Ministro Segretario di Stato per gli Affari Esteri,

Abbiamo decretato e decretiamo:

Art. 1 l'autonomia amministrativa toscana, quale fu stabilita dal Decreto del 23 marzo 1860 cessa di esistere col corrente mese nel quale si apre il Parlamento Italiano.

Le attribuzioni fin qui esercitate nelle provincie della Toscana dal Luogotenente e dal Governatore generale in ordine al Decreto 23 marzo 1860, saranno riunite ai RR. Ministeri e verranno esercitate o per mezzo di un Governatore dello Provincie toscane, o per mezzo delle autorità delegate dai ministri nei modi e con le norme seguenti, e con tutte quelle che saranno più particolarmente stabilite da uno speciale Regolamento.

Art. 2. Il Governatore delle provincie toscane ba sotto la ma diretta dipendenza i servizii politici, di sicurezza pubblica, di amministrazione, e della Guardia nazionale, che sono di competenza del Ministero dell'Interno, e vi provvede in conformità delle leggi e delle istruzioni del Ministro.

Art. 3. Egli compie inoltre quegli atti che sono di competenza degli altri ministri, che gli sono attribuiti da Leggi e Regolamenti speciali e delegati dai ministri coi quali corrisponde.

Art. 4 Il Governatore vigila, nell'interesse dell'ordine e della sicurezza pubblica, sull'andamento di tutti i servizii dipen

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Art. 5. Al fine suddetto i Capi dei diversi servizii pubblici sono tenuti di ragguagliarlo di tutti i fatti la cui gravità o natura può interessare l'ordine pubblico.

Similmente sono tenuti a comunicargli i cambiamenti nel personale per le osservazioni che stimasse conveniente di sottomettere ai competenti ministeri; salvo le limitazioni contenute nell'articolo precedente.

Art. 6. Il Governatore è in diritto di fare o di prescrivere in ogni tempo le indagini od inchieste che allo stesso fine riconoscerà necessarie; gli Uffiziali del governo sono nell'obbligo di ottemperare a tali richieste.

Art. 7. Esso può dare, nei casi di urgenza e sotto la sua responsabilità, ordini obbligatorii per tutte le Amministrazioni, salvo le limitazioni di cui all'articolo 4. In questo caso egli deve immediatamente informare il Governo del Re del suo operato.

Art. 8. Il Governatore protegge tutti gli Uffiziali del Governo nell'esercizio delle loro attribuzioni.

Art. 9. Per gli affari dipendenti dal Ministero di grazia e giustizia ed affari ecclesiastici, quelli che non saranno ritenuti od avocati al Ministero, rimangono per la parte giudiziaria affidati ai Presidenti delle Corti d'appello; per la parte ecclesiastica sono commessi al Governatore nel modo e secondo le ripartizioni espresse nell'annesso regolamento.

Art. 10. Le autorità e gli Uffizi per l'Amministrazione finanziaria esistenti nelle Provincie toscane sono provvisoriamente conservati nella loro presente condizione, e continueranno ad esercitare le proprie attribuzioni ed incumbenze a norma delle Leggi e dei Regolamenti vigenti in quella provincie.

Art. 11. Le relazioni delle Autorità e degli Uffici suddetti col Ministero delle finanze avranno luogo per mezzo di un sopraintendente dì Anania stabilito in Firenze, il quale sarà principalmente incaricato di compiere l'istruzione

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delle pratiche da trasmettersi per le risoluzioni riservate al Governo centrale, come di curare presso le Autorità locali l'esecuzione dei provvedimenti governativi.

Art. 12. Il coordinamento al sistema finanziario dello Stato dell'Amministrazione speciale conservata provvisoriamente alle provincie toscane, i rapporti della Sopraintendanza di finanza col Ministero e cogli Uffizi finanziari di quelle provincie; e le maggiori attribuzioni che il Ministro delle finanze sotto la propria responsabilità stimasse conveniente di affidare nell'interesse del pubblico servizio, formeranno oggetto di provvedimenti ministeriali.

Art. 13. È delegata al Governatore di Toscana l'Amministrazione dello spese inscritte in bilancio pei servizii di acque, strade, porti e spiaggie, e fabbriche civili.

É solo fatta riserva delle spese concernenti i lavori d'ampliazione e perfezionamento del porto di Livorno, la cui gestione rimarrà al ministero dei lavori pubblici.

Art. 14 Sono pure delegati al Governatore di Toscana i provvedimenti che riguardano la polizia di acque e strade e dei porti e spiaggie, sotto l'osservanza dello leggi e discipline colà tuttora vigenti.

Art. 15. Per l'istruzione pubblica è conservato in Toscana on Ufficio centrale provvisorio della pubblica istruzione, il quale per le cose di sua attinenza, corrisponderà con lutti i Capi d'Ufficio e trasmetterà gli affari informati al Ministro o al Governatore secondo le rispettive competenze stabilite dal Regolamento.

Art. 16. Tutte le attribuzioni che in virtù del Decreto Reale del 5 luglio 1860 sono conferite al Ministero di agricoltura, industria e commercio per gli affari relativi al Ministro saranno da esso esercitate anche in Toscana nei modi con cui le esercita nelle antiche e nuove provincie annesse allo Stato.

Il Governatore risolverà per altro direttamente fino a nuova disposizione gli affari relativi allo fiere e mercati, ed amministrerà come per lo innanzi l'Istituto delle Cascine, e l'Accademia dei Georgofili.

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Art. 17. Un Regolamento speciale annesso al presente Decreto e firmato l'ordine nostro dal Consiglio dei nostri Ministri, determinerà particolarmente lo attribuzioni riserbate al Governo centrale e quelle affidate al Governatore delle Provincie toscane.

Ordiniamo che il presente Decreto, munito ecc.

Dato a Milano addì 14 febbraio 1861.

VITTORIO EMANUELE

C. CAVOUR

Il giorno medesimo, che il re segnava questo decreto, diede un banchetto, a cui assisterono il luogotenente generale de Boia ambasciatore straordinario di S. M. il re Guglielmo I di Prussia oltre la Casa Militare e la Casa Civile del Re, e i Ministri Segretari di Stato presso la M. S. , S. E. il generale d'armata Alfonso La Marmora, il conte Giuseppe Pasolini, governatore della Provincia di Milano, il cav. dot. Antonio Beretta, sindaco della città di Milano, i due ajutanti di campo dell'ambasciatore straordinario ed altri cospicui personaggi.

Il Re, subito dopo il pranzo, salì in vagone per ritornare a Torino. S. M. , accompagnata da S. A. R. la duchessa di Genova rientrava la scorsa mezzanotte nella reggia. Le vie erano illuminate o la popolazione ansiosa di vedere il suo Re ne stava attendendo l'arrivo. Quando fu giunto, dalla stazione della strada ferrata al palazzo fu una siepe continua di popolo in mezzo a cui il Re procedette cordialmente acclamato.

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IV.

Lo stesso giorno, che il re Vittorio Emanuele rientrava a Torino, Francesco II, dopo la capitolazione di Gaeta sbarcava a Terracina, dove la guarnigione francese lo aspettava sulla riva.

Per tutta la traversata il re vinto, e i principi parvero tranquilissimi: essi non lasciavano eziandio di parlar familiarmente con tutto l'equipaggio. S. M. Maria Sofia restò lungo tempo sola e silenziosa, appoggiata alla poppa del battello contemplando lo scoglio di Gaeta,

Il re e la regina di Napoli giunsero il 16 mattina ad un' ora dopo la mezzanotte. Sbarcati a Terracina coi principi reali, il corpo diplomatico, il general Bosco e il loro seguito, erano partiti per Roma a quattr'ore dopo mezzogiorno. Il gen. Govon aveva spedito usseri ed artiglieri per servir loro di scorta insieme ad alcuni gendarmi pontificii.

Essi furono complimentati a Genzano dal gen. Michelet che volle restare a cavallo alla portiera della loro vettura finché un altro ufficiale superiore venisse a rilevarlo fino a Roma.

Il gen. Govon s'era recato a porta S. Giovanni, ove si fermò fino a nove ore. Vedendo che le LL. MM. tardavano ad arrivare si portò ad aspettarle al Quirinale. Ivi trovò, benché l'ora fosse avanzata, il card. Antonelli e molti membri del corpo diplomatico, tra' quali l'ambasciatore d'Austria. Il maggiordomo e il gran ciambellano ebbero l'onore di complimentare le LL. MM. in nome del Papa a porta S. Giovanni. I due prelati, avendo detto alcune parole sul destino di S. M. , il re rispose. «Così vanno le cose di questo mondo; bisogna avvezzarsi al male, si cade poi si rialza:»

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Il re e la regina giunsero stanchi al Quirinale, ore il Santo Padre aveva fatto loro preparare gli appartamenti. Il re non aveva dormito da parecchi giorni e quando il maggiordomo del Papa si offerse per condurlo ne' suoi appartamenti, egli lo ringraziò e gli disse che aveva gran bisogno di mangiare e riposarsi. Il re volle pur vedere l'ultimo de' suoi fratelli, fanciullo di quattr'anni, che dormiva nella sua camera; accostandosi al suo letto diede fuoco alle cortine, ma egli le strappò subito ed estinse il fuoco.

S. S. ordinò che la sua guardia nobile facesse il servizio d'onore negli appartamenti del re e della regina, e jeri a quattr'ore dopo mezzogiorno, il Papa andò a visitarli, e s'intertenne con essi tre quarti d'ora, ed all'uscirne fu calorosamente applaudito dalla folla dei Napoletani emigrati ragunata sulla piazza del Quirinale.

Questa folla entrò nella corte del palazzo e si pose a gridare. Fido il re, viva la regina.

In questo punto un giovine usciva dagli appartamenti pontifici e saliva in una magnifica carrozza col sigaro in bocca: la detta moltitudine, scambiatolo pel re, proruppe in evviva. Il giovine salutò senza poter raffrenare le sue lagrime e rispose: Io non sono il re - Era suo fratello, il conte di Trani, che divise a Gaeta i pericoli e le fatiche del re. E da notarsi che in tutta questa folla non v'era un militare.

Appena giunto a Roma, Francesco II s'affrettò d'indirizzare ai rappresentanti delle potenze la protesta seguente, di coi prendiamo il testo dalla gazzetta di Francia.

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PROTESTA DI FRANCESCO II.

Roma, 16 febbraio 1861.

Al punto stesso in cui la dolorosa deliberazione di abbandonare Gaeta fu presa, dopo un maturo esame S. M. il Re vuol far conoscere a tutti i gabinetti d'Europa i motivi della sua condotta. Egli è questo debito al quale ho l'onore di adempiere per ordine di Sua Maestà.

Il risultato a cui si pervenne, dopo gli sforzi più eroici, era facile a prevedersi dal momento che le circostanze particolari delle grandi potenze non consentivano malgrado i ripetuti richiami del governo del re, di porre un freno all'ambizione del Piemonte.

Un sovrano che si trova circondato dalle più difficili circostanze, appena salito sul trono de' suoi maggiori, al quale il tradimento, l'intrigo, la rivoluzione non davano agio a studiare le condizioni del suo paese, era degno di qualche appoggio, e meritava, io credo, efficaci simpatie. E quando questo sovrano medesimo era slealmente attaccato quel giorno in cui accordava una costituzione e le più ampie guarentigie a suoi sudditi potea credersi in diritto di fare appello al tribunale delle grandi nazioni che si posero pel comun bene arbitre del diritto pubblico e dell'equilibrio politico del mondo in diverse circostanze per cui trascorre l'Europa dal 1815 in poi e in epoche relativamente antiche siccome in altre più recenti.

Che un sovrano non debba chiedere né sperare soccorso estremo nelle agitazioni puramente interiori de suoi popoli, che lo intervento straniero non possa venire ad assicurare alternativamente il trionfo della rivoluzione o dell'autorità, che si lasci, in una parola ampia libertà ai governi ed ai popoli di modificare il reggimento politico del loro paese, è dottrina che sembra potersi ammettere come teorica generale per tutto il mondo ed esser fondata sui principii di libertà e di giustizia che reggono al giorno d'oggi la politica dei grandi Stati di Europa.


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Ma quando un monarca lealmente combatte per assicurare l'ordine pubblico, per l'indipendenza e la libertà de' suoi popoli, egli può almeno dimandare la guarentigia delle leggi comuni tra le nazioni, leggi che non permettono ad un altro governo di violare il diritto pubblico, i trattati solenni che formano il solo legame, la sola guarentigia della società politica d'Europa. Il re delle Due Sicilie potea credersi nella stessa condizione degli altri sovrani, ed avea diritto alla stessa protezione contro l'aggressione straniera che non dimanderebbero invano la Porta Ottomana, il viceré d'Egitto, e le Reggenze barbaresche dell'Africa.

Per negare le conseguenze di questo principio non basta dire che si tratta di una questione tra gli Italiani. L'Italia, quale la storia l'ha fatta, come l'Europa l'ha costituita, si compone di diversi Stati con governi indipendenti. Ecco il diritto riconosciuto. Che i popoli che si costituiscono sieno liberi, se vuolsi spingere sino agli estremi limiti la teoria della loro sovranità, di rinunciare alla loro indipendenza, ma non si può permettere, senza calpestare tutti i principii, che questi popoli sieno invasi senza dichiarazione di guerra, sotto il pretesto d'unità e libertà, lasciando che una sola potenza violi nella sua ambizione la legge comune dello nazioni.

Il re ha creduto dover suo soddisfare le legittime ispirazioni dei suoi popoli, e lottare contro la rivoluzione interna: ei poteva senza scrupolo appellarsene al tribunale europeo, quando avventurieri d'ogni paese, rinnegati ufficialmente dai governo della Sardegna, ma coperti dal suo vessillo, traversavano a migliaia il Mediterraneo per fare lor campo di battaglia del territorio delle Due Sicilie. Tutta un' armata, una marina, parchi di munizioni, tutti i mezzi furono impiegati per seminare la morte e la desolazione negli Stati di un pacifico sovrano, nella guisa degli antichi tempi barbari.

Colpito all'immprovvista da questi avvenimenti non trovando soccorso nella legge comune, il re si ritirò coi resti della sua

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Ben tosto si vide che le truppe reali erano sufficienti, non ostante la penuria delle loro risorse, per riconquistare il regno. Allora senza motivi e senza dichiarazione di guerra, violando la santità dei trattati, il Sovrano del Piemonte alla testa della sua armata entrò ed occupò il territorio delle Due Sicilie come un paese conquistato.

Non ostante i sospetti che la sleale politica della Sardegna poteva da lungo tempo ispirare, il Re non poteva credere che quella avrebbe tanto osato e che l'Europa l'avrebbe tollerato. Aggredire un sovrano il quale era in pace con tutto il mondo, che aveva offerta al Piemonte la sua alleanza e che avevo ancora o Torino i suoi rappresentanti per negoziarla, che aveva a Napoli un ministro di Sardegna accreditato presso la di lui persona, violare tutti i trattati, calpestare tutte le leggi, distruggere a suo pro il diritto pubblico, salvaguardia e patrimonio di tutti, era questa un' enormità che niuno avrebbe potuto iniziare, poiché era interesse e dovere d'ogni nazione di punirla.

Il

Piemonte violava il diritto pubblico e specialmente la promessa fatta a Parigi nel protocollo del 14 aprile 1856, giusta il quale non poteva aver luogo la guerra tra due Stati che abbiano accettata questa dichiarazione, senza prima sottomettersi alla mediazione delle altre.

Era questo precisamente il caso in cui trovansi Napoli ed il Piemonte: si comprende che S. M. non ha potuto credere possibile l'aggressione, e che una volta attaccata ha potuto e dovuto credere che le grandi potenze l'assisterebbero.

Non ne fu nulla.

La nota ricorda quali furono i risultati di quell'aggressione, che non si poteva prevedere, costretto il re ad abbandonare le posizioni del Volturno e la difesa sul Garigliano, a cagione della presenza della flotta sarda, rapita per tradimento al re di Napoli e della sua ritirata a Gaeta, privo di finanze, di risorse militari d'amministrative, resistette più di tre mesi con un pugno d'uo

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agl'incessanti attacchi d'un'armata che disponeva dei mezzi di quasi tutta l'Italia.

Fidente nella giustizia della sua causa e nell'interesso ben inteso degli altri sovrani, il re affrontò i pericoli d'un assedio che prolungato poteva creargli delle risorse nella politica dei sovrani d'Europa. E nota la magnanima condotta della regina, del re e dei due giovani principi in questa lotta disperata.

Le circostanze politiche obbligarono finalmente l'Imperatore a ritirare la flotta di Gaeta. Il re senza farsi illusione sui risultati d'una lotta disuguale, credette non dovere abbandonare una posizione nella quale, come già in altre, S. M. difendeva la sua corona non solo, ma anche l'indipendenza de' suoi popoli, il diritto pubblico e la legge in virtù della quale i sovrani regnano e le nazioni sono indipendenti e rispettate. Senza questa legge non vi sarebbe più giustizia, né sicurezza per alcuno; è questa base della società che il Re va superbo d'avere difesa per quanto le sue forze glielo permisero.

(La nota insiste di nuovo sulla ineguaglianza della impolitica lotta risultante da questo fatto che l'inimico erasi colla corruzione, col tradimento impadronito del tesoro, degli arsenali e depositi di guerra; e per tal modo egli poteva rinnovare ed accrescere quotidianamente i suoi mezzi di attacco).

Contro i soldati quotidianamente rinnovati ed accresciuti noi non potevamo opporre che bravi affaticati dalle lotte che sostenevano dopo il mese d'agosto da Palermo a Messina, da Messina alle Calabrie, dalle Calabrie al Volturno al Garigliano, dal Garigliano a Mola e da Mola a Gaeta, esposti ai rigori della stagione, coricati sulla nuda terra senza tende, né coperte! Per tal modo allo strazio che di loro si faceva il cannone, vennesi ad aggiungere quello delle malattie. Il coraggio e la devozione non mancarono mai in mezzo a così grandi sagrifizi l

Fino al momento in cui il re sperava un soccorso credette dovere continuare a difendere la causa della giustizia e dei suoi popoli.

(La nota constata che la conferenza di Varsavia non fece

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Il risultato delle elezioni operatosi sotto la pressione dell'invasione faceva trionfare la politica del Conte di Cavour, e stornando la guerra dall'Austria dava al governo di Torino il tempo di concentrare tutti i suoi sforzi contro Gaeta abbandonata a se stessa e contro il re dolorosamente convinto che la sua causa, che era quella dei re non era appoggiata da alcuno dei principi regnanti in Europa.

(La nota constata che la superiorità delle artiglierie dava ai Piemontesi il vantaggio di tirare dalle alture, che di lontano circondano la piazza e distruggerla al sicuro di ogni pericolo. Fa nullameno notare che per tre mesi non azzardarono approssimare alla piazza le loro batterie. La resistenza in mezzo a tanti disastri e massacri sarebbe continuata fino all'assalto decisivo senza le circostanze che l'hanno abbattuta. La nota racconta i disastri susseguiti allo scoppio delle due polveriere. )

Resistere ai mezzi di guerra diventava per noi impossibile quando il tifo ci toglieva da 60 a 80 uomini al giorno. Mille e cinquecento soldati erano allo spedale. Una delle suore di carità era morta, sette stavano a letto; non ne rimanevano che sette in caso da reggersi.

Nella casamatta del Re e della Regina il tifo uccideva il duca di Sangro e Ferrari, luogotenenti generali; si ebbe paura di sintomi di peste. Allora il Re convocò un consiglio di generali o comandanti i corpi. La resa fu decisa all'unanimità. La guarnigione rinnovò benanco in questo orribile momento il suo giuramento di fedeltà, cui non avea pensato mai di venir meno.

Il Re avrebbe preferito cadere alla testa di questo pugno di bravi, che tant'alto aveano levato l'onore delle armi napoletane. Ma il cuore d'un padre deve limitare i sacrifizi de' suoi figli ormai resi inutili e disperati. S. M. autorizzò le trattative della resa. Appena fu subodorata questa decisione, l'inimico invece di sospendere il fuoco lo aumentò d'un modo straordinariamente barbaro, coprendo di bombe e materie incendiarie una piazza che domandava di capitolare.

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Erasi tenuti l'accordo sulle basi dalla cessione; non mancavano che le formalità e le ratifiche, ma il fuoco continuava con una crudeltà senza esempio per parte dell'armata d'una nazione che si considera come civilizzata.

L'ebbe durante le ore in cui si negoziava, un massacro di soldati e di famiglie che non aveano più riparo alcuno.

Io mi permetto di farvi una disgressione che vi prego di bene notare. In risposta ad osservazioni misurate, ma degne del generale Ritucci, il generale Piemontese giustificò la sua condotta allegando che erasi mancato alla promessa di non riparare la breccia durante l'ultimo armistizio.

Ma lasciamo da banda il linguaggio per lo meno insolito da parte di un nemico avventuroso, rischiariamo i fatti che ci si rimproverano.

(La nota cerca di dimostrare la insussistenza di questa accusa).

Il re, dolentissimo di separarsi da suoi valorosi, s'imbarca con la reale famiglia sulla corvetta francese, la Mouette, che l'imperatore Napoleone III lasciava nel porto di Napoli a disposizione del re.

Cortese sollecitudine ch'ebbero eziandio la regina di Spagna e l'imperatore di Russia, lasciando a Civitavecchia e a Villafranca i loro vascelli agli ordini di S. M.

Al partire del re e della sua famiglia la guarnigione, facendo ala sul suo passaggio, e la moltitudine accalcata dietro le Loro Maestà piangevano ed acclamavano con grida d'entusiasmo il loro giovine, valoroso ed infelice sovrano.

Giungendo in questa città ove le Loro Maestà ricevettero l'accoglienza più lusinghiera dal Sovrano Pontefice e da una moltitudine immensa, il re crede suo debito di protestare anche una volta per parte sua ed in suo nome contro la violenza a cui soggiace, riserbandosi ogni suo diritto e risoluto a richiamarsene alla giustizia di Europa. S. M. non vuol punto provocare agitazione nel reame, ma quando i suoi fedeli sudditi, ingannati, traditi, oppressi, spogliati, alzeranno le braccia animati da un sentimento comune contro l'oppressione, il re non abbandonerà la loro c

ausa.

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A scansar tuttavia lo spargimento del sangue, l'anarchia che minaccia di ruinar la penisola italiana, S. M. crede che l'Europa raunata a congresso debba esser chiamata a decidere sulle cose d'Italia.

Il solo scopo della sua politica estera sarà da ora in poi di manifestar questa idea e di adoperarsi alla sua attuazione. Per quanto si ragguarda al reggimento interno, la sue convinzioni non sono punto mutate.

Le promesse del manifesto degli 8 dicembre son sempre il suo programma unico ed invariabile.

firmato: CASELLA

V.

Il 18 Febbraio era il giorno fissato per la riunione del nuovo parlamento italiano.

Nella nuova grand'aula semicircolare eretta nel Palazzo Carignano per accogliere i rappresentanti della nazione, Re Vittorio Emanuele salutava gli eletti della corona e del popolo ivi radunato.

S. M., annunziato dal cannone e dalla fanfara preceduto d'alcuni minuti dall'augusta sua famiglia e seguito dalla sua casa militare, muoveva alle 11 dalla Reggia in carrozza di gala.

Le piazze e le vie erano parate ad insolita festa, la Guardia Nazionale faceva ala, e una turba impaziente venuta qua da tutte le provincie del Regno acclamava il Re.

Ricevuto all'ingresso del palazzo Carignano dalle Deputazioni del Senato del Regno e della Camera dei Deputati, S. M. entrò nella grand'aula accolta da una salva di applausi e da ripetuta grida di Viva il Re! Viva l'Italia.

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Alla destra del trono stavano in loggia gli angusti figliuoli del re, il principe Umberto di Piemonte e Amedeo duca d'Aosta.

Nella loggia a sinistra il corpo diplomatico. Vi abbiamo notato soprattutto l'ambasciatore straordinario di S. M. il re di Prussia col suo seguito, i ministri di Prussia, Granbretagna, Francia, Svezia, Belgio, ecc.

Sua Maestà era circondata sul trono da' suoi Ministri e dallo alte cariche della sua Corte.

Pochi vuoti nei Deputati, moltissimi i Senatori, e le tribune, sì riservate come pubbliche, affollatissime.

Terminata la, cerimonia della prestazione di giuramento per appello alfabetico fatto dal Ministro di grazia e giustizia cav. G. B. Cassinis ai Senatori stati nominati ultimamente, e ai deputati dal Ministro dell'interno comm. M. Minghetti, S. M. lesse con voce da non ne perdere sillaba il seguente discorso.

Signori Senatori, e Signori Deputati,

Libera ed unita quasi tutta, per mirabile ajuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli, e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi s'appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative ai popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi; veglierete perché l'unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata. L'opinione delle genti civili ci è propizia; ci sono propizii gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli d'Europa. L'Italia diventerà per essa una guarentigia d'ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale. L'imperatore dei Francesi, mantenendo fermo la massima del nonintervento a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine, né la fiducia del suo affetto alla causa italiana.

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La Francia e l'Italia ch'ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo che sani indissolubile.

»

Il governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della libertà affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria.

Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore a seguo di onoranza di lui e di simpatia verso la nobile nazione Germanica: la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione, che l'Italia costituita nella sua unità naturale, non può offendere i diritti né gl'interessi delle altre nazioni.

Signori Senatori, Signori Deputati,

» Io sono certo che vi farete solleciti a fornire al mio governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Cosi il Regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragiono della opportuna prudenza.

«Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savio cosi l'osare a tempo, come lo attendere a tempo.

«Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona; ma nessuno ha il diritto di cimenta! o la vita e le sorti di una nazione. Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva buon titolo di gloria, espugnando una fortezza delle più formidabili.

«Mi consolo nel pensiero, che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili. L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta, che rivivono in Italia i marinai di Pisa, di Genova e di Venezia.

«Una valente gioventù, condotta da un Capitano che riempi del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto elio né la servitù, ne le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani.

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«Questi fatti hanno inspirato alla nazione una grande confidenza nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d'Italia la gioja che ne sente il mio animo di Rè e di soldato».

Il discorso reale fa più e più volte interrotto da applausi e da evviva al Re e all'Italia, segnatamente nei paragrafi che accennano a Francia, ad Inghilterra e ad Alemagna; ma appena S. M. ebbe pronunziato l'ultima parola, Parlamento e popolo giubilanti proruppero unanimi in A schiette acclamazioni e in tanto fragorosi applausi che il Re, commosso ed esultante a que' leali segni di riverenza e di amore, contraccambiò iteratamente l'udienza de' più cari ringraziamenti col nobile gesto e col chinare della marzial sua testa. In quell'istante sublime Re e popolo italiano mostrarono aperto ciò che da lunga pezza è racchiuso no' cuori.

Cessate le acclamazioni, il comm. Minghetti ministro dell'interno, presi gli ordini di S. M. , dichiarò aperta la sessione legislativa del 1861.

Il Re uscì alle 11 e 1/2 dall'aula nuovamente acclamato e festeggiato.

Questo discorso d'un alto interesse politico fu in vari sensi accolto dalla stampa europea. E' nostro dovere di citare i diversi giudizi fattine dai due campi opposti dell'opinione; e a questo scopo riportiamo da prima alcuni estratti della stampa liberale, e per intiero un articolo dell'Armonia di Torino, che secondo noi rappresenta fedelmente l'opinione generale della stampa reazionaria.

Veniamo primieramente alle citazioni dei giornali francesi:

Si legge nel Debats:

Il discorso che il re Vittorio Emanuele ha pronunziato dinanzi al Parlamento italiano sarà letto in tutta l'Europa con quel profondo interessamento che si dà alla grandezza eccezionale, alla solenne novità delle circostanze.

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In alcune parole delle quali la riserva e la nobile semplicità, la calma e la dignità fanno la forza e la vera eloquenza, Vittorio Emanuele ha tracciato l'alta e grave missione dell'assemblea che rappresenta «l'Italia libera e unita quasi tutta intera.»

Questa Assemblea cui è toccato il compito di ordinare l'Italia stabilirà le più grandi libertà amministrative nel tempo stesso che veglierà perché l'unità politica non possa mai essere menomata.»

Ci sembra che malgrado il suo laconismo, questo programma conciliando i bisogni antichi e i nuovi, risponda a tutti i voti dell'Italia rigenerata. Se il primo pensiero di Vittorio Emanuele è per l'Italia, il suo secondo pensiero è per le due grandi potenze che acquistarono titoli imperituri alla gratitudine ed alla simpatia della nazione italiana.

Con un tatto ed uno spirito di opportunità che sono giustissimi egli seppe notare la gradazione fra gli splendidi servigi dell'una e i buoni uffici dell'altra. La situazione presente dell'Italia, le quistioni cosi gravi e cosi ardenti che essa solleva, sono toccate nel discorso reale con decisione e fermezza non che con discrezione e prudenza. Proclamando altamente che l'Italia è abbastanza forte «per seguire i consigli dell'opportuna prudenza Vittorio Emanuele indica assai chiaramente che ei non ha chiuso l'orecchio ai voti e alle istanze che le due grandi potenze fecero intendere nello interesse della pace generale.

Ricordando ch'egli avea cimentato la vita e la corona per l'Italia, dichiarando che niuno ha il diritto di cimentare la vita e la sorte di una nazione, Vittorio Emanuele ha parlato in modo da farsi comprendere dagli uomini e dai partiti estremi, i quali nell'impeto delle loro passioni e delle loro mire particolari, tentassero avversare la sua politica e rifiutassero di conformare la loro politica alla sua. Come lo si può scorgere, il re si è spiegato chiaramente sulla quistione della Venezia. In ricambio egli conserverà sugli affari di Roma un silenzio assoluto che sarà tanto più notato nelle congiuture presenti dacché sembra attenuare le voci di un accomodamento diretto fra la corte di Roma e il gabinetto di Torino.

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Nella caduta di Gaeta il re colse l'occasione

di rendere un nuovo omaggio all'esercito e alla marina italiana. Tale è la prima impressione che noi possiamo esprimere su questo documento di sì alta importanza giudicandolo quale lo conosciamo cioè nella forma forse inesatta e incompleta trasmessaci dal telegrafo.

Si legge nella Patrie:

Noi non possiamo presentire la simpatica impressione che avrà prodotto il discorso di Vittorio Emanuele all'apertura del Parlamento. Pel suo linguaggio improntato di moderazione e di fermezza questo discorso merita d'essere accolto tanto favorevolmente in Europa quanto lo saia in Italia, giacché se esso autorizza o mantiene tutte le speranze, esclude anche tutte le improntitudini. Si è notato il silenzio tenuto da Vittorio Emanuele sulla questione romana; e taluni hanno creduto scorgere in questa volontaria omissione l indirizzo di negoziati che si aprirebbero quanto prima colla Sonia Sede. Noi ignoriamo so la riserva del discorso reale debba interpratrarsi così, ma qualunque ne sia il motivo, è questo un atto di prudenza e di senno.

Si legge nel Constitutionnel

Il discorso che Vittorio Emanuele pronunciò all'apertura del Parlamento italiano, si distingue pel doppio carattere di saviezza e di energia. Si noterà, in Francia, la calorosa espressione dei sentimenti che l'augusto oratore conserva per noi, e che il popolo italiano divido con lui. La dignità che respira nella parte del suo discorso che allude alla Venezia, non isfuggirà ad alcuno. Spettava infatti a Vittorio Emanuele di dichiarare altamente che aveva potuto cimentare la sua vita e la sua corona per l'Italia, ma ch'egli non si riconosceva in diritto di mettei e a repentaglio l'esistenza e le sorti di una nazione.

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Si legge nella Presse:

Aspettavasi di trovare nel discorso elio Vittorio Emanuele ha pronunziato all'apertura delle Camere una frase esplicita concernente Roma e la Venezia. Tuttavia, per essere generali, lo assicurazioni di pace date dal Sovrano dell'Italia rigenerata non ne sono meno ferme, «La mia parola suonò altra volta ardimentosa, disse il re, ma è savia cosa, l'osare a tempo, come lo attendere a tempo,

Si legge nel Siecle:

Il discorso del Re d'Italia 6 stato fedelmente riprodotto e noi ne approviamo il linguaggio fermo e moderato. L'energia non esclude la prudenza e convien sapere «spettare quanto osare; tali sono gli assiomi di politica pratica di cui Vittorio Emanuele conta di far l'applicazione. Si noterà forse ch'egli non disse una sola parola di Roma. Egli si prepara a tutte le eventualità; completa i suoi armamenti; ma la sua attitudine è difensiva. Egli non andrà incontro a complicazioni e a difficoltà che saprà scongiurare se pur sorgessero.

Come noi l'abbiamo costantemente domandato, l'unità italiana, nelle visite del governo centrale dovrà conciliarsi colle più grandi franchigie amministrative.

Non conviene cercare, dice l'Ind. Belge, nelle parole del Re, schiarimenti più precisi di quelli che si trovarono nei recenti discorsi dell'imperatore Napoleone, della regina Vittoria, o del re di Prussia, sugli avvenimenti che la politica dei gabinetti prepara all'avvenire.

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Ma non vi si riscontrano lo stesse assicu

Associando d'altronde l'esempio al precetto non dice parola né di Venezia, né di Roma. Egli insiste sulla necessità di costituire l'Italia, adesso presso che interamente riunita, sotto il suo scettro, e dichiara che nessuno ha il diritto di rischiare l'esistenza e i destini di una nazione, facendo certamente allusione, tanto ai disegni che si potrebbero meditare all'infuori dell'azione officiale, quanto alle viste stesse del governo.

Il discorso di Vittorio Emanuele è pur riservato sui rappordel Piemonte colle potenze estere. Non accenna che alla Francia all'Inghilterra ed alla Prussia. Esprimendo il rammarico che gli fece provare la interruzione delle relazioni diplomatiche colla prima egli proclama altamente la gratitudine dell'Italia verso di essa e verso l'Inghilterra pei beneficii del nonintervento il cui mantenimento venne da queste due potenze assicurato.

Quanto alla Prussia. Vittorio Emanuele accenna soltanto l'avvenimento del nuovo re e il fatto della missione di cortesia che in questa congiuntura il generale Lamarmora fu incaricato di adempire a Berlino. Dell'Austria e della Russia neppure una parola.

Terminando il suo discorso, il Re precorro in certo modo la proclamazione del regno d'Italia conferendo allo Camere, di cui apre la sessione, la qualificazione di primo Parlamento d'Italia.

Ora vediamo il commentario dei giornali nemici dell'unità Italiana.

Il 18 di febbraio la Corona inaugurava il Parlamento con un discorso che, secondo le consuetudini costituzionali, è soggetto alla critica del giornalismo, perché cade sotto la responsabilità del Ministro. Valendoci del nostro diritto pubblichiamo il discorso con qualche osservazione.

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Signori Senatori! Signori Deputati!

» Libera ed unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra.»

Quel quasi tutta ci ricorda la famosa quasi ristorata finanza. Nel quasi tutta vogliano credere che entreranno anche Nizza, Mentono e Roccabruna cedute alla Francia. La Divina Provvidenza non ba detto ancora l'ultima sua parola. Coloro che l'invocano oggidì speriamo che più tardi ne riveriranno i decreti.

«A voi si appartiene il darle istituti, comune e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi veglierete perché l'unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata.»

«L'unità politica fu detta da Balbo unutopia; o tale venne dimostrata da tanti secoli. Le opere durature non si formano in un giorno. Quando si va contro la natura o le tradizioni dei popoli, si fabbrica sull'arena.

«L'opinione delle genti civili ci è propizia: ci sono propizi gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli d'Europa. L'Italia diventerà per essa una guarentigia d'ordine o di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale.»

«Vorremmo che ci fosse propizia l'opinione delle genti cattoliche. Esse protestano invece contro di noi; e le stesse genti civili ci accusarono solennemente in faccia al mondo d'aver conculcato il diritto delle genti.

«L'Imperatore dei Francesi mantenendo fermo la massima del nonintervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia dì richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine, nò la fiducia nel suo affetto alla causa italiana.»

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S'è sempre detto che lo protesto di Napoleone III erano lastre; ed ora si conferma. É la prima volta che si professa gratitudine a chi ebbe l'aria di strappazzarci, e di opporsi ai nostri disegni. Abbiamo ricevuto uno schiodo; si annunzia e si risponde: grazie!

Il bello è che mentre la Corona diceva che l'Imperatore dei Francesi avea richiamato da Torino il

suo inviato, la

Gazzetta Ufficiale affermava d'aver notato nella tribuna il

ministro di Francia!

«La Francia o l'Italia, che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solforino un nodo che sarà indissolubile.»

Questo periodo serve per preparare la strada a nuovo cessioni. Potremo cedere più tardi la Liguria e la Sardegna alla Francia per comunità di stirpe, di tradizione e di costume.

«Il Governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente memoria.»

Fidatevi dell'Inghilterra! Lord John Russell il 5 di febbraio disse al Parlamento inglese:

«Noi abbiamo sempre comunicato

confidenzialmente coll'Austria, Russia e Prussia riguardo ad ogni affare d'Europa».

Inoltre ha promesso che, quando la Francia, a

parer suo, fosse nel torto, l'Inghilterra i formerebbe un'alleanza colle grandi Potenze d'Europa per combattere le sue mire»

(Times del 6 febbraio, pag. 7. col. 3 )

«Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre Principe, gli mandai un ambasciatore a seguo di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione che l'Italia, costituita nella sua unità naturale, non può offendere i diritti, né gli interessi dello altre nazioni.»

Qui si dà la notizia che Lamarmora è stato a Berlino. Sapevameelo. Ma ha persuaso il leale ed illustre principe! Non pare che abbia persuaso la Germania, giacché si spera che verrà nella persuasione.

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Signori Senatori! Signori Deputati!

» Io son coeto che vi farete solleciti a fornire al mio Governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Così il Regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forzo la ragion dell'opportuna prudenza.»

In questo periodo abbiamo l'annunzio di nuovi imprestiti e di nuove imposte. Dal 18 58 in qua non si udì mai Discorso della Corona senza sì caro ritornello. Si mantiene la sublime tradizione.

«Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savio cosilo osare a tempo, come attendere a tempo. Devoto all'Italia non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona; ma nessuno ha diritto di cimentare la vita e lo sorti d'una Nazione.»

Si può facilmente abbandonare il sasso dal sommo della montagna, ma è difficile ritenerlo a mezza via. Dio solo ha l'autorità di dire al mare: Verrai fin qui, e non più innanzi. E la rivoluzione è un more in burrasca.

«Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili.»

Speriamo di non essere più obbligati a recare documenti di fucilazioni, di saccheggi, e di incendii. Vorremmo però che colla

fama detto esercito fosse cresciuta a vantaggio degli Italiani la fama di lealtà, e non la riputazione di tradimenti.

«L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono in Italia i marinai di Pisa, di Genova e di Venezia.»

I bombardamenti di Gaeta e d'Ancona non saranno la più bella pagina della storia d'Italia. La posterità inesorabile si occuperà dell'origine e del modo di que' bombardamenti, e dirà che uno fu contro il Papa, e l'altro contro il figlio d'una Principessa di Savoia, e ne restarono vittime i sudditi innocenti di amendue.

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«Una valente gioventù, condotta da un Capitano che riempì del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani.

Questi elogi a Garibaldi vogliono essere confrontati colle proteste della Gazzetta Ufficiale contro la sua spedizione e colle Note del conte di Cavour, in cui dichiaravasi usurpatore.

«Questi fatti hanno inspirato alla Nazione una grande confidenza nei proprii destini. Mi compiaccio di manifestare al Primo Parlamento d'Italia la gioia che ne sente il mio animo di Re e di Soldato.»

VITTORIO EMANUELE.

Qui ha termine il discorso della Corona, e noi pure terminiamo i nostri commenti. Sono stati brevi assai, perché non ci era lecito dire quanto sentivamo nel cuore. Il lettore pensi il resto, e attenda i fatti che verranno.

____________

I giornali di Parigi l'Union, il Monde, la Gazzette de France, ed altri che troppo lungo sarebbe a nominare riprodussero tutti degli argomenti perfettamente simili a quelli che abbiamo testé citati per l'articolo dell'Armonia.

La stampa inglese fu unanime in favore del discorso di Vittorio Emanuele.

Il parlamento italiano si trovava dunque costituito, e la presidenza ne fu data al conte Rattazzi. Ecco l'insieme della composizione di quest'assemblea classificato giusta il risultato delle elezioni, e al punto di vista della maggioranza governativa.

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Il numero dei Collegi elettorali del regno è di 443; di questi furono al principio 417 elezioni.

Classificando ad un dipresso questi 417 deputati secondo l'opinione politica, ed il partito a cui appartenevano, si avevano le seguenti proporzioni:

Nell'Italia settentrionale e centrale sono collegi N. 255 - I deputati eletti però furono 254, perché non potò avere effetto la elezione del collegio di Poggio-mirteto nell'Umbria. Questi deputati potevano cosi dividersi:

Estrema destra N. - 5

Sinistra » - 15

Terzo partito » - 21

Ministeriali » - 213

254

I collegi dell'Italia meridionale sono 188. Di questi erano note 163 elezioni. Le 25 ignote erano dei collegi della Sicilia. Questi 163 deputati erano classificati come segue:

Autonomisti N. - 6

Sinistra » - 26

Incerti » - 11

Ministeriali » - 120

163

180

Riassumendo, si ha la seguente generale divisione.

Incerti N. - 11

Opposizioni riunite » - 73

Ministeriali » - 333

Totale N. 417.

Tre grandi corpi costituiti, tre parlamenti si trovavano adunque riuniti all'epoca a cui noi siam giunti, e andavano ad occuparsi più o meno direttamente in Europa dogli affari della Penisola. Avevamo dunque ragione di dire, cominciando questo capitolo, che grandi avvenimenti si preparavano per l'Italia.

Per illuminare le discussioni, che avevano ad aprirsi, i governi francese ed inglese avevano fatto raccogliere tutti i documenti diplomatici relativi alla questione italiana, e li avevano disposti sul banco dei parlamenti.

Di queste voluminose posizioni estragghiamo tutte le pezze più interessanti, che divideremo in due parti, e che disporremo, per ordine di data, in un'appendice al presente capitolo.

La prima parte conterrà i documenti sommessi allo camere legislative francesi -

La seconda quelli che furono presentali al parlamento inglese.

- E tutti li faremo precedere da un'esposizione generale per agevolarne l'intelligenza.

181

APPENDICE

AL

CAPO IV.

I.

DOCUMENTI FRANCESI

Questa esposizione della situazione o per meglio dire delle condizioni dell'Impero francese presentata dal governo di Napoleone HI al Senato ed al Corpo legislativo è un quadro troppo grande e troppo complicato per poterne abbraccero il pensiero complessivo nei brevi confini che ci sono concessi dalla nostra cronaca.

Tuttavia, siccome il documento di cui si tratta si divide in duo parti, una delle quali riguardando il complesso delle relazioni diplomatiche della Francia può considerarsi come un lavoro a parie ed avente un' idea informatrice quasi indipendente, ci sarà lecito di riassumere ciò che ci sembra risultare da quella parte che si riferisce all'estero.

Più della metà della relaziona speciale di cui si tratta spetta alla questione italiana, sulla quale il discorso d'apertura era stato tanto laconico e tanto vago da far pensare che Napoleone III non abbia voluto che fare intravvedere il suo modo di pensare piuttosto che rivelarlo completamente.

La storia diplomatica della questione italiana, dalla pace di Zurigo fino al giorno presente in quanto riguarda la Francia, viene esposta dal governo diffusamente, insistendo specialmente so

pra lo funzioni e le parti di consigliere che esso volle assumere dirimpetto a tutti i sovrani dell'Italia.

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Esso attesta che i suoi consigli non furono seguiti da alcuno dei principi a cui venivano indirizzati: per altro nell'enumerare patitamente i rifiuti vedesi che egli specialmento si affatica a dimostrare che se coloro i quali ebbero dei vantaggi immediati nel non volerli seguire non sono ancora al termine dei loro intendimenti, quegli altri i quali n'ebbero rovina non hanno eventualità favorevole di rialzarsi dai loro infortunii.

Napoleone III si fa uno studio particolare di mostrare che dopo avere ammesso il principio di non intervento egli si è sforzato continuamente di attenuarne le conseguenze a carico dei principi che ne venivano pregiudicati.

Diffatti quando si parla dell'entrata di Vittorio Emanuele negli Stati delle Due Sicilie, eccone le precise espressioni: La dissoluzione si rapida dell'esercito e dell'amministrazione reale lasciava esposto il paese alle bande che l'avevano invaso, e per sfuggire ad una completa anarchia, le Due Sicilie tacevano appello al re Vittorio Emanuele, e votavano la loro annessione al Piemonte.

Questo modo di spiegarsi del governo francese coincide esattamente con quanto venno dal governo del Re Vittorio significato allo potenze europee, e l'avere accettato e adottato questa formola, facendola propria, dà la misura delle disposizioni prevalenti dei consigli dell'Imperatore. La presenza della squadra francese a Gaeta durante un trimestre non fu senza pregiudizio degli interessi dell'unità italiana, ma come misura di opposizione o di aspettativa non mutò radicalmente le condizioni della causa Borbonica: e la serie delle ingerenze che sono messe in luce dall'esposizione di Napoleone III al Corpo Legislativo, non è a dir vero tale né tanto sollecitamente incominciata né tanto regolarmente perseverante che si potesse riprometterne qualche risultato favorevole alle cause che si diceva di volere riservare o non difendere.

A traverso dell'andamento studiato e misurato della narrazione, trapela sempre una indulgenza costante pel partito o per dir meglio per l'opinione militare della causa unitaria.


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183

E par

Così mentre da una parte si davano consigli alle partì interessate contro il nuovo Stato italiano, questo poteva fino ad un certo punto soltanto fare qualche impedimento al governo di Vittorio Emanuele; perché si poteva presumere che questi consigli assicuravano alla potenza che aveva ceduto la Savoja e Nizza lo conseguenze di un' estensione di territorio che niuna infelice conseguenza di una politica arrischiata avrebbe potuto compromettere.

Il rimanente della relazione ha tratto alle cose della Siria e della Cina, e in essa è posta ogni cura per fissare l'attenzione sopra l'accordo che non ba cessato di regnare intorno a queste due spedizioni tra la Francia e la Gran Bretagna, poco dopo che si erano già fatti conoscere gli sforzi e le condiscendenze reciproche per mezzo delle quali le due potenze erano giunte a conchiudere un trattato di commercio che è certamente il più liberale che sia mai stato conchiuso dalla Francia, e che, a dir vero, non dovette poco costare al governo imperiale di pazienza e di buona volontà per fare accettar delle pregiudicate opinioni dei protezionisti francesi ai quali finora fu sempre sacrificalo l'avvenire economico della Francia.

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Gl'incidenti che insorsero tra la Francia ed il Messico, nonché la Plata ed il Perù occupano poca parte della relazione. Del rimanente la loro importanza è molto relativa, e bastava al go verno francese di far sapere che non gli aveva negletti, senza darsi all'altezza della situazione. L'Olanda e la Porla Ottomana, l'una per quistioni di tariffo daziarie, l'altra per un progetto di abbassamento di diritti di esportazione, chiudono la serie degli Stati coi quali ebbero luogo per parte della Francia trattative diplomatiche.

In complesso il tono generale del documento è un lavoro benevolo rispetto all'estero, e se non esclude che la Francia possa tenere una mano sull'elsa della spada, mostra però un desiderio manifesto di non venire provocata e di essere lasciata operare all'interno nel senso dello sviluppamelo dell'industria, ed all'estero in quello di vedere rinascere con certi temperamenti e specialmente senza confusione di personalità politica l'alleanza della Francia e dell'Italia.

Quanto ai documenti diplomatici presentati dal governo francese al corpo legislativo formano un volume in quarto di 278 facciate. Cominciamo la pubblicazione dei documenti che riguardano gli affari di Roma.

Il duca di Gramont, al sig. ministro degli affari esteri:

Roma 28 Gennajo 1860

Signor ministro, ho testò indirizzato a V. E. un dispaccio telegrafico per renderla informata della pubblicazione di una lettera enciclica di Sua Santità in data 19 gennaio e che venne stampata ieri sera ond'essere spedita a tutti i vescovi cattolici, a cui è diretta.

Vero scopo di quella si è di far conoscere la risposta del Papa all'ultima lettera di Sua Maestà che presso a poco vi è

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Mi feci rimettere i due esemplari che spedisco a V. E. e calcolo di reclamare formalmente presso il governo pontificio contro codesta dimenticanza dei proprii impegni.

Vogliate aggradire ecc.

Firmato: GRAMONT.

Segue la circolare in data 8 febbraio 1860 del Sig. Thouvenel intorno all'enciclica del Papa che ommettiamo, perché già pubblicata nel nostro giornale.

Il ministro degli affari esteri

al signor duca di Gramont a Roma.

Parigi 12 febbraio 1860.

Signor duca, vi feci conoscere l'impressione che ci cagionò l'enciclica del Santo Padre ai vescovi, e non vi dissimulai punto il sincero dispiacere che n' avemmo a risentire. Credo dover oggi rendere completa la circolare che diressi agli agenti diplomatici dell'imperatore, sotto la data dell'8 di questo mese, esami

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Come scoppiarono gli avvenimenti della Romagna e come le cose giunsero al punto in cui ora le vediamo? Lo stato presente delle cose deve forse farsi risalire all'ultima guerra? E' vero che l'insurrezione sia unicamente l'opera di stranieri agitatori, che avrebbero travagliati gli spiriti ed astutamente condotti i fili di una cospirazione terribile? Chi non comprende al contrario che queste allegazioni testificano una completa illusione sui sentimenti delle popolazioni? Chi non sa la condizione precaria dell'autorità che il governo pontificio esercitava nei suoi paesi? Chi si dissimula la penosa situazione creata da un sistema di amministrazione, della quale l'unanime opinione delle grandi potenze reclamava la riforma sin dal 1831 ed aggravata ognora più da una straniera occupazione, interrotta soltanto a rari inervalli dal 1815 al 1848, per quindi divenire permanente? Mi costerebbe troppo lo estendermi su particolari presenti allo spirito di chiunque non sia Interamente estraneo alle faccende che succedono a'suoi giorni. Benché l'enciclica ci dia il diritto di richiamare il passato e di giudicare il regime politico applicato alle legazioni, tuttavia mi asterrò di mettere il piede su questo terreno. Mi limiterò semplicemente a far osservare che dal momento in cui gli Austriaci si ritiravano, certi ed inevitabili erano gli avvenimenti che si sono compiuti dopo la loro partenza. Di Sfatti nel paese non esisteva alcun potere, nessuna forza capace ad opporre la minima resistenza; l'amministrazione romana era più disarmata e debole che impopolare. Gli Austriaci ripassando il Po lasciarono il paese arbitro di se stesso.

Noi abbiamo, signor duca, la convinzione che il governo pontificio non potrebbe rimproverarci sotto nessun punto di vista che gli abbiamo mancato di sollecitudine e di preveggenza. Al principiare delle ostilità, era stata proclamata e riconosciuta dalle parti belligeranti la neutralità della Santa Sede. Esse continuavano ad occupare quelle posizioni delle quali erano custodi prima della guerra. Rinunciavano a fortificarsi in modo da potersi di là nuocersi a vicenda.

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In una parola parevano penetrate da questo pensiero che al disopra dei loro dissensi passeggeri stava un interesse superiore, egualmente caro ad entrambi quello del mantenimento dell'ordine negli Stati del Santo Padre. Le guarnigioni di Ferrara, Comacchio, Bologna ed Ancona potevano, con tutta sicurezza, vegliare al mantenimento della tranquillità nelle Legazioni e nelle Marche, mentre che la guarnigione francese la manteneva in Roma.

Non è mio compito l'apprezzare le circostanze che determinarono l'Austria a più non continuare la sua missione, ma ho diritto di ricordare che la Francia rimase fedele alla sua. Allontanatesi le truppe austriache, le popolazioni già da lungo tempo più non affezionate ad un potere compromesso dall'appoggio dello straniero, approfittarono delle congiunture, senza aver bisogno di esservi trascinate da alcun particolare eccitamento e si può dire e lo ripeto, che piuttosto si trovarono indipendenti, di quello che sieno state rese tali. Ecco tutto il segreto della sollevazione delle Romagne.

Questa sollevazione, signor duca, non potrebbe essere imputata alla Francia, né autorizzare un dubbio qualunque sulla sincerità delle assicurazioni di simpatia e di devozione che l'Imperatore diede a Pio IX sin dal principio della guerra. Ma l'Imperatore doveva forse non prendere in considerazione i nuovi fatti che sorsero a riiroso dei voti suoi? Sua Maestà, apprezzando come doveva le difficoltà della situazione, e giudicando nullameno che la pace conchiusa a Villafranca poteva produrre tutte le conseguenze che già si aspettava, se la corte di Roma assecondava i suoi sforzi, si diresse al Papa nel 14 luglio da Desenzano.

«In questo nuovo ordine di cose, scriveva l'Imperatore, Vostra Santità può esercitare la più grande influenza e far cessare in avvenire ogni causa di torbido.»

«Acconsenta Vostra Santità o piuttosto di motuproprio voglia accordare alle Legazioni ed alle Marche un' amministrazione separata con un governo laico nominato da Vostra Santità, ma circondato da un consiglio formato col mezzo della elezione; paghi questa provincia alla Santa Sede una rendita fissa

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e Vostra

Voi sapete, signor duca, che questi suggerimenti non vennero accolti. Mentre che succedendosi gli avvenimenti, moltiplicavansi le difficoltà, la corte di Roma persisteva a trincerarsi in una astensione unicamente propria ad aggravare uno stato di cose che più non poteva conciliarsi colla sua autorità senza sacrifici! o senza compensi.

E fu così che non facendo verun calcolo dei fatti o dei consigli, si lasciarono passare tutte le circostanze opportune per ridare le Legazioni alla Santa Sede, e fu così che sorse quella eventualità, cui l'imperatore volle invano scongiurare e per la quale Sua Maestà fu costretta a diriggere al Santo Padre la lettera del 31 dicembre.

Ed ora io domando, essendo andate le cose come io accennai, erano dunque tanto strani i consigli che vennero respinti? La sincerità dei sentimenti colla quale furono dati è certamente ben dimostrata. I riguardi, anzi per meglio dire, l'affezione che il governo imperiale dimostrò, in ogni occasione, al capo della Chiesa, sono uno dei tratti dominanti della storia dei dieci anni che or sono passati. Il clero di Francia sa con quale benevolenza e con quale estensione di vedute il governo imperiale eserciti sempre le leggi che regolano i suoi rapporti colla corte di Roma.

Deve sapere ch'esso pure trovò nell'impero un potere riparatore e che sotto quest'appoggio tutelare ebbe nella società francese quella influenza e quell'autorità che altri governi gli avevano contrastata. Questi soli fatti sarebbero sufficienti ad attestare, da quali disposizioni fosse animato il governo imperiale verso il papato, anche allorquando non gli aveva dato prove di

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Noi punto non contestiamo che l'occupazione di Roma, all'epoca in cui venne intrapresa, non sia stata dettata da considerazioni politiche e religiose; ma chi può negare che la Francia non sia stata determinata a continuare d'anno in anno ì sacrificii che questa misura le impone, per una sollecitudine anzitutto affettuosa e perseverante verso gl'interessi della Santa Sede? Chi non riconosce i provvedimenti conciliativi per mezzo dei quali il governo dell'Imperatore attenuò o prevenne gl'inconvenienti che l'occupazione di Roma poteva avere, tanto nel fondo come nella forma per la sovranità del Santo Padre? Chi può non vedere in questo insieme di fatti una testimonianza del le intenzioni le più cordiali e della più ferma volontà di proteggere non solo la posizione personale del Santo Padre, ma di estendere se fosso possibile la sua influenza morale?

Egli è precisamente a quest'ordine di idee che si unisce il discorso prestato dalla diplomazia francese al Santo Padre, in tutte le contrade ove sono interessi religiosi da difendere e a cui in misura un po' più larga si collegano le spedizioni compiute nei mari della Cina e del Giappone. E infine, sig. duca, qual prova migliore può darsi di questa preoccupazione costante che la stipulazione di Villafranca, colla quale l'imperatore, deferendo al Santo Padre la presidenza onoraria della Confederazione, voleva riporlo a capo dell'Italia rigenerata?

Donde si può dedurre che il governo imperiale sarebbe stato felice e lo sarebbe tuttora nelle presenti congiunture, di trovare una combinazione capace a diminuire gli imbarazzi della Santa Sede. Ma qui il buon volere della Francia corre rischio di urtare contro ostacoli insormontabili.

Difatti non solo si tratterebbe di rendere le Legazioni al Papa; ma bisognerebbe trovare il mezzo di mantenerle nelle di lui mani senza far succedere una nuova occupazione ad un nuovo intervento.

Gli avvenimenti dimostrarono abbastanza come questa misura sia imponente a rimediare al male.

L'opinione d'Europa è formata su questo punto e l'occupazione, condannata dalle lezioni del passato nelle stesse Legazioni,

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è un espediente, a cui nessuno potrebbe pensare di ricorrere a meno che non voglia disconoscere le necessità che s'impongono alla saggezza, ed alla preveggenza di ogni governo.

Oggi una tale politica è inammissibile. né l'autorità monarchica, né la maestà della chiesa nulla avrebbero a guadagnare; la religione e la ragione fanno lega comune per rigettarla con una eguale energia.

Adunque, signor duca, era ben venuto il momento di preoccuparsi delle differenti combinazioni, quando l'Imperatore ne segnalò la necessità al Papa.

I più evidenti interessi, le più pressanti considerazioni convengono alla Santa Sede. Il partito preso di rifiutarsi assolutamente a riconoscere il vero carattere dello stato presente delle cose, non farebbe che aggravarlo ognor più, e finirebbe col creare impossibilità parimente assolute. All'opposto, se la Santa Sede si risolvesse finalmente a discendere dalle ragioni mistiche, dove la quistione non è al suo posto conveniente, e ritornasse sul terre no degli interessi temporali, che soli sono impegnati nella discussione, se ad un giusto giudizio della Santa Sede facesse andar di pari passo un' po di moderazione nei suoi atti, forse ciò potrebbe produrre, quantunque sia già molto tardi, un mutamento favorevole alla sua causa. Essa renderebbe in ogni caso possibile al governo dell'imperatore il prestare il proprio appoggio ad una politica conciliatrice e ragionevole

Voi siete autorizzato a dar lettura di questo dispaccio al cardinale Antonelli ed a rilasciargliene copia, quando egli ne mostrasse il desiderio.

Firmato THOUVENEL.

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Il ministro degli affari esteri al duca di Gramont a Roma.

Parigi 19 Febbraio 1860

Signor duca, la corrispondenza che voi mi avete fatto l'onore d'indirizzarmi mi è arrivata fino alla data del 7 del mese corrente.

Il governo dell'imperatore ha stimato di dover pubblicare nel Moniteur, come avrete veduto, la nota circolare che io ho diretta il 7 del mese corrente agli agenti diplomatici di S. M. e quella che vi fu scritta colla data del 12 febbraio. Esso non venne punto mosso, nel prendere quella risoluzione, dal desiderio d'impegnarsi in una polemica colla Santa Sede; ma dal momento che la corte di Roma, ricorrendo ad un' estesissima pubblicità, metteva il mondo intiero a parte delle sue querele, era naturale che il governo dell'Imperatore lo seguisse su quella via, e se, ciò che d'altronde io non posso credere, si volesse a Roma trovare in questo un argomento da farcene rimprovero, per rispondervi basterebbe che voi, sig. duca, faceste osservare che noi non abbiamo fatto altro che imitare l'esempio che ci era dato, e servirci per nostra difesa dei mezzi che erano stati adoperati per attaccarci.

Aggiungerò, che in una quistione che, per tanti riguardi, può essere considerata tanto come quistione interna che come quistione straniera, il governo di Sua Maestà era obbligato verso se stesso e verso il paese a rilevare in tutta la loro pienezza i sentimenti che egli non può dissimulare, nello stesso tempo che le spiegazioni che la Francia cattolica aveva diritto di esiggere da esso.

Firmato THOUVENEL.

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Il ministro degli affari esteri al signor duca di Grammont a Roma.

Parigi 26 Febbraio 1860

Signor duca, il governo dell'imperatore, proponendo di rimettere al Re di Sardegna il governo delle tre Legazioni sotto la forma di un vicariato che Sua Maestà eserciterebbe in nome del Papa non si dissimulò la ripugnanza che questa parte del nostro progetto potrebbe provocare a Roma. Ma osservando con la più seria riflessione lo stato presente delle Legazioni e la serie degli avvenimenti che lo cagionarono, acquistammo la convinzione che non v'ha termine possibile tra questa combinazione ed il sistema d'annessione della quale la corte di Roma temerebbe certamente le conseguenze nel mentre essa respinge il principio.

Agli occhi nostri il vicariato del Re di Sardegna sarebbe una soddisfazione data non solo alle disposizioni morali delle popolazioni, ma eziandio ai loro interessi materiali. Diffatti esisteva tra tutti i paesi che formano il bacino del Po, una solidarietà di interessi commerciali che tendeva sempre ad avvicinarli fra loro: e bisogna riconoscere che questa tendenza è indipendente dalle circostanze che oggi, come in altri tempi, potevano favorirla. D'altro canto, non sarebbe difficile provare, coll'aiuto dei precedenti storici, che le Legazioni sino alla fine dell'ultimo secolo, erano poste in una situazione particolare, avuto riguardo al resto degli Stati pontificii; lungi dall'essere assimilati ad altre provincie, avevano un' amministrazione distinta e realmente non erano unite alla Santa Sede che per una specie di vassallaggio.

Il sistema da noi proposto può dunque, sotto un certo ri guardo, esser considerato come analogo a un ordine di cose esistente per l'addietro.

Sarebbe degno della saggezza del sovrano Pontefice l'apprezzare la situazione in ciò che ha di fondamentale e di conforme, per così dire, alla natura ed alla necessità delle cose, senza lasciarsi influenzare da preoccupazioni esclusive e dispiacevoli.

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Qaand'anche il Papa vedesse in questa combinazione un parziale sacrificio dei suoi diritti sovrani, non troverebbe egli un sufficiente compenso in questo pensiero (che deve pure essere apprezzato dal cuore di un principe che riunisce il titolo di padre a quello di sovrano) che cioè avrebbe potuto contribuire a ricondurre la tranquillità in Italia, a pacificare le coscienze ed a rassicurare gli spiriti che da ogni parte in Europa s'allarmano per il prolungarsi di una crisi, a cui tanti interessi dell'ordine il più elevato impongono metter fine? Un tal sacrificio sarebbe infine cosi nuovo nella storia del papato? E l'augusto Pontefice che siede in oggi in Vaticano non potrebbe egli al bisogno trovare negli annali tuttora recenti de' suoi predecessori parecchi esempii che proverebbero com'essi seppero cedere ad analoghe concessioni, di fronte a necessità forse meno imperiose delle odierne?

Per ciò che lo concerne, signor duca, il governo dell'imperatore vede nella combinazione da lui proposta il solo mezzo pratico di soddisfare, in una giusta misura, le nazionali tendenze e le esigenze dei fatti compiutisi e di rispondere alle garanzie di ordine e d'interesse generale, che l'Europa deve desiderare nel regolare gli affari d'Italia.

Firmato THOUVENEL.

Il duca di Gramont al signor ministro degli affari esteri.

Roma, 3 marzo 1860.

Signor ministro. Il governo pontificio conosce già da qualche giorno le proposizioni che il governo dell'imperatore fece trasmettere al gabinetto di Torino, e queste furono oggetto di un lungo colloquio che io ebbi ieri sera col cardinale Antonelli. Credo di dover darne il riassunto a V. E. perché esso stabilisce in un modo perfettamente definito le apprezziazioni della corte di

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Le prime parole del cardinale Antonelli, abbenché sempre improntate di moderazione e di cortesia, avendo tracciato un quadro inesatto della situazione, dovetti pregare S. Em. prima di procedere più oltre, di rientrare nella verità dei fatti. A sentirlo, l'Imperatore prendeva le Legazioni al Santo Padre e le offriva all'incaricato di Vittorio Emanuele. Io non poteva ammettere un asserzione cotanto contraria all'evidenza e feci osservare al cardinale che, sotto questo rapporto, se la corte di Roma era giunta a fare illusione a se medesima, nessuno fuori di lei potrebbe partecipare al suo modo di vedere.

La situazione era ormai conosciuta perfettamente in Europa, l'annessione completa di tutta l'Italia centrale alla Sardegna era imminente; non era che un affare di qualche giorno, e nessuno ignorava che il movimento annessionista non doveva arrestarsi alle Legazioni, ma invadere le Marche e l'Umbria e portare la rivoluzione sino sul territorio napolitano già predisposto per riceverla. L'Imperatore interveniva, ed il carotiere del suo intervento morale non poteva essere sconosciuto come non poteva essere falsificato (denaturi) dalle passioni e dai pregiudizii ostili.

Se, come lasciava credere il linguaggio di S. Em., l'Imperatore voleva che il Papa perdesse totalmente le Legazioni, la sua missione sarebbe stata bella e tracciata e molto facile: esso non avea che ad astenersi. Esso non avea a togliere le Legazioni al Papa per darle al Re di Sardegna, come ne lo accusava ingiustamente il cardinale segretario di Stato: le Legazioni da molto tempo non erano più a togliersi, perché da se medesime si erano offerte al Piemonte. Che l'Imperatore si astenga, e fatte le elezioni, l'annessione definitiva si compie, e non resta più traccia della sovranità pontificia su quelle provincie. L'intervento dell'imperatore avea dunque per iscopo e per effetto di minorare le perdite della S. S. ; di sostituire ad un annichilamento completo della sovranità pontificia su quelle provincie un sistema che ponesse in salvo i diritti del Papa, e che con questo solo li dichiarasse imprescrittibili. In luogo di regnare sul

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il Re di Sardegna non farebbe più che amministrare come vassallo tributario, queste provincie della S. S. Cosi dunque non si sostenga, che l'Imperatore tolga queste provincie al Papa per darle al Re di Sardegna; mentre sarebbe più esatto il dire che l'Imperatore si oppone a che il Re di Sardegna annetta alla sua corona le provincie del Papa. Salvo un intervento armato, che non è possibile, l'Imperatore non può fare di più in favore della S. S.

Il cardinale rispose che agli occhi del S. P. non vi avea differenza fra la perdita completa col mezzo dell'annessione e la perdita temperata mediante il vicariato. Era una spogliazione che si appoggiava sulla rivolta. Il Papa non era libero di abdicare ai suoi diritti dinanzi ad una causa cotanto ingiusta; stava in questo una quistione di principi! su cui non transigerebbe mai. Si erano allegate le cessioni territoriali acconsentite col trattato di Tolentino; ma la posizione era differente: il Papa allora aveva fatta la guerra; esso ne subiva le conseguenze e la sua coscienza era libera; esso avea veduto come l'Imperatore d'Austria avea ceduto per trattato la Lombardia, dopo averla perduta per ragione di guerra.

-

Ma, sig. cardinale, dissi io allora, risulta dalle vostre parole che se il Re di Sardegna avesse fatto guerra al Papa ed avesse preso le Legazioni, S. S. avrebbe la coscienza più libera per cedergliele con un trattato.

- Il cardinale. Sarebbe stato necessario che la guerra fosse legittima.

- Io. Voi avete detto teste che l'imperatore Francesco Giuseppe aveva potuto cedere la Lombardia perduta in seguito alla guerra; voi non contestate la legittimità di questa guerra dal lato della Francia e del suo alleato, il cui territorio era stato invaso dall'Austria; voi dovreste dunque accettare gli avvenimenti che si sono compiuti in Italia, e che sono la conseguenza immediata di questa guerra. Il fatto sta che non trattasi qui di una questione di principii: lo stato di cose attuale in tutta Italia centrale, è un fatto di guerra, e come tale rientra precisamente in quella categoria che voi avete definita, e che lascia al sovrano

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la libertà di coscienza necessaria per poter trattare e negoziare su quanto ha perduto in modo da diminuire le sue perdite per quanto e possibile.

- Il cardinale. Noi non riguardiamo le cose dallo stesso punto di vista; per noi la questione di principii esiste, ed anche si complica col dovere che incombe al S. P. di non riconoscere dei governi che si appoggiano nella loro opera rivoluzionaria e riformatrice sino sulla propaganda protestante, come noi ne abbia mo la prova. La quistione è mista; essa è politica e religiosa ad un tempo. Lo ripeto: il Papa non transigerà mai.

- Io. Ma, V. Em. ha almeno riflettuto a qualche soluzione compatibile con questa inflessibilità del suo governo?

- cardinale. Sì: noi abbiamo bisogno né dell'intervento francese, né dell'intervento austriaco; noi domandiamo che le provincie della Santa Sede siano sgombrate dalle truppe della lega; che se ne facciano sortire gli ufficiali, soldati e impiegati piemontesi e stranieri; che il Piemonte ritiri i suoi fucili, i suoi cannoni, il suo danaro, e che ci lasci in presenza delle provincie così ricondotte allo stato in cui erano il giorno in cui furono abbandonate dagli Austriaci. Noi dimandiamo che non si faccia opposizione a che il Papa faccia appello alle potenze cattoliche eccezion fatta dell'Austria e della Francia, affinché esse mandino un con tingente, e c' incarichiamo di ristabilire l'autorità pontificia in tutti i territorj insorti.

- Io. Ma come otterrete voi il preventivo ripristino delle provincie in quella condizione che voi avete descritta come quella che si trovava al momento della partenza degli Austriaci?

- cardinale. La Francia può farlo col suo ascendente morale. L'Imperatore non ha che a dire di volerlo e ciò sarà.

Io. Voi siete, signor cardinale, in un grande errore a questo riguardo. Voi dimenticate che il governo dell'imperatore misurò più volte la forza del suo ascendente morale su quelle popolazioni; e la cosa è talmente manifesta ch'io vi prego di scusare la mia franchezza se vi dico di non poter, mio malgrado, credere che voi siate convinto della verità della risposta che mi avete fatta.

Quanto al contingente delle potenze cattoliche voi ne fate

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l'esperienza e sappiamo bene l'uno come l'altro quello che promette e quello che mantiene. Perciò la vostra soluzione è impraticabile: ed è sopra una base così falsa, così futile, che voi fondate il vostro sistema di resistenza assoluta? Permettetemi di dirlo, io non posso spiegarmelo, o piuttosto me lo spiego con un pensiero che la discussione mi obbliga a confessare. Io comincio a credere che voi desiderate un cataclisma. Voi non potete chiudere gli occhi all'evidenza; voi vedete il movimento che vi circonda; voi sapete che la rivoluzione delle Marche e dell'Umbria è imminente:

voi sapete i pericoli che corre il Regno di Napoli;

e quando una parola di transazione potrebbe ancora scongiurare la tempesta; salvare il resto degli stati del Papa,

salvare Napoli che voi sacrificate senza pietà,

salvare l'Italia forse da uno sconvolgimento generale, voi rifiutate tutti i temperamenti e voi invocate la tempesta come se voleste speculare sugli avanzi del naufragio.

- Il Cardinale. Lungi da noi questo pensiero, e prova ne siano i sacrificii che facciamo per la difesa delle Marche e dell'Umbria. Essi sono fuori di proporzione coi nostri mezzi, e se fossimo rassegnati non lo faremmo. Tutto al contrario, noi ci difenderemo ad oltranza con i nostri nemici di dentro e di fuori.

- Io. Sacrificii inutili, giacché voi sapete al pari di me che la vostra forza militare è dubbia ed insufficiente. Se voi voleste veramente uscire da questo stato precario e fatale, voi fareste altri sacrificii e prendereste altre misure: voi ci aiutereste nei nostri sforzi di conciliazione, e l'Italia riconoscente vi dovrebbe il suo riposo. Se voi non poteste sancire il vicariato, voi potreste almeno tollerarlo e manifestare del resto qualche velleità conciliatrice. Voi potreste promulgare le riforme convenute, e facilitare così il compito del Governo dell'Imperatore, il cui più ardente desiderio e di estinguere questo fuoco di discordia che arde fra il Santo Padre ed il suo popolo.

Cardinale. Io non posso che ripetere quanto ho già detto: il Papa non transiggerà mai; esso visi è impegnato innanzi al mondo cattolico colla sua enciclica; esso non farà niente; assoluta

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Quanto alle riforme, esso si asterrà finoohè le sue Provincie insorte saranno ritornate sotto la sua autorità.»

Io ebbi a cuore, signor ministro, di riprodurre una parte del dialogo ch'ebbe luogo in quell'abboccamento per porvi in caso di giudicare tutta la risoluzione con cui la corte di Roma si trincierà nell'ostinazione del suo rifiuto. Questa resistenza non si smentisce in nessuna circostanza, e la S. S. la oppone a tutti i consigli, vengano dalla Francia o d'altra parte.

Da qualche giorno il re di Napoli sembra allarmarsi dei pericoli di cui la politica del Vaticano minaccia le sue frontiere e fa dei veri sforzi per ottenere dal Papa delle concessioni capaci di allontanarli. Il principe Petrulla è giunto a Roma incaricato di presentare al S. Padre osservazioni in questo senso. I suoi passi non ebbero alcun successo.

Avea sperato di fare qualche impressione sull'animo del Papa richiamando la sua attenzione sugli immensi vantaggi al punto di vista della sicurezza delle sue frontiere che presentava il mantenimento dell'autonomia della Toscana. Ma la corte di Roma preoccupandosi esclusivamente dell'idea dinastica non ammette l'autonomia toscana senza famiglia granducale, e l'avvento d'un principe della casa di Savoia gli sembra un' annessione mascherata. Io ho cercato invano a dimostrare come questo giudizio era contrario all'evidenza dei fatti ed agli insegnamenti della storia: non si confutarono le mie obbiezioni perché erano incontrovertibili, ma non ho tardato a riconoscere l'inutilità de' miei sforzi. Io mi trovava in presenza d'un partito preso che può riassumersi così: ll Papa non riconoscerà e non approverà mai nulla all'infuori del ristabilimento completo dello stato dello cose casus bellum nei ducati e nei suoi stati.

Almeno, diss'io al cardinale lasciandolo, spero poter portar meco la confidenza che V. Em. vorrà rendere conto esatto e compiuto del nostro colloquio. Se il Papa non crede di potere sanzionare i temperamenti di cui l'imperatore coltiva l'adozione per salvare l'Italia dai pericoli che la minacciano; se il Papa non crede di poter secondare i nostri sforzi, anche nel suo interesse,

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forse riconoscerà la lealtà che li ha ispirati e si astar

- Noi abbiamo, rispose egli, delle opinioni assai diverse sul valore relativo dei principii, e dei fatti compiuti, e voi date, nei vostri giudizi, a questi ultimi un

mportanza ed una legalità che noi rifiutiamo assolutamente. Per noi la cosa indispensabile è di rispettare i principii: il Papa non può mancare a questo dovere, esso vi si è impegnato dinnanzi al mondo intero. Esso non è più libero di cambiare e di transiggere. Noi apprezziamo del resto la sincerità delle vostre mire e non dubitiamo nemmeno per un momento che non abbiate molto a cuore gl'interessi della Santa Sede come quelli della Chiesa; ma partendo da un punto di vista tanto diverso non è a maravigliarsi che non possiamo intenderci sai doveri ed i veri interessi della Santa Sede.

Mi era alzato mentre il cardinale finiva queste parole e presi congedo da lui tosto che ebbe cessato di parlare

Aggradite ecc.

GRAMONT.

Il ministro degli affari esteri al signor duca di Gramont a Roma.

Parigi 8 Marzo 1860

Sig. duca; il ministro dell'imperatore a Torino comunicò nel 29 del mese decorso al signor conte di Cavour le proposizioni del governo di S. M. Voi sapete qual chiarezza adoperammo nell'esporre al governo sardo le considerazioni le più opportune per aver«la sua opinione.

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Noi non ci siamo limitati a far vedersi

La sua risposta mi venne comunicata dal signor incaricato degli affari di Sardegna e venne rosa di pubblica ragione. Come voi l'avete veduto, il governo sardo dichiara di accettare le no stre proposizioni in ciò che lo riguarda; ma di fronte alla risoluzione dei governi dell'Italia centrale di provocare di nuovo l'espressione dei voti delle popolazioni circa l'annessione, si crede obbligato di lasciar libero corso a questo appello fatto al suffraggio universale aggiungendo di considerare come impossibile il non subordinare le sue determinazioni al risultato di questa prova.

Noi non abbiamo nascosto al gabinetto di Torino le osservazioni che questa comunicazione ci ha suggerito. Gli abbiamo dichiarato che la sua argomentazione non ci sembrava punto indebolire l'autorità né la giustizia della nostra, e che noi non potevamo modificare per nulla la nostra maniera di vedere ed il nostro atteggiamento. Di fatti nella nostra sincera convinzione, la combinazione emanata dal governo dell'Imperatore soddisfaceva ai diversi interessi che bisognava conciliare e noi crediamo che la Sardegna abbia agito con una previdenza veramente politica deferendo ai consigli dettati dal desiderio di fondare il nuovo ordine di cose in Italia sulle basi le più capaci di assicurarne la durata. Ciò che avviene ora nell'Italia centrale dimostra

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con evidenza come noi abbiamo il diritto di sperare che la moderazione delle nostre proposizioni sarà riconosciuta da tutti i gabinetti. Abbiamo

Che sarebbe d'altronde avvenuto se il governo dell'Imperatore non avesse presentate le sue proposizioni? Di due cose l'una: o noi ci saremmo astenuti od avremmo aderito alle proposizioni del governo inglese. In tutti due i casi non poteva essere dubbiosa un istante l'annessione di tutta l'Italia centrale, perché i governi dei ducati non avrebbero mancato di prevalersi della nostra astenzione come del nostro concorso. Nella nostra posizione in Italia, restando spettatori saremmo sembrati solidarii e per effetto di questa solidarietà ci saremmo trovati impegnati a proteggere, quali ch'essi fossero, i nuovi organamenti. d'altro canto aderendo alle proposizioni inglesi, avremmo dato da prima il nostro assenso al voto delle popolazioni: al contrario prendendo l'iniziativa d'una combinazione che ci è propria, abbiamo tolto ai Governi italiani, per quanto dipendeva da noi, i mezzi di autorizzarsi del nome della Francia per compiere l'annessione; abbiamo declinata la responsabilità dei loro atti; e la nostra posizione essenzialmente modificata in questo punto ci permetterà inoltre, davanti il successo di assestamento differente da quello che abbiamo proposto, di rivendicare la nostra intera libertà d'esame e di non più consultare che le nostre convenienze ed i nostri interessi come potenza europea.

THOUVENEL

Dispaccio Telegrafico

Il ministro degli affari esteri al signor barone Brenier a Napoli.

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Il Papa desidera difendere Roma colle truppe sue proprie, se il re di Napoli vuol tenere guarnigione ad Ancona e nelle Marche. Fate intendere al re tutti i vantaggi che a lui stesso ridonderebbero da tale combinazione.

THOUVENEL.

Dispaccio telegrafico

Il barone Brenier al signor ministro degli affari esteri.

Napoli 24 Marzo 1860

Il re declinò la proposizione che il signor De Martino gli sottomise, d'accordo col nostro ambasciatore a Roma, proposizione identica a quella che V. E. mi fece conoscere per dispaccio telegrafico in data d'ieri. I motivi del rifiuto sono: l'insufficienza del numero di truppe che si compongono per un quarto di reclute: la necessità di difendersi, prima di tutto, sulla frontiera e in Sicilia: il pericolo di andare di fronte alla rivoluzione invece di aspettarla in una forte posizione, e di non compromettere il Papa con un rifiuto, atteso che è certo che le truppe francesi non lasceranno Roma per abbandonare il Santo Padre alle imprese del partito piemontese. e finalmente il desiderio di non partecipare a repressioni che non interessano direttamente la sicurezza della dinastia. Nullameno tenni parola, secondo gli ordini vostri, col signor Caraffa, dei vantaggi della combinazione sotto il punto di vista napolitano: questo ministro mi affermò che il re era irremovibile nella sua risoluzione.

Firmato BRENIER.


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Il ministro degli affari esteri al signor barone Brenier a Napoli.

Parigi, 23 marzo 1860

Signor barone: ricevetti il dispaccio telegrafico che mi avete fatto l'onore di dirigermi in data di ieri, e spero che le pratiche delle quali dispiacemi di non avere potuto più presto darvene avviso, contribuiranno a ricondurre il governo napolitano alla prima opinione. Era assolutamente necessario, prima di far pratiche formali presso S. M. siciliana, di presentire le disposizioni della corte di Roma, e precise informazioni su questo proposito mi giunsero soltanto coll'ultimo corriere. Il signor cardinale Antonelli annunciò al signor duca di Gramont che la sicurezza della città di Roma e l'autorità del Papa si troverebbero completamente garantite dalle truppe pontificie, se, quando allontanate dalle Marche e dall'Umbria, venissero sostituite da truppe napolitano. Tuttavolta il segretario di Stato aggiunse che per un sentimento di riserva motivato dalle difficoltà delle circostanze, Sua Santità non credeva poter agire in un modo cosi pressante presso il re di Napoli.

Tocca adunque a voi, signor barone, procurare di dimostrare a S. M. siciliana che i suoi propri interessi lo consigliano ad accettare la missione di succederci nel carico che sostenemmo da undici anni a questa parte.

Considerazioni che non ho bisogno di sviluppare determinarono l'Imperatore a richiamare la sua armata dalla Lombardia. Lo sgombero di Roma sarebbe il compimento o piuttosto il corollario di questa misura. d'altronde avete compreso che, purché la presenza delle forze napolitane nelle Marche non divenga causa di conflitto, era necessario di ottenere dalla Sardegna l'assicurazione che non manifesterebbe la sua opposizione alla combinazione suggerita dalla Francia. Il re Vittorio Emanuele dichiarò spontaneamente che lungi dall'elevare obbiezione alcuna, faciliterebbe i progettati assestamenti, impegnandosi a fare tutto quello che da lui dipendeva per prevenire

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le turbolenze negli

In questa situazione, signor barone, mi sembra che S. M. siciliana non deve esitare sulla risoluzione che ha da prendere. Sforzatevi dunque a far intendere, sotto una forma amichevole e senza per nulla mascherare le nostre impressioni, i consigli che ci vengono dettati da un interesse sincero e dal vivo desiderio di vedere il regno di Napoli occupare nella penisola il rango che gli appartiene.

Firmato THOUVENEL.

Il ministro degli affari esteri al signor barone Brenier a Napoli.

Parigi 31 Marzo 1860

Signor barone, ricevetti fino al 20 di questo mese, e sotto il n° 24 la corrispondenza che mi avete fatto l'onore di dirigermi.

Il governo dell'Imperatore apprese con dispiacere, col mezzo del vostro dispaccio telegrafico del 28, che il re di Napoli, dopo una nuova deliberazione, insisteva nel suo rifiuto di mettere le truppe a disposizione del Papa. Questa risoluzione, dettata evidentemente a S. M. siciliana dal timore di assumere una missione al disopra delle sue forze e di andare in qualche guisa di fronte ad un conflitto, del quale teme le conseguenze, non ci sembrava fondata su un esatto apprezzamento della situazione generale d'Italia e dei doveri che ne risultano per i diversi governi della penisola.

Questo rifiuto del concorso del re di Napoli in favore di una causa che al postutto è quella dell'ordine e della tranquillità nel mezzogiorno d'Italia, e che a questo titolo lo tocca profondamente

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d'introdurre nel suo governo riforme che, nel mentre gli attiravano le simpatie delle popolazioni, avrebbero per effetto di permettergli di estendere al di là delle sue frontiere una utile ed onorevole influenza.

Checché ne sia, signor barone, dalle spiegazioni che mi sono trasmesse da Torino riguardo al linguaggio tenuto in queste circostanze dal sig. Villamarina, risulta che il governo sardo da principio, nel progetto di spedire truppe napoletane nelle Marche, aveva veduto il risultato di un accordo fra le due corti, di Roma, Napoli, e Vienna, e che gli aveva attribuito un'indole aggressiva. Ciò spiega perché il sig. Villamarina avesse difatti ricevuto l'ordine di protestare. In seguito le osservazioni che femmo presentare al gabinetto di Torino in favore della misura che da principio eccitò le sue apprensioni e le sue diffidenze, modificarono la sua maniera di vedere, e seppi ch'esso spedì al ministro di Sardegna a Napoli nuove istruzioni conformi alla nostra maniera di vedere, invitando il signor di Villamarina ad ottenere dal sig. Caraffa l'assicurazione verbale che l'intervento napoletano negli Stati Pontificii non nascondeva alcun pensiero d'aggressione. Dopo la risoluzione presa dal re di Napoli queste informazioni ebbero un interesse puramente retrospettivo, nullameno pensai che ricevendole le apprezzerete.

Firmato THOUVENEL.

Dispaccio telegrafico

Il duca di Gramont al signor ministro degli affari esteri.

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Roma 4 Aprile 1860

Sono incaricato dal Santo Padre a chiedervi se l'Imperatore pensi dover opporsi alla nomina del signor generale Lamoricière come generale dell'esercito romano.

Dispaccio telegrafico

Il ministro degli affari esteri al duca di Gramont a Roma.

Parigi 5 Aprile 860, ore 11 1/2 mattina

Sono autorizzato a farvi sapere che l'Imperatore non intende opporsi alla nomina del signor generale Lamoricière.

Il signor ministro degli affari esteri al signor marchese di Moustier a Vienna.

Parigi 7 Aprile 1860

Signor marchese: il governo dell'imperatore come ebbi l'onore di dirvelo parecchie volte, divide le preoccupazioni che cagionano al gabinetto di Vienna le difficoltà inerenti alla questione di Roma. Non credo sia d'uopo lusingarsi di trovare una buona soluzione a questo dubbioso problema, ma sarebbe già guadagnar molto se si scongiurassero per un certo periodo di tempo i pericoli che minacciano così evidentemente il potere temporale della Santa Sede. A questo scopo mi sono messo a ricercare i principii di una combinazione in armonia coll'insieme dell'atteggiamento che la Francia e l'Austria riconoscono utile di adottare riguardo all'Italia e di natura a conciliarsi con un interesse che egualmente desiderano di tutelare, quello del cattolicismo.

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Sarei dunque fortunato di sapere che le idee che mi vennero in mente e sottomisi all'approvazione dell'imperatore sembrarono al signor conte di Rechberg degne di un serio esame.

La corte di Roma, e voi lo sapete, adottò in massima parecchie riforme che essa giudicò conveniente di non pubblicare, onde non aver l'aria di cedere all'impero delle circostanze sin quando poté ragionevolmente supporre che le Romagne rientrerebbero sotto la sua autorità. Questa speranza è in oggi svanita, e benché la Santa Sede riservi i suoi diritti sulle porzioni dei suoi Stati, dei quali venne spodestata dagli avvenimenti, è chiaro che nessuno può sapere, se mai le sarà dato di rivendicarne l'esercizio. Sarebbe ad una volta illogico ed imprudente dal suo canto di persistere, per un sentimento di una dignità mal intesa, a privare più lungamente di quelle istituzioni, delle quali essa stessa riconobbe l'opportunità, le provincie rimaste sotto la sua diretta dominazione. Proporrei quindi, signor marchese che gli ambasciatori di Francia e d'Austria si mettessero d'accordo onde ottenere dal Santo Padre che non tardasse più oltre a far conoscere le modificazioni che devono essere introdotte nella amministrazione romana.

In seguito prendendo in considerazione i pesi straordinari che aggravano la Santa Sede e la diminuzione delle sue rendite, mi sembrerebbe naturale, che le potenze cattoliche, ciascheduna pro-rata delle sue popolazioni, offrissero al Papa una sovvenziono che esse inscriverebbero in testa del loro debito pubblico, i cui interessi venissero versati alle scadenze d'uso nelle mani del rappresentante della Santa Sede. Codesto omaggio del cattolicismo al suo capo, oltre l'effetto morale, produrrebbe al trono pontificio regolari ed invariabili risorse che lo libererebbero dalla necessità di ricorrere così spesso a prestiti onerosi. Saggio riforme da una parte, e dall'altra sussidi che non permetterebbero d'aumentare le imposte, ecco, sig. marchese, due garanzie proprie a

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Le forze delle quali la Santa Sede dispone, a condizione di essere meglio coordinate, basterebbero a mantenere la tranquillità nelle Marche e nell'Umbria.

Il governo dell'imperatore, senza tanto precipitare, giudica nullameno necessario, onde rendere la sua condotta conforme al programma che intende seguire negli affari d'Italia, che le sue truppe sgombrino Roma. Un'occupazione francese della capitale del cattolicismo ha, sotto certi punti di vista, un carattere politico. Sarebbe lo stesso di un'occupazione austriaca. Le altre potenze cattoliche al contrario potrebbero, se la Santa Sede desiderasse il loro concorso, contribuire alla guardia del Papa con un contingente, la cui cifra verrebbe specificata, e di cui la Francia e l'Austria, sulla domanda che lor venisse diretta, si riserverebbero il facilitare il trasporto per mare. Queste guarnigioni sarebbero tolte ad epoche fisse e rimpiazzate a libera scelta dal Santo Padre. d'altronde prima tra noi e la corte di Vienna, e verrebbe quindi firmata dalle altre potenze cattoliche con un rappresentante della Santa Sede, che determinerebbero i particolari dell'accomodamento.

Crederei superfluo, sig. marchese, sviluppare le idee che mi suggerì la combinazione che ora vi esposi: da se stesse si presenteranno a voi come al sig. conte di Rechberg, e quale esser ne debba l'accoglienza che ad esse faccia il ministro degli affari esteri di S. M. I. R. A. , non dubito punto che non vi trovi una prova del sincero desiderio del governo dell'imperatore di regolare mediante un' accordo col gabinetto di Vienna una questione che, abbandonata più lungamente a se stessa, trarrebbe seco complicazioni le più pericolose e le più inestricabili.

Firmato THOUVENEL.

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Il duca di Gramont al Signor ministro degli affari esteri.

Roma 7 aprile 1860

Signor ministro. Ricevetti il dispaccio che V. E. mi fece l'onore di scrivermi fino al 31 marzo sotto il numero 30.

Mi pervenne del pari il 6 di questo mese il dispaccio telegrafico che mi avete spedito per annunciarmi che l'Imperatore acconsentiva alla nomina del generale Lamoricière a comandante dell'esercito pontificio.

Il Santo Padre accettò i suoi servizii e lo nominò generale in capo.

Credo mio dovere, signor ministro, rendervi conto delle circostanze che hanno preceduta tal nomina. Come ve lo aveva già. scritto, il cardinale Segretario di Stato mi aveva dichiarato formalmente che il Papa non avrebbe preso a questo riguardo alcuna determinazione senza preventivamente chiedere il consenso di Sua Maestà. Mi assicurò egualmente che si era inteso col sig. Lamoricière, il quale, dal canto suo, doveva scrivere al ministro della guerra per regolare la sua posizione. d'altra parie una potente consorteria in Vaticano voleva attribuire a questa misura un carattere di diffidenza verso la Francia, e la nomina del generale Lamoricière fu firmata il martedì sera da Sua Santità, ed il mercoledì mattina il cardinale me ne diede contezza.

Constatai codesta violazione di promesse formalmente date e la mia penosa meraviglia di veder che la corte di Roma ne offriva il triste esempio.

Il cardinale andò tosto da S. S. e ne ebbe una risposta, la quale, benché soddisfacente sino ad un certo punto, non mi parve di natura tale da poter essere accettata senza modificazioni.

Il Santo Padre aveva riconosciuta la convenienza di chiedere l'assenso dell'Imperatore e mi pregava dirigervi su questo proposito un dispaccio telegrafico.

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Subito chiesi se la nomina del generale Lamoricière fosse stata preventivamente rivocata, e sulla risposta negativa del Segretario di Stato, mi rifiutai di trasmettere al mio governo la domanda di S. S., dichiarando che non trovava inconveniente di sollecitare l'assenso dell'Imperatore ad un atto già compiuto e per il quale il Papa avrebbe prima dovuto assicurarsi.

Malgrado le instanze del cardinale, insistei nel mio rifiuto e ad oro 7 di sera, soltanto quando cioè ebbi l'avviso ufficiale che la prima nomina era annullata, ho consentito a dirigere a V. E. il mio dispaccio telegrafico del 4 aprile.

Firmato THOUVENEL

Il ministro degli affari esteri al Signor duca di Gramont a Roma.

Parigi 8 aprile 1860

Signor duca. La corrispondenza che mi avete fatto l'onore di dirigermi giunsemi fino al 31 marzo sotto il N. 27.

Il rifiuto del governo di S. M. siciliana avendo sventata una combinazione che ci pareva potere assicurare la tranquillità negli Stati del Papa, dovemmo altrove cercare i mezzi per ottenere questo importante risultato. Il dispaccio che diriggo in oggi stesso all'ambasciatore di S. M. a Vienna, e di cui unisco la copia, vi farà conoscere le basi del sistema cui l'Imperatore volle approvare. Organizzazione di un corpo d'armata destinata a mantenere l'ordine di Roma, senza un intervento esclusivo sia francese sia austriaco; sussidio offerto al sovrano pontefice dalle potenze cattoliche; infine, promulgazione negli Stati Romani delle

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Per il momento non dovrete fare alcun uso di questa comunicazione presso il governo pontificio: ma pariemi utile di mettervi il più presto possibile in grado di apparecchiarvi a quelle pratiche, che forse potrò ordinarvi, quando mi sarà nota la risposta del governo austriaco.

Come ve l'annunciai col mio dispaccio telegrafico del 5 di questo mese, l'Imperatore acconsente che il generale Lamorìcière sia nominato generale in capo dell'esercito romano. Rispondendo cosi al desiderio che col vostro mezzo gli fece esprimere il Santo Padre, Sua Maestà volle dare una novella prova del suo costante volere di non recare alcun ostacolo alle misure che il governo pontificio crede dover prendere nell'interesse della sua sicurezza, d'altronde non siamo chiamati a giudicare sui vantaggi od inconvenienti di codesta nomina.

Firmato: THOUVENEL.

Il duca di Gramont al ministro degli affari esteri.

Roma 10 aprile 1860

Signor ministro. Io devo richiamare l'attenzione di Vostra eccellenza sopra una nuova situazione che va facendosi sempre più evidente a Roma, in maniera tale che non è possibile non addarsene.

Appena il sig. di Lamoricière entrò al servizio del Papa, si videro arrivare a Roma numerose deputazioni francesi che si presentarono in corpo e con pompa a Sua Santità, manifestando tutti gl'indizii dell'opposizione dinastica più aperta, e servendosi, ai piedi dello stesso trono pontificio, d'un linguaggio, la violenza del quale dava a conoscere un' estrema esaltazione.

Alcuni personaggi influenti incoraggiano queste manifestazioni con tutti i mezzi de quali possono disporre. Alcuni giorni fa, al Vaticano si notava una cert'aria di mistero; si fermavano i visitatori colla domanda.

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Siete voi Bretoni? e si spiegava ad essi che le sale del palazzo erano chiuse per il momento, essendo che il Santo Padre vi riceveva gli omaggi della Bretagna, che col mezzo di deputazioni veniva a protestare contro l'Imperatore.

Sabbato passato toccava la loro volta a quei di Lione. Un francese, il quale benché sia ardente cattolico, non ha stimato dover ripudiare i sentimenti imposti della sua nazionalità venne interpellato vivamente in questi termini:» Signore, prima di esser sudditi del proprio sovrano si è sudditi del papa: se voi non la pensate in questo modo, che cosa siete venuto a fare tra noi? .

Il cardinale segretario di Stato, lo spirito politico del quale ha inteso benissimo i pericoli derivanti da questo stato di cose, è ben lungi dal favorire questa imprudente agitazione.

Io non terminerò questa lettera, signor ministro, senza parlare ancora una volta dell'evacuazione degli Stati Pontificii da parte dell'esercito francese.

Come V. Ecc. può facilmente imaginare, tutto ciò che io veggo non fa che confermare la mia opinione sulla opportunità della partenza delle nostre truppe. Aggiungerò che questa risoluzione è, per così dire, ammessa da tutti come una conseguenza naturale della situazione: il sig. de Lamoricière, al quale se ne tenne parola, ha dichiarato essere perfettamente in grado di fare a meno della guarnigione francese, e non più tardi di ieri egli ripeté questa assicurazione in presenza di un membro del corpo diplomatico, il quale del resto la pensa nello stesso modo.

Aggradite ecc.

Firmato GRAMONT.

Il ministro degli affari esteri al signor duca di Gramont a Roma.

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Parigi 14 aprile 1860

Signor duca. Avrete veduto nel mio dispaccio dell'8 di questo mese con quali sentimenti di benevolenza per la corte di Roma, il governo dell'imperatore accolse il desiderio che gli fece esprimere il Santo Padre, col vostro mezzo, di chiamare il sig. generale Lamoricière al comando dell'esercito pontificio.

Entro oggi in una questione, che posta da lungo tempo nelle mani del governo dell'imperatore e quello di Sua Santità, ci pareva in qualche guisa risolta dalle presenti circostanze. Voglio parlar del richiamo del nostro corpo di osservazione:

Non devo far ritorno alle considerazioni di politica generale che ci fanno una specie di obbligo di non prolungare il soggiorno delle nostre truppe in Italia.

Mi basta ora constatare che la nostra presenza in Roma non è più imposta da quei motivi di necessità che soli erano di natura tale da poterla giustificare; diffatti, signor duca, l'esercito pontificio contando in oggi 17000 uomini ed andando di giorno in giorno più fortificandosi per nuove reclute, deve poter bastare ai bisogni della sicurezza interna degli Stati Pontificii. Non c' è neppur dubbio che questo esercito non trovi nella nuova organizzazione del suo comando in capo un elemento di forza morale, che gli faciliterà il compimento della sua missione.

In queste circostanze, sig. duca, le truppe francesi possono senza pericolo, essere da Roma richiamate, ed il governo di S. M. non può dal suo canto, che desiderare la prossima esecuzione di questa misura. Vi prego adunque di mettervi di accordo su questo proposito con S. Ém. il cardinale Antonelli, onde determinare l'epoca in cui potrà effettuarsi la partenza delle nostre truppe conciliandosi colle disposizioni che la Santa Sede avrà prese per assicurare il mantenimento dell'ordine e della pubblica tranquillità nei suoi Stati.

Firmato: THOUVENEL.

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Il duca di Gramont al sig. ministro degli affari esteri.

Roma 14 aprile 1860

Signor ministro. Ho ricevuto i dispacci che la Vostra Eccellenza mi fece l'onore di scrivermi fino al numero 33 ed al giorno 7 del corrente mese.

Avendo il Nuncio apostolico scritto al suo governo il risultato di una conversazione che egli ebbe con Vostra Eccellenza rispetto ad un sistema approvato da Sua Maestà per guarentire la tranquillità degli Stati Pontificii, e communicato al gabinetto di Vienna mediante il dispaccio del quale avete avuto la bontà d'inviarmi copia, quelle informazioni vennero tosto assoggettate all'esame della Santa Sede, e Sua Eminenza il cardinale Segretario di Stato ebbe da Sua Santità l'incarico di farmi conoscere essere impossibile accettare quella combinazione.

Non ho potuto in conseguenza, come Vostra Eccellenza ne manifestava desiderio, aspettare che voi mi aveste fatto conoscere la risposta del gabinetto di Vienna prima di proporre quell'accettazione del governo pontificio. Le ragioni alle quali si appoggia la Corte di Roma per fondarvi il suo rifiuto possono ridursi alle seguenti:

«La Santa Sede non acconsentirà ad alcun protocollo che contenesse una riserva relativa alla quistione delle Romagne. Ammettere una riserva in questo argomento le sembrerebbe equivalere ad una concessione al fatto compiuto. Se le potenze cattoliche si riuniscono per trattare degli affari della Santa Sede, la prima quistione della quale si devono occupare è quella delle Romagne. Allora quelle potenze, o acconsentono alla spogliazione, o la disapprovano. Nel primo caso, la Santa Sede non può prendere parte alle trattative.

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Nel secondo caso la Santa Sede non può ammettere che tutti gli Stati cattolici debbano tollerare in silenzio quel fatto e nascondano il loro malcontento per timore di far cosa non gradita alla Sardegna. Vogliano esse dichiarare apertamente la loro volontà e la loro risoluzione, e lo spogliatore restituirà alla vittima della sua usurpazione ciò che le ha rapito.

«La Santa Sede considera la quistione delle riforme come già risulta in massima, ma persiste a differire la pubblicazione di quelle alle quali essa ha consentito fino al giorno nel quale sarà rimessa al possesso delle provincie annesse alla Sardegna.

«Essa non accetterà mai una guarentigia per gli Stati rimasti sotto il suo dominio, perché agli occhi suoi sarebbe lo stesso come riconoscere una differenza tra questi Stati e quelli che le vennero rapiti. Sotto questo rapporto la risoluzione della Santa Sede è irremovibile.

«Il Papa ha già manifestato ciò che egli pensa sulla quistione dei sussidii, e non accetta il sistema di una rendita iscritta sul gran libro del debito pubblico delle potenze. Egli non potrebbe adattarsi se non ad una combinazione che avesse la forma di un compenso per gli antichi diritti canonici sui benefizìi vacanti, la quale in conseguenza potrebbe assai difficilmente conciliarsi colle istituzioni presenti della massima parte degli Stati che dovrebbero contribuire.

«Quanto ai soccorsi delle truppe che dovrebbero essere fornite dalle potenze cattoliche, che non siano la Francia e l'Austria, la Santa Sede preferirebbe che le fosse lasciato libero di reclutare da sé il proprio esercito, ed accetterà con maggior riconoscenza tutte le facilitazioni che i governi le accorderanno a questo scopo.»

Firmato. GRÀMONT.

Il ministro degli affari esteri ai rappresentanti dell'imperatore a Madrid, Napoli. Bruxelles Monaco e Lisbona.

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Parigi 19 aprile 1860

Signore, il governo dell'imperatore non cessò di essere preoccupato della situazione degli Stati Romani e di ciò che potrebbe fare onde prevenire le complicazioni ed i pericoli che minacciano di aggravarla. In questa previdenza indirizzai al signor duca di Gramont, a titolo confidenziale, un programma nel quale mi limitava a chiedere il suo consiglio riservandomi in seguito a modificarlo ed a prendere gli ordini dell'imperatore per conferire colle altre potenze cattoliche.

Dopo un abboccamento ch'ebbi col nuncio apostolico a Parigi sullo stesso argomento, l'ambasciatore di Sua Maestà a Roma si trovò condotto da suo canto a spiegarsi col cardinale Antonelli e comunicargli la progettata combinazione. L'accoglienza che venne fatta a questa comunicazione non corrispose a quello che potevamo ragionevolmente sperare dalla saggezza del governo pontificio.

Qui unito troverete, o signore, il progetto e le osservazioni che provocò per parte del segretario di Stato di Sua Santità. Ciò mi dispensa dall'entrare in ispiegazioni che d'altronde sarebbero superflue e noi non possiamo che deplorare le tendenze assolute che sembrano dominare in questo momento a Roma e rendono ogni discussione inopportuna.

Ma qual ch'essa sia l'inutilità del nostro tentativo, vogliamo che il governo di Sua Maestà ne sia informato, a non dubito punto ch'esso non apprezzi come deve esserlo, lo spirito di benevolenza dal quale venne ispirata la nostra misura.

Firmato. THOUVENEL

Il ministro degli affari esteri al sig. duca di Gramont a Roma.

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Parigi 21 aprile 1860

Signor duca, ricevetti il dispaccio del 14 di questo mese, col quale mi annunciaste che la corte di Roma non crederebbe poter aderire alla combinazione che fu oggetto della comunicazione da me direttavi il giorno 8.

Le disposizioni della Santa Sede sono talmente assolute ed essa si colloca in un punto di vista così differente dal nostro, che non sapremmo nutrire speranza di modificare le sue risoluzioni. Non possiamo che rammaricarci profondamente e rimetterci al tempo ed alle circostanze per ricondurre il governo pontificio ad appreziazioni più conformi a propri interessi. Tuttavia troviamo una compiacenza nel pensare che esso alla fine comprenderà da se stesso la necessità di non rifiutare ogni transazione e concessione, e per ora ci limitiamo a fare appello alla di lui saggezza.

Il governo di Sua Maestà ricevette con soddisfazione le informazioni contenute nel vostro ultimo rapporto sulle forze che compongono in questo momento l'esercito pontificio, e spera che esse sieno sufficienti ad assicurare per ogni verso la completa sicurezza degli Stati Pontificii dopo la partenza del nostro corpo di occupazione. Devo supporre che in queste circostanze avrete trovato il governo di S. S. disposto ad accordarsi con noi per istabilire il momento in cui possa effettuarsi la partenza delle nostre truppe.

Firmato: THOUVENEL

Il ministro degli affari esteri al signor marchese di Moustier a Vienna

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Parigi 22 aprile 1860

Signor marchese; il principe di Metternich venne incaricato di darmi comunicazione della risposta del gabinetto austriaco alle pratiche che io lo pregai sottomettergli. Come voi lo sapete, il '. ig conte di Rechberg vuol rendere piena giustizia ai sentimenti dai quali eravamo guidati nel fare un nuovo tentativo onde decidere la Santa Sede ad adottare risoluzioni che, secondo noi, possono di nuovo prevenire parecchi disappunti ed assicurare la tranquillità d'Italia. Tuttavolta egli non ci nasconde, che secondo l'opinione del gabinetto di Vienna, la combinazione da noi indicata incontrerebbe a Roma la più viva resistenza, e nell'esecuzione solleverebbe gravi difficoltà. Queste spiegazioni sono così franche, che noi non possiamo non apprezzarle ed anzi vi prego di ringraziarne il sig. conte di Rechberg. Se non siamo d'accordo su molti punti essenziali, ve ne sono taluni sui quali mi sembra che esser lo debbano i due governi, e mi lusingo che verrà momento in cui gli sforzi comuni realizzeranno il risultato che entrambi desiderano nell'interesse della chiesa cattolica e per il riposo d'Europa.

Le disposizioni nelle quali la corte di Roma crede dover perseverare, rendono prematuro per il momento quell'accordo che noi desideriamo concertare col gabinetto di Vienna ed allora sarebbe superfluo entrar oggi nell'esame delle considerazioni in votate dal sig. ministro degli affari esteri d'Austria per dimostrare la convenienza di modificare in qualcuna delle sue disposizioni il piano, del quale d'altronde mi era limitato ad indicare le basi.

Farò nullameno osservare, che la protesta notificata dalla corte di Roma a tutte le potenze contro l'annessione delle Romagne al Piemonte, ampiamente si riserva tutti i suoi diritti, e che in presenza di questa comunicazione, nessun governo potrebbe ragionevolmente conchiudere dalle istituzioni che verrebbero accordate alle altre provincie dello Stato della chiesa, che la Santa Sede rinunciò di rivendicare le Legazioni, d'altro canto il sig. conte di Rechberg sembra credere

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che i doni volontariamente offerti in questo momento alla Santa Sede potrebbero bastare ai suoi bisogni se fosse autorizzata ad organizzare in tutti gli Stati cattolici quelle dimostrazioni, delle quali essi doni sono un attestato. Io non posso essere di questo avviso. Le offerte gratuite ed individuali che la stessa corte pontificia non crede utile accettare senza riserva, sono dovute ad un movimento dell'opinione, di cui non disconosciamo né la sincerità né l'importanza; ma questo manifestazioni nate sotto l'influenza di circostanze eccezionali si indeboliranno col tempo e colla consolidazione della pace europea. In un certo limite si comprenderebbe tutto al più come queste risorse possono essere aggradite dalla chiesa nei paesi, i cui governi non hanno alcun legame religioso colla corte di Roma, ma negli stati cattolici deve appartenere al governo stesso il contribuire al mantenimento ed alla difesa della Santa Sede mediante una contribuzione proporzionata e periodica, che verrebbe così regolarmente imposta su tutti i fedeli.

Checché ne sia, signor marchese, confido che ci sarebbe facile accordarsi col gabinetto di Vienna, ma acquistammo la certezza che la corte di Roma è risoluta a respingere ogni proposi zione che giudicheremmo opportuno sottometter al suo giudizio. Diffatti avevo fatto presentire al nunzio apostolico le nostre vedute dando in pari tempo conoscenza all'ambasciatore di S, M. a Roma per sua sola informazione dal dispaccio che ebbi l'onore dirigervi sotto il n. 50. Reso istrutto delle nostre intenzioni da monsignor Sacconi. S. E. il cardinale segretario di Stato ne parlò al sig. duca di Gramont, il quale non poté astenersi dallo spiegarsi onde prevenire ogni erronea conghiettura.

Col mezzo del dispaccio che vi unisco in copia dell'ambasciatore di S. M. voi vedrete che il linguaggio del cardinale Antonelli non può lasciarci alcuna speranza di vincere, almeno per ora, le difficoltà che noi incontreremo a Roma, e che dobbiamo aspettarci che la Santa Sede si mostri animata dalle più concilianti disposizioni onde rinnovare presso di essa le nostre istanze.

Firmato THOUVENEL.

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il signor Barrot al signor ministro degli affari esteri,

Madrid 24 Aprile 1860

Signor ministro. M' affretto di accusare a V. E. ricevuta del dispaccio che mi fece l'onore di scrivermi il 19 aprile, sotto il n. 26. Secondo gli ordini vostri ne diedi ieri lettura al signor primo Segretario di Stato di S. M. cattolica.

Il signor Collantes non contesta la tenacità del Santo Padre, il quale, sin dal momento in cui venne ristabilito sul trono, dimenticò i fatti del 1848, la catastrofe rivoluzionaria che l'obbligò a fuggire da suoi Stati ed il soccorso provvidenziale che ve lo fece rientrare. Il governo pontificio aveva allora promesse riforme che in seguito dimenticò, quando credette essere passato il pericolo che le aveva provocate. La opportuna realizzazione di queste promesse (e le Romagna al certo, in quel tempo non chiedevano riforme radicali) avrebbe probabilmente bastato a rendere impossibili le complicazioni, che più tardi strapparono queste provincie alla Santa Sede. Mancandovi, il governo del Santo Padre irritò le popolazioni e rese necessaria l'occupazione del paese per parte di guarnigioni austriache, rendendosi così solidale dell'odio che eccitava in tutti i cuori italiani il dominio di questi soldati stranieri. Da quel momento era evidente che ia perdita delle Romagne era solo un affare di tempo e di circostante.

Il sig. primo Segretario di Stato aggiunse che la proposizione del governo dell'Imperatore di riunire una conferenza di potenze cattoliche allo scopo di consacrare colla firma d'un protocollo o di una convenzione i mezzi concertati e stabiliti da prima per risolvere la quistione romana, omettendo la discussione di quella delle Romagne, delle quali il governo pontificio nella sua protesta si riservò lo avvenire, egli crede che questa proposizione sia ispirata dalla sana e calma intelligenza dei veri interessi della Santa Sede e che offra la sola probabilità di salvare dalla rivoluzione, senza sacrificare assolutamente ciò che è di già perduto, le provincie che restano ancora sotto il dominio del Santo Padre e con esse forse il governo temporale del Papa.

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Ma il primo Segretario di Stato teme, che per quanto saggia e moderata sia codesta proposizione, il governo pontificio si ostini a respingerla.

Firmato: A. BARROT.

Il duca di Gramont al sig ministro degli affari esteri.

Roma 28 aprile 1860.

Signor Ministro. Ricevetti il dispaccio che V. E. mi fece T onore di scrivermi sino al 21 di questo mese.

Come vi scrissi coll'ultimo corriere, trovai il cardinale Segretario di Stato disposto ad intendersi con noi per fissare il mo mento, in cui potrà effettuarsi la partenza delle nostre truppe, e nutro fiducia di terminare quanto prima questo affare nel modo il più conveniente ai due governi. L'effettivo delle forze pontificie aumenta ogni giorno più: non iscorre settimana senza che sbarchino quattro o cinque centinaja d'uomini nuovamente arruolati e si aspettano quanto prima mille irlandesi che formeranno un battaglione separato.

Firmato: GRAMONT.

Il barone Brenier al signor ministro degli affari esteri.

Napoli, 28 aprile 1860.

Signor ministro. In conformità agli ordini vostri, diedi comunicazione al signor Caraffa del dispaccio di V. E. n. 26. Mi pregò signor ministro, di ringraziarvi particolarmente per questa comunicazione. Chiesi al signor Caraffa, nel caso in cui il governo pontificio continuasse a rifiutare l'accettazione delle proposizioni che gli vennero fatte relativamente al sussidio collettivo di

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tra i governi cattolici di secondo ordine, se il governo napolitano sarebbe disposto ad accedere ad un tale progetto.

Il signor Caraffa mi rispose che se il Papa aderiva al progetto, esso non dubitava che il Re non acconsentisse a cooperare per parte sua proporzionatamente alla difesa ed al sostegno della Santa Sede.

Il signor Caraffa ascoltò e studiò attentamente i diversi arti coli del progetto, non manifestando alcuna sorpresa pei rifiuti e pei motivi di rifiuto opposti dal cardinale Antonelli. Sorrise alla proposizione che ravviva indirettamente la pretesa della Santa Sede alla soppressione delle regalie e modificherebbe così l'antico diritto della monarchia francese relativamente all'assorbimento per parte dello Stato dei prodotti che risultano dai beneficii vacanti.

Vedendo, mi disse, l'inflessibile insistenza della Santa Sede a rivendicare privilegii prescritti da secoli e dai diritti delle corone, dobbiamo felicitarci tanto più d'avere ottenuto dal governo pontificio la soppressione del tributo della chinea, che teneva il regno di Napoli in una specie di vassallaggio morale rispetto alla Santa Sede.

Firmato: BRENIER.

ll signor conte di Comminges Guitand al signor ministro degli affari esteri.

Lisbona 14 maggio 1860.

Signor ministro. Ricevetti sino al numero 18 inclusivamente i dispacci che V. E. mi fece l'onore di dirigermi sotto il timbro della direzione politica.

Il nuovo ministro degli affari esteri, il signor Casal Ribeiro, al quale ho comunicato il progetto di un accordo che V. E. fece


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mi dichiarò che nella sua opinione le concessioni del governo dell'Imperatore non potevano essere più concilianti e che dappoiché sventuratamente il Papa le respingeva, ora non si può lasciar fare solo al tempo. Seppi quindi che il re Don Pedro aveva espresso un sentimento analogo a questo riguardo ed in termini ugualmente favorevoli alla politica seguita dal governo dell'Imperatore.

Firmato: DE COMMINGES GUITAND.

Il ministro degli affari esteri al sig. duca di Gramont ambasciatore di Francia a Roma.

Parigi 1 maggio 1860.

Signor duca. Posi sotto gli occhi dell'Imperatore la lettera particolare che voi avete voluto scrivermi in data del 24 aprile, e mi trovo in grado di farvi esattissimamente conoscere le intenzioni di S. M.

La prolungazione dell'occupazione nostra divenne senza oggetto stante l'aumento che ha ricevuto e riceve giornalmente l'esercito romano, colla migliore organizzazione che il sig. generale Lamoricière è capace di dargli. L'interesse della Santa Sede stabilisce agli occhi del mondo che si trova finalmente in istato di fare a meno di un appoggio straniero per mantenere l'ordine nei suoi dominii; è interesse della Francia di mettere un termine ad una situazione, la necessità della quale era la sola ragiono d'essere e di impedire che si attribuisca in un senso o nell'altro, al la presenza dei nostri soldati a Roma un carattere politico. Non tralasciate sforzo alcuno perché queste considerazioni siano comprese dal sig. cardinale Antonelli. Non gli direte nulla di nuovo, io suppongo, facendogli conoscere che il sig. generale Lamoricière crede che la sicurezza del Santo Padre non corra più rischio alcuno se noi ci ritirassimo e che si sente ben capace di garantir lo contro ogni pericolo interno.

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Noi dividiamo il convincimento

Il battaglione dei cacciatori a piedi abbandonerà Roma immediatamente.

Uno dei reggimenti di linea partirebbe ai primi giorni di giugno ed il secondo agli ultimi dello stesso mese. L'artiglieria il genio e lo stato maggiore generale se ne andrebbero pure allo stesso tempo e tutto a Civitavecchia sarebbe terminato al più tardi al 10 luglio.

La partenza successiva delle nostre truppe permetterebbe di sostituirvi di mano in mano soldati pontificii. Il governo romano in una parola avrebbe due mesi per prendere le sue disposizioni e T ordine pubblico non verrebbe per nulla compromesso.

Tali sono sig. duca, le basi sulle quali l'Imperatore v'invita a negoziare, senza perdita di tempo, rimettendosi a voi per le cure di conciliare l'esecuzione di una misura che non potreb be essere dilazionata, colle convenienze, dalle quali non vogliamo dipartirci riguardo alla Santa Sede.

Firmato THOUVENEL.

Il duca di Gramont al sig. ministro degli affari esteri.

Roma 12 maggio 1860

Signor ministro V. E. si compiacque informarmi, dapprima col mezzo del telegrafo, e successivamente colla sua lettera del 1 maggio, che nel mentre desidera accorciare il più che è possibile lo spazio di tempo ed affrettare la partenza dei nostri soldati, l'Imperatore voleva conciliare l'esecuzione di questa misura colle convenienze dalle quali il suo governo non vuole dipartirsi riguardo alla Santa Sede. E fu appunto sotto l'impero di queste due idee che incamminai e chiusi la trattativa.

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V. E. troverà qui annesse:

1. La nota che diressi al cardinale Segretario di Stato per constatare l'accordo che si era stabilito sul proposito dello sgombero e sottomettere all'approvazione del Santo Padre il piano di operazione sul quale eravamo convenuti;

2. La nota (tradotta), mediante la quale il cardinale mi annuncia il consenso di S. S. e riproduce il piano convenuto.

Firmato GRAMONT

Nota diretta a S. Em. il cardinale Segretario di Stato dal signor duca di Gramont.

Roma 11 maggio 1860

Nel mese di marzo 1859, una nota di V. Em. informava il sottoscritto che l'esercito pontificio essendo sul punto di toccare la cifra normale del suo effettivo, ed avvicinandosi quindi il momento in cui le truppe di Sua Santità sarebbero in numero sufficiente per mantenere l'ordine e la sicurezza negli Stati della Chiesa, il Santo Padre credeva poter proporre la fine dell'anno corrente come termine dell'occupazione di una parte del suo territorio delle forze ausiliarie di Sua Maestà l'Imperatore.

Qualche settimana più tardi, la guerra d'Italia e gli avvenimenti che si succedettero con rapidità resero più che mai vantaggioso il concorso dell'esercito di occupazione e S. M. L'imperatore, fedele al sentimento di cui diede sempre alla Santa Sede e testimonianza e assicurazioni, rinunciò tosto al richiamo dei suoi soldati, sospese la riduzione dell'effettivo che sarebbe stata ordinata in vista d'una prossima ritirata e prescrisse tutte le misuro necessarie perché la sicurezza del S. Padre e del territorio confidato alla guardia dell'armata francese sia al sicuro di ogni pericolo di ogni minaccia. Non tocca al sottoscritto di dire con qual figliale

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Codesti sentimenti che animano ed animeranno sempre il governo imperiale, provocarono più d'una volta per parte di S. S. attestati di soddisfazione e di benevolenza che la Francia intera accolse con piacere, ed il sottoscritto non esita a dichiarare, in nome di S. M. L'Imperatore, che il richiamo dell'esercito francese resta interamente subordinato al consenso di S. S. ed alle apprezzaioni del suo governo sulla opportunità della ritirata dei soldati ausiliarii. L'attività spiegata dal governo pontificio per contemplare la riorganizzazione delle sue forze, le nuove disposizioni che portarono l'effettivo del suo esercito ad una cifra più alta di quella toccata negli anni precedenti e ben al dissopra di quella che era avanti la guerra, la riorganizzazione dei corpi di truppe provinciali dette di riserva, tutte queste circostanze ed altre considerazioni che qui sarebbe superfluo enumerare, furono oggetto di un abboccamento di V. Em: col sottoscritto, nel quale riconobbero l'opportunità di posare, di comune accordo, le basi di un piano di sgombero graduale e progressivo, le cui prime operazioni venissero, senza inconvenienti, cominciate incessantemente.

V. Em. troverà qui unito un programma delle disposizioni che sono state convenute da una parte e dall'altra ed a voi sottomettendole nella speranza di vederlo approvato da S. S., il sottoscritto coglie codesta occasione per rinnovare a V. Em. le assicurazioni della sua altissima considerazione.

Firmato GRAMONT

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ORDINE DI MOVIMENTO

per lo sgombro del territorio pontificio per parte dell'esercito francese a" occupazione.

1. Partenza immediata del battaglione dei cacciatori a piedi per la Francia;

2. Nel corso di giugno partenza di uno dei reggimenti d'infanteria di linea per la Francia;

3. Nel mese di luglio e d'agosto partenza del rimanente dell'esercito per Civitavecchia, ed imbarco successivo per la Francia.

Stipulato li 11 maggio 1860.

Firmato GRAMONT

Nota diretta da S. Em. il cardinale ministro di Stato al signor duca di Gramont.

Dal vaticano 11 maggio 1860

I sentimenti di riconoscenza del Santo Padre per i servigi che resero e rendono tuttora le truppe francesi negli Stati Pontificii, vennero di già espressi nella nota destinata a stabilire il termine del loro utile e prezioso concorso, nota rammentata da V. E. nella sua comunicazione del 10 corrente relativa allo sgombro del territorio pontificio:

Se le circostanze prodotte dagli avvenimenti che così rapidamente si successero in seguito alla guerra d'Italia non permisero che le disposizioni qui sopra enunciate avessero il loro ef

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il sovrano Pontefice e verso la Santa Sede fu confermato dalla con dotta delle truppe francesi, le quali, in conformità agli ordini dell'Imperatore e sotto la direzione di distinti capi o valenti ufficiali, nulla omisero per adempiere fedelmente la loro importante missione; ed ogni elogio sarebbe inferiore ai titoli che acquistarono contribuendo dal canto loro a mantenere l'ordine e la tranquillità, principalmente nella capitale.

Egli è per questo che S. S. deve essere profondamente riconoscente ai sensi di benevolenza con cui l'augusto sovrano di V. E. volle affidargli la cura di combinare la partenza dell'esercito francese dagli Stati Pontificii; poiché il S. Padre riconosceva in ciò una prova ancor più evidente dell'interesse che S. M prende per l'augusto capo della Chiesa.

I soldati pontificii aumentarono diffatti in numero e quotidianamente si attende a completare l'organizzazione loro in guisa che essi possano bastare ai bisogni del servizio.

Nullameno, da un lato se si guarda lo scopo per cui il governo pontificio s'impone tanti sacrificii, cioè di assicurare l'ordine negli Stati della Chiesa; e se si considera dall'altro la mancanza di organizzazione di una parte delle truppe, malgrado l'attività che non si cessa di spiegare, non si deve però nascondere che l'esercito pontificio non è ancora in istato completo di compiere la sua missione.

Tuttavolta il sottoscritto, avendo sottoposto al Santo Padre le basi del progetto di ritirata delle truppe francesi, convenuta di comune accordo con V. E. , Sua Santità non vide alcuna difficoltà nell'associarsi alle vedute di S. M. L'imperatore, e crede che questo sgombero potrà aver luogo completamente e senza inconvenienti, facendolo in un modo successivo e graduale, conforme al programma stabilito da una parte e dall'altra.

Il sottoscritto, cardinale Segretario di Stato, dopo questa comunicazione, ha l'onore di rinnovare a V. E. le assicurazioni della più distinta sua considerazione.

Firmato G. CARDlNALE ANTONELLI

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Segue il regolamento per lo sgombero dell'armata francese interamente conformo a quello più sopra riportato.

19 maggio 1860

Signor duca. Ricevetti col vostro ultimo dispaccio copia delle note scambiate tra voi ed il cardinale Antonelli, per regolare lo sgombero delle nostre truppe. Le disposizioni che voi avete in tal guisa stipulate, d'accordo col Segretario di Stato di S. S., sono interamente conformi alle intenzioni dell'Imperatore, a cui mi soro affrettato darne conoscenza ed il quale si compiacque esprimere la sua soddisfazione.

Secondo i termini di questo accomodamento, il battaglione di cacciatori avrebbe dovuto lasciare Roma immediatamente; ma S. M. avendo riguardo alle complicazioni che i tentativi dei volontari potrebbero far temere dal lato della frontiera toscana, decise che la partenza di questo battaglione sia sino a nuovo ordine sospesa. Voi non avrete mancato di istruire il sig. general Govon in conformità al mio dispaccio telegrafico del 16, e non posso dubitare che la corte di Roma non abbia veduto in questa dilazione una nuova prova delle nostre benevole disposizioni a suo riguardo.

Il mio messaggio telegrafico del 17 vi avrà permesso di dissipare i timori che si nutrivano a Roma sul proposito di due nuo ve partenze di volontarj, che si supponeva doversi effettuare a Genova ed a Livorno. Come avrete veduto, risulta dalla risposta del sig di Talleyrand (il quale era stato da me incaricato a fare qual che rimostranza presso il sig. Cavour) che il governo sardo prese certe misure onde impedire questi due conati. Quanto alla voce di una spedizione che sarebbe stata diretta sopra Viterbo, sembra che non sia fondata; un dispaccio telegrafico del sig. Cavour al ministro di Sardegna a Parigi assicura essere falso, che alcuni militari per mare e per terra sieno entrati negli Stati Romani.

Firmato. THOUVENEL.

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Il ministro degli affari esteri al signor duca di Gramont a Roma:

Parigi 8 agosto 1860.

Signor duca, il nuncio venne a chiedermi, in nome del gabinetto pontificio, se le truppe francesi sieno sempre incaricate a mantenere l'ordine e la tranquillità in Roma, e se S. S. possa continuar a risiedere sicuro nella sua capitale, colla sua corte e col suo governo. Non nascosi a Mons. Sacconi la sorpresa che mi cagionò cosi strana domanda, richiamandogli le assicurazioni, da me dategli, in differenti circostanze, non che quelle che siete stato autorizzato a reiterare alla Santa Sede, gli dissi che io non sapeva dare una spiegazione ai motivi della questione che mi faceva; gli risposi che dacché credette obbligo suo di farmi questa domanda, io stimava dovere dal canto mio ricevere gli ordini dall'Imperatore. In un posteriore abboccamento gli dichiarai, coll'assenso di S. M. , che per quanto lungo tempo il Papa restasse a Roma, le truppe francesi vi farebbero rispettare l'autorità del Santo Padre e veglierebbero la di lui sicurezza.

Firmato: THOUVENEL

Il ministro degli affari esteri al signor duca di Gramont, ambasciatore di Francia a Roma.

231

Parigi 24 settembre 1860

Signor duca. Posi sotto gli occhi dell'Imperatore i dispacci che mi avete fatto l'onore di scrivermi sotto i num. 81 e 82. Il richiamo del sig. di Talleyrand testificò altamente la viva disapprovazione che ispira a S. M. L'aggressione diretta contro gli Stati Ramani. Il governo sardo ha così compreso il vero senso di codesta misura, che esso stesso richiamò il suo ministro da Parigi.

Ciò posto, signor duca; che cosa dobbiamo e possiamo fare?

Restando a Roma per proteggere il Papa e tutelare l'autorità sua, noi siamo in quella via che ci siamo tracciata oche l'Europa accettò da dieci anni. Intervenendo militarmente nelle Marche e nell'Umbria, ci sarebbe impossibile di non toccare tutte le questioni vitali che si agitano in Italia ed assumeremmo obblighi che più non deriverebbero dal nostro interesse soltanto perla causa del Santo Padre. Noi saremmo trascinati, dalla forza delle cose, a prendere, di fronte all'intera penisola, una posizione simile a quella, cui rimproverammo all'Austria di avere prima della guerra. L'Imperatore darebbe così una formale smentita alla sua politica e ne nascerebbero serie complicazioni nei nostri rapporti colle altre potenze.

Già ci affrettiamo di aumentare il nostro corpo d'occupazione; se fa d'uopo lo rinforzeremo ancora più, onde metterlo in grado di compiere, in ogni caso, la missione che gli venne affidata. Il Papa può adunque aspettare a Roma, pienamente sicuro e libero, l'esito di una crisi, che arreca lo stesso dolore tanto all'Imperatore che a sua Santità. Oltre le stipulazioni di Villafranca e di Zurigo, Sua Maestà non prese altro impegno, ed in un congresso esso potrà dare una prova novella delle sue buone disposizioni per la Santa Sede. Se nulla ostante codeste assicurazioni, il Papa abbandona Roma, esso ci sforza a ritirarci con lui e rendendo per l'avvenire più difficile lo scioglimento, apparecchia esso stesso ai suoi nemici un immediato trionfo.

232

Vi lascio incarico, sig. duca, di svolgere tali assicurazioni al cardinale Antonelli. S. Em. non potrebbe farsi illusione, sotto il punto di vista religioso e politico, della grave responsabilità che incombe ai consiglieri del Santo Padre.

Firmato THOUVENEL

Il ministro degli affari esteri al Sig. duca di. Gramont a Roma.

Parigi 26 settembre 1860.

Vogliate far rimettere il seguente dispaccio del ministro della guerra al sig. generale de Govon.

«L'Imperatore decise di spedire a Roma una seconda divisione formata d'un battaglione di cacciatori di quattro reggimenti d'infanteria, d'una batteria d'artiglieria e di due squadroni di cavalleria.

«Fra poco questo truppe verranno imbarcate a Tolone.

«Con queste forze potrete, in conformità alle istruzioni vostre, assicurare la difesa di Civitavecchia, il mantenimento delle vostre comunicazioni e l'inviolabilità del circondario di Roma.

«Firmato: RANDON.

Il ministro degli affari esteri al duca di Gramont a Roma.

Parigi 28 Settembre 1860.

Signor duca. Io ebbi l'onore di annunciarvi col mezzo del telegrafo che l'Imperatore aveva deciso che il nostro corpo di

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S. M. ha voluto che il generale Govon si trovasse in grado di far fronte alle esigenze più stringenti della situazione, vale a dire potesse mantenere il Santo Padre nella sua capitale e potesse preservare noi stessi da qualunque sorpresa. Le forze delle quali egli dispone, gli permetteranno quind'innanzi di occupare nei contorni di Roma tutti i punti che egli crederà possibile di difendere, e le istruzioni lo autorizzano a reclamare dalle autorità militari sarde la evacuazione delle posizioni che egli stimasse conveniente confidare alla guardia delle nostre truppe. In questo modo saranno assicurate le nostre comunicazioni con Civitavecchia, e per quanto è possibile non saranno intercettate le vie che sono necessarie a render più facile l'approvigionamento della città di Roma; in una parola noi porremo un termine alla specie di blocco di cui parlano gli ultimi vostri dispacci, blocco che sarebbe incompatibile sia collo scopo della nostra missione, sia cella nostra dignità.

Noi desideriamo dunque più ardentemente che mai, il Santo Padre, malgrado i suggerimenti che possono essergli dati, rimanga nella sua capitale dove noi sapremo in tutti i casi difendere la sua autorità, estendendo la nostra azione tanto lunge dalla città quanto potranno permetterlo le condizioni militari, alle quali essa è naturalmente subordinata. In nessun altro luogo il capo della cattolicità potrebbe aspettare con maggior dignità la fine della crisi che affligge tutti i fedeli. L'uso della forza non servirebbe in oggi ad altro che a far maggiore la confusione. Un intervento negli Stati Romani, come già l'ho detto, condurrebbe necessariamente ad altri interventi altrove, esso avrebbe per conseguenza occupazioni prolungate dappertutto; e la saggezza impone ai gabinetti di non immischiarsi in modo attivo negli affari della penisola, se non quando l'Italia, stanca dalle sue agitazioni, riconoscerà il bisogno di ricorrere all'arbitrato dell'Europa. Voglio sperare che queste considerazioni non saranno senza valore agli occhi del cardinale Antonelli; ma sono sicuro di non ingannarmi affermando che le grandi potenze, giudicando severamente la condotta della Sardegna,

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intendono d'altro canto come noi il pericolo di risoluzioni premature,

Firmato: THOUVENEL.

Il ministro degli affari esteri al duca di Gramont a Roma.

Parigi 6 Ottobre 1860.

Signor duca. Voi conoscete il dispaccio telegrafico che io ho inviato, ai 27 dello scorso mese, al sig. de Rayneval, per avvertire il governo sardo delle facoltà dato al generale di Govon di occupare tutte le posizioni che egli stimasse opportune e nel patrimonio di San Pietro e nella Campagna di Roma, e per impegnare quel governo a dar ordine affinché le truppe sarde abbiano ad evacuare il territorio posto sotto la salvaguardia della bandiera francese.

Avendoci il gabinetto di Torino chiesto che gli fosse indicata in modo preciso la estensione del territorio che noi ci riserviamo di occupare, gli ho fatto rispondere che questi territorii comprendevano al nord le delegazioni di Civitavecchia e di Viterbo, al sud la delegazione di Velletri ed all'est i contorni di Roma fino a Civita-Castellana.

Ho aggiunto che il generale de Govon era autorizzato ad occupare, sia temporaneamente, sia permanentemente, tutti i punti che egli stimasse conveniente; che in conseguenza toccava al governo sardo di dare istruzioni al generale Fanti onde evitare conflitti.

Firmato: THOUVENEL

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II.

DOCUMENTI INGLESI.

La corrispondenza diplomatica inglese sugli affari d'Italia, presentata da lord John Russell al parlamento inglese il giorno della riapertura, contiene dispacci della più alta importanza. Alcuni di essi soprattutto gettano una nuova luce sugli avvenimenti della Sicilia e del regno di Napoli, e rivelano chiaramente l'azione diversa della Francia e dell'Inghilterra a loro riguardo. Noi cominciamo la pubblicazione di quella interessante corrispondenza giovandoci della esatta ed abbastanza estesa analisi che stampa nelle sue colonne la Perseveranza.

Un buon numero di questi documenti risguardano la spedizione di Garibaldi in Sicilia. Da principio la Inghilterra si manifestò contraria ad ogni impresa, che potesse essere cagione di guerra, sia di Garibaldi in Sicilia, sia della Sardegna contro la Venezia: il 22 di maggio, quindici giorni dopo che la spedizione di Garibaldi era salpata da Genova alla volta di Marsala, lord John Russell scrisse a sir James Hudson, richiedendolo d'avere dal conte Cavour la promessa di non assalire il regno delle Duo Sicilie, e soggiungendo che

«finché le forze del Papa non avessero invaso l'Emilia e la Toscana, la Sardegna era tenuta a ser

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Questo timore è manifestato nel suddetto dispaccio, ove si domanda apertamente al conte Cavour di dare promessa certa di non cedere alcuna parte di territorio, oltre quello trasmesso col trattato di Torino. In quello stesso mese lord John Russell procacciò eziandio d'avere dal governo del conte Cavour la promessa di non muover guerra contro l'Austria.

Il dispaccio in cui si fa questa domanda è in data del 26 maggio, cioè a dire tre mesi prima del famoso dispaccio di lord John Russell pubblicato dalla

Gazzetta di Colonia. Il desiderio dell'Inghilterra di mantenere la pace d'Europa è la ragione addotta per tale ingerimento in queste materie.

Tale fu a quel tempo la condotta del governo inglese, il quale anche dopo i successi di Garibaldi in Sicilia,

in un dispaccio del 25 luglio diretto da lord John Russell a sir James Hudson manifestò la convinzione che l'Italia sarebbe più forte con due principi anzi che con uno solo,

e raccomandò al ministro di ricordare al governo sardo l'obbligo assunto di non sostenere spedizioni rivolte ad abbattere il trono napoletano.

Ma in tutta questa corrispondenza è costantemente raccomandato il principio di lasciare ai popoli il libero arbitrio sulla loro sorte; il governo inglese si mostra anzi risoluto di respingere ogni proposta che le venga fatta, o di azione diretta, o d'uso della forza per costringere i popoli. É d'altra parte la Francia che, sgomentata dai successi di Garibaldi in Sicilia, crede conveniente d'invitare l'Inghilterra ad intervenire. Il 25 di luglio il sig. Thouvenel significa con suo dispaccio al governo inglese che gli avvenimenti siciliani ispirano al suo governo i più vivi timori.

Garibaldi padrone della Sicilia, è per approdare sul continente, già lo sgomento domina a Napoli, già la Corte medita rinserrarsi entro Gaeta.

Vorrà la Francia, vorrà l'Inghilterra, domanda il sig. Thouvenel, rimanersi inoperosa senza far nulla per indirizzare il corso degli avvenimenti che minacciano sovvertire l'ordine europeo

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Patiranno esse che sia fatto oltraggio al re Francesco II in momento che si sperimenta il regime costituzionale a cui egli si è lealmente sottomesso?

La risposta che fa l'Inghilterra a queste domando rilevantissime è la seguente: «Il governo della regina è di parere che niente sia avvenuto che consigli dipartirsi dal principio generale del non intervento.

Le forze di Garibaldi non sono sufficienti a rovesciare la monarchia napolitana.

Se l'esercito, se la marina, se il popolo di Napoli sono collegati al re, Garibaldi sarà sconfitto;

nel caso contrario i popoli lo accoglieranno volenterosamente; nell'uno e nell'altro caso, la nostra intervenzione sarebbe un atto estraneo negli affari interni del regno. Se la Francia e l'Inghilterra contrastassero a viva forza l'impresa di Garibaldi sorgerebbe una controrivoluzione, e noi saremmo responsabili dei mali che ne seguirebbero.

Se la Francia decidesse d'intervenire, noi disapproveremo la sua determinazione e protesteremo contro.

I Napolitani debbono, a nostro parere, esser lasciati liberi o di respingere, o d'accogliere Garibaldi.»

La differenza d'opinioni fra l'Inghilterra e la Francia intorno a questo punto è ancor meglio dimostrata da una conversazione fra lord Cowley e il sig. Thouvenel. Il sig. Thouvenel nota che il governo della regina dà a divedere che non considera la spedizione di Garibaldi nei dominii napolitani come atto d'intervenzione straniera.

Egli, dal canto suo, dubita se l'occupazione fatta dalla Sardegna di altri Stati italiani non sia da considerarsi come intervenzione straniera.

Quando il governo francese accettò il principio che non vi dovesse essere alcun ingerimento straniero in Italia, aveva soltanto inteso che ciascuno Stato potesse ordinare i proprii affari entro i suoi stessi limiti; ma la quistione diviene al tutto trasformata poi che i confini stessi non sono rispettati, e poiché l'unità d'Italia è chiaramente invocata, Lord Cowley osserva che il sig. Thouvenel non ha annunciato questa sua dottrina che di recente. Egli aveva veduto i ducati e la Romagna aggregati alla Sardegna senza contrastare il

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Il sig. Thouvenel risponde, che la Francia né aveva approvato né riconosciuto l'aggregamento della Toscana alla Corona Sarda;

poi seguita argomentando che i due casi posti da lord Cowley sono ben diversi; i sovrani avendo nel primo caso abbandonato i loro Stati.

E così pure ha fatto il re di Napoli, soggiunge l'ambasciatore inglese;

così ha fatto virtualmente; né v'è pur l'ombra di differenza tra il caso di Napoli e quello delle legazioni e delle Marche.

Un altro dispaccio del sig. Elliot, ministro inglese a Napoli narra un colloquio tenuto fra lo stesso sig. Elliot, ammiraglio Mundy e Garibaldi.

Questi vivamente respinge il consiglio che gli altri gli offrono di non assalir la Venezia, coni' essi erano stati invitati a fare dal loro governo.

«Il generale Garibaldi, dice il sig. Elliot, intende spingersi subito fino a Roma, e quando sarà padrone di quella città, offrirà la Corona d'Italia al re Vittorio Emanuele, il quale allora compirà la indipendenza italiana colla liberazione della Venezia,

ed egli (Garibaldi) non sarà in tale impresa che il luogotenente del re.

Se questa liberazione può conseguirsi per via di compera o di negoziati, tanto meglio; ma se l'Austria non vorrà cedere quella provincia italiana, converrà strappargliela di mano colla spada. Egli confida che il re non vorrà, nel fervore presente del popolo italiano, rifiutarsi a quest'impresa, senza pericolo di perdere la sua posizione e la sua popolarità.

«Garibaldi soggiunse esser egli sicuro che Vostra Signoria, nel consigliare l'abbandono della Venezia, non rappresenta i sensi generosi che agitano i petti degl'Inglesi verso la nazione ita

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«Io dissi che non era per difetto di simpatia che Vostra Signoria raccomanda che la Venezia non sia investita: ma, al contrario, perché Ella crede che tale fatto potrebbe riuscire assai pernicioso all'Italia. Io gli ho ricordato che in una guerra precedente quando, dopo una gloriosa campagna che le aveva dato il Regno di Lombardia, la Sardegna osò, contro il consiglio disinteressato de' suoi amici, combattere di nuovo, il risultato fu la perdita di tutte lo conquiste e il ribadimento delle catene Italiane dalla parte dell'Austria. Gli ho anche detto che non s'illuda sui sensi del popolo inglese; perché, sebbene ora la nazione sia tutta quasi come un sol uomo in suo favore; pure essa cambierebbe rapidamente se vedesse ch'egli spinge le cose fino a trascinare l'Europa in conflitto generale.

«Egli rispose non credere che l'assalto della Venezia possa avere tristi risultati;

che l'Impero d'Austria è in via di dissoluzione, è sul punto di farsi a brani;

ch'egli ha molti Ungheresi intorno a sé, e per mezzo loro egli sa che l'Ungheria è pronta a levarsi al primo cenno;

che l'Austria non può far più assegnamento pure sopra i Croati.

L'Austria, diss'egli, quest'antica alleata dell'Inghilterra si disfa, e la Gran Bretagna troverà un'altra alleata fedele a lei devota, tanto per nodi di simpatia che d'interesse.»

Lo stesso sig Elliot, in un memorandum scritto in agosto mostra che è per ogni riguardo, ma soprattutto per la libertà d'Italia e per la generale tranquillità d'Europa, desiderevole che il re di Sardegna, vincendo le opposizioni e gli ostacoli che gli si leveranno naturalmente contro, stabilisca senza indugio la sua autorità a Napoli.

Ma il disinteresse, degno più degli antichi che de' nostri tempi, del generale Garibaldi nel governo di Napoli é gloriosamente magnificato in una breve nota del suddetto sig. Elliot in data del 9 novembre. Egli dice che Garibaldi è partito, portando seco il rispetto pur di coloro che lo avevano indicato e di coloro che lo avevano avversato nella sua impresa.

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«Dopo parecchi mesi di assoluta dittatura da lui esercitata, dice il signor Elliot, sulla Sicilia e su Napoli, egli è stato costretto prendere a prestito poche lire per soddisfare alcuni suoi piccoli debiti; ha rifiutato ogni sorta d'onori o ricompense dal suo Sovrano; è tornato nella sua isola, ove vive poco meglio che un contadino comune. Ma prevale qui la credenza ch'egli non abbia ricevuto da Vittorio Emanuele tutti quei riguardi sui quali aveva tanti titoli; questo fatto sembra aver provocato l'indignazione di alcuni ordini del popolo napoletano. Io però so che il re ha manifestato i suoi sensi e la sua riconoscenza per i servigi da lui resi con parole le più nobili e cortesi: il re desiderava pure conferirgli i più alti onori che la corona possa dare. Ma non si può perdonare ai ministri ed al governo una certa mancanza di generosità e di riguardi verso questo uomo; e certo è egli che, dopo presentato due regni al suo sovrano, egli ha avuto gli ultimi giorni della sua dimora a Napoli amareggiati dalla ingratitudine o dalla trascuranza.

Un dispaccio del 21 settembre al signor Fane a Vienna fa conoscere sotto quale aspetto l'occupazione dell'Umbria e delle Marche fosse riguardata dal governo inglese, poi che fu essa compiuta. Lord John Russell scrive in proposito:

«Nel corso della nostra conversazione tenuta oggi, il conte Vimpffen mi ha letto una nota circolare del conte Rechberg che condanna l'invasione degli Stati Romani dalla parte dell'esercito sardo nei termini i più severi. Io gli ho detto che riguardavo quest'atto in modo affatto diverso dal conte di Rechberg. Non sono entrato a discutere la giustizia dell'assunto di Vittorio Emanuele nel proclamarsi capo e campione d'Italia. Ma ho detto ch'egli è, a mio parere, costretto dalla necessità a non lasciare i frammenti del regno d'Italia in balia dei seguaci di Garibaldi o dei soldati stranieri del Papa. È debito del re indirizzare e comandare il movimento, vincere colla forza l'anarchia, e sostituire un governo ordinato in luogo dell'oppressione che soffoca, e in luogo dell'insurrezione che tiene convulse le provincie italiane. L'ultima speranza d'Italia sta nel successo di Vittorio Emanuele.»

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Un dispaccio di lord John Russell, scritto a Coburgo men

Questo tempo di tregua dovrebb'essere messo a partito dall'Austria per riconsiderare tutto il suo sistema riguardo alle cose d'Italia. Il governo austriaco ha fino ad ora creduto potere schifare la verità nascondendola, o soffocandola colla forza delle armi. Ora dovrebbe riguardare arditamente nel viso alla situazione. Se così farà, esso si avvedrà che un trattato è agevolmente mantenuto se è raffermato dal sentimento e dall'opinione nazionale; ma se manca di questa sanzione è come albero corrotto che non ha da attendere che un soffio di vento per crollare. Così il trattato del 1815 che assicura l'indipendenza della Svizzera è raffermato dall'attaccamento del popolo svizzero alla sua libertà ed all'integrità del suo territorio. In pari modo, il trattato del 1831, a riguardo del Belgio, è avvalorato dall'attaccamento del popolo belgio alla sua nazionalità, al suo re, alle sue istituzioni.

E forse disaggradevole agli uomini di Stato austriaci notare il contrasto fra i suddetti fatti e lo Stato d'Italia, ma la lezione può essere ancora utile. L'autorità del Papa, quella del Granduca di Toscana, quella del re di Napoli, non avendo radice alcuna nel cuore dei loro soggetti, è caduta al primo urto della procella. E anche utile pel governo austriaco considerare lo stato presente della città di Genova e di Venezia. Nel 1815 una di esse fu data alla Sardegna, l'altra all'Austria; ma, mentre che l'aggregamento di Venezia non suscitò a quel tempo grande opposizione sia interiore, sia esteriore, quello di Genova fu fieramente contrastato. L'antica indipendenza della repubblica genovese, i principii del diritto pubblico, l'antipatia fra Genovesi e Piemontesi furono tutte cose invocate, così nella Liguria come nel Parlamento inglese,

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per combattere siffatta unione. Ma, dopo 45 anni, che cosa vediamo noi che avviene? Il dominio dell'Austria nella Venezia è precario ed impopolare; l'unione di Genova a Torino é cementata, e rassodata indissolubilmente. Se noi ricerchiamo le ragioni di questi fatti istruttivi, noi troveremo che, mentre il governo austriaco ha fatto tutto per opprimere, irritare umiliare il sentimento nazionale; il governo piemontese ha posto tutto in opera per accarezzarlo, per lusingarlo, per esaltarlo.

Ma lord John Russell non si contenta di dettare lezioni al buon governo e di moralità all'Austria; egli facendosi campione dell'Indipendenza e della libertà dei popoli, combatte apertamente il concetto manifestato in Francia nel noto

opuscolo «Francesco Giuseppe e l'Europa»

di costituire un congresso permanente europeo per trattare e decidere tutte le grandi controversie. In un dispaccio indirizzato a lord Cowley, dopo avere notato che gli opuscoli sono divenuti al presente avvenimenti storici egli dice:

Verso la fine dell'opuscolo si suggerisce un concetto che fu già l'anno scorso parzialmente accennato riguardo all'Italia. Il concetto è che una sorta di nuova santa alleanza sia costituita; che un Areopago europeo decida tutte le grandi controversie; che tutti gli ordini dei cittadini abbiano il beneficio di questa assemblea sapiente e benevola. - Non è malagevole scoprire, sotto al velo benevolo delle frasi usate dal libercolista, la proposta d'un antico nemico dell'indipendenza dei popoli. Un consiglio che si assumesse la pretensione di rappresentare tutte le nazioni, di trattare tutti gli interessi, diverrebbe bentosto il centro d'ogni intrigo, e l'organo della potenza la meno scrupolosa e la più audace. I suoi decreti sarebbero volti contro tutte le istituzioni diverse dalle sue, e contro la libertà pur del pensiero; le antiche salvaguardie dell'ordine e della libertà sarebbero denunziate come barbare e feudali; la manifestazione dei concetti individuali sarebbe condannata come pervertitrice dell'ordine e della tranquillità generale. Per buona ventura dell'Europa le tendenze dell'anno che corre sono a ciò contrarie.

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Nella Svizzera, nel Belgio, nella Prussia, nella Spagna l'attaccamento ai proprii confini si è potentemente manifestato. In

Voi conoscete troppo bene la storia d'Europa ma mi piace di potervi ripetere che la indipendenza nazionale degli Stati è stata per tre secoli eccetto forse il tempo di Carlo II e di Giacomo II il gran che della politica della Gran Bretagna. Le nazionalità dell'Olanda, del Portogallo, della Spagna, della Germania, della Grecia e del Belgio, furono in tempi diversi difese e protette dall'Inghilterra, talvolta pur colle armi. Da questa indipendenza dell'Europa è scaturita l'immunità dalle conquiste straniere e l'affezione alle proprie istituzioni, la coltura della propria lingua e letteratura presso ciascuna nazione; da essa è derivata quella generale sicurtà che ha tanto conferito alla ricchezza, al sapere, alla libertà dei popoli. Sarebbe grande sventura scambiare questo metodo per un autorità centrale. Credere che per tal guisa si schiverebbero le contese interne è grave errore. Gli Stati deboli cadrebbero innanzi ai forti, insieme collegati; e sotto i nomi di Svizzera, Spagna, Italia, Olanda e Belgio, signorerebbero due o più grandi potenze.»

Lord John Russell manifesta in altro dispaccio il suo pensiero sulla natura diversa delle rivoluzioni e sui loro effetti diversi. Egli dice:

Desidero protestare contro l'uso indiscriminato delle parole rivoluzione e rivoluzionari.

Una rivoluzione può essere la più grande delle calamità; può essere il più grande dei beni. In Inghilterra le frasi: rivoluzione, dal tempo della rivoluzione, il governo che ha prevalso dalla rivoluzione in qua, indicano il cambiamento sopravvenuto fra le servitù verso la Francia, fra la tirannia arbitraria degli Stuardi pensionati e l'indipendenza nazionale e il dominio della legge e della libertà, il quale ebbe principio da Guglielmo III e dalla Casa d'Annover.

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In Francia la parola rivoluzione è comunemente applicata all'anarchia democratica o alla Convenzione giacobina.

1 partiti oppressori del continente hanno il vezzo d'usare

Nel seguente dispaccio, indirizzato da lord John Russell a lord Cowley, il 22 settembre, si condanna apertamente l'occupazione mantenuta.

Milord. Appare dal dispaccio di vostra signoria di ieri che il governo francese ha determinato di aumentare il suo presidio di Roma: il governo della regina vuol credere che questo fatto miri soltanto a proteggere più efficacemente la persona e il governo del Papa dai pericoli a cui temesi che sia egli esposto.

Il governo della regina si rammarica che quest'occupazione francese di Roma sia mai avvenuta e che non siensi mai afferrate le molte opportunità offertesi per porvi un termine. Ma il governo della regina spora che l'occupazione sarà contenuta entro le mura di Roma e quel dintorno, ed altresì spera che si troverà in breve qualche altro spediente più legittimo per togliere il Papa dai pericoli che corro la sua autorità.»







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