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Cronaca italiana contemporanea dalla proclamazione del plebiscito fino allo svolgimento della questione italiana compitata da Giuseppe Giuliano (volume primo) - ODT

Cronaca italiana contemporanea dalla proclamazione del plebiscito fino allo svolgimento della questione italiana compitata da Giuseppe Giuliano (volume primo) - PDF

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CRONACA ITALIANA

CONTEMPORANEA

DALLA PROCLAMAZIONE DEL PLEBISCITO

Fino allo svolgimento

DELLA QUESTIONE ITALIANA

compitata

DA GIUSEPPE GIULIANO

VOLUME PRIMO

NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO GIANNINI

Via Museo Nazionale 81

1870

(2)

CAPITOLO IV - Documenti .............pag. 247

CAPITOLO V - Sommario ..............pag. 301

CAPITOLO V - Documenti ..............pag. 327

CAPITOLO VI - Sommario ..............pag. 332

CAPITOLO VI - Documenti ..............pag. 372

CAPITOLO VII - Sommario .............pag. 386

CAPITOLO VII - Documenti .............pag. 413

CAPITOLO VIII - Sommario ............pag. 451

CAPITOLO VIII - Documenti ............pag. 469

DOCUMENTI

(1) - Crediamo non inutile riferire per intero una lettera che il Mazzini diresse in questa occasione al Barone Ricasoli. Da essa apparirà manifesta qua] fosse l'impresa proposta dal Mazzini, e quali le ragioni per cui gli sembrava opportuna. Il Ricasoli voleva rispondere direttamente, ma poi si contentò di esporre la politica del governo in una circolare ai Prefetti e Delegati della Toscana. Ma Rosolino Pilo ch'era tenuto prigioniero in Romagna, fu rilasciato, e le persecuzioni cessarono, cessata l'opportunità della impresa; e richiamato il Generale Garibaldi dalla Cattolica.

Ecco la lettera in data del 22 Agosto 1859.

Signore,

Mi scrivono ch'Ella ha in mano una lettera mia contenente proposta di un'operazione militare su Perugia, e che su questa si fondano persecuzioni e processi.

Potrei dire al Ministro toscano che quella lettera non tocca la Toscana menomamente, non s'indirizza ad un uffiziale toscano, non minaccia in Toscana né governo, né popolò - Ma preferisco parlare al patriota, all'uomo che considera l'unità d'Italia come ne del moto attuale - Proponendo quell'atto, in ho inteso proporre l'unica operazione che possa non solamente raggiungere l'intento, ma salvare la Toscana da una inevitabile restaurazione - Quand'Ella pur non sappia di certo - e non é-che il Re Vittorio accetta la fusione del Centro, e ricomincia la guerra, però che l'accettazione, dopo il patto di Villafranca, è guerra; ella ha troppo senno per non vedere:

Che la rivoluzione non si difende localizzandola;

Che il centro è condannato, se non trova modo di allargare la base del moto, e dargli una base d'operazione importante com'è quella del Regno;

Che i più tra gli elementi de' quali or si compongono le forze del centro sono condannati a sbandarsi - che il corpo del generale Mezzacapo è in sfacelo - che nelle due colonne di volontari mobili benandate dal generale Roselli le minaccie di ammutinamento si vincono con gli arresti - e via cosi: cosa più che naturale per volontarii Umbri, Marchigiani, Veneti ed altri, i quali si gettarono nell'impresa non per essere soldati di Parma o Bologna, ma credendo di combattere per l'Unità, e per le case loro.

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Che una rivoluzione o inoltra o retrocede;

Che gli elementi de' quali si compone la forza toscana sono minati dal malcontento e dalle mene ducali in parte; che gittandoli in azione rimarrebbero fedeli, e cercherebbero promozioni dell'azione; che tenendoli immobili, fermenteranno, e di già fermentano, e un bel giorno daranno il segnale della guerra civile;

Che i vecchi padroni hanno bisogno di questo per dire all'Europa: Vedete, e farsi riammettere;

Che la nomina di Garibaldi, eccellente come bandiera di azione, che sarebbe seguita con fanatismo, è-se non si vuole azione - una nuova causa - ed Ella deve saperlo - di malcontento o pretesto a malcontento nelle milizie regolari;

Che moventi al riconquisto di Perugia, lo stato romano (Borna eccettuala, che deve per ora rimanersi tranquilla) si leverebbe;

Che tra Perugia e gli Abruzzi non esiste forza capace di resistenza; che le poche truppe pontificie ingrosserebbero le file delle colonne: che otto o dieci mila uomini, ed il nome di Garibaldi e il moto della Sicilia preparato di lunga mano, e che scoppierebbe all'annunzio, sono l'insurrezione del Regno.

Che l'insurrezione del Regno costituirebbe il molo italiano in condizione da poter trattare da potenza a potenza con chicchessia.

Che il moto d'Italia trascinerebbe Piemonte e Re sull'arena;

Che la Francia non potrebbe opporsi con le armi senza provocar guerra europea dalla Prussia, dalla Germania, e dall'Inghilterra.

Queste cose in l'avrei dette a Lei, e agli altri uomini che reggono, se in vece d esser trattati come nemici e costretti a trafugarsi in patria fossimo trattati come uomini che amano di certo l'Italia, e da trent'anni l'educano come possono all'unità. La proposta può in ogni modo essere prematura e tenuta per imprudente, non mai colpevole.

Ho accennato al Piemonte e al Re. Ella deve credere quanto in le dico, e se i ministri italiani curassero di sapere ciò che scriviamo da un anno, lo saprebbero, che noi non parliamo da un anno di repubblica, che protestammo per dignità, moralità ed antiveggenza contro l'alleanza col dispotismo imperiale, ma dichiarammo sempre che accettavamo la monarchia se essa voleva l'unità, ed avremmo combattuto per essa e con essa. Sono, fui, sarò, anzitutto, unitario.

Chi mi conosce dappresso sa che in posso avere ogni difetto fuori quello della menzogna. Ho l'anima troppo altera.

Io non parlo per me, ma mi sento in obbligo di dirle che la persecuzione contro gli esuli disonora la Toscana, e danneggia la causa.

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Questi esuli si sono mossi dopo. Villafranca, non perturbare un ordine che ammirano e credono importante in faccia all'Europa, ma nella speranza di veder corrispondere all'ordine del una eguale energia di fuori, per la credenza cui sono che la Restaurazione sarà tentata, e pel desiderio di combatterla insieme ai loro fratelli, or che sono soli ed italiani e senza mistura di armi straniere e tiranniche. molti tra loro si sono arruolati; gli altri lo farebbero se la persecuzione non lo impedisse.

Ho sentito il bisogno di dire a Lei queste cose, e le dico. Ella non voglia adontarsene, ma vedervi la coscienza di un uomo che ama l'Italia e l'unità nazionale più assai che sé stesso.

Mi creda, Signore-Di lei-Obbligatissimo-

MASSIME GENERALI DA SERVIRE DI NORMA ALLE AUTORITÀ

POLITICHE ED AGLI AGENTI DIPLOMATICI DEL GOVERNO DELLA TOSCANA.

I voti dell'Assemblea dei Rappresentanti hanno definito precisamente il mandalo del Governo della Toscana, e tracciatagli netta la strada ch'egli deve battere. Impedire ad ogni costo la restaurazione della dinastia Austro-Lorenese. Procurare con ogni sforzo che la Toscana concorra alla formazione di un grande stato costituzionale italiano sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele.

Ormai siamo certi che l'Europa non interviene armata nella quistione della Italia centrale per le provincieAd una condizione però:che l'ordine interno non sia turbalo.

Il governo della Toscana adunque ha siccome mandato conseguenziale necessariamente connesse al mandato ricevuto dall'Assemblea, perché necessario all'effettuazione di quello, il mandato di salvare a qualunque prezzo l'ordine interno. L'ordino interno può essere disturbato.

Dall'altitudine del Piemonte, che, rifiutando il voto dell'Assemblea, indurrebbe diffidenza, sgomenti da una parte, risalto di speranze antinazionali dall'altra.

Dalle agitazioni prodette dai partiti eccessivi, tanto mazziniani, quanto retrogradi, le lance d'azione dei quali potrebbero per un momento trovarsi convergenti.

Dalla stanchezza, e dalla disgregazione che il soverchio prolungamento del provvisorio potrebbe produrre.

E più che probabile che l'accettazione del voto della Toscana fatta dal Re Vittorio Emmanuele toglierà di mezzo le cagioni di pericolo esposte nel primo e nell'ultimo capo. In ogni modo Governo e paese hanno assai dimostrato in Toscana senno pratico, e fermezza

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quanto basti a condursi con previdente coraggio in ogni frangente, e a continuare impossibilmente fra le presenti incertezze, attendendo gli eventi. Le agitazioni mazziniane e le risorse hanno poca probabilità di riuscita; le prime sono odiate, le seconde disprezzate.

Ma si obbietta: la Toscana; paese in istato di rivoluzione, tranquilla sì, ma rivoluzione, potrebbe salvare sé e l'Italia, assumendo una politica di espansione, e facendosi punto di appoggio per sollevare l'Italia inferiore.

Al che si risponde che la politica di espansione possono adontarla solo gli stati grandi, o, se non grandi, fortemente costituiti, e spalleggiati da poderose alleanze.

Il Piemonte lia potuto praticare per dieci anni questa politica, perché si è giovato ora delle simpatie dell'Inghilterra, ora delle mire della Francia, perché la sua posizione geografica lo salvava dall'Austria, contro cui era diretta la sua politica, essáido certo che l'Europa non avrebbe mai permesso né occupazione, né influenza austriaca in un paese che è la vanguardia della Francia, e che ha Genova sul mediterráneo.

Non è nelle stesse condizioni la Toscana. Essa non è costituita, non è forte in conseguenza, se non in quanto prudente, ma ferma, faccio valere il suo dritto di costituirsi monarchicamente in modo da favorire gl'interessi italiani escludendo tutt'insieme qualunque influenza straniera, brandi saranno gli ostacoli da vincere prima che il volo della Toscana sia compiuto, ma le diverse ambizioni che lo contrastano si elimineranno tra loro, si neutralizzeranno l'una con l'altra, e l'Europa finirà col comprendere che i voti dell'Italia centrale propongano la sola combinazione che guarentirà l'Europa da rivoluzioni, e da guerre altrimenti inevitabili.

Costituita l'Italia superiore e la centrale secondo voti delle popolazioni, ognun vede che la quistione veneta, la quistione romana, la quistione napolitana trovano per logica deduzione la loro soluzione, perché il mutare indole diverrà per quegli stati condizione essenziale di vita.

Or si vorrebbe che questo immancabile avvenire si compromettesse con una prematura intervenzione. Queste intervenzione aprirebbe le porte all'Austria e molto probabilmente ci renderebbe per lo meno malevola la Russia la quale non vede volentieri Violalo in luogo alcuno il principio della legittimità, ci solleverebbe contro l'Europa cattolica, e giustificherebbe una seconda spedizione di Roma, metterebbe a repentaglio l'ordine intorno, assoggettando le provincie del centro a sacrifici che non possono sostenere. Quando per noi si varcassero i confini meridionali dei nostri Siali, i principi antichi avrebbero molto più agevole il passaggio pei confini del settentrione - In queste stato di cose tutti i partiti, Mazzini stesso, dovrebbero comprendere che mantenere il paese armato,

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ma tranquillo e concorde è pel governo della Toscana un dovere indeclinabile, una suprema necessità, e che quindi è costretto ad opporsi con tutti i mezzi con tutte le forze di cui dispone ad ogni tentativo che tendesse turbare l'ordine attuale, sia in nome dei vecchi dritti principeschi, sia in nome d'idee più ardite, e più generose.

1 settembre 1859.

Eminenza Reverendissima,

Il giornale di Roma porta una protesta, la quale dipinge V. S. R. in sembianze di tremare come un fanciullo sotto la sferza del pedagogo per persuadere il Cardinale Antonelli di avermi poco conosciuto nel tempo del mio soggiorno in Roma. Quando giovasse di ricondurre la calma nel cuore di quei pusilli, ond'ella si affanna cotanto, i quali non sono però altro che i soli artefici d'intrighi e di baratterie, in sarei pronto a dichiarare di non averla conosciuta mai. L'E. V. non dubita affermare che in abbia chiamatoil S. P. quando nella mia lettera del 30 settembre non incontra mai questo vocabolo, ed il senso dalla medesima non suona più in là dì un pietoso e fievole lamento perché cortigiani, e ministri, con raffinata malizia si brighino tuttodì di far divenir o apparir tale il Pontefice traendo partito e materia dalle sue sventure e infermità. - Laonde in potrei ritorcere l'accusa di menzogna e di calunnia data alle mie parole non mi giovasse più di cogliere in vece questa opportunità per aprire meglio l'animo e le intenzioni mie e mettere in chiaro come, non meno de' danni del popolo cristiano, la stessa fiacchezza di animo del Sacro Collegio debba ai cardinali far temere più i pericoli delle rivoluzioni che qualunque scapito di una onesta fra la

Non è certo un buono esemplare di logica e di mansuetudine per noi l'aver udito i recenti rimproveri fatti al governo italiano perché aveva posto le mani sopra alquanti chierici per ragione politica e veder noi in Roma pel medesimo fine sostener prigione il P. Rassi, condurre in mezzo agli scherani il Prof. Simonetti, scaricar tutto insieme l'arsenale delle censure, sospensioni, scomuniche e degradazioni sul capo del Prof. Reali, cingere di armati il pacifico domicilio della più sublime teologia cattolica e correre pericolo e minaccia di ergastolo e sant'ufficio il principe de' suoi cultori il Prof. Passaglia, obbligato a cercare scampo e protezione presso l'antiromana ed antipapale Inghilterra dentro i re papali e romani. - Non tengo poi conto alcuno di quanto fu detto e fatto

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contro un orfano infermo e profugo per l'amore della Santa Sede sol perché osai affermare che la riverenza ed ì dritti del Pontefice stanno bene insieme con quelli della patria e della libertà e con la felicità del popolo italiano, secondo le medesime tradizioni della Chiesa romana. Ella dice esser vano sperare che un cardinale di Santa Chiesa possa voler mai quello che voglio io, cioè la riconciliazione. in non so quello che mi debba sperare da' cardinali di oggidì, ma ben so quello che posso temere ed è per questo appunto che in mi son messo a scrivere un'altra volta. in che conosco fatti, so più di quello che V. S. dia ad intendare nella sua protesta, e senza farla da profeta affermo che quando assottigli, e le spade francesi non guardino più alle spalle del Sacro Collegio, questo darebbe spettacolo di tali e tante viltà da stomacarne l'universo. La storia moderna della Corte di Roma segna tante fragilità per quanti furono i pericoli od i cimenti, e per dimostrarlo ricorderò in un fascio il del cardinale Benvenuti, ai Polacchi, e perfino la descritta dal cardinale Rocca, gli avanzi della quale in medesimo ebbi tante volte nelle mani. La stessa fuga verso Gaeta fu prodezza delle calcagne; e se ella è un vanto, i cherici l'ebbero comune col conte e con la contessa Spaur. Mi giova di rinfrescarne ' in buon punto la memoria, poiché non manca in questi giorni chi faccia, senza pudore alcuno un carico al prof. Passaglia di ricevere soccorso ed il rifrigerio della carità per le mani di una gentildonna inglese. La prelatura conta un solo martire nella rivoluzione del 49 cioè mons. Palma, mio collega nella Basilica Liberiana, il quale fu martire della sua curiosità, e cadde indecorosamenteE perché il sentirli gridare eroi tuttodì per la bocca dei piacentieri o adulatori, è riuscito a persuadere noi medesimi di essere qualche gran fatto, e questa falsa persuasione e l'assagnamento che noi facciamo sulla costanza dell'anima nostra, mette a grave pericolo la causa della Chiesa e della religione; però consenta signor Cardinale che in le venga quivi tritamente mettendo innanzi molte storielle e cronachette sulla condiscendenza e paura de' suoi colleghi, lasciando che ella ricerchi le proprie nel taccuino, e ne' suoi itinerari. Tutti a Roma vogliono ora morir mar tiri perché lontano è il pericolo ed essi in sicuro; ma pochi forse saprebbero patire la punture di uno spillo o il grido insolente delle turbe tumultuose. Tutti, salvo il cardinale della Genga, furono concordi in concistoro perché fosse dato lo Statuto ai popoli di Santa Chiesa, secondochè il pontefice afferma nel proemio, sebbene i più fossero in cuor loro avversi a quelle franchigie, e tutti di nuovo si trovassero conformi in Gaeta per levarle e lacerarle, quando cioè re Ferdinando non osava cotanto.

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Non mi fermerò sulle insipienze dette e fatte dai cardinale Ferretti e Ostini dentro le caserme della guardia civica, e del cardinale Alfieri sul balcone del suo palazzo e nel e da altri nelle Legazioni: non ricorderò la lettere del cardinale Antonelli sull'indipendenza italiana, le adunanze del clero liberale presso il cardinale Patrizii le ire ottuagenarie dei cardinali Gazzoli e Bernelli ed il famoso cartello della Cancelleria. Il cardinale Orioli, segretario di stato giva gorgogliando per le sale del Quirinale. e messo poscia al sicuro nella rocca di Gaeta gongolava per la gioia, dicendo:Non mancarono cardinali che ricevettero il soldo, ossia della repubblica di Mazzini.

Nel tempo dell'assedio di Roma il Cardinale Bianchi fu ricovra to in casa di un onesto uomo sulla piazza del Gesù. Il cavalier Santo Acccttola, suo ospite, dubitava se dovesse o no fare allo di adesione alla repubblica; ma il geloso deposito di un cardinale decrepito, e il consiglio dei Gesuiti, che si trovavano dovunque ed in quella medesima casa avevano rimpallo molti arredi preziosi della Compagnia, lo vinsero alla perfine e fece comecchesia atto di podestà al nuovo governo, che non lo ebbe già per buona moneta, e lo schernì con amara caricatura delRestauralo il governo clericale, questo valentuomo fu casso dall'ufficio che teneva sul palazzo apostolico come mazziniano e come gesuitante ebbe soprusi indicibili nel ministero dello esterno ov'era impiegato. Il cardinale Bianchi non s'indusse per questo a riparare il danno e si contentò morendo, di legargli una e non so qual altra meschinità. Che più? V. S. conosce e pur deplora meglio di me il mal governo di Roma e potrei allegare le parole Udite dalla sua bocca se non temessi che ella si disonorasse con una nuova protesta: pure per non vedersi rifilalo il vitto e le speranze, non ha dubitato di profanare il suo nome, protestando contro la mia lettera con tale linguaggio da farmi in ogni modo desiderare che i cardinali non abbiano mai bisogno per essere così indipendenti nello scrivere, e conoscere meglio la grammatica per farlo più certamente. E con questa magnificenza d'animo osa, signor Cardinale, promettere di sé stesso e di altrui? L'esperimento non è forse lontano' e l'universo sarà testimone e spettatore e inesorabile riscuotitore delle sue promesse.

Dall'esilio di Gaeta a questa parte il merito del Sacro Collegio è sceso ancora più basso, ed era miglior consiglio che V. S. non promettesse troppo per non attender corto, onde i fedeli non cadano in quella triste condizione ove si trovano molti creditori dei cardinali. Pur troppo sono oggimai il simbolo moderno della corte romana! e alla fine dei conti il cardinale Antonelli

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apparirà men irragionevole di tutti purché consideri come egli abbia devastalo la S. Sede per accumulare tesori ed i suoi colleghi gli tengano il sacco per morire falliti. - Nelle proteste di S. trovo eziandio memoria di non so quale ingratitudine e traviamento. Di quel poco ch'io posseggo son debitore alla provvidenza di Dio, e con gli uomini non ho pattuito alcuna assisa, che non fosse, interamente saldala; quando non si vogliono tenere in conto di doni e di generosità i sequestri posti sulle cose mie in Roma. in sono troppo altero e contento della mia natale oscurità e meschinità per non concedere chicchessia di avermene mai tratto fuori - Ne la S. V, vorrà reputare a torto per un traviamento dal retto sentiero Tessere e il dichiararmi tuttodi figlio speciale della S. Sede Apostolica come prelato ed uno de' suoi protonotarii, e tremare su i danni e pericoli della Chiesa cattolica. Fra i quali mi commuove soprattutto l'abituare che si fa il volga a discutere cose che non dovrebbe credere, e porgli in mano ad esaminare quanto dovrebbe venerare. Laonde ancor perciò si palese necessario una riconciliazione che tronchi una lotta tanta pericolosa, perché noi non raccogliamo nel bel mezzo del secolo XIX l'infausto frutto della bizzarre e ingorde caparbietà di un altro tempo, cioè la ruina o la perdita di molte Provincie cattoliche e di molti milioni di fedeli. In ultima conclusione il secolo mercante troverà che. questo semidogma della indipendenza papale fondato sulla sovranità e raccomandato tanto dai gesuiti, costa troppi milioni a fronte di tutto il simbolo, il quale non dimanda neppure la spesa di un piccolo.

Spero che V. S. non trovi troppo forte il mio linguaggio è audace la mia sincerità, ricordandosi che la porpora non riceve lustro ed offuscamento da ch'io scrivo, ma sebbene da quello ch'ella opererà - E le bacio e mani.

Montalero nell'Umbria il di d'ognissanto 1861.

Dev. oss. Servitore

S. Martino a Gallino.

Illust: Sig. Conte

Ella mi fece conoscere il desiderio di udire da me in Senato le ragioni per cui in avessi rassegnata la carica di luogotenente nelle napoletane. Non avendomi potuto trovar presente alle ultime tornate, mi reco a debito di dargliene contezza per iscritto.

Ella sa come in cercassi da varii anni di vivere lontano da ogni ufficio politico.

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Pure professando col conte di Cavour l'opinione che la quistione italiana interna s'avesse principalmente da risolvere a Napoli, e veggendo come il governo non sapesse a qual altra persona confidare il reggimento delle provincie napoletane fece alla patria il sacrificio delle mie inclinazioni.

Ella sa come usando in ampiamento della libertà di azione che mi era concessa inaugurassi in Napoli al primo giungervi, cioè il 20 maggio, una politica di conciliazione di legalità e di ordine. Sebbene in confidassi di trovare una grande quantità di aderenti, la mia aspettazione fu tuttavia superata in questo senso che nessuno fu che si opponesse a questa politica, e se le mostrasse avverso. Datomi a studiare il paese in mi convinsi che due erano principalmente le quistioni serie da risolvere, cioè il riordinamento della pubblica amministrazione, e la sicurezza pubblica.

La rivoluzione nazionale si era compiuta da troppo poco tempo, perché si fosse potuto portare rimedio a questo male. I nuovi reggitori si erano piuttosto occupati dall'esclusione dai pubblici ufficii di coloro che erano invisi alla popolazione, e delle introduzioni delle varie amministrazioni di uomini che rappresentassero i principii nuovi. Essi erano talmente incalzati dal bisogno di far molto in poco tempo, che accrebbero ancora la piega dell'eccessivo numero degl'impiegali. L'altitudine e l'esperienza dei quali soventi volte non corrispondeva ai bisogni del pubblico servizio. Oltre a ciò la contemporanea chiamata di tanta gente nuova ai pubblici impieghi aveva sveglialo una' tal febbre di dimanda, aveva talmente avvezzata la popolazione a credere che lo stato dovesse dare impieghi a tutti i postulanti da sconvolgere tutta la buona massima, ed i retti principii di governo. in cercai primeramente di non accrescere questi mali al ricusarmi ad ogni nomina d'impiegati nuovi, poi mi posi a d'indigare con calma l'andamento degli uffizii, e la condotta degl'impiegati togliendo di mano in mano il loro posto a tutti coloro che apparissero cattivi ed inetti. Nel tempo stesso mi posi con l'ajuto dei capi di servizio a preparare i nuovi ordinamenti organici per ristringerli in quei limiti che erano voluti dall'interesse generale.

Questi provvedimenti, e questi studii ebbero sempre l'appoggio tanto»del governo centrale che della popolazione napoletana. Ma non è qui il luogo di entrare in minuti particolari sulle molte cose fatte o principiate, e sulle ragioni che mi facevano sperare un risultato finale abbastanza soddisfacente, perché questa porta e sostanzialmente estranea alla mia dimissione.

Poche volte in vita mia posi tanto amore ad uno studio pratico quanto a Napoli nello indagare le condizioni dell'ordine pubblico tanto rispetto alla politica che rispetto alla sicurezza materiale. Nello interrogare quanti funzionarti pubblici quanti fra i più cospicui cittadini venivano a me nel consultare gli atti uffiziali del governo,

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io non tardai a persuadermi che le opposizioni pubbliche sparirebbero o sarebbero ridotte ad una condizione affatto inoffensiva, quanto fosse ben provveduto alla sicurezza materiale del paese.

Il principale, il più importante passo era già stato fatto, poiché grazie alla fermezza ed alla prudenza del principe di Carignano si erano fatti cessare i moti di piazza, con provvedimenti che non solo non avevano esacerbati gli animi, ma avevano trovato favorevole accoglienza - In questa parte in non aveva che a seguitare il nobile esempio, e ne' due mesi che tenni il governo di Napoli le condizioni dell'ordine pubblico rispetto ai modi di piazza furono quali raramente s'incontrano in popoli da lunga mano assuefalli alla libertà. Ma la condizione delle Provincie era assai grave. Un gran numero di condannali fuggili da' bagni e dalle carceri riuniti in bande infestava ancora le Provincie. Queste bande di ladri per procacciarsi favore cercavano prendere un carattere politico. Non era per altra parte ordinalo un servizio regolare di polizia, non avendosi che 1500 carabinieri sopra 6500 circa che devono, costituire la forza destinala in modo normale per levincie napoletane. Ma principalmente in incontrai gravissimi pericoli nel non essersi prese le precauzioni necessarie ad ottenere che i soldati del disciollo esercito borbonico, i quali erano appunto allora richiamati in un numero notevolissimo sollo le armi, obbedissero alla chiamata.

Io previdi che in un paese ove il governo non si era mai occupato della educazione militare del popolo, quei soldati non ubbidirebbero se non vi fossero astretti di una forza organata sistematicamente, e mi posi con tale sollecitudine a studiare questi ordinamenti coll'ottimo generale Durando, che il 31 maggio, cioè 10 giorni dopo il mio arrivo in Napoli, mandai al ministro un piano di cui chiedeva l'immediata attuazione - Benché la forza militare da me richiesta non fosse molto rilevale, ed anzi in proporzione inferiore di oltre una terza a quella mandata in Sicilia, benchè inoltre le Provincie napoletane avessero due elementi di disordine che non si trovano in Sicilia, cioè la presenza nella vicina Roma dell'ex re Francesco ed i soldati sbandati, pure gli uomini più pratici delle provincie, coi quali io mi era consultato, ed ai consigli dei quali mi era riferito tenevano per certo che tanto fosse sufficiente a rianimare lo spirito pubblico, e ad impedire che i soldati richiamati andassero ad ingrossare le file delle bande.

Né era solo mio intendimento di prevenire la formazione di nuove bande, e di distruggere le preesistenti, ma grazie all'ideata distribuzione di parte delle milizie in colonne mobili che replicatamente visitassero ogni terra, era pure mio pensiero di servirmi di quelle forze per fare eseguire e rispettare le sentenze dei tribunali civili, per assicurare la riscossione dei tributi, e per restaurare in sostanza la piena ed intera esecuzione delle leggi.

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Intanto in poteva riconoscere da varii elementi e da varii fatti, come il rispetto alla legalità mentre da una parte diminuiva il numero dei nostri avversarii, molti dei quali cercavano solo di vivere pacificamente, per altra parte rialzava, per dir così il governo. innanzi alle moltitudini, offrendo loro un bene sempre sperato invano da una lunghissima serie di anni. in ho la convinzione che ove fossi stato secondato con quella confidenza e celerità, sulle quali aveva sperato poter fare assegnamento, non solo avrei impedito la formazione delle bande, ma avrei veduto le Provincie tutte avverse al progresso ed all'incivilimento con uno slancio e straordinario, e tale da far loro in breve riparare il tempo perduto sotto i governi passati.

Già prima del mio giungere a Napoli si era fatto l'esperimento di provvedere a questi bisogni con guardie nazionali mobili, molte delle quali erano tuttora in attività, ma la prova a mio credere non aveva prodotto gli effetti che se ne ripromettevano. Questa pruova mi faceva desiderare di volermi delle guardie nazionali, ma in modo che per qualche tempo operassero associate alla milizia stanziale onde sotto gli ordini dei capi militari d'ogni colonna mobile imparassero a cooperare al mantenimento della pace ed alla osservanza delle leggi.

Io vedeva il paese disposto a secondarmi in questa via. Mi pareva che tutti fossero persuasi che le forze nelle mie mani sarebbero stato il mezzo il più sicuro e potente di libertà.

Non fui abbastanza felice per far penetrare a questo riguardo le mie convinzioni nell'animo dei ministri. - Veggendo che le mie previsioni sull'aumento delle bande si andava avverando scrissi lettere su lettere nelle quali rappresentava il bisogno di solleciti provvedimenti, manifestando al ministro fin dal 21 giugno che quando perdessi la speranza di essere ascoltato, mi troverei nella necessità di dare la mia dimissione - Sgraziatamente si perdette molto tempo, ed il ministero non si decise a darmi nuove forze, se non quando l'incremento delle bande, la forza stessa che in aveva chiesto da principio veniva a rimanere insufficiente. Allora insistetti vivissimamente per un rinforzo, e già in aveva ragione per credere che mi sarebbe concesso allorquando mi giunse la notizia della destinazione del generale Cialdini al comando delle truppe nelle provincie napoletane. in sperava che l'illustre e fortunato generale col suo arrivo mi ajuterebbe alla pacificazione e farebbe eseguire energicamente gli ordini pei quali in mi teneva sicuro di conseguirla. Ed in aveva ragione di non dubitarne in quanto che l'autorità militare sperando sempre a richiesta dell'autorità politica, era mio proponimento di coordinare le mie dimande in modo tale che ij principio della prevenzione prevalesse tanto da rendere men necessarii i mezzi di repressione.

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Ma per una fatalità di circostanze avvenne che i poteri dati al generale Cialdini erano di tal natura da permettergli di operare da se, e di annullare tutti quei piani di pacificazione che in aveva formalo. Il ministro dell'interno in fatti scrivendomi per l'invio di soccorsi a terre minacciale da bande mi ordinava con un P. S. di suo pugno, , e con altra lettera mi avvertiva che il generale

Io era abbastanza invecchiato negli affari per non illudermi sul la natura di questi poteri, sapeva da lunga mano che i generali operano a modo di guerra quando hanno un'autorità assoluta loro propria; e mi confermava poi in questa idea il generale Cialdini medesimo quando per dimostrarmi la coesistenza possibile delle nostre due autorità, mi faceva osservare con lettera del 10 luglio che aveva esercitato un'autorità consimile noli assedio di Gaeta, senza che il Luogotenente del Re che mi aveva preceduto nel governo delle provincie napoletane si credesse esautorato.

Io assicuro V. che meditai seriamente su questi argomenti, e che se avessi trovalo che le operate innovazioni costituissero semplicemente una quistione personale, ne avi ci fatto sacrificio al Re ed alla patria mia. Ma era evidente per me che i provvedimenti del Ministero, qualunque fossero siate le sue intenzioni importavano un cangiamento di sistema.

Mentre io non cessava di dichiarare al Ministero che malgrado l'accrescimento delle bande, conveniva reprimerle ordinando la milizia nella forma circoscritta e prudente di un servizio di poli, zia, e mi dichiarava in grado di ciò fare con un aumento di forza relativamente assai tenue, il Ministero adattava un sistema interamente opposto - Per altra parte l'aver fino a quel tempo felicemente sostenuto il peso del mio arduo mandato non mi illudeva, e consentendo con me quanti amici in mi aveva a Napoli dovetti riconoscere che tutti coloro ai quali importava conservare gli abusi che in andava estirpando piglierebbero un grande ardire pel fatto impossibile a nascondersi dall'essere in già esautorato in parte delle attribuzioni della luogotenenza.

Io previdi finalmente che la mia rinuncia era l'unico modo di mettere il governo sulla via di riparare il fatto commesso, perché così potrebbe concentrare nel generale Cialdini i poteri della Luogotenenza e far cessare quel carattere di guerra alla repressione che avrebbe prodotto gravissimi mali.

Reputo quindi che non si possa da alcuno attribuire la mia risoluzione ad un puntiglio, e mi meraviglio che il Ministero non abbia fatto smentire l'accusa del deputato Niscodi aver in per puntiglio ricusato soccorsi ad Avellino, mentre i miei dispacci che il Ministero ha fra le mani,

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gli dimostrano aver io per mia propria iniziativa usato de' miei poteri per soccorrere la città di Avellino fino all'estremo inviandovi sulla mia responsabilità truppe che avevano obbligo assoluto di starsene in Salerno..

Colgo l'occasione per protestarmi coi sensi della più alta considerazione.

Dev: ed obb:

Di S. Martino

L'IMPERATORE, ROMA E IL RE D'ITALIA.

Nessuno per certo accuserà il governo dell'imperatore di aver mancato di pazienza nelle cose di Roma; l'opinione generale è piuttosto ch'ei n'abbia mostrato troppo. Ma anche la pazienza ha il suo termine.

Era bene tuttavia che una tanta longanimità avesse luogo, perché in una quistione cosi grave non si potesse supporre che avesse avuto alcuna parte la passione.

La circostanza, recente che un ministro cioè del papa si permise un linguaggio poco misurato, parlando dall'Imperatore dei francesi, sembrava dovesse precipitare gli avvenimenti. Si può essere certi che l'Imperatore risente come si conviene ogni ingiuria che nel pensiero di quelli che se ne resero colpevoli è indirizzata meno alla sua persona che al grave popolo, ch'egli ha l'onore di comandare. Ma secondo una parola di Napoleone I. il vero uomo di Stato (leve avere il suo cuore nella sua testa. E del resto quegli che ha coscienza nella sua forza si padroneggia facilmente e sa aspettare; imperocché è certo di potere operare all'ora che gli è segnala. Egli è perciò che le bravate di Monsignor Merode non non hanno finora provocata alcuna misura speciale da parte del governo dell'Imperatore. A dispetto dell'imprudente violenza degli uni, e malgrado l'impazienza legittima degli altri, la quistione romana continua a seguire il suo corso regolare.

I.

L'uno dei primi interessi della Francia e dell'Imperatore, in antiveggenza dell'avvenire è evidentemente che l'Italia possa al più presto possibile respingere da lei sola lo straniero, ch'essa acquisti consistenza mediante la sua unità, e soprattutto che abbia un forte esercito. Ma bisogna anzitutto che il mezzogiorno sia pacifico. E la pacificazione completa è impossibile a conseguire senza Roma; imperocché Roma è il focolare di tutte le cospirazioni dirette contro la sicurezza del nuovo regno d'Italia.

Se l'imperatore, richiamando la sua flotta da Gaeta, ha detto, tra gli applausi della Francia: in non poteva prolungare la protezione data alla persona del Re di Napoli a Gaeta, senza aver l'apparenza, d'incoraggiare le turbolenze eccitate nel sud della penisola,

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con quanta maggior ragione non può egli dirlo della protezione continuata alla persona del papa, mediante la nostra occupazione di Roma?

Non si deve dunque dissimulare la stranezza della situazione in cui fu messa la Francia e il suo più intimo allealo, il Re d'Italia.

La verità è che si lavora a far delle provincie napoletane una Vandea, e di Roma una Coblenza.

Così nel centro del nuovo regno d'Italia, e all'ombra della bandiera francese, gli avventurieri legittimisti vengono a cospirare impunemente. L'ex Re di Napoli vi arma bande contro il Re d'Italia, riconosciuto dall'Imperatore, e i suoi primi complici sono quelli, il cui potere ristabilito e protetto dalle armi della Francia non esisterebbe un ora, se solamente la Francia ritirasse la sua mano.

Non è possibile dubitare della connivenza delle autorità pontificie, esse stesse se ne fanno gloria.

Noi citeremo soltanto tre o quattro fatti, tra mille altri, e perfettamente autentici.

Quando gli ultimi avanzi dell'esercito del Re di Napoli si sono ritirati nel territorio ponteficio, i soldati vinti dalle truppe italiane consegnarono le loro armi ai francesi. Questi li confidarono al governo ponteficio che, contro ogni dritto delle genti si diede a farle rimettere alle bande napolitane. Si tratta di 30 mila fucili. Il fatto è certo. Il governo dell'imperatore ripugnava dal pubblicarlo.

Lord Palmerston ne fece la rivelazione innanzi all'Europa nella seduta della Camera dei Comuni del 2 agosto.

I brigantaggi nel tempo di Murat avevano luogo soprattutto nelle Calabrie, vale a dire nella parie più vicina alla Sicilia, da dove erano mantenuti dai Borboni che vi si erano rifuggiati. Oggi questi brigantaggi si commettono sul confine degli stati pontificii, perocché l'ex re di Napoli vi si è rifugiato, ed è di là ch'essi ricevono armi e danari, é là ch'essi fanno il loro punto di appoggio e la loro ritirata. Esempio a Persone degne di fede riferiscono che 900 zuavi ponteficii, ad Anagni, non fanno che incoraggiare le, bande reazionarie. A Ferentino, vi è dell'artiglieria pontificia con 8 cannoni, sei dei quali rigati; nel convento di Casamari, si sarebbero introdotti 900 fucili, e barili di polvere. Il bandito Chiavone con 150 compagni di brigantaggio si troverebbe nella foresta vicina di Casamari, lontana dalle frontiere di Castelluccio meno di un miglio e mezzo, da dové ei fa le sue scorrerie nel territorio dello stato italiano. E bisogna aggiungere questa penosa circostanza che le popolazioni dei paesi limitrofi, come Roccaviva, Balzorano Castelluccio emigrano nell'interno, stante che delle continue vessazioni, a cui sono esposte da parte delle bande che le saccheggiano, le maltrattano, e poi si ritirano sul territorio pontificio».

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E' ciò che risulta da una relazione della luogotenenza del re Vittorio Emmanuele in data di Napoli 5 luglio.

Un altro atto di complicità da parte del governo pontificio, constatato dalle giuste lagnanze della stessa luogotenenza, il 13 luglio,, è il seguente «I cittadini delle provincie meridionali del regno d'Italia che si conducono pei loro affari nello stato pontefìcio, vi sono costretti, per non esser respinti dal confine, o esposti ad ogni sorta di persecuzione, di lasciare i loro passaporti, e riceverne altro in cambio, i quali vengono loro dati contro pagamento, dagli ex-rappresentanti del Regno delle Due Sicilie. Al loro ritorno, se essi vogliono uscire liberamente, devono accontentarsi di rimpatriare, muniti della patente borbonica; e la polizia marittima italiana tenendo conto della innocenza di tali persone, permette loro di sbarcare. Ma con ciò diventa difficile, se non impossibile, il distinguere le vittime di simili vessazioni dagli emissarii della reazione».

E non sono soltanto le autorità subalterne che fomentano, e favoriscono il brigantaggio borbonico. Ecco un fatto ben grave che non si potrebbe mettere in dubbio. «Il Re Ferdinando II aveva col suo testamento lasciato la dodicesima parte dei suoi beni ai poveri di Napoli e Sicilia. Il papa muta quest'atto di ultima volontà, permettendo che la somma venisse impiegata in vantaggio di quei preti napoletani, e siciliani, e di quell'impiegati civili e militari che dal 1.° settembre 1860 in poi, si sono rifuggiati a Roma. Questo è ciò che si venne a conoscere da un ordinanza fatta il 5 maggio dal principe Ruffano, in nome di Francesco II, e che istituisce una commissione composta dei prelati Nicolò di Marzo, Domenico Guadalupi e Carlo Bagnara per vigilare l'esecuzione, al 6 luglio nuova ordinanza che prescrive alla commissione di riunirsi ogni al palazzo Farnese per ascoltare i reclami, e pagare il soldo tanto ai militari ed altri che si son battuti contro le truppe piemontesi e italiane, quanto alle nuove reclute, il cui numero aumenta ogni giorno.

Non riprodurremo qui le tristi scene di saccheggio e di eccidio che desolano le napoletane. Noi faremo solamente osservare che non è menomamente una guerra civile, ma un brigantaggio in grande eccitato e pagato, dal centro di Roma, dal Re di Napoli coll'oro dei legittimisti e dei preti, come altra volta il conte d'Artois dal centro di Londra e con l'oro dell'Inghilterra eccitava ed assoldava i

Non è dubbio che se noi non fossimo più a Roma, un tale scandalo cesserebbe tosto, e per conseguenza noi ne sembriamo complici. Ma noi non potremmo accettare né innanzi all'Europa, né d'avanti alla storia una tale responsabilità. L'umanità, in difetto della politica, e della giustizia, ci farebbe un dovere di recarvi il rimedio che è iu nostro potere.

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Solo, è urgente l'affrettarsi se si vuole soffogare questa vandea napoletana nel suo germe. Bisogna da una parte colpir forte e presto, e dall'altra far cessare la causa, vale a dire spegnere il focolare donde partono tante scintille incendiarie.

Essi sanno bene che non possono trionfare: perché non è con alcune bande di ladrj ed assassini che si stabilisce un trono che cento mila soldati non poterono difendere. Ma essi vorrebbero insaguinare questo magnifico movimento nazionale italiano. &e essi potessero provocare uno stato di assedio e dei supplizii, essi sarebbero felici, perché ciò fornirebbe loro un testo di declamazioni, e di calunnie, e perché ivi permetterebbe loro di provarsi a mostrare come un frutto dei nuovi principii ciò che non sarebbe tutto al più che uno esasperazione prodotta dei loro proprii furori di ristorare l'antico sistema.

La Francia pure cominciò la sua rivoluzione con la concordia, ed è la reazione borbonica e elencale, appoggiata nello straniero che spinse la Francia nelle vie del terrore e cagionò la reazione del Comitato di salute pubblica.

Senza dubbio Dio risparmierà all'Italia simili pruove. Ma non si pretenderà da noi francesi che abbiamo coraggiosamente ajutato l'affrancamento italiano che noi rappresentiamo ora la parte di Pitt, e di Coburgo, che noi incoraggiamo in casa altrui una Van dea, noi che seppimo tanto male all'Inghilterra di aver alimentata la nostra.

L'Inghilterra, o almeno la sua aristocrazia, aveva contro di noi, dicesi, oltre molti antichi motivi di odio e di rivalità, questa scusa della ragione di Stato, che cioè la rivoluzione francese co' suoi principii di eguaglianza scalzava alla sua base l'oligarchia brittanica. Ma se oggi noi ajutassimo, non fosse che indirettamente una vandea in Italia, noi faremmo una cosa non sono colpevole, ma assurda, poiché sarebbe un lavorare contro l'affrancamento dell'opera inaugurata da noi nelle pianure di Magenta e di Solferino, e con impedire lo sviluppo di una nazione che riposa sui medesimi principii della Francia, è che, lungi dal divenire per essa una rivale, è la sua prima e migliore alleala.

La Francia e l'Italia hanno comuni nemici e il loro scopo è chiaramente confessato.

I proclami sparsi nell'antico regno delle due Sicilie in nome dei Borboni portano che: bisogna ristornare il re legittimo Francesco II, strappare l'Italia all'influenza francese e rinnovare il 1845 contro i Bonaparte. - A Roma il clero prega pubblicamente perché la coalizione si formi, ed arrivi la ristorazione generale. - E da Verona l'Austria fa rispondere. Coraggio! La causa di Francesco II. contro Vittorio Emanuele è quella di Enrico contro Napoleone; è la lotta del legittimismo contro l'usurpazione.

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Ognun si ricorda come il duca di Modena trattasse i Napoleonidi di «baracca bonapartista» e si lusingasse di venire cogli Austriaci ad accamparsi sulle alture di Monmartre. I pensieri ed i sogni di Francesco II sono poco differenti:. «L'Italia che si proclama sottratta alla pressione, éd alla influenza austriaca è caduta, come nei primi anni di questo secolo sotto la tirannide napoleonica. Oh! Se l'Europa ponderasse un momento quanto sangue ha versato in meglio che 30 anni per satollare l'ambizione di due uomini nuovi, la riproduzione di qualche articolo dei trattati del 1815, riuscirebbe una misura pallidissima a riscontro della necessità di andare a' provvedimenti più recisi e duraturi».

» Né si parli di plebiscito, quell'atto cui ricorre chi esce dal fango, e cospirando vuol toccare un trono» (

Ed è per proteggere gente di tal fatta che la Francia genificherebbe i suoi interessi, e l'Imperatore metterebbe a repentaglio la sua popolarità!

Non si dimentichi che l'Austria ci dichiarò la guerra nel 1792, perché faceva assegnamento sui torbidi interni, e che anche al di d'oggi slancerebbesi dal quadrilatero contro le forze di Vittorio Emanuele, se ella vedesse il mezzogiorno della Penisola in combustione. Ma la Francia non darà ai vinti del 1859 la gioia di servire ai loro disegni con una occupazione prolungata nel cuore dell'Italia.

Tutti sanno qual riconoscenza ci si dimostri a Roma; non si trascura occasione alcuna di offendere la nostra suscettibilità militare, di ferire il nostro onore nazionale.

Ma questo debb'essere notato.

Mantenendo il signor de Merode al Ministero, si assume la responsabilità di quanto egli ha dotto e fatto. Non allontanando Francesco II da Roma si dichiara al cospetto del mondo di far causa comune con lui.

Le truppe francesi possono bensì per un tempo purgare delle bande i confini dello stato pontificio colle provincie napoletane. Ma noi non possiamo assumere a lungo la strana parte che ci è toccata.

La è cosa evidente che la nostra armata si trova a proteggere a Roma tutt'altro che un interesse religioso.

Perciò il richiamo delle nostre truppe non può lardare: la è una quistione risolta in massima. E quali pur sieno in questo riguardo le declamazioni di certe consorterie, e dei loro organi, non ignora l'imperatore che questo richiamo sarà profondamente popolare.

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II.

Nelle cose d'Italia a lungo s'invocarono, con rara abiltà, i motivi di opportunità di convenienza, e di vantaggio. Il dritto è ora quel che si all'erma anzitutto, e sta bene. Il linguaggio di un ministro d'Italia non può essere quello stesso linguaggio di un ministro di Sardegna. La parola ha tanto maggior peso quanto più essa scende dall'alto, e il trono è indizio della ragione donde essa viene. Il linguaggio del nuovo presidente del consiglio di S. M. il re d'Italia ha prodotto, segnatamente in Francia grande impressione, e punto non dispiacque all'Imperatore Napoleone. Se all'accento del barone Ricasoli nelle sue note diplomatiche, come ne' suoi discorsi al Parlamento sentesi ch'egli è l'organo d'una grande nazione, l'imperatore può dire con un certo orgoglio che l'Italia qual essa è, è bene un pò opera sua.

Tutta l'argomentazione italiana può riassumersi in ciò: Un popolo senza nazionalità è un nulla. Or bene non v'ha nazionalità senza unità, non v'ha unità senza capitale. La nazione italiana ha dritto ad avere la sua capitale. La capitale d'Italia è Roma.

Noi aggiungeremo: che cosa sarebbe senza Parigi la Francia?

Qui non ci è a discutere il principio di nazionalità. Non v'ha più persona di buon senso che metta in dubbio cotesto principio. E desso una delle pietre angolari del nuovo dritto pubblico in Europa: la libertà di coscienza è la prima, come la sovranità nazionale e la terza, L' "unità italiana non dee neppure esser più soggetto di quistione. La confederazione non fu mai presentala come un principio, sebbene come uno spediente che i plebisciti hanno legittimamente e legalmente condannato.

Ma alcune considerazioni sulla quistione della capitale non saranno inutili.

Una capitale per una nazione non è soltanto un lusso di forza materiale, è anzi tutto una gran forza morale. Se una nazione non è una produzione artificiale, ma una creazione naturale, non una denominazione geografica, ma un essere organico, giova notare esser proprio ed ogni ente organico di avere un centro di vita, e che quanto più quell'essere è perfetto, meglio la sua testa è organizzala: e la lesta è la sede del pensiero, in essa è la vibrazione dell'anima, da essa scaturisce la parola. Una capitale - lo indica lo stesso suo nome - è la lesta della nazione, è il centro della vita nazionale, è il vero organo della opinione pubblica; ed ecco il perché è necessaria una capitale.

Una nazione che non ha capitale, e che non ne sente un bisogno anziché una nazione, è un paese bruno stato vegetale. Una nazione che cerca la sua capitale è come l'essere che nei primi momenti della sua gestazione oscilla prima di aver trovato il suo centro di vita. Si sa quali effetti produce in tempo di guerra l'occupazione della capitale per parte del nemico, ben anco in quei paesi dove la centralizzazione è tuttora imperfetta.

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Una nazione, la cui capitate è invasa s'assomiglia all'ammalato la di cui sede del male è nella testa. Ma una nazione la di cui capitale fosse distrutta s' assomiglierebbe ad un uomo decapitato.

Una capitale non si decreta, ne s'improvisa, essa esiste, perché esiste, dessa è là, e non altrove. E in essa il cerebro della nazione, tutto un mondo di tradizione, il suo centro di luce, di calore. di azione.

Del pari non è la bellezza, non il bello spirito, né la scienza che diano il potere fra gli uomini, che facciano conoscere questo o quello come primo fra tutti, e lo facciano accettare per capo, cosi non è la bellezza d'una città, né i sili della sua campagna, né il fascino de' suoi saloni, o la rinomanza delle sue scuole che le conferisca il primato. Per occupare senza contestazione il primo posto fra le città come fra gli uomini vuolsi la tradizione, il genio, i servigi resi, vuolsi che vi si vegga l'espressione completa del pensiero nazionale colla potenza di effettuarlo.

Se una dinastia ha sempre presieduto alla formazione di una nazione, se bisognò che la unità del capo preludesse all'unità della nazione, sempre fu vista l'opera consolidala da una capitale, deposito delle tradizioni secolari, ed agenti attivi di sviluppo, e di progresso,

E per l'Italia fu gran ventura, dopo sì dure prove di trovare Vittorio Emmanuele; poiché molte cose furono quindi rese più agevoli. La sua seconda fortuna sarà aver Roma. L'opera dell'unità nazionale sì meravigliosamente inaugurata da Vittorio Emmanuele, come re; sarà compiuta da Roma come capitale.

Perciò tutti gl'Italiani vogliono Roma. Tutti i loro voti sono concentrati in un solo pensiero, quello di condurre il più presto che sia possibile il re d'Italia a Roma. Tanto è forte la potenza della tradizione, il prestigio delle memorie, il miraggio delle grandezze passate, riflesse bell'avvenire.

Quante volte non fu detto e ripetuto: Mai Firenze, Napoli, Milano, e tante altre grandi e gloriose città non consentiranno a lasciarsi tor la corona. Ed esse sonosi tolta la corona con le proprie mani, e con una straordinaria premura, con una rivalità di zelo più grande ancora di quella, di cui diedero già l'esempio le nostre Provincie francesi, abdicando innanzi a Parigi il dì stesso delle federazioni. Tutti chinano umilmente la fronte innanzi alla sovranità di Roma, madre regina delle città italiane che ha regnato sul mondo volta a volta colla forza, colla legge, colla gloria e con la croce.

Non una città d'Italia stette dall'inchinarsi dinanzi a Torino, dinanzi a quella città benemerita, come dinanzi alla capitale transitoria che tiene luogo della capitale desiderala, attesa, di Roma.

Se la vita fu un tempo divisa da Roma, e conculcata, si vedrà con quanta rapidità il riflesso italiano le riporterà il tributo di tutti i pensieri,

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e in un di tutte le glorie della nazione. Possiede Roma una potente forza magnetica; a Roma l'attingeranno le ispirazioni; da Roma l'azione nazionale trarrà la sua maggior forza di projezione.

Lasciando Roma a se medesima, vale a dire all'Italia, noi avremo, reso all'Italia lo strumento delle sue grandezze. Per essa avrà la sua vera forza. I decreti del Parlamento nazionale, e gli ordini del Re d'Italia avranno doppia autorità quando si vedranno emanali dal Campidoglio e datati dal Quirinale.

È d'uopo finirla con queste meschinità d'un altra epoca, che la Francia abbia a temere un'Italia forte. Era questa una tradizione ministeriale sotto Luigi Filippo; imperocché i deboli temono i forti. Oggidì sarebbe un anacronismo.

Nulla c' ingrandirà dippiù nel rispetto delle nazioni, e nella stima di noi stessi, quanto l'unità italiana resa compiuta con Roma. Interessi della Francia è l'esser giusta, come è sua ricompensa il vedere che le sue idee fanno il giro del mondo.

In che mai potria la Francia sentirsi indebolita. perché i principii della rivoluzione dell'89 riceveranno la loro sanzione a Roma, e dall'alto della città eterna saranno proclamaliSarà questo all'incontro per noi motivo di legittimo orgoglio.

Quanto a quegli uomini pusillanimi, ove ancora n'esistano, i quali fanno precisamente di questa nuova forza dell'Italia un'obbiezione contro l'unità di quella nazione, e contro la sua capitale hanno essi la loro risposta nelle ammirabili parole che il barone Ricasoli pronunziava innanzi al Parlamento italiano annunziando che il re d'Italia era stato riconosciuto dal governo dell'imperatore.

Non credo di umiliare l'Italia, dichiarando che ella, debba essere riconoscente verso la Francia, avvegnaché la riconoscenza sia nel novero delle più nobili virtù. Egli ò debito di essere riconoscente tanto per una nazione quanto per un individuo. Non temete tuttavia; le nostre riconoscenze verso la Francia non possono anche per poco trar seco il sagrificio dei nostri dritti, e dei nostri interessi; tra la Francia e l'Italia non possono esistere conflitti d'interessi. La libertà, i progressi dell'umanità saranno quindi innanzi i soli, e comuni più dei popoli inciviliti. Italia e Francia procederanno insieme a questa nobilmente.

È questa la nuova base, la dirò francamente, della politica che l'imperatore dei francesi ha inaugurata con la guerra d'Italia, di quella politica che sarà al mondo ciò che il mondo più ha bisogna. La pace fondata sulla giustizia.

In quella stessa seduta il signor Ricasoli aggiungeva non dimentichiamo che l'opera nostra non è compiuta.

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«Quanto a Roma posso assicurare alla Camera che non è intenzione del governo di asciar dormire questa quistione. E troppo importante, perché il governo non debbe occuparsene senza peso. La Camera comprendeva tuttavia che la è cosa assai grave, e che coteste difficoltà denno esser risolute unitamente col mezzo delle negoziazioni. Le nostre comunicazioni con S. M. l'Imperatore dei Francesi sono continue, e mi lusingo che in un tempo che non potrei tuttavia precisare si giungerà al risultato che è il più vivo desiderio della nazione.

Vi ha per l'Italia due grandi quistioni, Roma e Venezia all'indomani di Solferino. Venezia da liberare emergeva su tutto il resto. Ma dopo la pace di Villafranca, specialmente dopo l'ingresso di Garibaldi a Napoli, e le annessioni delle Marche e dell'Umbria, aver Roma per capitale divenne la quistione urgente.

L'Italia senza Venezia è come la Francia senza il Belgio, ma senza Roma essa non pare che una nazione tollerata. Dunque la gran faccenda oggidì per l'Italia è Roma. Venezia verrà poi. Ciascuno si ricorda che il veneto dato all'Austria dal trattato di Campoformio venne liberato ad Austerlizt. Chi sa se del pari oggidì il veneto lasciato all'Austria dalla pace di Villafranca, non sarà liberato da una nuova gran vittoria europea, e senza spargimento di sangue su Italia a dispetto del quadrilatero.

L'Italia ha dritto alla sua capitale, ed è debito della Francia affrettare il momento di dargliela.

Che penserebbero i francesi se altri governi cattolici loro dicessero Avignone è necessario alle cattolicità. «Avete in mezzo a voi un capo straniero che chiamerà ed introdurrà lo straniero in casa nostra». E si sdegnerebbero. Ma se si soggiungesse Parigi apparterrà a tutto il mondo, fuorché a voi. Coloro che voi vorrete scacciati da tutti gli angoli del paese, i vostri nemici accaniti converranno colà, cospireranno colà, e le bajonette straniere li proteggeranno contro le giuste ire della nazione.

E la Francia non si è forse ripresa Avignone in forza del suo indeclinabile dritto di sovranità nazionale? Risaliamo ai terribili giorni di Lione e di Tolone sotto la Convenzione. Nessuno ha ancora dimenticato le angoscie della Francia dopo il 1814 e 1815, nei tre anni delle invasioni.

Fu posto il principio di non intervento, vale a dire che un popolo non deve intervenire nelle cose interne di un altro popolo. Gli è specialmente riguardo alla Capitale che questo principio debba essere consagrato.

Noi abbiamo il rammarico di vedere nel cuore dell'Europa, in pieno diciannovesimo secolo lo scandalo di una potenza che dice questo popolo mi appartiene, è di mia proprietà, e quando si riflette che la potenza,

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la quale così parla è la potenza ideale, e parla a nome di Dio, quasi sacra, non è egli due volte, tre volte uno scandalo?

In faccia ai Mammalucchi, i quali pretendevano che la terra di £gitto loro era stata data a lìtio e che per essi gli Egiziani erano come un popolo a sacco, il Generale Buonaparte esclamò:

Ebbene, mostrino il contratto che Dio gliene ha loro fatto.

In fondo il papato mette in campo contro la nazione italiana il principio di espropriazione in causa di utilità religiosa. Ma donde deriverebbe egli cotesto strano dritto, in qual codice di leggi sta egli scritto, o da qual principio di morale è egli legittimato?

Come l'Italia dovrebb'essere espropriata della sua capitale, e perché il voto delle popolazioni che altrove è consulto non farà legge anche a Roma? E se non può esservi nazionalità senza capitale, in forza di quel dritto saria messa l'Italia in una condizione che non è quella degli altri paesi per aver ricevuto senza averlo chiesto il privilegio di essere la sede del papato, sarà per sempre l'Italia rigettata così fuor del dritto comune dell'umanità?

I maggiori mali dell'Italia sono venuti dal potere temporale dei papi.

L'Italia in fatti non poteva essere tagliata in due dagli stati della Chiesa. I suoi grandi uomini lo avevano compreso. Sono già più secoli da che i politici lasciano scrivere «La cagione della nostra rovina è che la Chiesa ha tenuto e tiene il paese nostro diviso» Di certo nessun paese fu mai unito e felice se non. si è trovato tutt'intero sotta l'autorità di una repubblica, o di un principe come è avvenuto alla Francia, ed alla Spagna. E la cagione per la quale l'Italia non è pervenuta al punto di aver pur essa una repubblica od un principe che la governi e unicamente la Chiesa, perché avendovi avuto un potere temporale, dessa non fu mai abbastanza potente, né ebbe virtù abbastanza da poter occupare il rimanente d'Italia, e farsene capo. E d'altra parte essa non era abbastanza debole perché nel timore di perdere la sua sovranità temporale non abbiano potuto chiamare un potente che la difenda contro quello che in Italia divenisse troppo potente! Il potere temporale del papato è quello che sempre impedì l'Italia di essere una nazione come la Francia.

Altra considerazione assai grave è un gran principio di civiltà che i due poteri spirituale e temporale debbano essere separati il papa ne presenta nella sua persona la contraddizione vivente.

Eppure Cristo ha detto quella parola sventuratamente non sempre compresa in tutto quanto ha di profondo «Date a Cesare quello ch'è di Cesare, date a Dio quel ch'è di Dio. questa parola pronunziava la separazione radicale dei due poteri, la cui riunione aveva prodotto la servitù pagana, ed assicurava la indipendenza della coscienza individuale.

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l'Imperatore di Roma era sommo Pontefice: la sua autorità era: politica, e religiosa. Egli aveva poteri sull'anima come sui corpi, ciò che costituisce la tirannide, ed è ciò che Cristo condanna. Ma quando il vescovo di Roma ebbe preso il posto degl'Imperatori divenne com'essi ad un tempo sommo pontefice e Re. Il papato accoppiò due poteri, spirituale e temporale, e la tirannia antica si perpetua di tal guisa a Roma, a dispetto della parola di Cristo.

Se il papa non può essere indipendente senza esser Re, senza ' aver beni territoriali, allora né i vescovi, né i curali essi pure potranno esserlo, senza beni ecclesiastici, lo che saria il rovesciamento di tutte le leggi, e la negazione dei principii dell'89, si pienamente conformi allo spirito del vangelo, e che formano la base del dritto pubblico.

Noi faremo soltanto notare quanto sia strano che i magistrati stessi della chiesa siano quelli che fanno dipendere la forza morale dalla forza materiale e dichiarano che le ricchezze rendono maggiore l'indipendenza dell'animo e del clero non potrebbero dirigergli più mortale ingiuria.

Or si dice: Roma, lo stato pontificio necessitano all'indipendenza della Chiesa. - Allora bisognerebbe non solo lasciar Roma al Papa, non solo rendergli le Marche e l'Umbria, ma sottomettergli di nuovo le Romagne. Chi mai può pensarvi? E chi vi si adopererebbe? Francia ed Inghilterra hanno riconosciuto il re d'Italia, come esse fecero presso che tutte le potenze. E l'esercito italiano s'ingrossa ogni di più.

Tutto quanto il papa ha perduto de' suoi antichi Stati poterono esser per tal modo ristretti in forza del voto delle popolazioni, e della sanzione dell'Europa, perché noi saranno ancora dippiù?

Si oppone che il papa, se più non fosse sovrano con uno stato proprio, potrebb'essere come prigioniero nel suo palazzo. Ma se allora si potrebbero trattenere i suoi corrieri alla sua porta, si po tria nel modo stesso trattenerli ora alle frontiere. Se supponesi che il papa potesse esser bloccato nel Vaticano può essere egualmente bloccato in Roma, e bloccato ne' suoi Stati quand'anche fossero due tre volte più di quel che erano.

Se l'indipendenza del papa si misura dalla estensione de' suoi dominii, saria d'uopo allargarne i limiti fino all'estremità della terra!

Coloro i quali ci dicono che il papa cessando d'essere re in Roma diverrebbe presso il Re d'Italia come un Patriarca di Costantinopoli sotto gl'Imperatori d'Oriente e sotto i sultani, non riflettono, senza dubbio che gli è mettere il papa allo stesso livello morale, e rifiutargli quindi ciò che costituì agli occhi dei popoli il suo primato spirituale.

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Non devesi perder di vista ché come principe temporale il papa è soggetto alle stesse regole ed alle stesse vicessitudini quanto gli altri principi della terra. I suoi stati possono diminuire un tempo al modo stesso che sono aumentati in altro.

Possono benanco essere trasferiti a nuovi sovrani, è qui ancora applicabile la regola che i governi sono fatti pei popoli, e non i popoli pei governi. Il suo potere temporale può avere un fine, dappoiché ha avuto un principio. Non è istituzione divina. Gesù ha detto agli apostoli e per conseguenza ai loro successori! Andate ed insegnate, non già: Andate, acquistale e governate.

Il papa dichiara che la sua causa è quella di tutti i troni. Se e gli intende parlare dei troni secondo l'antica legge, che considerava i popoli come proprietà patrimoniale di una famiglia, mettesi in opposizione con la legge nuova di progresso e di civiltà che dà per sola base legittima al potere la volontà nazionale.

Su quel fondamento irremovibile poggerà il papa il suo potere temporale?

Se egli invoca la donazione di Carlo Magno allora gli si risponde: Ciò che Carlo Magno aveva dato, Napoleone lo ha ripreso. Se ei se ne richiama ai trattati del 1815 si sottomette allora al giudizio delle potenze che li hanno firmati: Or bene, coloro che hanno dato, possono togliere; crede egli che in un nuovo congresso la, maggioranza delle Potenze gli conserverebbe, o gli restituirebe ciò che la maggioranza delle potenze gli attribuì al congresso di Roma? Contando il numero delle potenze che già riconobbero il Re d'Italia, può calcolare quanti voti avrebbe per se nel nuovo congresso. Se egli se ne riporta alle largizioni dei privati, dei principi e dei papati nei tempi passali, è lo stesso argomento che si produsse pei beni della Chiesa, e che fu sempre sì vittoriosamente confutato. Questo genere di donazione è colpito da una triplice causa di nullità: ingratitudine dei donatarii; sviamento dello scopo, pel quale si fece il dono, e impossibilità per una generazione d'impegnare le susseguenti generazioni per secoli dei secoli.

In tempo di violenze e di barbarie può essere un espediente utile, anzi necessario che il papato abbia un territorio a parte. Si comprende che il papato fosse feudale e grande quando tutto era feudale intorno di esso, ma perché resterà solo gotico, quando tutto si civilizza? Le condizioni della vita pei popoli si cambiarono dappertutto. Dacché in Francia, in Italia, ed altri paesi di progresso non sonovi più beni ecclesiastici, a quali preti, a quali vescovi si fecero violenze? Essi si lagnano di qualche tiepidezza religiosa, ma ciò dipende senza dubbio da altre cause fuori della secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Opinasi forse che i parrocchiani sarebbero più devoti se coloro cui incombe le cure delle loro anime fossero più ricchi? Opinasi ch'essi sarebbero più rispettati?

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Guardate co'erano le cose nel diciottesimo secolo, quando il clero in Francia possedeva la quinta parte del territorio! II compianto Conte Cavour quando le truppe italiane liberavano le Marche e l'Umbria diceva alla tribuna. In che si troverebbe il papato meno protetto da ventotto milioni d'Italiani, che da venti mila bajonette straniere?

Noi aggiungeremo: i popoli che dipendono da un governo diverso da quello che monta le sue truppe al papa si sono sempre veduti mettere in dubbio le reali indipendenze del santo padre.

Del resto non trattasi più di esistere il potere temporale del papa: esso è ucciso nello spirito delle popolazioni, bisognerebbe risuscitarlo. e Dio punto non permise quel miracolo.

Si è tentata una gran prova, e si sa con qual frutto. Un papa, quale da secoli non s'è mai veduto il migliore, fu chiamato al governo della chiesa. E gli abusi furono gli stessi che sotto l'amministrazione detestata di Gregorio XIII. Si diedero alla Corte di Roma i consigli più disinteressati, e più costanti. Si accordò al papa dalla nazione più liberale del mondo una protezione militare, che l'affrancava da ogni cura di difesa, e gli permetteva di tentare o gni riforma. E nulla si ò ottenuto; nessuno miglioramento si è potuto introdurre. L'esperienza è decisiva. Il potere temporale del papi è alla sua ora estrema.

IV.

Egli è così che dinanzi alla Storia viene in chiaro la spedizione di Roma. Quanto la Provvidenza permise che avesse luogo, riservavasi senza dubbio di trarne per gli uomini un alto ammaestramento. Questo ammaestramento lo abbiamo sotto gli occhi.

Uno degli scrittori che nel 1849 levavansi contro la spedizione di Roma terminava il suo opuscolo, se ben ce ne rammentiamo, colle parole «L'antiche cronache francesi sono intitolate»gli atti di Dio per le braccia dei Francesi. Oggidì noi diremo egualmente: Dio metterà la libertà dove gli uomini credono di apportare il contrario.

Un certo partito abusò assai dell'antecedente di questa spedizione, e' crede imbarazzare il governo dell'imperatore col timore di disdirsi. Non è fuori di proposito di ricordare che questa spedizione non fu immaginata dall'eletto del dicci Dicembre, ma che egli l'ha ricevuta in retaggio del generale Cavaignac, e s'egli lo ha subito come uno degli articoli componenti il programma della maggioranza di allora non si è incatenalo a quella misura più che noi siasi a molte altre emanate egualmente dagli antichi partiti, e che egli revocò senza scrupolo ogni volta che se n'era data l'occasione.

Almeno come presidente della repubblica l'Imperatore attuale provossi di principio di correggere gli aspetti della spedizione colle proposte contenute nella sua lettera ad Edgardo Ney.

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Non è dipeso da lui se fin d'allora non si facesse un po di bene, e gradata mente negli Stati romani. Noi si volte, o noi si poté. La sua lettera era nondimeno come una profezia quand'egli notando lo scopo» della spedizione diceva: quando le armi della repubblica e dell'impero furono portate al di là dei nostri confini, noi furono per proteggervi gli abusi, all'ombra del nostro vessillo germogliavano dappertutto principii di progresso, e di civiltà: non sarà detto che ai nostri giorni ne sia altrimenti.

Del resto non v'è governo che meno di quello dell'Imperatore temesse di dire:

In tal caso mi sono ingannato (ciò ch'è un gran segno di forza).

Ben diverso in ciò da quei governi che preferiscono di soccombere sotto il peso dei loro errori, piuttosto che di confessarli un sol giorno, e di ripararli.

Or ricordiamo che nell'affare del Charles Georges dopo aver ottenuto soddisfazione per l'onore della bandiera francese e posto un termine al preteso protettorato che l'Inghilterra erasi arrogalo sul Portogallo, l'Imperatore non esitò a dichiarare che se l'affare che aveva dato luogo al conflitto, era, tutto bene esaminato, un affare di traila, bisognava rimediarvi, perché non voleva tratta di neri.

Da questo ravvicinamento si può cavare più d'una considerazione appropriata alle odierne circostanze. Se resta ancora qualche speranza al partilo retrogrado, questa speranza non tarderà a dileguarsi. Gli ultra cattolici dicono: a che serve l'aver fatto quanto avete fatto, se non volevate andare fino al termine?- Fino a cedere il posto ad Enrico V, n'è vero? Secondo le parole di Val mv al primo console; restaurare i preti è restaurare i Borboni.

La condotta della corte di Roma fa spiccare a tutti gli occhi che la protezione delle armi nostre è sviata dallo scopo per il quale fu conceduta. A Roma è quistione di tutto meno che di religione. Gli affari religiosi vi sono compiutamente subordinati agli affari politici. Il potere spirituale soffogato sotto il potere temporale è sempreppiù compromesso.

È l'autorità morale della chiesa quella che si troverebbe in giuoco se non vi si ponesse mente.

Quando la religione sarà sbarazzata da questo inviluppo temporale che la soffoga come dalla coppa di piombo, quando i ministri supremi della Chiesa saranno liberi dagl'impicci materiali che gli assorbono eglino attenderanno senza dubbio alle cose religiose.

In quanto alla religione della Francia il suo dovere è semplicissimo. Essendo impossibile di vedere attualmente a Roma altra cosa che una Coblenza, una Coblenza, diretta ad un tempo e contro l'Italia e contro l'imperatore dei francesi,

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contro tutti i principii di civiltà e progresso di patria e libertà, sarebbe un pò troppo strano che una tale cospirazione si facesse all'ombra del vessillo francese. Dunque la Francia sta per ritirare le sue truppe da Roma. Ma allora, dicesi, altre potenze vorranno sostituire la loro protezione alla nostra - Il principio del non intervento sarà mante tenuto vigorosamente. Là dove la Francia rinuncia ad intervenire nessuno interverrà.

Che significa questo argomento sul quale si vorrebbe fondare un dritto di perpetuo intervento: che Roma non è una capitale come un'altra?

La Spagna per organo dei suoi organi di stato degli antichi tempi, per i suoi scrittori i suoi oratori, i suoi ministri, i suoi diplomatici osò esprimere, ripetere e sostenere questa idea che non si potrebbe qualificare altrimenti che di mostruosa, vale a dire; Roma è la proprietà collettiva del mondo cattolico.

Ma Roma non è fatta soltanto di pietre, ma eziandio di cuori umani. E tutte quelle migliaia di uomini sarebbero avviati alla glebe papale; proprietà collettiva del mondo cattolico: più che servi, schiavi e schiavi a perpetuità, senza speranza di affrancamento, poiché l'affrancamento avrebbe bisogno del consenso dell'universo!

Che importa, risponde la Spagna officiale, purché l'organo della verità che m'è necessario trovisi visibilmente libero, e che la mia salute spirituale sia assicurata?

Ecco il fondamento stesso della schiavitù, sarebbe la schiavitù estesa dagl'individui alle nazioni.

Che importa diceva essa egualmente se quelli che lavorano per me siano schiavi purché si coltivino le mie piantagioni, e prosperi il mio impero?

Siffatte violazioni delle leggi divine ed umane mai non producono che miseria materiale, e miseria morale. Ov'é oggidì l'immenso impero della Spagna, dal quale mai non tramontava il sole? Con siffatte teorie ove sarebbe domani il cattolicismo? Si vede oggidì a che fu ridotta la Spagna dall'applicazione di falsi principii.

Ma se la Spagna cattolicissima è ostile all'unità italiana vi ha luogo a pensare esservi in ciò l'opinione della corte più che l'opinione 4el popolo spagnuolo il quale ha sofferto come popolo italiano per cause analoghe, ed è per esso chiamato a grandi destini. La corte, che è della famiglia di Borbone vede senza dubbio gli avvenimenti d'Italia a traverso agl'interessi di famiglia più che col lume di una sana politica, e di un vero spirito religioso.

Dei resto S. M. fedelissima, il re di Portogallo ha di subito riconosciuto il nuovo re d'Italia: si può essere certi che ritirandosi la Francia nessuna potenza cattolica non vorrà, o non potrà intervenire.

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Del resto oltre il voto opposto ad ogni violazione del principio di non intervento sonvi certe precauzioni profetiche le quali debbono accompagnare la nostra partenza. Erasi posto innanzi che l'Imperatore conservasse la sua guarnigione a Roma in vista di una prossima guerra, e ciò nell'interesse d'Italia. Gl'Italiani che sono certamente migliori giudici di quanto è a loro proprio interesse la penserebbero diversamente,

v'è minor tratto da Chamberv a Verona, che da Roma al Mincio.

In quanto alla presenza dei nostri soldati nell'occasione di un conclave non vediamo bene, nel caso di morte del papa ih che la nostra forza materiale accrescerebbe la nostra forza morale, né in che la scelta del nuovo papa sarebbe migliore o peggiore, se avvenisse alla nostra presenza o senza di essa. È certo che la tranquillità pubblica sarebbe si bene mantenuta dalle truppe francesi. né i soldati né i generali dell'una, né dell'altra nazione non hanno la pretensione di dettare la scelta dello Spirito Santo. E la scelta che rallegrerà l'Italia, rallegrerà perciò stesso la Francia, avendo noi i medesimi principii, e mirando al medesimo scopo.

Il motivo per cui l'Imperatore ha lasciato si lungamente e suo malgrado l'esercito di occupazione a Roma è il suo desiderio sincero di riconciliare quelle due grandi forze sociali: la religione e la patria.

Egli ha voluto prevenire una separazione violenta che sarebbe una sventura generale, e la presenza delle nostre truppe ha impedito più d'un colpo di testa. Egli fu d'avviso che il papato e l'Italia si farebbero nel reciproco loro interesse delle scambievoli concessioni.

Egli è costretto confessare che l'Italia sola si è mostrala disposta a farne.

L'imperatore promise di guarentire gl'interessi della chiesa, e di non sàgrificare i dritti della nazione italiana.

Noi siamo al termine della pruova.

A coloro che dicono: la spedizione di Roma ebbe luogo per non lasciare la capitale, ove il cattolicismo ha la sua sede suprema nelle mani del partito rivoluzionario è facile rispondere in oggi: la spedizione di Roma non può avere per iscopo di lasciare la città eterna nelle mani di un partito reazionario e cospiratore che l'impone al papa stesso e lo domina.

Quando l'assemblea francese spedi la nostra flotta a Civitavecchia si dichiarò altamente che noi non intendevamo d'imporre' agli abitanti una forma speciale di governo.

Tutto desidera che a Roma vi fosse un governo costituzionale e saggiamente liberale.

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Se il papa non ha costituito questo governo di libertà moderata che avrebbe calmati molti risentimenti, e risparmiati molti dolori, Vittorio Emmanuele l'ha stabilito. La libertà costituzionale sfavillò da Torino su tutta la Penisola. È dessa che più di ogni altra cosa attirò tutti gl'Italiani a lui, e ne fece una nazione.

Oggidì i romani su cui è caduto un riflesso di questa libertà che da principio lontana si è loro avvicinata vogliono entrare in possesso della legge che la fornisce. I Romani ne hanno il dritto.

E le potenze che nel 1849 temevano l'autorità dei Triumviri ponno vedere adesso che l'autorità costituzionale di Vittorio Emmanuele sarà una guarentigia d'ordine pubblico e di libertà religiosa maggiore di quella offerta in questo momento dall'autorità retrograda dei cardinali.

V.

Rispondendo il 21 giugno alla nota con cui il ministro degli affari esteri di Francia signor Thouvenel faceva conoscere, il 15 giugno, che l'imperatore riconosceva Vittorio Emmanuele come re d'Italia, il ministro degli affari esteri d'Italia Barone Ricasoli termina con queste parole.

E nostro voto di restituire all'Italia la sua gloriosa capitale; ma è nostra intenzione di non togliere nulla alla grandezza della Chiesa, alla indipendenza del capo augusto della religione cattolica. Per conseguenza amiamo sperare che l'imperatore potrà chiamare tra qualche tempo le sue truppe da Roma, senza che questa misura faccia provare ai sinceri cattolici apprensioni che noi saremmo i primi a deplorare. gl'interessi medesimi della Francia, ne abbiamo il convincimento, decideranno il governo francese a prendere questa determinazione. Lasciando all'alta saggezza dell'imperatore di giudicare del momento che Roma potrà essere lasciata a se medesima senza pericolo, noi ci faremo sempre un dovere di facilitare questa soluzione se speriamo che il governo francese non ci ricuserà i suoi buoni uffìcii per condurre la corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di felici conseguenze per l'avvenire della religione, quante per i destini d'Italia».

Tuttociò che possiamo dire oggidì che non vi è una sola guarentigia né morale, né materiale, che non sia stata offerta dai ministri italiani per l'indipendenza del sommo pontefice.

Ciascuno se ne convincerà appena sarà giunto l'istante di pubblicare questi importanti documenti.

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Nei giorni di riflessione che sono ancora lasciati al Santo Padre gli comparirà innanzi la verità. Ci sembra difficile che ne sia altrimenti, se egli prega Dio, svincolandosi intieramente da ogni preoccupazione terrena, e se interroga il suo cuore d'Italiano che ha battuto sì nobilmente e sì fortemente per la patria italiana.

Ore di debolezze saranno toccate a lui pure, sentendo per tante pruove quanto il trionfo fosse difficile. Ma vedendola rialzata, questa nazione ch'egli ha benedetta in ispirito, perché non la benedirebbe al presente ch'essa è nata all'indipendenza, e alla libertà, e ch'essa è là tutta gloriosa di venti battaglie, tutta raggiante del suoi sacrifizii?

Ecco una nazione cattolica fra tutte che non ha mai avuto sette, che è rimasta non solo l'arca santa della Chiesa, ma eziandio la sede della sovranità spirituale, e che domanda di esser benedetta dalla Chiesa, ed il papato la respingerebbe, volgendone altrove gli occhi?

Sarebbe cosa assai grave per il papato il dichiarareche la sua propria esistenza è incompatibile con quella d'una nazione, che l'Italia e il papato non ponno coesistere. Tutte le nazioni si sentirebbero colpite da questa anatema caduto sopra una nazione, sorella. Ma al presente a chi mai si farà rinunziare all'idea di patria?

Si sono veduti re abdicare, onde sottrarsi a frustranee effusioni di sangue, onde impedire la guerra civile. Perché mai il padre comune dei fedeli, il vicario di chi è morto per la salute degli uomini non abdicherebbe spontaneamente un potere temporale, con cui non può fare alcun bene ed è causa di si grandi strazii!

Si ricordi Pio IX degl'entusiasmo che suscitò quando pronunziò la parola Italia! Oh! Se per uno slancio di cuore potesse ritornare alto spirito di quei bei giorni, egli ritroverebbe in un batter d'occhio tutta la popolarità dei primi anni.

È assai lardi senza dubbio per abbandonarsi a simili speranze.

Sarà almeno una consolazione grandissima per l'Italia come per la Francia che nulla siasi trascurato per la concordia e la conciliazione.

Se la corte di Roma si ostina, allora non vi è più che ad appellarsi al popolo romano.

Il plebiscito avrà luogo sotto gli occhi dell'esercito francese. Chi lo sospetterà. E il domani, se Vittorio Emmanuele è chiamato a regnare in Roma, le truppe francesi saranno successivamente scambiate dalle truppe italiane, affinché nulla sia lasciato al caso, e non possa aver luogo alcun disordine.

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E il re d'Italia pubblicherà allora l'accordo stabilito tra lui e le potenze cattoliche per garentire l'indipendenza della Santa Sede, e lo splendore della religione.

Il papa in seguito farà ciò che vorrà. Egli resterà o partirà. A lui la responsabilità delle scissure religiose. Rifletterà senza dubbio, e vedrà che abbandonare Roma quando è lasciata al culto una libertà, di cui non fu la maggiore in nessun altro tempo e con risorse più che mai considerevoli per l'opera religiosa, e ciò per rifugiarsi nel campo della reazione europea, sarebbe perdere lo stesso suo potere spirituale. Poiché a simili segni chi mai potrebbe riconoscere l'organo infallibile della divina verità?

Roma sarà ad un tempo la capitale dell'Italia, e la sede della Chiesa.

Dicevasi che ciò non si poteva. Sono incompatibilità che esistono soltanto agli occhi di quelli che guardano unicamente al popolo. Ma quando si pensi che la nuova Europa sarà unita da vincoli federativi, perché le capitali delle nazioni non sarebbero la sede, questa della corte di Cassazione europea come centro giuridico, quella del Congresso europeo come centro legislativo; un'altra dell'ammiragliato europeo come centro marittimo, un'altra del maresciallato come centro militare; al modo stesso che la città eterna sarebbe la sede del papa, e del sacro collegio come centro religioso?

Non v'ha luogo a temere che una volta scomparso il potere temporale dei papi, sianvi dappertutto re ed imperatori che si facciano capi e patriarchi della loro chiesa, questo timore di czarismo non è dei nostri tempi. I popoli sono troppo illuminali perché si rinnovi Enrico Vili e Pietro I. Trattasi precisamente di far sparire a Roma questa confusione di due poteri, fonte dal più intollerabile dispotismo.

Facciamo adunque il nostro dovere checché ne avvenga. Il nostro dovere presente è che Roma sia lasciata a se medesima. Doppia capitale: capitale d'Italia, e sede del sommo ponteficato.

Quando la Francia dirà: nei giorni di prova sono stata in che vi protessi: quale forza vi ho ricusato perché vi fosse dato di riformare il vostro potere temporale e farlo durare? Se noi faceste, non è mia colpa. Vi resta il potere spirituale, cercate di non perderlo. E perciò mettetevi alla testa di tutte le nobili e grandi idee: esse mettono il patronato a fine di depurarle.

E quando l'Italia soggiungerà: Quale guarentigia vi ho ricusala? Regnate sulle, anime: mostratemi vie novelle a nuovi sagrifici, o una più completa diffusione dei principii di Cristo. Allora il papato agirà secondo le sue ispirazioni ma non potrà lagnarsene. Chi vorrebbe vedere nel papa un martire?

Se il papa benedice l'Italia cominceranno allora nuovi giorni per la Chiesa, se no, si compiano i destini. Ma Roma non sarà meno la capitale d'Italia!

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CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO

In un paese che sorgeva, a novella vita; e che intendeva ad impiantar nuove basi di organamento civile e politico, non men che finanziero amministrativo e militare, ognun può di leggieri immaginare quante e quali gravi quistioni dovessero agitarsi tanto in Parlamento che fuori, ognuno può facilmente recarsi in mente quante esigenze sorgessero, e quanta operosità dal canto del ministero necessario addivenisse. Martiri di libertà, sinceri, o camuffati che chieggono impieghi, compensi, regali, pensioni, e contro i borbonici per avventura ancora in carica aspramente si arrangolano, gli operai chieggono lavoro, i proprietarii aspirano a veder trasformate in un mese le condizioni agricole del paese. Il commercio vuole novelle istituzioni di credito, e ferrovie, questi vuol veder migliorata la città, quegli depurata la magistratura, un altro vagheggia le utopie dei più immaginosi scrittori, e si arrovella per non vederle in otto giorni attuate in Italia: uno vuol soppressi i monasteri, ed occupate all'istante tutte le case religiose, un altro chiede la vendita istantanea di tutti i beni demaniali, da una parte si grida al caro dei viveri ed al monopolio, dall'altro si domanda il nuòvo catasto fondiario ed in mezzo a tutto ciò qual po tea essere quel monastero che non barcollasse (la storia non conosce partiti) che non fosse impacciato sul da farsi, e volendo provvedere a qualche cosa, almeno alle più urgenti non sperperasse da una parte il pubblico danaro, e dall'altra imponesse tasse sopra tasse? Con ciò rendesi sempre più complicala e trista la posizione del paese. Ecco quali si mostravano le condizioni d'Italia.

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Una delle prime quistioni trattate nella Camera dei Deputali fu nella del prestito di 500 milioni di lire. Cominciò il disinganno nel felice avvenire del paese, ma nessuno avrebbe potuto dissimularsi le strettezze ed il prestito fu votato a quasi unanimità (a)

(a) La Camera dei Deputati ha approvato nella sua adunanza di ieri con voto quasi unanime la legge per cui vien fatta facoltà al governo del Re di contrarre un prestito di 500 milioni effettivi inteso a somministrare i mezzi di saldare le spese cagionate dai meravigliosi avvenimenti trascorsi, di sopperire alle esigenze future, la legge del prestito era essenzialmente un provvedimento politico. La discussione di quella legge doveva per tanto collocare il gabinetto, che una sventura irreparabile ha chiamato alla direzione della cosa pubblica, in presenza della manifestazione legale dei sentimenti e delle convinzioni del paese. Il voto che verrebbe reso sarebbe oltre la misura, ed il criterio della confidenza ispirala dal presente ministero del concorso ch'ei può ripromettersi dal Parlamento e dalla nazione.

L'esito di questa pruova, son lieto di constatarlo, ha pienamente corrisposto al concetto ed alle speranze che induceva a nutrire la rappresentanza di un paese, che frammezzo a cosi straordinarie vicende ha dato saggio costante e luminoso di patriottismo, di polita saviezza, e del fermo suo proposito di accettare con animo volenteroso quanti sagrifici richiedesse l'opera della sua indipendenza, e della sua unità nazionale.

Non ho d'uopo, signore, di farle notare tutta la importanza della deliberazione presa dalla Camera con la quasi unanimità di suffragi. Questa importanza è di tanto maggiore che la legge del prestito provvede ai più vitali interessi della patria nostra, e che avevala preceduta il voto dell'altra legge rilevantissima per cuj venne creato un solo debito pubblico per la interna Italia.

Tali risultamenti avranno, ne son persuaso, benefico influsso sulla situazione nostra non meno all'interno, che rispetto all'estero.

Dopo di aver costituita l'unità nazionale, noi saremo giunti cosi a fondare eziandio 4' unità finanziaria d'Italia. Confortati dal credito pubblico, e dalla pubblica opinione, noi speriamo ci verrà dato parimenti mercé l'incremento della ricchezza nazionale, e mercé un'amministrazione previdente, solerte e misurata di riparare ai disavanzi cagionati da una lotta di più anni e di ristabilire tra non molto l'equilibrio tra l'entrata e le spese.

Il programma esposto su questo proposito con tanta chiarezza e precisione dal mio collega il ministro delle finanze porge ogni maggior sicurezza, e noi vogliamo confidare sarà accolto con non minor favore dalla opinione straniera che noi sia stato in seno del Parlamento nostro, e dal nostro paese.

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onde Ricasoli indirizzava la sua circolare alle legazioni escare (b).

Un altra non men grave quistione agitatasi in Parlamento in quest'epoca fu quella del catasto. Ed implicava in vero ben serii

Dal canto mio ho creduto dovere in occasione sì solenne chiarire nuovamente, e con tutta la franchezza di un intimo convincimento gli intendimenti del governo del Re nelle sue azioni all'interno ed all'estero. La nostra, politica si riassume nello svolgere all'interna la prosperità nazionale col promuovere il commercio, le industrie, e le arti, col dare agl'interessi municipali, e provinciali ampio mezzo di venir soddisfatti, col. tutelare risolutamente e fermamente l'ordine pubblico senza venir meno al rispetto delle leggi, ed alla sincera applicazione di quei liberali principii che. informano le nostre istituzioni. Riguardo all'estero il governo del Re non può perder di mira il compimento di quell'opera che venne con tanta costanza condotta ormai al desiderato termine. Ma nel volgere ogni nostra sollecitudine nel far sì che l'indipendenza nazionale venga totalmente compiuta fidenti nella ragione e nelle simpatie di Europa, noi non ci faremo provocatori di crisi, le quali dovessero turbare la pace generale, e mettere a repentaglio gl'interessi della causa italiana.

Questa politica io non potrei dubitarne, otterrà l'approvazione delle potenze amiche, e le renderà propense al compimento dei nostri destini.

Nel vedere l'Italia riconosciuta già dai principali governi di Europa, assodata ormai negl'interni suoi ordinamenti, pronta a prestare al governo ogni maniera di concorso, ci è lecito portar fiducia che i dubbi che ancora potevano sussistere presso alcuni governi non tarderanno a far luogo ad un sentimento di fondata sicurezza intorno allo stabile e regolare andamento del nuovo ordine di cose, ed all'assetto definitivo dell'Italia. - Ricasoli.

(b) E pure, sebbene per una legge economica gl'interessi dei capitali fossero in ragione inversa della sicurezza del loro collocamento e delle garentie che presenta colui il quale li prende a mutuo, sebbene i capitalisti fossero sempre abili nello scrutinare le condizioni finanziarie di coloro che si volgono ad essi per danaro, non molto accessibili all'entusiasmo, né ignoranti delle conoscenze economiche, la divulgazione del prestito italiano trovò in Italia e fuori un'affluenza di capitalisti da meravigliare coloro medesimi che avevano una fede incrollabile ne' futuri destini d'Italia.

Da ciò è impossibile il non considerare che il credito di uno stato regola

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interessi cotesta quistione; poiché come unificare la contabilità ed il sistema finanziera, cosa, cui, da tutti i partili e dal governo stesso ardentemente tendevasi, senza unificare il sistema daziario, s e specialmente il cespite fondiario che ha buon dritto va reputato il più importante fra tutti? Come poter regolare con equità le proporzioni di tutti i novelli dazii che giornalmente si andavano imponendo, senza regolare, e ridurre alle giuste proporzioni la tassa fondiaria?

Parlavasi fin da ora di una imposta mobiliare, ma come render non direm tollerabile, ma possibile qualsiasi tassa mobiliare, senza armonizzarla con l'imposizione fondiaria? Fin oggi tutto, quasi tutto pagarono in Italia i possessori di stabili: oggi volete che contribuiscano anch'essi direttamente ai pubblici pesi i possessori di capitali mobili. Ma se cosi è egli è mestieri che i primi siano sgravati, e che quel peso che d'apprima si portava da una sola classe oggi si renda tanto più lieve per quanto il consentano le forze di un'altra classe che allo stesso scopo concorre. Senza riforma catastale non vi poteva essere adunque imposizione mobiliare in Italia. Eppure vi fu, ed il catasto non ostante le promesse speciose del ministero, e le pompose declamazioni della Camera, il catasto rimase qual era.

E notate che presentava cotesto le più singolari anomalie; poiché alcuni Stati italiani pagavano il diciannovesimo della rendita, altri il dodicesimo, altri un sedicesimo, altri un quinto, e ve n'erano per fino di quelli che pagavano un quarto. Eppure in cotanta difformità di cose, le novelle imposizioni vennero a colpire tutti gli stati egualmente!

(Nota Calarco)

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E non era senza gravi difficoltà la formazione di un nuovo catasto. Farne uno provvisorio, come molti della camera opinavano significava assoggettirsi ad una spesa senza dubbio non lieve, senza poter evadere tra non guari ad un'altra ben più grave, e con tutto ciò il catasto provvisorio non avrebbe superalo tutte le difficoltà del momento. Sarebbesi richiesto un catasto difinitivo, ma come farlo senza il decorrere di molti anni? Così rimasero le cose, mentre gli ufficii continuarono lentamente il loro lavoro per un catasto difinitivo.

Le concessioni delle ferrovie diedero luogo ad importanti e lunghe discussioni nella camera legislativa. Durante la Dittatura si era già data una concessione ai due imprenditori Adami e Lemmi. Dal governo costituito non si volte riconoscere. Molto si disse su tal proposito. Chi disse gravissime le condizioni del contratto: chi la dichiarò una concessione di favore; ed in fine vi fu per anco chi la disse avvenuta per prezzo non delicato né morale, checché ne sia noi quando vediamo che le concessioni posteriormente avvenute nulla hanno avuto di meglio, conchiudiamo che quella stizza fu anche ciò che produsse la distruzione della concessione Adamo e Lemmi.

Fu sostituita la concessione Talabol; e non avvenne senza gravi attacchi in Parlamento; e la cagion principale per cui venne guerreggiato il Ministero si fu che le ferrovie con i capitali nazionali, e non cogli esteri voleansi costruite. Orgoglio senza scopo! Intento vanitoso, e senza effetti! Noi sventuratamente non abbiamo trovalo di che divenire in qualche modo teneri del ministero presente o dei futuri, ma a questo proposito riportiamo con soddisfazione le parole profferite dal ministro dei Lavori pubblici signor Peruzzi nella tornata dell'assemblea legislativa del dì 3 luglio.

» La concessione Talabol è la più importante che siasi fatta, e nuova nelle sue forme, ma dalla opposizione che si è fatta da alcuni e dalla discussione avvenuta mi confermo nelle mie idee.

» L'onorevole Susani si dichiara pel principio della libertà economica. Ei rassomiglia a quei devoti del medioevo che andavano a confessare di quei peccali che intendevano di commettere. Ama la libertà; ma la vuole applicala sollo certe condizioni.

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Per parte mia ho fede nei principii di libertà, ed in ritengo che non si debba vincolarla, perché, se arrecasse un qualche svantaggio, tanti sono i beneficii che ci porla da compensarci ad oltranza.

Quando si tratta di far molto e presto le industrie nazionali sono insufficienti; e d'altronde sarebbe un intisichirle, se impedissimo l'importazione estera.

La industria italiana disporrà di braccia, e d'intelligenze quando gli stranieri verranno a completarla.

Non bisogna che guardiamo in cagnesco gli stranieri che vengono a portarci le loro cognizioni. Chi fece questo? L'italianissimo degl'italiani, Ferdinando II di Napoli; noi dobbiamo distruggere quella muraglia morale che innalzò nel nostro paese, a guisa della materiale che sorge nel Celeste Impero.

Io non ho la pretensione di avervi presentato un progetto perfetto, e capisco tutti gli appunti che gli si fanno. Dice l'onorevole Susani che sono ben pochi quei miserabili 50 milioni che la società spenderà per quest'anno in confronto dei sagrificii che ci vengono imposti. Capisco che si è presa gran confidenza coi milioni, ma non so come una somma di tal fatta corrisposta in un tempo così breve possa chiamarsi

Lo stato anticipa, è vero, 40 milioni, ma appena costituita la società, comincia la restituzione, ed all'interesse del 6 0|0.

In Francia quando si largheggiò in sovvenzioni, la costruzione prese un grande sviluppo. Ma noi fra due anni avremo in esercizio 1500 chilometri di ferrovie, poco meno di quanto essa feco in quattro anni, abbenchè le nostre sovvenzioni siano molto al di sotto.

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far presto è un beneficio che bisogna pagare, ed in questo momento ne vale la pena.

Ciò nulla manco s'insiste a prò dei capitalisti nazionali. Deplorabile cecità, senza la quale noi avremmo avuto le ferrovie da Napoli all'Adriatico, in gran parte almeno, e senza alcun dubbio nel 1 gennaio del 1863. Tralasciamo il dimostrare poiché cotesta non è materia che appartiene alla storia come l'affluenza dei capitali esteri nel proprio paese, lungi dall'essere un danno, sia il più gran vantaggio che mai desiderar si possa, tralasciamo ciò, ma dimandiamo soltanto, cosa che al cerio non possiamo dispensarci dal fare.

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Voi che volete la costituzione delle ferrovie coi capitali nazionali, avete mai preso calcolo della qualità dei capitali circolanti in tutta l'Italia? Prendetelo cotesto calcolo, e vi accorgerete ch'essi non bastano, o che per lo meno rimarrebbero tutti assorbiti da quel solo lavoro.

Pareva ormai tempo che si volasse la legge che ordinasse l'occupazione delle case religiose, e nella ternata del 2 luglio fu soddisfatto questo volo della pubblica opinione. Nella votazione la legge ebbe 179 voti favorevoli, 23 contrarli. L'articolo votato fu così concepito fatta facoltà al governo di occupare per decreto reale le case delle corporazioni religiose in ciascuna provincia del regno, ove lo richiegga il bisogno del pubblico servigio, sì militare che civile».

Il governo provvederà alle esigenze del culto, alla conservazione degli oggetti di arte, ed al concentramelo dei membri delle corporazioni medesime o in parte delle case stesse occupate, o in altre case dei rispettivi loro ordini».

Argomento novello di lunghe discussioni fu la vendila dei beni demaniali. Trattavasi in fatti di tre miliardi compresi quelli della manomorta.

Fra il Parlamento, la stampa indipendente, e la pubblica opinione la quistione si agita fra i seguenti termini. Tutti convengono della necessità di vendita dei beni demaniali; ma chi la vuole istantanea onde istantaneamente rinsanguinare l'erario, chi vuol differirla a miglior tempo, e quando la fiducia pubblica nel novello ordine di cose trovasi maggiormente consolidata, quando la calma sarà pienamente ritornala, quando in fine si possa profittare di tutto l'agio a favorevoli negozii e non barattare sull'istante. V'ha degli altri che voglione la vendita in massa, altri vogliono farla in dettaglio, ed a piccoli lotti, onde evitare il monopolio, e conseguire che i piccoli capitalisti divengono anch'essi proprietari fonéferii. V'ha chi si oppone alla vendita, e sostiene l'enfiteusi. Altri non fa distinzione fra acquirenti stranieri, ed acquirenti nazionali, e trova opposizione in un altro partilo che vuole escludere assolutamente i capitalisti stranieri. Alcuni vogliono la vendila diretta, altri sostengono la vendita indiretta ed in massa, salvo alla società acquirente il poter rivendere quando e come le aggrada.

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Finalmente alcuni si contentano del prezzo in contanti, altri onde rilevare il credilo pubblico vogliono che non se ne possa altrimenti soddisfare il prezzo che per vie d'iscrizione sul Gran Libro del debito pubblico. Son queste tutte le diverse opinioni che cozzano fra loro sulla vendita dei beni demaniali. Quel che noi ne pensiamo diremmo se a tutt'altra missione che a quella di storici ci chiamasse il dovere.

Ebbe luogo in quest'epoca il novello ordinamento giudiziario. Corti di assise, e tribunali mandamentali furono istituiti. Il nuovo ordinamento portò seco nuovo personale nell'ordine giudiziario. Fu soddisfacente? Ciò ci mena a parlare del personale nell'ordine degl'impiegati, che è un'altra fra le gravi quistioni dell'epoca.

Il governo piemontese prese le redini delle nuove provincie con l'idea fissa, già lo abbiamo detto altrove, della conciliazione tra il vecchio ed il nuovo elemento, e quindi la maggior parte degl'impiegati borbonici rimasero ai loro posti. Che fossero interessati ed egoistici o puri e disinteressati questa misura non poteva che irritare gli uomini del progresso e della rivoluzione: irritava i primi, perché vedevano non vacare i posti cui aspiravano; irritava i secondi, perché ben vedeano la cosa pubblica non poter mai spacciatamento e con pubblica soddisfazione procedere quante volte al potere rimanessero uomini non usi a principii larghi e liberali, non a lealtà ed a cortesia, uomini ignoranti, che non avevano altro merito che quello di esser divoti alla cessata monarchia, uomini in fine che avversavano l'andamento delle pubbliche bisogne per creare avversi ad un governo ch'essi non potevano amare. Le declamazioni furono molte, e come suole accadere in ogni cosa che urta troppo vivamente i personali interessi si andò lino alle insolenze. Qualche cosa si volte fare, ed i ritiri, le pensioni, le disponibilità a molti fra gli antichi impiegati furon dati. Ma ciò non soddisfaceva punto, perché aggravava la finanza a prò di chi di qualsiasi beneficio riputavasi indegno, e quando qualcuno dicevasi debbasi rimaner sulla strada meglio senza dubbio che costui sia un borbonico, che un liberale. Da ciò una lotta sempreppiù accanita contro il governo, ed un crucifige ripetuto a coro sempre che per avventura qualche promozione in persona di questi abominati avvenisse.

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Ed il governo è inamovibile, e le che s'ingenerano negli ufficii, e gli atti che s'invocano, e le parzialità ed i soprusi che si commettono, e gli uomini intelligenti che mendicano son tutte cose cui il governo non bada, e si ostina a fare l'Italia coll'elemento borbonico.

Né è men dolorosa la quistione amministrativa. Nelle provincie e nelle meridionali in ispecie lo spirito pubblico trovasi in istato di prostrazióne ed il disagio economico è tale che affievolisce le speranze nell'avvenire. Al disordine prodotto dalla rivoluzione è succeduto il disordine amministrativo, e per soprassoma il brigantaggio che ogni giorno più aliena le masse dall'attuale ordine di cose. Il governo mostra avere una confusa idea degli uomini e delle cose, e la opinione pubblica lo intende, e diminuisce la sua stima. Il lungo attendere ha gittato lo sconforto, di tal che oggi si ascoltano più le insinuazioni dei reazionarii che la voce della speranza. Alla testa dell'Amministrazione nelle provincie sono uomini incapaci, e poco energici, i provvedimenti tardivi per la lontananza della capitale, il lavoro manca, tutti i beneficii promessi dalla rivoluzione non si sono affatto conseguiti, le autonomie distrutte da un completo e repentino accentramento, nuovi sistemi, nuove leggi, uomini nuovi investiti dell'autorità, tutte queste cose generano dappertutto sconforto e malcontento. Aggiungi il caro dei viveri, una nuova moneta confusa all'antica che viene ad intorbidare le menti delle masse; aggiungi le industrie abbandonale, il commercio in ristagno, leve numerose, ed in mezzo a tutto questo un sistema daziario d'una inusitata gravezza. E poiché accennammo dei dazii è d'uopo intrattenersi alquanto sulla quistione finanziera.

Il prestito dei 500 milioni veniva esaurito a seconda che se ne realizzava l'introito, ed il Tesoro pubblico rimaneva più esausto di prima.

Il sistema daziario gravissimo, e di lunga mano superiore ai più ubertosi prodotti dei capitali, dava risultameli sempre ed in grandi proporzioni inferiori agli introiti previsti in preventivo. L'aumento del decimo sui trasporti a tutta celerità, diminuì gl'introiti delle ferrovie e del Tesoro. La legge sul registro, e sulle spese giudiziarie non corrispose alle previsioni del bilancio; ed il Lotto, che nelle provincie meridionali costituisce una passione fruttò ben meno di prima per l'aumento imposto sulle giuocate.

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E le gabelle, da cui attendevasi un aumento singolare, attesa la novella tariffa informata al sistema del Libero-cambio, le gabelle stesse, per la irrefrenata libertà lasciata al controbbando diedero un di meno.

A tutto questo $ aggiunge una crisi monetaria che minaccia triste conseguenze, e mette in allarme lo spirito pubblico. Ciò deriva in primo luogo perché la circolazione della moneta non viene abbastanza nutrita da nuova coniazione. Non si ha In circolazione che il napoleone d'oro, il quale non ha corso legale, e va considerato come marca. Avvi pure la moneta borbonica, ma questa è tutta locale, e di cui non si può avere importazione. Le piastre di questo peso, e massime le nuove del 1859 e 1860 veggonsi sparite quasi interamente dalla circolazione, ed in vece non si vede che moneta vecchia e corrosa. L'argento essendo assai ricercato in Francia in Inghilterra, ed in Olanda, è chiaro che si è compensato in oro il quale ha una depreziazione. Gli affari di America hanno portata una sospensione negli arrivi delle verghe metalliche.

Eppure Napoli era uso ad una gran massa di moneta circolante e perché non aveva importazione dall'estero come avveniva in Piemonte, ove si fanno importazioni della Francia: la moneta napoletana aveva una impronta tutta propria, e perché il credito in Napoli non esisteva propriamente parlando: le polizze, e le fedi credito dei Banchi non hanno mai rappresentato che altrettante somme effettive, ed esistenti in moneta. Quindi la grande attività della nostra zecca, e la pinque circolazione che si fa ascendere ad un miliardo di lire, e le sole immissioni del commercio nell'ultimo decennio arrivarono a quattrocento milioni.

Un nuovo Porto in Napoli, delle Opere di Bonifiche, una cassa di risparmii, una banca di circolazione, l'armamento costituivano altrettante quistioni del giorno, ed altrettanti oggetti delle pubbliche esigenze.

Il governo preoccupavasi della evidente necessità di dare a Napoli un porto, giacché l'esistente meritava appena un tal nome. I grandi destini commerciali, a cui Napoli trovavasi destinato, appena collegato con una vasta rete di strade ferrate richiedevano per questa cospicua città, senza dubbio capitale commerciale dell'Italia tutta, un gran porto provveduto di, di cantieri, di bacini da raddobbo.

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Ma nell'attualità d'angusto rifugio che Napoli ci presenta è tale da non capire tutti i legni che vi si presentano, per modo che molti son costretti a rimanersene fuori esposti alle traversie. Inoltre la mancanza di sicuro ancoraggip, il difetto assoluto di magazzini, oltre a rendere illusorii i beneflcii di un porto franco, portano altresì un danno evidente col diminuire la frequenza degli approdi, col mantenere posizioni disagiate alle speculazioni mercantili. Intanto nel periodo di cui ora narriamo la quistione del Porto presentasi nei seguenti termini, Una società domanda la concessione della impresa del nuovo porlo, ma per coprirsi delle spese e del rischio richiede per un dato numero di anni sia investita del dritto di riscuotere le tasse di lanternaggio, di tonnellaggio e simili. Ma ciò metterebbe le pastoje al commercio, e questo per fiorire ha mestieri di sbarazzarsi di ogni peso. Il problema dunque, di cui si andava cercando la soluzione era questo; trovare il modo di offrire senza indugio al commercio napoletano la comodità di un porlo che bastasse ai bisogni d'uno scalo franco, che offrisse sufficienti magazzini, e comodità di approdo, di ancoraggio, di sbarco, ed anche di cantieri de raddobbi, e liberarsi cosi dalla necessità di cedere ad una compagnia la percezione delle tasse portuali, e mettersi in grado di farle mano mano sparire.

L'altra quistione che si voleva attraesse l'attenzione del ministro di agricoltura era quella di guadagnare all'agricoltura i terreni tuttora sterili, e suscettibili di coltura, di ridonare la sanità ad estese vallate funestate da morti, e febbre putride o intermittenti. Fuvvi una società rappresentata da un Mario del Tufo Martino che domandava la concessione di tutte queste opere, e prometteva l'esecuzione in un periodo abbastanza breve, e per ciascuna di esse disegnava i metodi e la natura delle opere a praticare. Ma si fece cattivo viso al pretendente si perché la società era tutta composta di esteri, ed in ciò non v'era logica, sì perché, ed in quanto a ciò troviamo giusto il diniego le condizioni proposte eran gravissime, come la proprietà di tutti i terreni bonificati, un dritto illimitato di espropriazione, l'esenzione da tasse, e dai dritti d'ipoteca, privilegio perpetuo, facoltà larghissima nel definire il raggio dei terreni a bonificare,

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proprietà piena di tutti i dritti derivanti dalla canalizzazione, ed inoltre la società richiedeva che il governo le avesse assicurato un interesse del 6 per cento sul capitale ch'essa doveva impiegare.

Una cassa di risparmii fu ideata, con un fondo non maggiore di 80,000 lire largite dal Re nella sua dimora in Napoli. La cassa doveva essere incardinata al Banco di S. Giacomo, e quindi, al solito sotto l'ingerenza governativa come suole sempre accadere nei paesi non usi alle grandi istituzioni di credito.

Un altro bisogno vivamente sentito dall'Italia, ed al quale in vero il ministro non neglesse soddisfare, quantunque in ben ristrette proporzioni, era una Banca di circolazione, la quale rendevasi specialmente necessaria in queste meridionali provincie, ove grandi valori si potevano creare tanto con le industrie manifatturiere, che col commercio; e tanto il secondo che le prime sentivano forte il bisogno di esser fecondate dal capitale o dalla rapida circolazione di esso.

Diremo dell'armamento.

Si narrò che nell'ultimo suo viaggio a Parigi, il conte Arese adempiendo all'incarico avuto dal Barone Ricasoli, insistesse assai vivamente presso l'Imperatore Napoleone per lo sgombro delle truppe francesi da Roma. E si aggiunse che lo Imperatore lo stesse lungamente ascoltando, chiuso nel suo impenelrabile silenzio, e quando l'Arese ebbe finito di svolgere le infinite ragioni che rendevano del desiderato sgombro una imperiosa necessità per l'Italia, l'Imperatore si tacque ancora, e poi piantandosi ritto in faccia al suo interlocutore gli chiedesse repentinamente - Avete voi 250,000 uomini sotto le armi? Li avremo Sire. Quando? Per la primavera. Non li avrete.

E perché l'Arese si diffondeva in assicurazioni ed in promesse, l'Imperatore rispose adducendo in pruova cifre e fatti che fecero perder la bussola al povero Conte. Con ciò pare che l'Imperatore dei Francesi facevasi giuoco di noi, dopo aver dal suo canto contribuito non poco a ritardare il nostro armamento.

Fanti disse al Parlamento che per la primavera del 1862 avremmo avuto un esercito di 300, 000 uomini completo di forza e di materiale.

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Allora la cifra ci parve scarsa e l'epoca lontana. Ora desideriamo invano ciò che allora ci sembrava poco soddisfacente. É ben vero che il Barone Ricasoli nel suo discorso programma disse che le prime cure del nuovo ministero sarebbero rivolte all'esercito, ma i programmi differiscono molto dai fatti. E qui i buoni italiani si chieggono a vicenda; che sarebbe di noi se l'Austria tentando uno sforzo disperato spingesse i suoi battaglioni oltre il Mincio ed oltre il Po?

In quest'epoca cominciò a vociferarsi e noi non dubitiamo che fosse in effetto nelle idee ministeriali, l'abolizione dei Banchi di. deposito fin da tempi remotissimi esistenti in Napoli, rispettati da tutte le occupazioni straniere, e dal penultimo Borbone provvidamente estesi anche nelle provincia Ciò unito all'abolizione già avvenuta del cospicuo stabilimento delle incisioni delle pietre dure, ed al tentativo manifestato dal ministro della istruzione pubblica di voler abolire il Collegio medico-chirurgico, altra cospicua istituzione che aveva dato insigni uomini al paese produsse una irritazione dello spirito pubblico, e dappertutto esclamavasi il Piemonte esser deciso voler isterilir Napoli, volerne fare una meschini provincia, voler cancellare le glorie degli avi nostri. Voler esso tutto infeudare a se, onde pjù potenti rendere l'egemonia sua sull'Italia tutta.

E poiché siamo ritornati alle cause della pubblica riprovazione verso il governo piemontese, diremo qualche cosa delle condizioni della pubblica istruzione.

Si promisero asili infantili: furono decretali, uno per quartiere ai tempi della Dittatura, un fondo per essi Jasciò il Re nella sua dimora in Napoli, ma asili infantili, nell'epoca in cui scriviamo a Napoli non esistono. Furono promesse e decretale scuole tecniche di arti e mestieri, scuole per gli adulti d'ambo i sessi, ma nulla di tutto ciò, oltre la semplice decretazione, vedesi in esistenza. Furono aboliti il collegio dei gesuiti, detto dei nobili, e quello del Salvatore e vi fu sostituito il solo Liceo ginnasiale dello Vittorio Emmanuele, ove i professori non soddisfano alle pubbliche esigenze, i superiori non han forza morale, ove l'istruzione è pedantesca, la disciplina nulla. L'orrore cresce se ci volgiamo all'Università, un tempo gloria e splendore di questa nostra città.

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Molte cattedre vuote, perché non ancora nominati i professori: altre vuòte, per ché chi doveva occuparle nel tempo stesso è deputato, ed o ha lasciato la cattedra in demanio, o vi ha deputalo un sostituto che fa pietà. Professori nominati senza concorso, e quindi quasi espulsi da quell'aula del sapere dal pubblico clamore, e poi sostituiti da altri più ignoranti dei primi. In somma la studentesca, che ascende a 24 mila giovani, sente vivamente il bisogno di apprendere e non ha come soddisfarlo, ed un padre di famiglia non trova ove mandare a scuola il suo figliuolo.

In mezzo a tutto ciò il clero che istiga la gioventù contro il nuovo ordine di cose, e soffia presso le masse onde renderle sempre più avverse al nuovo governo, il clero che alla mancanza della diffusione dei principii savi sostituisce principii guasti, e retrogradi, e tiene il campo col confessiónile e col pulpito.

Accaddero due incidenti in questo periodo di sessione al parlamento nazionale che non crediamo dover passare sotto silenzio.

Il deputato Proto duca di Maddaloni si trasportò in parlamento ad acri ingiurie contro il governo piemontese, e sostenne il potere papale, e disse a favore del cardinale Riario Sforza allora espulso da Napoli, quale fomentatore di reazioni. Il suo discorso produsse generale indignazione, ed egli fu costretto a dare la sua dimissione ed espatriare. Egli era stato eletto a Casoria ed i suoi elettori furono solleciti a fare la seguente protesta.

I sottoscritti elettori del collegio elettorale di Casoria intesero con somma sorpresa quanto venne costì operato dal loro rappresentante al parlamento nazionale, Francesco Proto, duca di Maddaloni, e stimano loro stretto dovere protestare nel modo più categorico contro la sua condotta.

Proposizioni e considerazioni che i sottoscritti riprovano, e che ascrivono puranco in opposto al mandato ricevuto, scandalezzarono giustamente la camera e la nazione: erano e sono dai sottoscritti ritenute come offesa alla opinione pubblica, come debiti di lesa patria di lesa sovranità nazionale.

Il collegio elettorale di Casoria compreso dal suo dovere, si rivolse a lui illustrissimo signor presidente, ond'ella manifesti alla camera, e per essa all'Italia intera la riprovazione che pubblicamente infligge al suo rappresentante.

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Il principio sopra il quale posa la nazione intera è ritenuto dai sottoscritti sacro ed indispensabile.

Il Collegio elettorale di Casoria spera che il sig. Duca di Maddaloni dopo tale protesta non può trovare più conforme alla sua dignità di sedere nel Parlamento italiano quale rappresante d'una popolazione che pubblicamente riprovò e riprova la sua condotta.

Voglia, illustrissimo sig. Presidente, compiacersi di dar lettura di questa nostra protesta alla Camera, e gradisca l'assicurazione della nostra profonda considerazione.

L'altro incidente riguarda il Deputato e presidente della Gran Corte Criminale di Napoli, Giacomo Tofano. Inopinatamentevenne destituito dalla sua carica il Tofano, luogotenente Cialdini, del che acerbamente si dolse, e si adontò il padre di numerosa fìgliuolanza, colui che fino a quel tempo era passato qual onesto ed intemerato patriota. Era un gran chiedersi a vicenda intorno alla causa della destituzione del Tofano, ma la pubblica opinione diede in sospetti che il tempo poi non chiari falsi. Egli con varie sue lettere che curò far pubblicare sui più diffusi giornali del napolitano, chiese al governo la causa della sua destituzione, ed in un governo libero non potere avvenire destituzioni fra le tenebre, diceva, egli non aver rimorsi, la sua onesta vita esser nota a tutti, egli esser la vittima d'intrighi che avevano trascinato il governo a suoi danni. E non dando risposta il ministro guardasigilli, il Tofano dal silenzio prendeva argomento onde insistere sulla soverchieria commessa, e conchiudeva le sue stesse insistenze esser pruova della sua innocenza. Finalmente il ministero parlò, addusse documenti, e Tofano risultò reo di poco oneste cooperazioni a prò del governo borbonico, durante la sua e migrazione, ed a danno dei suoi compagni di esilio. Allora tacque il Tofano, e si vide astretto dare la sua dimissione dalla qualità di Deputato.

A rinfrancare alquanto lo spirito faremo in ultimo menzione di un progetto a pro de' di Marsala proposto dal Mancini. n'è questo il progetto.

Art. 1.° Una pensione vitalizia di mille lire è assegnata sul bilancio della guerra e della marina, a titolo di ricompensa nazionale ad ognuno dei che hanno preso parte alla spedizione del Generale Garibaldi a Marsala; e in caso di morte alle loro vedove, durante la vedovanza, ed in mancanza di queste a' loro figliuoli orfani, durante la loro minorità.

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Art. 2.° La pensione per gli orfani sarà regolata sopra le basi determinate dalla legge del 27 giugno 1859 concernente le pensioni dell'armata di terra.

Art. 3.° Ognuno dei pensionali avrà la facoltà di cedere il godimento d'una parte o della totalità della sua pensione per un tempo determinalo, o per sempre ad uno o a molti dei suoi compagni della spedizione, o alle loro famiglie.

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DOCUMENTI

È questa la Circolare del Presidente del Consiglio dei ministri, e ministro degli affari esteri agl'inviati italiani all'estero.

Il parlamento diede termine testé alla prima parte della laboriosa sua sessione, prorogando le sue tornate sino al prossimo autunno. In esso sedettero per la prima volta i rappresentanti di pressoché tutte le popolazioni italiane.

Mercé le sue deliberazioni l'unità d'Italia passò dalla ragione delle idee a quella dei fatti, ed incominciò ad esplicarsi nell'ordine politico, economico, ed amministrativo. È pertanto mio debito di richiamare sui lavori delle due Camere le attenzioni de' rappresentanti del governo presso l'estere potenze. E di somministrare loro i mezzi di fare conoscere all'Europa gli esordi legislativi del nuovo Regno, e principalmente vorrà la V. considerare il significato delle elezioni. Le quali in provincie che d'innanzi erano state autonomie e indipendenti, ed entravano appena in una condizione affatto nuova come erano nuove agli ordinamenti liberi si sono congiunte con la massima regolarità, con l'ordine più perfetto, questo significato parrà anche più notevole se si pensa che levincie di più recente aggregazione come le Marche e l'Umbria erano sotto la minaccia di aggressione per opera delle truppe pontefici®, e che queste oppressioni in fatto ebbero quivi luogo in alcune parti nel tempo appunto dalle elezioni, che finalmente levincie napoletane e siciliane, oltre l'andar soggette alla stessa minaccia, subivano tuttavia gli effetti d'una potente agitazione politica, e non vedevano il loro territorio sgombro dai residui della battuta dominazione, poiché in Gaeta durava a resistere cori un poderoso nerbo di forza il re decaduto e non anco si era tentata la espugnazione di Messina.

Non ostante queste condizioni, le provincie nuove che oggi formano la più gran parte del regno, mentre ancora vivevano dubbiose delle loro sorti, liberamente, e regolarmente elessero Deputali, fra i quali neppur uno se ne conta che rappresenti le opinioni, o gl'interessi dei reggimenti caduti; e la S. V. ha potuto vedere dalle discussioni e dai voti parlamentari che la opposizione tutta intera ha per obbietto di spingere il governo a precipitare il corso degli avvenimenti, perché l'indipendenza e l'unità d'Italia si compia, anziché ritirarlo verso il passato.

Esempio forse questo unico nella storia, e che dimostra quanto sia universale e profondo negli animi di tutti gl'Italiani il sentimento della nazionalità; perché in tutti gli altri paesi ove la rivoluzione portò al trono una nuova dinastia, cacciando l'antica,

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non riuscì però a cancellarne ogni traccia nella rappresentanza nazionale, ed in tutti i Parlamenti, fuorché nell'Italiano, si trovano sempre col nome di legittimisti, i fautori dei principi caduti.

Né vorrà la S. V. trascurare di notare come i nuovi deputati convenuti per la prima volta dalle varie parti d'Italia, le quali per colpa dei politici ed economici ordinamenti, erano sino adesso rimaste straniere fra loro, ed ignorate l'una dall'altra, si sieno trovati subito di accordo ne' concetti fondamentali; e non siasi mai verificata che una insignificantissima opposizione tutte le volte che si trattasse di provvedimenti che tendessero ad affermare il dritto della nazione e giovassero a costituirla, o a munirla, ed armarla per sostenere il suo dritto. È ancora è da considerarsi che l'opposizione pe quanto piccola non era intesa ad impedire quei provvedimenti, ma anzi ad esagerarli sin dove la prudenza politica non permetteva sotto pena di renderli inefficaci e pericolosi.

La novità della condizione, cui erano venute le Provincie d'Italia, la varietà, e la diversità delle condizioni in cui erano vissute fin qui fecero luogo ad interpellanze ripetute e frequenti, le quali, se ad alcuni parvero soverchie giovarono però a meglio conoscersi gli uomini fra loro, e a darsi reciproca natizia dei loro paesi.

Quelli poi che volgevansi intorno all'indirizzo della politica diedero campo al Parlamento di affermare in modo solenne il dritto della nazione, e al governo del Re l'opportunità di manifestare i suoi intendimenti circa i molti di compiere l'opera a sì buon punto condotta.

Ella Signore, conosce già questi intendimenti, ella sa che la mutazione delle persone avvenute nel gabinetto per la dolorosa e deplorala perdita del Conte Cavour non ha indotto mutazione alcuna nell'indirizzo politico da lui con tanta sua gloria, e tanto profitto dell'Italia inizialo e contenuto. E che egli fosse vero interpetre della coscienza della nazione, e che l'opera sua fosse fondata saldamente, la morte sua stessa lo ha provato. Il paese, il Parlamento, il governo, mentre apprendevamo come una grande sventura la perdita dell'illustre uomo di stato, sentivano insieme il bisogno stringersi viemaggiormente per non disperdere le forze, e l'Italia priva, appena nata, d'uno de' suoi più validi campioni, dava argomento della sua forte vitalità, sostenendo la prova dolorosa, senza prostrarsi.

E se la S. V. voglia osservare che la maggiore. operosità legislativa del Parlamento si è spiegata dopo la mancanza dell'egrazio statista, e se voglia guardare all'obbietto delle principali leggi votate, e all'immensa maggioranza dei suffragi che l'approvarono, ella comprenderà facilmente come si possa asseverare che gl'intendimenti di lui furono dal concorde volere del Parlamento e del governo efficacemente riassunti e secondati.

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In qualunque momento, sin da principio dei lavori parlamentari, poterono nascere incidenti che sembravano scostarsi dalla pacata e ponderata discussione dei provvedimenti proposti dal governo del Re, dai bisogni e dai desiderii del paese, dalle ragioni della politica internazionale. Però in tanta e cosi rapida mutazione di cose e di destini, vi tanto concorso di elementi varìì a compiere la liberazione della patria, in mezzo ai timori destati dagl'intrighi e sterni che fomentavano, e fomentano ancora in alcune Provincie le più brutali e violenti passioni; in faccia alla occupazione straniera che ancor si accampa minacciosa sovra di una delle più tormentate e più gloriose Provincie della penisola, e non dee recar maraviglia che alcuni spiriti più ardenti, e meno assuefatti ai temperamenti della vita politica propendessero talvolta ad eccitazioni né prudenti, né opportune. Questi incidenti però, effetto naturale, ma passaggiero di transitorie condizioni, non furono mai tali da turbare né in seno alla Camera, né fuori la fiducia dei governati verso il governo, né mai si risolvettero in pericolose deliberazioni.

La prova delle cose sopra esposte sta luminosa nelle serie degli atti parlamentari, e nelle ottantatre leggi volate in questo primo periodo della sessione, delle quali non sarà inutile istare le principali.

I Deputali della nazione tennero per primo loro debito, e primo loro pensiero di confermare solennemente il plebiscito delle popolazioni, decretando la corona d'Italia a quel principe augusto la cui lealtà e il valor militare erano state precipua cagione che le sorti della patria italiana venissero secondate da cosi universali simpatie e favorite da tanta prosperità di successi. Votando ad unanimità la legge con cui Vittorio Emmanuele assume il titolo glorioso di Re d'Italia, si diede una guarentigia all'Europa monarchica, pose il governo in grado di assumere fra le nazioni civili il posto che spelta all'Italia, notificando ai governi esteri la formazione del nuovo regno, ed ottenendone successivamente il riconoscimento.

Feconde di politici risultati furono del pari le leggi relative all'armamento nazionale, oltre i provvedimenti risguardanti le leve di terra e di mare, il Parlamento sancì nella legge ch'estende l'istituzione della guardia nazionale mobile, uno degli ornamenti più efficaci alla difesa del paese, e alla tutela dell'ordine interno.

Non hanno dimenticato gl'Italiani le solenni parole che ponendo il piede nella Lombardia liberata indirizzava loro il nostro augusto e generoso alleato «Siate oggi tutti soldati per esser domani liberi cittadini d'una grande nazione». Poiché nelle armi si educano i cittadini alla temperanza, alla disciplina, alla coscienza della propria. dignità e della propria forza, a tutte le maschie ed austere Virtù che sono necessarie ad esercitare ed a mantenere la libertà.

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Dippiù, mentre le buone armi sono indispensabili a, difendere i preziosi acquisti fatti dalla nazione, d'altro canto, per la fiducia che un popolo fortemente armato potrà ispirare agli amici, per il rispetto che impone ai nemici, sono anche un mezzo potente per conseguire pacifici trionfi, o quando nostro malgrado fosse turbata la pace di rendere men lunga, e mén grave per gl'interessi generali di Europa la non provocata interruzione.

Alla sfera politica non meno che a quella economica appartengono le leggi relative alla unificazione del debito pubblico. Comporre ad unità le varie maniere dei debiti ereditali dai piccoli stati, nei quali la penisola fu finora infaustamente divisa, attrarre nell'orbita della vita nazionale gl'interessi dei creditori dello stato, e provvedere all'avvenire della nazione senza offendere i diritti individuali, si fu la mela cui mirò il Parlamento nell'adottare i provvedimenti finanzieri proposti dal governo del Re.

Che questo scopo sia stato raggiunto lo dimostra la gara con cui i capitalisti italiani ed esteri hanno offerto al governo, i mezzi di compiere il prestito notato dalla Camera. La S. V. sa che per 134 milioni domandati dal governo si è presentato al concorso oltre un miliardo, e che si attende ancora il risultamento della pubblica sottoscrizione.

E questo un fatto sul quale in mi compiaccio di fermare la attenzione dei ministeri del Re all'estero esso dimostra che il regno d'Italia seppe procacciarsi credito per l'avvenire, rispettando con rigorosa giustizia gli obblighi contralti nel passato. Essa è la più splendida pruova che gli avvenimenti compiuti in Italia sono meglio che una rivoluzione, una ristaurazione dell'ordine regolare e morale.

Il parlamento provvide finalmente allo sviluppo delle forze economiche del paese accordando la sua approvazione ai disegni di leggi propostagli dal ministro dei lavori pubblici intorno alla pronta esecuzione di una vasta rete di strade-ferrate. Promuovere in tutte le classi del popolo, mercé lo stimolo del lavoro la ricchezza insieme, e la pubblica moralità, fomentare l'accrescimento dei capitali nazionali con la potente concorrenza dei capitali esteri, scemare gli ostacoli che la distanza, e la configurazione della penisola oppongono al rapido affratellarsi di tutti gli abitanti di essa, tali sono i risultati che il governo spera di ottenere fra breve dallo energico impulso dato ai lavori pubblici.

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A ben comprendere la rilevanza di questo articolo basti il dire che oltre i lavori all'arsenale della Spezia si sono concessi per 2,700 chilometri di strade ferrate, alla costruzione delle quali il più breve termine assegnato è di un anno o mezzo, ed il più lungo di otto anni, o che l'esecuzione delle linee concesse costerà complessivamente circa 150 milioni, dei quali, oltre le garenzie pattuite, 290 milioni circa dovranno essere somministrati dal governo.

Questa sommaria e rapida esposizione basta a far conoscere che il Parlamento nella più parte della presente sessione provide non solo ai più urgenti, ma altresì ai più importanti e permanenti interessi del paese.

Or se guardiamo al cammino fin qui percorso, o se lo misuriamo dalla grandezza degli avvenimenti ci sembra poterne trarre alcuna legittima compiacenza; se guardiamo a quello che ci resta da fare sappiamo che è scabroso ed arduo, e pieno d'insidie e di pericoli; ma non ci sentiamo sgomentati; e osiamo tuttavia ripetere con giusto orgoglio che l'Italia è fatta. Sì, l'Italia è fatta, malgrado che una parte d'Italia rimanga ancora in altrui balia; perché abbiamo fede che l'Europa quando ci vedrà ben ordinali ed armati, e forti, si persuaderà del nostro dritto a possedere intero il nostro territorio, e vedrà una guarentigia della sua quiete e alla sua pace nel favorire la restituzione: perché abbiamo fede che l'Europa imparando a meglio conoscerci, si persuaderà che noi popolo essenzialmente cattolico meglio di ogni altro popolo comprendiamo i veri interessi della chiesa quando le domandiamo di spogliarsi dei dritti feudali che la barbarie le diede, e la civiltà non le consente, offrendole in compenso indipendenza e libertà piena ed intera nell'esercizio del suo santo ministero e le gratitudine e l'ossequio d'una nazione rigenerata.

Sappiamo bene che la vecchia Europa ci guarda ancora con occhio diffidente, e ci rimprovera i disordini che funestano levincie meridionali, e s'interessa dello interno ordinamento. Ma l'Europa conosce le origini antiche di, quei disordini, ella che nel congresso di Parigi stigmatizzò il reggimento depravato che corrompeva ed avviliva quei popoli. Ora abbiamo fede che al sole della libertà riprenderanno vigore i loro istinti generosi, e che l'Italia trarrà i più validi aiuti, di là onde ora le vengono, maggiori pericoli interni. Noi non vogliamo né attenuarli, né dissimularli, ma preghiamo che si consideri alle cause remote che li precessero, e agli eccitamenti prossimi, che abusando d'una generosa protezione data per più nobili fini, li mantengono: preghiamo si consideri che mai non si vide una nazione abbattere come l'Italia, quattro reggimenti diversi, e costituirsi in unità con minori disturbi in sì brevissimo tempo.

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Gli esempii però di sapienza civile, e di virtù dati dal Parlamento sono pegno della maturità politica della nazione, di cui essa è la legittima e leale rappresentanza, e devono ispirare una giusta ed intera fiducia nell'ordinato procedere delle nazionali istituzioni.

Adesso rimane che le parti congregate in uno si conformino in un corpo bene ordinalo e costituito, nel quale la vita procedendo da un potente ed unico impulso si diffonda equabile ed efficace a dare atto e vigore a tutte le membra.

A quest'opera essenziale si prepara il governo per invocare sopra di lui nella prossima sessione i consigli e l'autorità del Parlamento. Intanto il credito ha somministrato largo alimento alla vitalità necessaria; occorre ora profittarne per ravvivare le fonti della ricchezza nazionale, e stabilire con un equo sistema d'imposte il pareggiamento indispensabile fra le spese e le rendite dello stato. L'Italia deve compiersi, e nessuno sagrifizio parrà grave agli Italiani per arrivare alla meta.

Lo spettacolo della nostra unione, della maravigliosa temperanza di questo popolo sorto appena a vita propria ed indipendente deve far persuaso ogni spirito imparziale che l'Italia lasciala a sé stessa libera dagli esterni pericoli che ancora la minacciano, posta in possesso di tutte le condizioni necessarie della sua esistenza, sarà come n'esprimeva la persuasione l'augusto nostro Re, inaugurando il primo parlamento italiano una malleveria di ordine e, ai pace per l'Europa, un potente fattore della civiltà universale. - Ricasoli.

CAPITOLO V

Sommarlo

Finanze - Il Municipio di Torre del Greco - Mene borboniane - Condizione morale e materiale d'Italia nel 1862 - Quistione Romana.

L'anno 1862 trova l'Italia impastata tra la quistione Veneta e romana, che non trovano via a soluzione di sorta, impastoiata tra Francesco II che fomenta la reazione, il brigantaggio che manomette la proprietà, e distrugge ogni sicurezza personale, ed il Clero che aizzato da Roma e dai suoi prelati che lo nutrono si scaglia contro il governo italiano che non sa far nulla per affezionarselo. Ed a tutto questo si unisce la quistione finanziera, la quale presenta tale un abisso che tutte le fortune private e tutte le industrie del paese appena bastano a colmare. E perché, secondo noi, i dissesti finanzieri dei governi son quelli che preparano i trionfi della democrazia in Europa ci piace a questo proposito riportare alcune parole che il Forcade ci porge occasione di leggere nella - «Un male singolare ha d'altronde colpito tutti i governi, il male dello sperpero, della dilapidazione, del disordine nell'amministrazione del danaro pubblico. Quasi tutti gli stati si accorgano ad un tratto di aver consumato in modo rovinoso i capitali del paese, e tuttavia non hanno né la prudenza, né la forza di mettere un freno alle spese. Esaminando tutti gli stati, dalla Turchia fino agli Stati Uniti, dappertutto vediamo questo malessere delle finanze. La Turchia si dibatte sotto il peso di un meschino debito oscillante che non oltrepassa i dugento ò trecento milioni; ma quei poveri Turchi che si dicono tanti fanatici, sono in sostanza diventali tanto docili sotto la severa scuola della miseria, che vendendo una porzione degl'immensi beni del clero turco, non sarebbe difficile quando si operasse con vero desiderio, di ottenere lo scopo di stabilire in qualche modo l'ordine nell'impero.

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Dopo la Turchia lo stato europeo nel quale il disordine delle finanze è maggiore, è l'impero russo. La Russia è senza dubbio un paese ricco, ed il cattivo abuso delle sue finanze non dipende se non dalla poca abilità del suo governo, il quale dopo aver invocato il concorso dei capitali forestieri per la costruzione delle strade ferrate, ha creduto fare un bel colpo facendo perdere sessanta milioni su' capitali che avevano risposto all'invito.

Le finanze austriache hanno ancor peggiore reputazione di quelle della Russia, ed a torto; esse si trovano senza dubbio in pessimo stato; ma almeno non se ne fa un mistero al pubblico. L'Austria ha fatto in questi giorni la sua confessione rispetto alle finanze davanti al consiglio dell'impero; fu una ricapitolazione dei grandi disawanzi annui che da quattordici anni si succedono. Mancando assolutamente il credito, mancando in quanto alla situazione politica la fiducia ed il buono accordo, non si può intendere in qual modo l'Austria potrà evitare un disastro.

L'Italia per due esercizii soltanto, quelli del 1861 e 1862 prevede un disavanzo di 700 milioni. Per verità essa si provvede col prodotto dei prestiti negoziati che daranno 550 milioni, ed al rimanente intende provvedere mediante il prodotto di nuove imposte. È questo uno stato di cose difficilissimo, ma che si supererebbe facilmente, quando la politica non facesse qualche brutto scherzo in Italia.

Non parliamo della Francia che con piccoli sforzi, con qualche nuova imposta, con un prestito, può evitare il pericolo avvertito a tempo.

Non parliamo dell'Inghilterra, che ha speso, dicesi, tre o quattro milioni di sterline per un mese negli armamenti navali, e che quand'anche la controversia pendente con gli stati Uniti non abbia a terminare con una guerra, dovrà per sopperire alle spese fatte, aggiungere qualche per lira all'

income-tax.

Non parliamo della Spagna, le cui finanze sembravano prosperare negli ultimi tempi; ma che, non ostante il proverbiale orgoglio Spagnuolo, non teme di mettere in parte il suo rinascente credito venendo meno agl'impegni contratti verso le vittime dei passati fallimenti.

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Veniamo agli Stati Uniti, i quali in quest'anno, infatto di prodigalità nelle cose di finanze, come in fatto di convulsioni politiche non hanno rivali. In meno di due anni di guerra civile gli Stati Uniti avranno speso più di tremila milioni. Da un momento all'altro venne creato un debito federale enorme.

Un profondo disordine morale, un difetto assoluto di risoluzione e di energia, un vasto sperpero delle forze economiche del paese, fatto manifesto dall'impoverimento delle finanze dei diversi state ecco l'eredità che il 1861 lascia al 1862.»

E ritornando ora all'Italia, rammentiamo quel che da principio dicemmo, cioè che incagliata da tutti i canti non trova via a procedere, ma pure i partiti vi si agitano con forza, e questi a tre precipuamente possonsi ridurre, ilche vuole il ritorno al passato, il che vuole libertà circoscritte, ed ogni iniziativa nel governo; quello che propugna ampie libertà, e la iniziativa del popolo. Collocate fra siffatti partiti non v'ha chi possa lodare la condotta del governo, poiché esso contro i reazionari nulla osa, in certi casi li prezza anzi come elementi di conservazione ed eminentemente monarchici; dei moderati si fa appoggio, di tal che crea in essi una consorteria che si sopraimpone al paese, contro gli uomini di azione infierisce, e ciò rendendolo ingrato lo mette in opposizione della pubblica opinione ed irrita la coscienza pubblica non curata, la pubblica istruzione abbandonata, le prigioni lasciate quali erano a' tempi del dispotismo, la giustizia manomessa, il favoritismo negl'impieghi, il brigantaggio trattato con dolcezza, una confusione dappertutto. E se lo sfacelo generale non viene, e la società non si dissolve egli è perché e troppo vivo il sentimento dell'unità italiana, e troppo intenso l'odio contro i borboni. Non ci volevano meno che le crudeli memorie dei borboni per rendere tollerabili gli errori d'ogni natura del novello governo italiano.

Ed a proposito dell'odio asprissimo di cui ogni cuore trovasi invaso nel mezzodì d'Italia contro i Borboni ci piace qui rammentare il contegno tenuto dalle città della Torre del Greco, dopo le ruine cui soggiacque in occasione del tremuoto nel principio di questo anno colà avvenuto.

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Dai giornali borbonici-clericali fu pubblicata lettera di Francesco Borbone al cardinale Riario Sforza, con cui gli trasmette ottocento scudi da essere distribuiti ai poveri della Torre del Greco.

Ed altri giornali aggiunsero che sull'esempio di Francesco II molti emigrati napoletani a Roma avevano anch'essi contribuito delle somme a prò dei cennati Torresi. Al che il consiglio, municipale della Torre rispondeva con la dichiarazione seguente:

Siccome di tutte queste somme niun versamento si è fatto, cosi il consiglio ha motivo di credere esser questa una delle solite tirate dei giornali clericali. Ma quand'anche ciò fosse vero, il consiglio come rappresentante del popolo torrese, rifiuta solennemente quei soccorsi che venir potessero da quelle mani che grondano d'innocente sangue cittadino, e che armano il brigantaggio nelle nostre provincie, alfine di sgozzare i nostri fratelli, a fine di sovvertire l'ordine sociale, e così smembrare l'Italia. Fra i veri amatori del suolo nativo e fra i nemici di questo esiste una voragine che non si colmerà giammai.

Il danno sofferto da Torre del Greco è grande egli è vero. Però i soccorsi prodigati dal nostro magnanimo Ré galantuomo, e sua augusta famiglia, i sussidi apprestati, e d'apprestarsi dal governo, e dalle cento città italiane, non che da altre cospicue città di Europa, ne starno sicuri, saranno sufficienti a far cancellare tutte le tracce della sofferta sciagura. E laddove non bastassero, il che di certo non sarà, il consiglio è nel grado di affermare che i Torresi sarebbero piuttosto contenti di andar raminghi e dispersi, anziché accettare soccorsi da colui che ha rimasto dappertutto vestigie indelebili della sua barbarie. I Torresi saranno riparati dalla sofferta disgrazia, ognuno di essi andrà contento pel sussidio ricevuto, e la storia registrerà l'imparzialità usata nella distribuzione dei cennati soccorsi a solenne scorno di quello che soffrono i miseri abitanti di Melfi quando in pari condizione si videro defraudati di quanto loro offeriva la carità cittadina.

Alla protesta del Municipio tiene dietro quella della Guardia Nazionale concepita nei seguenti termini.

Le cento città Italiane col Re Galantuomo concorsero ad alleviare il triste infortunio della Torre del Greco, affermando così sulle sue ruine l'Unità Nazionale.

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Spudorati giornali parlano ora di sussidii dati all'uopo di Francesco Borbone, dalla sua famiglia, dai suoi seguaci.

La Guardia Nazionale di Torre del Greco, unendo il suo voto a quello del Municipio protesta altamente contro la fama di qualunque dono di Francesco Borbone. Colui che arma il braccio dell'assassino, ed applaude agli stupri, alle stragi, ed alle rapine non può sentire il nobile dolore d'una popolazione: e questa popolazione che correva a porre nell'urne il voto che fa l'Italia una, grande e libera nazione, non accetta l'offerta del discendente d'una Dinastia che in luogo di sussidii ha dato sempre ai popoli napoletani ceppi, baionette e cannoni.

Ma perché l'umanità ha sempre in Italia rivelato il suo lato più nobile, non trascorsero molti giorni dalle suindicate proteste che una lettera giunse al Municipio di Torre del Greco, direttagli dall'avvocato Giovanni Antonio Traversi, e concepita nei seguenti termini.

«La notizia del generoso sagrifizio, col quale l'afflitta ciltadinanza di Torre del Greco respingeva la oblazione dell'ex Re Francesco II, è venuta a commuovermi in un angolo campestre, ove raro è che pervengano i rumori del mondo.

In sostituzione alla somma respinta con uno slancio degno del paese che fu culla a Vico, a Colletta, ed a Pepe, voglia ella degnarsi di fare accettare l'equivalente che ardisco inviarle con la posta d'oggi, che valga a provare a quei miseri una giusta ammirazione, ed un affetto sincero.

Questo tenue soccorso almeno non è l'ironia del tiranno; è l'obolo del fratello, ed è netto di lagrime, e di sangue.

Accolga ec. -Desio (Lombardia) 9 Febbraio 1862-AVV. GIO.

Abbiamo parlato del brigantaggio, ed ora a dimostrare come fosse sempre eguale e costante nell'azione sua riferiremo qui alcuni particolari.

Fra le istruzioni scritte consegnate dal generale Clary a Borjes v'era quella di tentare uno sbarco in Calabria appena avesse riunito il più gran numero di uomini possibile in ragione dei mézzi che già sarebbero stati forniti. Lo sbarco doveva esser tentato sul punto delle coste di Calabria, e dicevasi poi e Questo punto dovrebb'essere la marina di Bivona al luogo denominato Santa Venere.

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Questo luogo è vicinissimo a Monteleone, centro della Calabria, in una situazione di facile difesa, e ch'è sempre stato il quartiere generale di tutte le armate che operarono in quel paese. Se Bivona non fosse possibile, Aspromonte od i piani della Corona. Il principe di Scilla fornirà le informazioni quanto alle persone ed ai luoghi».

Un doposcritto di quelle istruzioni, sottoscritto esso pure dal generale Clary era cosi concepito. » Appena la vostra gente sarà riunita a Marsiglia od altrovè, e pronta ad essere imbarcata, secondo le relazioni e coll'aiuto dei nostri amici di Marsiglia, spedirete un dispaccio telegrafico a Roma, qualora in mi vi ritrovi ancora, e. sarà in questi termini. -Signor Langlois, 2, via della Croce. -Giuseppina gode sanità, si rimette, parte il giorno....

Ecco poi le informazioni che fornì il principe di Scilla, a cui accennava il sig. Clary.

La marina di Bivona è assai pericolosa, ed in generale tutte le coste della Calabria, sempre sorvegliate da crociere. Monteleone essendo città molto importante, debbe aver truppe che piomberebbero immediatamente sugli sbarcati.

Un punto da preferirsi sarebbe Siderno e Castelvetere, sulla costa deserta e montagnosa di Retro Marina. Avvi colà un capo, Agostino d'Agostini, che un dato giorno potrebbe far trovare 300 uomini e più per fare il nucleo. Si potrà passare facilmente la catena di montagne che dividono la Calabria, e si potrà condursi egualmente per un colpo di mano su Reggio o su Monteleone.

Il mezzo più sicuro per uno sbarco è d'inviare a Malta qualcuno che si abbocchi coi signori Musitani e Barilla, realisti ivi di residenza. Quei signori manderanno qualcuno di loro confidenza con una forte promessa al detto d'Agostini a Siderno con ordine di far trovare un corpo di sostegno alla costa dal giorno... al giorno... Ordine di rispondere con tre fuochi ai fuochi del naviglio se si possa sbarcare su quel punto; due fuochi indicheranno di marciare più avanti» Se si potesse ottenere Raineri di Dahomè di aspettare alcuni giorni, sarebbe ottima cosa.

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Ecco alcuni nomi de' miei conoscenti: a Bagnara, il, signor Antonio de Leo, ricchissimo commerciante, e molto affezionato, potrà dare del denaro; nominarlo sindaco, ei se lo meriterà. A Santa Eufemia tutti sono per me: servirsi specialmente della famiglia Panuccio Servaro, assai numerosa, affezionatissima, e di una probità a tutta pruova; Il sig, Condena, ricco fittaiuolo, potrà essere, utile co' suoi consigli, e potrebb'essere Sindaco. Servirsi pure dei Gioffrè, del Chirico, e di Antonio Parisi vecchio rispettabile sebbene liberale, ma onestissimo; i suoi fratelli, quantunque uno sia mio fattore, debbono esser lasciali in disparte, unitamente alla famiglia Fimmana, gente furba e bandieruola.

A Sinopoli piena fiducia coll'Arcidiacono del mio capitolo il Mangeruva, prete irreprovevole ed intelligente, del resto tutto il paese mi è affezionato. Il vecchio capitano di cavalleria Rooco Lupino ha fatto la guerra, e sarebbe utile per la formazione dei corpi.

Solono è un paese, della montagna popolato di gente molto solida ed affezionatissima.

Servirsi del mio Capoguardia Lampo vecchio galeotto, eccellente guida, e capo banda.

Il Vescovo di Mileto monsignor Miricione è benissimo disposto; e così anche il Clero che bisogna accarezzare.

La prigione di Reggio è piena di soldati realisti; è un bel colpo di mano procurarvi immediatamente da quattro a cinquecento uomini di buona truppa.

Noi abbiamo descritto in breve la posizione del Regno d'Italia nei primi mesi del 1862. Il Barone Ricasoli anch'egli la descriveva in una Circolare diretta, in data dèi 3 gennajo, ai nostri rappresentanti all'estero. Onde sappiasi giustamente valutare, e s'impari che non sempre è storia fedele quella che ciecamente si rassegna ai documenti diplomatici, noi qui ne riportiamo un brano ove son dipinte le interne condizioni della Penisola.

«I risultamenti ottenuti in sì breve tempo, malgrado le oscillazioni inevitabili in mezzo a trasformazioni sì grandi, dimostrarono la fermezza del volere, e posero valide fondamenta alle nostre speranze; la posizione materiale e morale d'Italia si, è continuati mente migliorata e va incontro ad una condizione sempre più regolare e soddisfacente;

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l'ordine e la tranquillità regnano dovunque da un capo all'altro della penisola; le città più importanti

zionale risorgimento.

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Se quindi si volge uno sguardo imparziale sulla nostra posizione e sul nostro contegno si è costretti a riti conoscere che l'Italia vuole seriamente stabilire la sua indipendenza, ed è fornita dei mezzi che a ciò si richieggono.»

Se in alcune circostanze v'ha dei motivi che convertono in prudenza la menzogna, noi diremo che nelle condizioni in cui trova vasi il Barone Ricasoli molti ve n'erano che dovean farlo per prudenza, e fin anco per patriottismo, mentitore; ma non non abbiamo alcuna ragione a far nostri i motivi diplomatici da cui egli era spinto e molto meno il potremmo quando ciò ci costasse il tradire la fedeltà della storia.

Diremo dunque francamente per nulla dell'Italia; che anzi la prima è peggiorata, mentre l'altra si rimane quale il dispotismo la lasciava: peggiorata la prima, perché nei travolgimenti politici il commercio è in ristagno, in paralisi ogni specie d'industria, la miseria sempreppiù crescente, ed il governo nulla fa per attenuarla. -Diremo cheCome può essere ordine e tranquillità dov'è brigantaggio che mutila, ed uccide, che brucia animali, case e messi, che stupra, e che sequestra le persone? Como può essere ordine dov'è un partito clericale che si agita, dove sono reazionarii d'ogni specie che cospirano? Diremo che è un'amena poesia del nostro Barone, poiché il nuovo governo ha deluso tutte le speranze, e tutte le aspirazioni, e se la speranza di un più felice avvenire non ci arridesse, esso potrebbesi dire essersi collocato rispetto ai popoli ed alla pubblica opinione negli stessi rapporti in cui trovavansi i cessati governi. -Diremo che è un sogno dorato l'essersi posto riparo al brigantaggio, perché questo appunto ai tempi del Barone Ricasoli prese maggior forza e vigore. -Questo dobbiamo dir noi per non tradire la storia: dica pure altrimenti il nostro primo Ministro ai nostri rappresentanti all'estero; noi noi condanneremo certamente perciò.

Siccome la quistione romana forma il nucleo principale della nostra narrazione, ad ogni piè sospinto non possiamo non imbatterci in essa; e quindi in quale stato essa trovasi pervenuta nel principio dell'anno 1862 noi esporremo nel presente capitolo.

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Cominciamo dal riportare i documenti diplomatici che la riguardano, quali furono depositati nelle Camere francesi.

In dala degli Il gennajo 1862 il Ministro degli affari esteri scriveva al Marchese Lavalette; ambasciatore a Roma, nei seguenti termini.

Sig. . - Se credetti attendere i vostri primi rapporti per indirizzarvi delle istruzioni destinate a completare quelle che vi furono date verbalmente prima della vostra partenza, è venuto il momento d'indicarvi nel loro insieme le idee del governo dell'Imperatore sulla situazione rispettiva della Santa Sede e dell'Italia.

Gl'interessi della Francia si trovano troppo profondamente impegnati dall'antagonismo di due cause che le sue tradizioni politiche e religiose raccomandano a titolo eguale alle sue simpatie, perché ella possa accettare indefinitamente le responsabilità di uno nocevole tanto all'una che all'altra, e rinunziare alla speranza di aprire l'adito ad un accomodamento.

È inutile che il governo dell'Imperatore esprima nuovamente i suoi dispiaceri per gli avvenimenti che si sono compiuti in Italia durante l'anno 1860, e che hanno dovuto ispirare al Santo Padre un vivo e legittimo dolore. Il corso naturale delle cose umane però li conduce o tosto o tardi a passare dall'ordine dei sentimenti in quello della ragione, ed è sotto quest'ultimo punto di vista che la politica si trova in ultimo costretta ad esaminarli.

La quistione che si presenta oggi, sig. Marchese, è quella di sapere se il governo pontificio intende sempre di arrecare al regolamento de' suoi rapporti col nuovo regime stabilito nella Penisola l'inflessibilità che è il primo de' suoi doveri, come pure il più incontestabile de' suoi dritti in affare di dogma, o se, qualunque siasi il suo giudizio sulla trasformazione operata in Italia, sia disposto ad accettare le necessità che derivano da questo fatto considerevole.

Riconoscendo il regno d'Italia, l'Imperatore ha agito nella convinzione che l'ipotesi d'una ristorazione del passato non fosse più realizzabile, e senza parlare delle potenze che hanno cessato di riconoscere dalla Santa Sede il simbolo della loro fede, le risoluzioni successive del Portogallo, del Belgio e del Brasile hanno certamente lo stesso significato.

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Fra le monarchie cattoliche non ve ne sono che tre, la quali siansi astenute dal rannodare relazioni ufficiali con la corte di Torino: queste sono l'Austria, la Spagna, e la Baviera, ed è permesso supporre che la posizione particolare queste potenze riguardo ai Sovrani spodestati di Napoli, di Parma, di Toscana e di Modena non sia stata senza esercitare una grande influenza sulla loro linea di condotta.

Nessun gabinetto, d'altronde, pensa a reagire con la forza contro l'ordine delle cose inaugurate nella Penisola. Apertamente proclamalo e tacitamente ammesso il principio di non intervento, è divenuto una salvaguardia della pace europea, e la corte di Roma non aspetta certamente da un soccorso straniero i mezzi di riconquistare le provincie ch'essa ha perduto.

Vado più oltre: in ricuso di credere eh essa consentisse giammai a provocare da sé stessa, un interesse il cui successo sarebbe per lo meno dubbio, una delle più terribili conflagrazioni che avesse registrala la storia. Le lezioni dell'esperienza unite alle considerazioni le più proprie a commuovere la Santa Sede, non le comandano esse d'altronde di rassegnarsi, senza rinunziare a' suoi dritti, a transazioni di fatto che ricondurrebbero la calma nel seno del mondo cattolico, rannoderebbero le tradizioni del Papato, che ha così largamente coperto l'Italia della sua egida, e vi annetterebbero i nuovi destini d'una nazione crudelmente provata, e restituita dopo tanti secoli a sé stessa.

Non ho la pretesa, sig. Marchese di discutere qui un modo di soluzione. Mi basta il dire che il governo dell'Imperatore ha conservato a questo riguardo una piena libertà di giudizio e di azione, e che quanto noi abbiamo da ricercare adesso è se noi dobbiamo nutrire o abbandonare la speranza di vedere la S. Sede prestarsi, tenendo conto dei fatti compiuti, allo studio d'una combinazione che assicurasse al Sommo Pontefice condizioni permanenti di dignità, di sicurezza, e d'indipendenza necessarie all'esercizio del suo potere.

Ammesso quest'ordine d'idee, noi adopreremo i nostri sforzi più sinceri e, più energici a far accettare a Torino il piano di conciliazione di cui avessimo poste le basi col governo di Sua Santità.

L'Italia ed il Papato cesserebbero allora di trovarsi nei campi nemici;

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essi ripiglierebbero tosto i loro rapporti naturali, e mercé le obbligazioni di onore garantite dalla parola della Francia. Roma troverebbe all'occorrenza un appoggio necessario dal lato medesimo ove sembra oggidì minacciarla il pericolo. Un tal risultamene, sig. Marchese, ecciterebbe, ne siamo convinti, un vivo senso di soddisfazione e di riconoscenza nella intera cattolicità; ed in credo adempiere ad un dovere invitandovi a non trascurare alcuna occasione d'inspirarvi del contenuto di questo dispaccio nei vostri colloquii col Cardinale Antonelli e con lo stesso S. Padre. -

Ed il Marchese di Lavalette risponde il 18 gennajo 1862.

ricevuto il dispaccio cheE. mi ha fatto l'onore di scrivermi sotto la data dell'11 corrente. Ebbi il giorno successivo l'occasione d'intrattenere il cardinale segretario di Stato sulle considerazioni che vi si trovano sviluppate.

Sa V. E. che penetrato delle parole che aveva potuto raccogliere. dalla bocca stessa dell'Imperatore, in m' era dedicato dai miei primi abboccamenti col Santo Padre a farmi presso di lui il fedele e rispettoso interpetre dei sentimenti del profondo interesse di cui doveva recargli l'espressione: senza lasciare illusioni a S. S. sopra una ristorazione del passato, senza obbliare l'esigenze di un presente, si strettamente collegato coi nostri proprii interessi, in non, aveva trascurato alcuna occasione per preparare la S. Sede in termini generali ad una transazione che rispondesse al nostro sincero desiderio di rinconciliare Roma con l'Italia.

Io aveva trovato d'altronde nel ricevimento tutto benevolo del quale era stato l'oggetto, il dritto di fare appello alla fiducia di S. S. e di provocare da sua parte l'espressione delle speranze o dei voti alla cui realizzazione si sarebbe trovato di poter contribuire il governo dell'Imperatore.

Sa pure V. E. dai miei precedenti rapporti che il Santo Padre ascoltandomi con la più affettuosa condiscendenza aveva costante mente conchiuso con queste parole che coprivano appena il rifiuto;-Aspettiamo gli avvenimenti-e che il Cardinale segretario di stato non ha creduto poter rispondere che con una negativa la più assoluta.

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Ogni transazione, mi disse il cardinale, è impossibile tra la Santa Sede e coloro che l'hanno spogliata. né il Sovrano Pontefice, né il sacro Collegio possono cedere la piccola parte del territorio della Chiesa.

Ho fatto osservare a S. Em. che in lasciava affatto da parte la quistione di dritto; che ricordando le sue precedenti affermazioni, in non mi aspettavo certamente di vederla transigere con principii dai quali mi aveva dichiarato non potersi dipartire.

Il mio solo desiderio era di portarlo sul terreno pratico dei fatti, di offrire al governo pontificio l'occasione di uscire, riservando tutti i suoi dritti, da una situazione cosi disastrosa pei suoi interessi, come minacciosa per la pace del mondo cristiano. Questo scopo che in aveva lasciato travedere sia al S. Padre, sia alla stessa S. Em. era anzi tutto quello cui teneva dietro l'Imperatore, in questo senso erano state concepite le mie prime istruzioni, nel medesimo spirito il governo imperiale che le aveva rinnovate. in non aveva ricevuto l'ordine, aggiungeva io, di comunicarle testualmente al cardinale segretario di Stato, esse erano tuttavia troppo conformi ai sentimenti di cui mi era sovente fatto l'organo, perché non mi credessi implicitamente autorizzato a metterle sotto i suoi occhi. Diedi effettivamente lettura al cardinale del dispaccio di Vostra E.

Ritrovo in questo dispaccio, mi disse S. E. l'espressione dell'affettuoso interesse che voi non avete cessato di attestarmi. Non è tuttavia esatto che siavi disaccordo tra il Sommo Pontefice e l'Italia. Se il S. Padre è in rottura col gabinetto di Torino, egli non ha che eccellenti rapporti con l'Italia. Italiano egli stesso, e primo fra gl'Italiani, egli soffre dei patimenti di essa, assiste con dolore alle pruove crudeli che colpiscono la chiesa italiana. In quanto al patteggiare con gli spogliatori, noi noi faremo mai. in non posso che ripeterlo; ogni transazione su questo terreno è impossibile, qualunque siano le riserve con le quali si accompagnici qualunque riguardo di linguaggio la si circondi, dal momento fosse da noi accettata sembrerebbe chela consacrassimo. Il Sommo Pontefice prima della sua esaltazione, come i cardinali alla loro nomina s'impegnano con giuramento a non cedere nulla dei territorio della Chiesa. Il Santo Padre non farà dunque alcuna concessione di questa natura;

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un conclave non avrebbe il dritto di farne; un nuovo Pontefice non ne potrebbero fare, i suoi successori di secolo in secolo non sarebbero nemmeno liberi di farne.

D'altronde il tuono assai calmo del cardinale segretario di Stato annunziava una risoluzione tanto più irremovibile in quanto che attingeva la sua ragione di essere in un ordine d'idee che sfugge alla discussione. in mi limitai a far osservare al cardinale Antonelli che il carattere stesso della sua dichiarazione m'imponeva il dovere di domandargli se potessi considerarla al governo dell'Imperatore come la risposta definitiva della Santa Sede. Dopo un momento di riflessione S. Em. si offerse di riferirne al Santo Padre, benché nella sua convinzione questa dimanda fosse soverchia.

Era il profondo sentimento di doveri, e di obblighi sacri che aveva dittato a S. S. le solenni dichiarazioni, di cui le sue encicliche o le sue allocuzioni avevano cosi sovente trattenuto tutto quanto il cattolicismo. Il cardinale non aveva dunque fatica a prevedere una risposta che s'impegnava altronde a trasmettermi l'indomani stesso sia per iscritto, sia per intermediario di uno dei suoi prelati. Ilo ricevuto effettivamente questa mattina dal cardinale segretario di Stato il biglietto di cui V. E. troverà qui unita la traduzione. Dopo aver preso gli ordini del S. P. S. Em. mi disse non aver nulla d'aggiungere né da togliere alle sue dichiarazioni del giorno precedente.

In sostanza, signor ministro, Vostra Eccellenza, poneva questa quistione di cui in riproduco i termini medesimi «Dobbiamo nutrire speranza di vedere la Santa Sede prestarsi, tenendo conto dei fatti compiuti, allo studio d'una combinazione che assicurerebbe al Sommo Pontefice condizioni permanenti di dignità, di sicurezza e d'indipendenza necessaria all'esercizio del suo potere? - Con profondo, rammarico in mi veggo obbligalo di rispondere negativamente, ma crederei mancare al mio dovere se vi lasciassi una speranza che non ho in stesso -

Allegata al dispaccio del 18 gennaio trovasi una lettera del cardinale al marchese Lavalette del tenore seguente.

r

. Per soddisfare alla promessa che vi ho fatto jeri in occasione della visita, di cui mi avete onorato al Vaticano, in mi faccio un dovere di dichiararvi

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che nulla debbo aggiungere né ridire alla risposta che ebbi a fare alla comunicazione che V. S. mi ha indirizzato nelle forme le più cortesi.

Colgo con piacere questa circostanza ec. -

In data dell'8 giugno 1861 il Ministro degli affari esteri scriveva al Duca di Grammont ambasciadore a Roma nei seguenti termini.

Signor Duca, gli ambasciatori d'Austria e di Spagna mi hanno indirizzato le comunicazioni, di cui troverete qui unita la copia, e che concepite in termini pressocchè ideatici hanno per oggetto di chiamare la sollecitudine del governo dell'Imperatore sulla critica situazione della Santa Sede, e di offrirle il concorso dell'Austria e della Spagna per pensare ai mezzi di mettere il papato al coperto da nuove pertubazioni, e di assicurare la sua indipendenza..

Come voi non mancherete di notarlo, signor Duca, queste due note non si spiegano d'altra parte né sulle condizioni che nell'opinione dei gabinetti di Vienna e di Madrid sarebbero necessarie per garentire la sua indipendenza, né sui mezzi che converrebbe usare per raggiungere l'intento indicato.

Il governo di Sua Maestà prima di rispondere alle negoziazioni che gli si erano offerte ha dovuto rendersi un conto più esalto della situazione e delle conseguenze che potrebbero derivare dal concerto a cui fu invitato. Ora a suo parere non vi sono che due ipotesi ammissibili.

La prima consisterebbe nel non tenere verun conto degli avvenimenti compiuti, cioè che le potenze cattoliche regolassero tra loro gli affari di Roma, fuori dell'Italia, e senza sua partecipazione. Ma che altro è un tal sistema se non l'intervento militare con tutti i suoi pericoli, col pericolo quasi cerio della pace generale, in somma con tutte le complicazioni la di cui gravità e durata sono egualmente incalcolabili? Il governo dell'Imperatore non saprebbe per ciò che lo riguarda dar la mano ad un componimento che aprirebbe la via a siffatta eventualità!

Nella seconda ipotesi, la sola ai nostri occhi che si presenti con un carattere veramente pratico, si ammetterebbe la partecipazione dell'Italia, si entrerebbe in negoziati col governo che oggidì lo rappresenta, e le Potenze cattoliche riunirebbero i loro sforzi comuni per condurre lo stabilimento e la consolidazione di un ordine di cose

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che potrebbe dare alla sicurezza ed alla indipendenza della Santa Sede le guarentigie di cui ha bisogno, e che non sono meno desiderate dal governo di sua Maestà, che dai gabinetti di Vienna e di Madrid.

Si è con tale intento, signor Duca, che in ho indirizzalo al principe di Mettermeli ed a S. E. il signor Mon la risposta, di cui vi unisco, qui copia. Voi vi compiacerete d'Ispirarvi delle stesse considerazioni nel caso che vi si desse l'occasione di spiegarvi intorno alla doppia comunicazione che ci fu indirizzata da parte dell'Austria e della Spagna -

Grammont risponde in data 22 giugno 1861.

Signor Ministro. Ho comunicalo a S. Em: il cardinale segretario di Stato il dispaccio di V. E. al sig. conte Rayneval per annunziargli che S. M. accogliendo la dimanda che il Re Vittorio Emmanuele gli aveva fatto in una lettera autografa aveva risoluto di riconoscere questo Sovrano come Re d'Italia.

La Corte di Roma era già da qualche giorno informata di questa importante risoluzione, e delle riserve che accompagnano il riconoscimento del nuovo regno.

Ho la soddisfazione di annunziare a V. E. che è stata apprezzata al Vaticano con uno spirito di moderazione e di giustizia, a cui sono lieto di poter rendere testimonianza.

Non si poteva sperare che il primo ministro di Sua Santità accogliesse la comunicazione che in era incaricato di fargli senza entrare in una discussione retrospettiva degli avvenimenti compiuti per rilevarne l'illegalità. Ma in credo di riprodurre esattamente il pensiero che mi venne espresso dal cardinale Segretario di Stato, dicendo che la corte di Roma benché dolente che politiche considerazioni abbiano imposto al governo dell'Imperatore il riconoscimento del regno d'Italia, apprezza però con pari saggezza e moderazione le difficoltà e pericoli che questa risoluzione ha per iscopo di scongiurare, e conservare una vera gratitudine per le dichiarazioni che l'accompagnano e soprattutto pel mantenimento della protezione efficace: da cui essa é la prima a far dipendere oggidì la sua esistenza.

Sua Eminenza che aveva ricevuto d'altra parte la comunicazione delle note indirizzate a Vostra Eccellenza dagli ambasciatori di Austria e di Spagna pareva mediocremente soddisfatto della incertezza della loro redazione, e delle proposizioni vaghe che vi si trovano formolate.

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Il Cardinale aveva notato nella Nota Spagnuola un disegno di guarentigia collettiva delle Potenze pel territorio

posseduto dalla Santa Sede. Ora non solamente, diceva egli la Santa Sede era risoluta di non aderire a guarentigie parziali del suo territorio, ma si vedrebbe ancora costretto nel caso che si stabilisse un accordo di tal genere tra le Potenze cattoliche, di protestare contro la differenza che quest'atto tenderebbe a stabilire tra il territorio guarentito ed il territorio non guarentito. - GRAMMONT

Lo stesso Ministro degli esteri in data del 6 luglio 1861 replica al Marchese di Cadore incaricato di affari di Francia a Roma.

Signore, ho letto con soddisfazione che mi compiaccio di qui esprimervi, la relazione con cui il duca di Grammont mi ha reso conto dell'abboccamento che aveva avuto col Cardinale Antonelli intorno al riconoscimento del titolo di Re d'Italia. Il Segretario di Stato di S. S. accolse la comunicazione dell'ambasciatore di S. M. in termini che ai nostri occhi hanno tanto maggior pregio, in quanto che il Papa stesso si è compiaciuto d'incaricare il duca di Grammont di portare in suo nome all'Imperatore parole di amicizia e di gratitudine. Queste disposizioni attestano la saggezza con cui la Corte di Roma, davanti alla gravità degli avvenimenti comincia oggidì ad apprezzare le difficoltà della nostra politica.

Ma se rendiamo omaggio a questi sentimenti, abbiamo però il dolore di constatare ancora una volta dippiù che lo stesso buon senso e la stessa moderazione sono sgraziatamente lungi dall'inspirare alcuni Prelati posti alla testa del Clero francese, é che la loro stessa posizione sembrerebbe dover preservare da certi traviamenti contrarii al carattere di cui sono rivestiti. Il Vescovo di Poithier ne diede un nuovo esempio in un sermone da lui pronunziato testé il giorno della festa di S. Pietro.

Mi giova credere che il Sovrano Pontefice inspirandosi a considerazioni che naturalmente suggeriscono i principii di rispetto e di autorità, di cui esso è il primo custode, non vedrà con indifferenza somiglianti assalti diretti da un Vescovo contro la persona di un augusto Sovrano. Non abbiamo noi soprattutto il dritto di meravigliarci in vedere questo Prelato

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evocando le memorie delle persecuzioni del Principe degli Apostoli sotto il terzo Erode andar cercando nel soccorso materiale che noi prestiamo al Santo Padre un testo di accuse contro Sua Maestà? Ma noi ce ne appelliamo al Papa stesso; forsechè il venerabile compare di S. Pietro si crede prigioniero all'ombra della nostra bandiera, e senza che facendo la guardia alle porte della sua capitale i soldati di Napoleone III opprimono la sua libertà.

Attacchi sì ingiusti, eccitazioni si appassionate uscite dalla bocca di un Vescovo sono d'una natura troppo seria, perché non si è dovere del governo di S. M. di pensare al mezzo di porvi un: termine nel duplice interesse della sua dignità e della pubblica pace, di cui è responsabile. Perciocché mi riguarda in considero come uno dei miei doveri più stretti d'invitarvi a spiegarvi francamente su questo punto, domandando al Cardinale Segretario di Stato se l'Imperatore agli occhi del Papa è considerato come un persecutore o come ra protettore della Santa Sede.

Vi compiacerete Signore di parlare al Cardinale Segretario di Stato nel senso delle osservazioni cheho indicate, e gli lascerete copia di questo dispaccio -

Che penseremo noi di cotesti documenti? Napoleone voleva sinceramente una conciliazione tra Roma e l'Italia? E qualora questa fosse avvenuta, poteva egli trovar conveniente a' suoi interessi il ritirare le truppe da Roma? E se debbasi negativamente rispondere a siffatte interrogazioni a che debbonsi mai attribuire le pratiche di conciliazione effettivamente tentate dall'Imperatore dei Francesi per mezzo del suo ambasciadore? Non doveva Napoleone esser pur troppo sicuro della negativa del Papa? E se ciò era, come non è a dubitare che Bonaparte avesse potuto credere il contrario, a quale scopo dunque egli si accinse alle trattative?

L'Austria e la Spagna insistevano onde la Santa Sede fosse rassicurata, la di lei posizione definitivamente determinata, e minacciavano intervento, credendo indispensabile il frammettersi qualora tranquillità e decoro non venissero al Papa minacciato in breve rassicurati. La democrazia italiana d'altra parte fremeva per aver Roma; al partito clericale stesso spiaceva l'inerzia e l'abbandono.

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Allora fu che Napoleone III per mettere qualche cosa di soddisfacente innanzi a tutti questi elementi contrarii pose in campo una conciliazione. Tenere a bada i partili, e la diplomazia cattolica, ecco tutto l'intento di Napoleone, ma del resto egli era ben persuaso che il Papa nulla avrebbe accettato, e che nello stato in cui trovavansi le cose niuna conciliazione, e tale da soddisfare il Papa ed il Re d'Italia nel tempo stesso avrebbe potuto aver luogo.

Intanto Ricasoli a tutte le polemiche ed a tutte le trattative sulla quistione romana metteva fine con la seguente Circolare diretta ai Prefetti.

Il Governo del Re prosegue il compimento ¿ei voti, che la nazione espresse per mezzo de' suoi legittimi rappresentanti; e pone ogni essere ed ogni studio a far risentire in ogni provincia del regno i beneficii delle libere istituzioni, e ad integrare l'unità e l'indipendenza d'Italia,

Di due specie però esso incontra ostacoli in questa via: gli uni naturali ed inevitabili, consistono negl'interessi e nelle passioni che trovavano soddisfazione in quei governi che caddero dinanzi al dritto ed alla volontà della nazione; gli altri derivano da partiti che professando intenti simili a quelli del governo, pur vorrebbero ad esso sostituirsi nell'azione, che solo spetta ad esso, di promuovere, d'iniziare, e di moderare perché sia rispettata ed efficace.

A superare gli ostacoli dalla prima specie vuolsi nel governo non meno della materiale una morale autorità grandissima: poiché i nemici della libertà e dell'Italia hanno ajuto fermo, procacciante, instancabile nel principio religioso da essi abusato, potente per tradizioni secolari e per universali credenze. Ma poiché questi contraddicono manifestamente al dritto ed alla volontà della nazione, cosi sono resi in Italia dalla pubblica opinione impotenti, e cadono di per sé sotto la minaccia della legge. Occorre nonpertanto contro essi vigilanza e cautele, perché in nome dei principii religiosi non inducano in orrore le coscienze ignare o timorose, e non la spingono fino a divenir rubelli, e perché sia pronta e vigorosa la repressione quando trasmodassero tant'oltre.

Preme però di vigilare egualmente su coloro i quali o in buona fede o per fine di setta fanno della quistione di Roma uno strumento di agitazione popolare e riescono come a suscitare diffidenza e sospetto

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verso il Governo, o ne attraversano ed impediscono l'opera quando pretendono di ajutarla. Nell'un caso come nell'altro è grave il nocumento che può soffrire la causa nazionale.

Il Governo del Re ha solennemente dichiarato per quali vie e con quali mezzi egli intende pervenire a Roma: quelle vie e quei mezzi gli furono addidati dal Parlamento Nazionale a soli dalla logica dei fatti e dalla natura delle cose vengono addidati come valevoli a compiere gl'intenti nazionali. Egli confida di raggiungere per quelle vie e con quei modi l'intento; ed egli solo può decidere del da farsi e del quando; poiché solo egli è sotto la sua responsabilità esecutore della volontà nazionale, e per la condizione che egli debba avere, e che solo è in grado di convincersi della vera condizione delle cose, può giudicare delle opportunità e della misura dell'azione. Né la sua dignità, né gl'interessi della Nazione consentirebbero mai ch'egli si lasciasse precorrere né trascinare.

Nella quistione romana, trattasi soprattutto di ottenere un grande trionfo morale, nel quale la coscienza dei cattolici sinceri, delle genti civili tutte, e della. nazione italiana in ispecie sono interessate. Dalla temperanza degl'italiani e del senno da essi anche in quest'opera addimostrato, già si Veggono i frutti, ed il governo dei Re ha ragione di felicitarsi dei successi ottenuti.

La Chiesa libera, e lo Stato libero inaugureranno un novello ordine di cose di cui gl'Italiani potranno addivenire iniziatori, consentendo con senno e temporanza nel programma di conciliazione tra ed il Ponteficato dai Romani espresso in questi ultimi giorni con brevità e sapienza antica.

Ma intanto che il Governo del Re pone ogni diligenza intorno alla quistione di Roma, della quale partiti e le fazioni a diverso. intento abusano, gli abbisogna tutta la sua morale autorità e tutta la fiducia delle popolazioni. Egli è conscio a sé stesso di non averla demeritata; ed in presenza della gravità degli avvenimenti intende che l'opera sua non venga disturbata né da impeti inconsiderati, né da manifestazioni clamorose; dalle quali potrebbero trarre argomento i cattolici di mettersi in diffidenza dei veri sentimenti degl'Italiani, fraintendendoli, o di abusare dell'autorità e dell'efficacia della potestà, governativa, la quale è una guarentigia da tutti desiderata, e necessaria a tutti.

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Voglia il sig. Prefetto illuminare per modo la pubblica opinione della Provincia da esso amministrala che non abbia a deviare o trasmodare, e Valersi di tutta la sua autorità per impedire che si facciano o si rinnovino quelle manifestazioni che il Governo considera come disdicevoli ad una nazione grande e forte, e costituita in modo da potere per mezzo de' suoi rappresentanti esprimere le sue aspirazioni ed i suoi voleri. -

Diamo ora un rapido sguardo alla discussione circa la quistione romana avvenuta nel Senato francese.

Cominciamo dell'ascoltare in qualche punto più culminante il Senatore Pietri.

«I partiti che pretendono che l'unità italiana cagionerà il rovesciamento degli stati della S. Sede dovrebbero sapere che non havvi alcuna potenza abbastanza forte, quantunque se ne trovasse una abbastanza ingiusta per impedire ad una nazione di pervenire ai suoi destini, allorquando essa è matura per a la saggezza e per la libertà.»

«In quanto concerne gli uomini nuovi, che dimenticano ingiuste prevenzioni, essi comprendono che l'imperatore, incarnazione della Francia democratica deve prendere in mano la difesa della causa dei popoli, e guidarli verso le sorgenti vive della democrazia e della libertà.»

«Col prestigio che risulta da questo battesimo augusto della dinastia, il cammino del governo imperiale è tutto tracciato: alti l'estero, difesa della causa dei popoli; all'interno deve dare al popolo tanta libertà quanto. s'ebbe di eguaglianza, e disciplinare le forze della nazione. Questo progresso si compie per gradi: la costituzione è perfettibile; è stato solennemente dichiarato che la libertà sarebbe l'incoronamento dell'edilizio imperiale

«Come lo ha dichiarato l'Imperatore, l'impero è la pace: ma a una pace che deve proteggere la nostra dignità, e permetterci di esprimere altamente le nostre simpatie per i popoli. -La pace compresa in tal guisa non poteva lasciarci insensibili alle sventure d'Italia. Questa causa non ha trovati contrarii che certi prelati collegati con tutti i malcontenti di tutti i regni.

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«Questa penosa quistione mi conduce alle difficoltà della corte a romana. Queste difficoltà non le abbiamo né sollevate, né complicate. L'Imperatore, capo d'una nazione cattolica, ha provato al contrario tutta la sua devozione al S. Padre, e se questi avesti se tenuto conto degli avvertimenti che non gli mancarono, forse il papato sarebbe oggigiorno riconciliato con la causa italiana.

» La quistione romana è una quistione esaurita, essa ha stancato la pubblica opinione, lo non potrebbe più prolungarsi nel mentre che noi andiamo in cerca di sforzi di conciliazione. Roma diventa il centro di tutte le mene che turbano il regno di Napoli; la nostra divozione è disconosciuta, le coscienze sono profondamente turbate, e gl'interessi spirituali stessi compromessi. Noi pure siamo cattolici. Noi lo siamo forse con maggiore convinzione che molti di quelli che speculano su questo titolo.

» Si è per questo che noi speriamo che certi prelati ritorneranno a sentimenti più giusti, e che ci ajuteranno alla soluzione della quistione romana. Essa dev'essere sciolta con la ragione, e non con la spada.

» Che havvi di più doloroso a constatare che il rifiuto assoluto della corte romana, che fa salire fino al cielo una quistione terrestre, e che sembra più impegnata al ricupero del suo potere temporale che all'estensione del dominio spirituale?

» Bisogna salvar Roma che tende a perdersi: che le si faccia una nuova proposta: e se ella la respinge con un rifiuto, che la Francia e l'Italia procedano senza di lei alla grand'opera della conciliazione tra l'indipendenza nazionale e la Religione. Non v'ha tempo da perdere, voi sapete che il Sovrano Pontefice ha convocato tutti i Vescovi del cattolicismo a Roma per un consiglio ecumenico. Trattasi in credo, nella lettera, dei martiri del Giappone, ma da questa assemblea possono uscire risoluzioni che compromettano tutto (1).

» Se le popolazioni esasperate dell'Italia venissero a considerare l'ostinatezza della Santa Sede come un male incurabile, ove sarebbe il rimedio? Pensate che gli uomini più intelligenti del l'Italia non credono alla liberazione del loro paese senza la scomparsa del potere temporale.

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Questa opinione è divenuta quella dell'Italia intera; badate, nel farvi ostacolo, di non gittare l'Italia, nella rivoluzione e nello scisma. Essi si precipiterebbe allora come un torrente che seco travolge la semente ed il solco. Riflettete a questo periglio.

Non obbliate che un pronto e pacifico scioglimento della romana quistione ci permetterebbe di diminuire la nostra armata di cento mila uomini, ed il nostro bilancio di cento milioni

Qui Larochejaquelein risponde qualche cosa al Senatore Pietri sostenendo il potere temporale del Papa, e scagliandosi contro la, secondo lui, irrefrenata libertà della stampa.

Ma il Principe Napoleone riprende cosi. - «Permettetemi ora, o signori, di fare a grandi tratti lo schizzo dell'impero com'io lo comprendo e come lo intende da canto suo, in credo, il marchese Larochejaquelein. Per me l'impero è la gloria: è all'esterno la distruzione dei trattati del 1815: nei limiti delle forze e dei mezzi della Francia; l'unità dell'Italia che noi abbiamo contribuito a liberare, consolidare, e costituire. All'interno è l'ordine, senza del quale nulla è possibile, ma è pure un insieme di libertà sagge e serie, fra le quali la libertà della stampa; si è un'istruzione popolare senza limiti, senza le congregazioni religiose, e senza tutte queste istituzioni che vorrebbero imporre il ritorno del bigottismo del medio evo..... La politica di Larochejaquelein si è l'alleanza con l'Austria. Si è la distruzione dell'unità italiana, si è la ristorazione del potere temporale del papa nella sua integrità. All'interno Larochejachelein vuole che a tutti i giornali dal al passando anche pel siano tutti soppressi. E su questa vasta ecatombe che rimarrà? Oh! resterà lail e forse ancora quest'ultimo giornale sarà riguardato come indegno di perdono, a motivo di recenti modificazioni. Ecco lo spettacolo delle Società, secondo il cuore di Larochejaquelein,. ecco l'avvenire che segna per noi. In una parola, signori, questo sistema sapete voi qual è? il terreno appoggiato sulle bajonette straniere. Questo sistema noi non lo vogliamo più, non l'avremo più.

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giammai una simile politica avesse da prevalere,. se giammai si potesse far tavola rasa dei principii rivoluzionarii, l'impero non avrebbe più ragione di essere, e non resterebbe più che a chiamare il Duca di Bordeaux per fargli occupare il trono di Napoleone III. Ma in non temo nulla pel grande governo del mio paese. Esso ha le sue radici nel cuore del popolo.

Fino a che continuerà a rappresentare all'estero il principio della nazionalità, fino a che all'interno esso rimarrà in comunicazione con i sentimenti delle masse può sfidare tutti gli sforzi dei clericali ed a meglio chiarire l'indole delle discussione, ed il concetto predominante in essa, crediamo indispensabile non tralasciare al. cune poche parole del ministro

«Il governo è uscito dalla rivoluzione, egli dice, ma esso si e «ad un tempo il propagatore, il Direttore ed il Moderatore. Quanti do la Francia si è gittata nelle braccia dell'Imperatore, il domani della rivoluzione, sua intenzione fu ch'esso facesse rientrare nei limiti ciò che non avrebbe dovuto uscirne, e rimettesse sulla sua base la piramide che strane utopie volevano rizzare sopra il vertice. Quando l'Imperatore venne a prendere lo scettro che ricordava tante tradizioni d'ordine, di forza di gloria, lo fece per continuare queste tradizioni, e fu secondato dalla religione. «Esso incontrò molti ostacoli, molte difficoltà, molti disinganni: ma la sua grand'anima non comprometterà perciò il fine che deve raggiungere, gl'intéressi che deve proteggere. Attribuirà molto all'ingratitudine, all'obblio, all'ingiustizia, ma la religione una delle basi della società, ed esso non lo dimenticherà. «Quando venne trovò l'agitazione, le lotte, le dispute di partito, e disse: bisognano la pace e. la tranquillità che sono le condizioni dell'ordine, della forza, della gloria. Quindi con la legge del 1852 impose silenzio ai perturbatori, e tanto ai pregiudizi del papato alle follie dell'avvenire. Resterà fedele ai principii che l'hanno condotto al potere, e saprà farli trionfare. Non ignora quanta fermezza e pazienza occorrano e respingerà qualunque tendenza arrischiata e compromettente.»

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Volendo noi recare un giudizio sopra cotesta discussione, diremo che il Senato francese non è che il concetto napoleonico che sotto tali e tante varie forme si rivela per quante e quali reputansi necessarie a tenere a bada i partiti. Il Principe e Pietri rappresentano il concetto napoleonico liberale, e son là per dare qualche soddisfazione al partito democratico, e poi alimentarne le speranza. Larochejachelein, e Montalambert, essi stessi, senza avvedersene servono alla mente napoleonica, poiché sono gli elementi neutralizzatori d'ogni slancio. cui per avventura dai partiti liberali potrebbe vedersi spinto l'impero.

E cosi sorge una camera composta di elementi che si neutralizzano a vicenda, e sul loro cozzare l'impero si consolida e procede senza mai urtare direttamente in questa o in quell'altra aspirazione, senza mai pronunziarsi apertamente in un senso o in un altro.

L'impero fa inceppare la sua azione esterna per concentrarla tutta in sé stesso: l'impero si lascia impedire di fare per non impegnarsi in operazioni che possono comprometterlo. Esso in faccia ai democratici si scusa sul partilo clericale, ed al cospetto di questo si scusa con quelli: cosi procede, e si rinforza.

Sarebbe un ingrato oblio il non rammentare ai nostri lettori il generale Garibaldi.

Continua la sua dimora a Caprera. La sua salute è eccellente, né mai fu migliore in sua vita. Unitamente a' suoi compagni ed amici attende ai lavori agricoli con assiduità, essendoglisi sviluppata per essi una ben calda passione. In uno di questi giochi il generale guardando con la compiacenza dell'artefice che contempla la bella opera sua un magnifico pezzo di terreno messo di recente a coltivazione, esclamava.» Se non fussi continuamente preoccupato dal pensiero delle corti d'Italia, e seccato da questi maledetti intrighi politici, sarei un gran signore!

Del resto egli si duole della freddezza del governo nell'ornamento della nazione, massime riguardo alla formazione delle quattro divisioni, che dopo tante promesse del ministero non ebbe sino al momento alcuno effetto.

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Da ogni parte d'Italia e dell'estero gli giungono continuamente affettuose lettere e doni del popolo. Assai lo commuovono questi alti di dolce memoria: per tutti egli ha una parola di conforto, di eccitamento, di amore, di grazie.

Passa le serate leggendo i giornali che pure gli vengono inviati, ed ogni qual volta trova un nuovo atto di empietà dei nostri eterni nemici, il suo nobile volto si accende di magnanima ira; ma tosto si ricompone, ed il silenzio che succede è d'una indefinibile espressione. Nei primi giorni di febbraio egli ha ricevuto a dissodare il suo terreno 19 ospiti laboriosi da Codogno. Costoro sapendo che al generale occorreva un certo numero di lavoratori recaronsi a Caprera di loro spontanea volontà, e rifiutando anticipatamente ogni compenso, essi non vollero essere a carico del generale neppure pel vitto giornaliero; perciò recarono con essi tutte le loro provigioni, farina di meliga, olio, vino, onde procurarsi la soddisfazione di poter dire: abbiamo servito Garibaldi senza prender salario, e solo per fargli cosa grata.

Il Generale accettò la libera offerta delle loro braccia, ed i bravi contadini lavorarono per lungo tempo sotto la di lui direzione.

Ed il continente italiano ansio sempre delle nuove del Generale in data del 15 Febbrajo scrivevasi così.

Avant'jeri eravamo tutti raccolti nel salotto, e l'andavano scorrendo i giornali, facendo chiose e comenti, quand'ecco la fronte dell'eroe corrugarsi per una spiacevole impressione ed egli esclamare con quel suo accento risolute «Ma questa è una indignità! Fin dove può giungere adunque il servilismo di un governo?» Noi ci guardammo estatici quasi cercando in noi stessi la cagione del disgusto provato dal Generale.

Scorta la nostra sorpresa, corrucciato sempre, ma un pò più calmo, ei scorse un giornale dicendo «Non può essere, sarà uno fole gazzettiere francese» Gettando uno sguardo sul foglio rimessoci dal Generale, vedemmo la notizia data prima del, poi riprodotta dai nostri diarii: che il governo italiano si disponesse a mandare una nostra fregata nel Messico,

Vedendo che avevamo conosciuto la cagione del suo sdegno Garibaldi continuò «Che il governo mandi nel Messico una fregata per proteggere i nazionali italiani, e l'avrei fatto anch'io: ma ch'esso ponga la nostra nave agli ordini degli alleati non può essere che una fanfaronata del giornalista francese: sarebbe cosa veramente scandalosa che l'Italia dovesse andare a combattere la libertà e l'indipendenza di un popolo pel quale i migliori patrioti come i generali Felizzoto calabrese, Stabile romagnolo, e Ghilardi toscano, hanno versate il loro sangue; sarebbe cosa indegna l'andarsi a porre a fianco della Spagna che non ci ha riconosciuti per combattere il Messico che primo Tra tutti ci riconobbe. Ci andrebbe di mezzo, per Dio, l'onore del paese!

Così conchiuse il Generale, ed io mi affretto a comunicarvi le sue parole, perché esse sono di un valore ed hanno un significalo immenso. Pensi il governo italiano che il senno e l'onestà debbono essere cardini sui quali si appoggia l'edilizio della politica nazionale. Ascolti le parole del grand'uomo di Caprera, e se mai fosse per commettere una tale indignità, se ne avverta a tempo.

Qui tutto va bene. Il generale non parla che di prossima azione: si attendono con impazienza gli eventi.

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DOCUMENTI

(1) Ecco la lettera che convoca il Concilio, cui allude il senatore Pietri.

Monsignore.

Non v'ha messione per me più gradita di quella che mi viene ordinata di annunziare a Vostra Grandezza che Sua Santità ha deciso di convocare pel mese di maggio prossimo, due concistori semi pubblici, vinsegnito dei quali avrà luogo il giorno della Pentecoste la canonizzazione dei ventitré beati martiri giapponesi dell'ordine di S. Francesco dei minori osservanti; cioè del beato Pietro Battista e de' suoi compagni, e del beato Michele de Santis confessore dell'ordine della S. Trinità per il riscatto degli schiavi.

Sua Santità seguendo l'esempio de' suoi predecessori avrebbe desiderato di far venire a Roma di propria autorità i vescovi italiani per intendere la loro opinione in uno affare di si grande importanza, e per accrescere con la loro presenza la pompa di questa solennità. Ma considerando le calamità che colpiscono la maggior parte dell'Italia e non permettono a tutti i pastori di separarsi dal loro gregge, ella ha creduto per questa volta di deviare dall'uso stabilito.

Perciò il sovrano pontefice si è degnato di ordinarmi di spedire questa lettera non solo a tutti i vescovi dell'Italia, ma pure a quelli del mondo cattolico per annunziar loro la felice notizia della canonizzazione, e per dichiarar loro al tempo stesso che quelli che credessero poter fare il viaggio a Roma sia d'Italia sia d'altra parte senza pericolo pel loro gregge, né inconveniente particolare onde assistere ai concistori ed alla canonizzazione solenne, farebbero cosa aggradevole a Sua Santità.

Del resto questo viaggio a Roma, se può effettuarsi secondo le intenzioni di Sua Santità servirà come le fosse fatto per compiere l'obbligo delle visite

sa

vi annunzio tutto ciò per ordine di Sua Santità.

Profitto dell'occasione per esprimere a Vostra Grandezza i miei profondi sentimenti di rispetto, ed augurarvi tutte le prosperità divine. - Roma 18 gennajo 1862.

Prefetto della Congregazione del Concilio.

Fu opinione generale che il vero e principale scopo di queste convocazione di Vescovi, fosse la quistione del potere temporale ed è facile il prevedere quale sarà per essere la risoluzione che doveva esser presa in questa assemblea. La maggioranza dei Vescovi si pronunzierà pel mantenimento del potere temporale, nello stesso modo che i loro predecessori prima della rivoluzione francese avrebbero volalo per la conservazione delle decime o dei beni ecclesiastici, se la quistione fosse stata sottomessa alte loro deliberazioni.

Ed in vero il a questo proposito scrive.

Questa misura non è che un pretesto per agitare la Chiesa e gli spiriti; la Corte di Roma che mette in giuoco tutte le risorse della sua politica, tenta di compromettere il vescovado intero in una lotta ch'essa intraprende contro i principi! sui quali riposa la società moderna. Che diverrebbe questa manifestazione che ò diretta pure contro il governo francese, se questi ritirasse da Roma le sue truppe?

A mettere maggiormente in rilievo la natura della discussione avvenuta nel Senato francese in rapporto alla quistione di Roma, ed a spargere maggior luce sur essa riportiamo qui un altro imponente brano di un discorso del principe Napoleone.

Arrivo ora ad uno dei punti più gravi in questa quistione che noi esaminiamo; in voglio dire l'unità italiana con Roma per capitale.

Non havvi unità italiana senza Roma per capitale. Ascoltate i più saggi, i più moderati, ma quelli che hanno confidenza nell'Italia, e vi diranno senza violenza, e con calore che lo stato attuale è impossibile che è una soluzione transitoria, che bisogna scioglierla, e in questa occasione non posso fare a meno di fare osservare la moderazione dell'Italia.

Io spero che nulla di somigliante succederà nel mio paese: ma se succedesse, in desidererei che fornisse lo spettacolo di simile moderazione. Sono senza dubbio accaduti, de' grandi mali e dei delitti. Ma in sono sorpreso che non ne siano accaduti dei maggiori in questo paese dopo avvenimenti ed eccitamenti che hanno risveglialo quel che havvi di più vivo per il cuore dell'uomo e del cittadino.

Me ne appello ai miei avversari politici stessi; essi riconosceranno che la posizione dell'Italia e stata perfettamente calma e moderata.

In questa quistione dell'unità italiana con Roma per capitale, in incontro un argomento creato per i bisogni della causa ma che non è giammai lealmente esistito.

Si dice che Roma non è dei Romani; che Roma non ò degl'Italiani, che è mia specie di proprietà comune appartenente a tutte le cattolicità.

Ebbene questa è una eresia politica che non regge all'esame, non dirò di un uomo di stato, ma di qualunque uomo di buona fede che vorrà studiarle per ventiquattrore. Non havvi spirito serio che osi dire che Roma è una specie di fedecommesso che i Papi si trasmettono da uno all'altro. Ma questi stati. della Chiesa sono stati costituiti dai maléaugnrati trattati di Vienna, e ne havvi alcuna delle stipulazioni di questi trattati che nonesci sottoscritta da una potenza non cattolica, dall'Inghilterra protestante, dalla Prussia protestante, dalla Svezia protestante, dalla Russia scismatica.

Questo argomento che non sì è apertamente prodotto che nella pubblica discussione, non ha usalo prender posto nei dispacci, salvo in un solo che aveva un cattivo carattere. Esso era stato presentato in termini quasi identici dall'Austria e dalla Spagna; ciò gli dava un aspetto spiacevole. L'argomento ivi era indicato per allusione.

Si ò dunque un argomento da escludere in sulle prime; ed in vero bisognerebbe esser ben folle per ammettere che i beni temporali della Chiesa siano d'istituzione divina, e che essi siano caduti per così dire dal Cielo con i loro confini tutti tracciali dal vangelo stesso.

No, Roma non è collocata in un dritto eccezionale. Che principi dalla Chiesa trascinati da una pietà liliale, dimentichi forse del loro carattere di senatore per rammentarsi in preferenza dalla veste che indossano mettono il potere temporale del papa al di sopra di tutti gli altri, in lo comprendo: e una specie di argomento, del cuore, e non della ragione. Ad essi per tante non rispondo, ma mi rivolgo al pubblico.

Il governo temporale dei papi, libero delle forme oratorio delle quali Si circonda, non ha altro carattere che quello degli altri governi. La popolazione di Roma ha i medesimi dritti di quella di Milano, di Parigi, di Bruxelles, e se ella ne usasse per espellere il proprio sovrano con moderazione con calma, esso non farebbe che commettere un atto che hanno commesso altre popolazioni. Essa non farebbe che quello che i popoli hanno fatto nel Belgio nell'Italia, e l'Europa ha riconosciuto che avevano il grillo di farle.

Questa unità dell'Italia è una idea antica, tutti i grandi uomini vi sono attaccati dopo il decimoterzo secolo, e tutti hanno voluto l'unità del lorò paese.

Forse meraviglierete di molto, o signori se vi dicessi che nel l'indagare con buona fede e tenerezza i sentimenti di Napoleone I. in tale questione, trovai dello cose molto triste, ma molto importanti.

E dapprima si è il generale Bonaparte ma voi sapete che il generale Bonaparte era in germe Napoleone. In un proclama del 1799 il generale promette agl'Italiani l'unità, se sapranno formare dei battaglioni agguerriti.

Più lardi. dopo aver precorso quella immensa carriera che va da Tolone a S. Elena, l'imperatore prigioniero, abbandonato alle sue filosofiche riflessioni predisse Punita italiana. Egli parla della necessità di riunire tutti gli abitanti della Penisola sotto un solo governo, che renderebbe un gran servizio all'Europa stabilendo, per terra un contrappeso fra l'Austria e la Francia, e, per mare, tra la Francia e l'Inghilterra

Queste parole sono esse abbastanza esplicite?

Signori m'importa di rammentare una ricordanza storica che debbo confessare che mi ha vivamente commosso. Nel 1814 i patrioti italiani, incorriggibili senza dubbio secondo i nostri avversarli, secondo noi eroici e perseveranti sognarono un movimento nazionale per liberare l'Italia dal giogo dell'Austria.

E un uomo che sedette in questa Camera il conte Rossi, nobile patriota entrò a parte di questi sforzi.

Questi onorevoli italiani fecero appello al gigante ch'era incatenato alle loro porte, essi invocarono i suoi consigli. Napoleone era nell'isola dell'Elba, ed accolse queste pratiche. Eh! mio Dio era forse un sogno! Napoleone abitualo a maneggiare immense organizzazioni militari pensava egli di mettersi alla testa di alcuni sventurati esaltati che volevano liberare il loro paese? Napoleone non esitò forse, e quello che havvi un certo si ò che disse parole toccanti che portano talmente l'impronta sua che in non potrei dubitare della loro autenticità.

«Fui grande sul trono di Francia, rispondeva Napoleone, per la forza delle armi; il carattere distentivo del mio regno è stato la gloria delle conquiste. A Roma sarei l'uomo della pace»

Io di tanti elementi sparsi farei una nazione. Aprirei strade e canali, darei degli sfoghi al commercio italiano. Le leggi saranno fatte dagli Italiani. A Napoli, a Venezia, ed alla Spezia si apriranno nuovi carnieri marittimi, che daranno nuova potenza a questo grande paese!

Io farei di Roma un porto di mare. Vi sarebbe là un popolo di 30 milioni di uomini. Non più guerre, non più conquiste. Avrei una valorosa armata sulla cui bandiera sarebbe scritto «guai a chi la tocca» e nessuno la toccherebbe. Fui Cesare in Francia, sarei Camillo a Roma»

«Roma eguaglierebbe Parigi»

....................................................

Ed oggi qua! è lo stato delle cose?

Roma è nelle nostre mani, noi siamo gli arbitri della quistione romana. Dalla condotta che terrà la Francia in tale quistione dipende più o meno la calma dell'Italia.

Se noi restiamo a Roma questa agitazione prenderà delle proporzioni pericolose. Chi l'arresterà? Chi distruggerà l'unità italiana? Non vi sono che gli Austriaci e noi. Quanto a farvi la ingiuria che possiate avere la idea di un intervento Austriaco, in non vi penso nemmeno, perché so rispettare i miei avversarli.

Noi qui siamo tutti Francesi, non havvi un solo de' nemici contradditori, di quelli che combattono con maggiore energia le opinioni radicate nel mio cuore che pensi un solo istante ed abbandonare l'Italia alle armi austriache.

No, ciò non si può.

Ma finalmente bisogna mettere un termine a questo stato di cose. Non è un argomento di tribuna, si tratta di un'alta necessità politica.

Lo stato delle cose è intollerabile per l'Italia, intollerabile per la Francia, intollerabile per l'Europa. Bisogna calmare le agitazioni. Ebbene se voi volete vedere scomparire non havvi che un sol mezzo evacuare Roma! Voi senza questo non calmerete l'agitazione italiana. Lo

stat

sarebbe un disordine permanente, una pèrpeiua emozione.

Al cospetto di questa generale effervescenza avete voi ben riflettuto alla posizione dei nostri valorosi soldati a Roma, forse in un prossimo giorno? Farete voi dei vostri soldati i gendarmi di un potere condannato?.... condannato dalle storie?

Saranno essi costretti a difendere un governo biasimato da tutti i documenti che emanano dal governo del loro imperatore, un governo che disconosce tutti i generosi consigli che gli si danno? No! No! Qual è questo stato di cose?

È una situazione di dovere. I nostri soldati lo adempiranno senza dubbio con la loro, abituale devozione; ma non c'impedite di gemere sotto le necessità alle quali siamo trascinati..

Ebbene che potrebbe fare il governo secondo me? Dovrebbe stipulare chiaramente tutto quello che è necessario per assicurare al S. Padre, l'onore, la dignità, l'indipendenza spirituale, quindi, fatto questo-e non ho da indicare qui su quali basi ciò si farà; è a fare degli uomini di stato che vi penseranno nel silenzio del loro gabinetto - Bisognerà che il governo dell'imperatore notifichi a Roma quello che crede poter fare per l'indipendenza spirituale del S. Padre, e, rassicurate in tal guisa le coscienze cattoliche che le nostre truppe evacuino Roma.

Il Papa allora resterà col suo popolo. E nel Caso che le passioni venissero ad abbandonare la città eterna a disordini compromettenti per la sicurezza del S. Padre, assicuriamolo che se egli domanda i soldati italiani sapranno difenderlo dal momento che lo chiamerà.

CAPITOLO VI

Sommario.

Caduta del Ministero Ricasoli - Programma del Ministro Raltazzi -Opposizioni - Difese - Fatti diversi.

Richiama ora la nostra attenzione tale un avvenimento da sospingere in novella fase la politica italiana. Intendiamo parlare della caduta del ministro Ricasoli, e della sostituzione in persona del Rattazzi; e chi vedesse in questo una continuazione della politica dell'altro, s'ingannerebbe gran fattole bene il chiariranno le pagine seguenti.

Sull'iniziativa del Generale Garibaldi crasi organato a Genova, e già cominciava ad avere le sue diramazioni in altre città italiane, un'associazione detta, i di cui componenti erano i più distinti di quel di cui altrove parlammo, scopo raccoglier le forze, provveder anni e danaro, onde quando che il tempo lo consentisse riscattar Roma e Venezia. Era, in altri termini la rivoluzione che voleva rivendicare la sua iniziativa, era la parte fremente della democrazia che cercava sostituirsi ud un governo inoperoso e stazionario, e quanto dovessero di ciò allarmarsi Ministero e ministeriali non è mestieri d'altri il dica. Cominciarono le adunanze, vi presiedè Garibaldi, vi furono dei caldi discorsi di Campanella, e d'altri ancora, ed allora gli allarmi ministeriali, e dei cosi detti divennero furore; e furenti va rii deputati della destra, fra i quali Boggio, il più nauseante, indecoroso ed illogico propugnatore d'ogni atto, d'ogni parola, d'ogni fatto che dal Ministero venisse, assalirono Ricasoli intorno alle associazioni emancipatrici, o, che anche questo era il nome che a quelle assemblee davasi allora.

Pria però di proceder oltre non possiamo rinunziare a descrivere la tempestosa seduta che avveniva in Genova il giorno 9 marzo. Fu adunanza generale nella platea del teatro Paganini di tutte le associazioni democratiche italiane, presieduta dal Generale Garibaldi.

Prima delle ore 11 ant. la via Caffaro era stivata di popolo che attendeva il Generale al passaggio. I rappresentanti delle Associazioni entravano nel teatro, e con essi un gran numero di invitati. Le finestre erano imbandieratele piene di spettatori. Il Generale alle ore Il precise attraversava la folla in carrozza, seguito da un gran numero de' suoi commilitoni, tra cui il generale Turr, i colonnelli Corte, Missori, Nullo, Deideri, Guastalla, i maggiori Menotti Garibaldi, Canzio, Basso, e molti altri. Il passaggio del Generale fu un trionfo continuo tra gli applausi fatti al suo nome a Roma ed a Venezia. I dintorni e l'atrio del teatro erano fitti di popolo, che non poteva entrare nel recinto, e rendevi faticoso l'ingresso ai rappresentanti convocali ed alle persone munite di biglietto. Rinunziano al compito di descrivere l'entusiasmo destato nella platea all'ingresso del Generale, e ci facciamo subito a descrivere la sala. Le panche della platea sono tutte occupate dai rappresentanti; il palco scenico si ricolma in pochi minuti dei deputati della sinistra che accorsero tutti all'appello, degli uffiziali garibaldini sovraccennati, dei membri del Comitato centrale di provvedimento, e delle Commissioni dette nell'Assemblea del 15 dicembre. La stampa genovese occupa alcuni palchetti di prima fila. Tutti gli altri palchetti si riempono di spettatori invitati, o proprietarii, ed in moltissimi si vedono avvenenti signore, intervenute anch'esse per salutare l'eroe dei due mondi. La Polonia, l'Ungheria, la Rumania, l'Inghilterra, e la Francia sono rappresentale nella platea, e nei palchi. Sul proscenio è una tavola a semi circolo, al cui centro siede il Generale ranvolto nelcenerino con fodera rossa. Intorno a lui siedono provvisoriamente i membri del Comitato centrale. Due tavolini alla estremità del banco presidenziale servono ai segretarii, e due tavole presso i palchetti di proscenio accolgono intorno a se le rispettive commissioni. Il teatro ò illuminato tutto intorno al second'ordine di palchi, dal lampadario centrale. Un altro lampadario minore illumina il palcoscenico. Mentre l'Adunanza si forma vien distribuito il progetto di regolamento per l'Unione delle Associazioni democratiche italiane preparato dalla Commissione eletta il 15 dicembre 1861. Sono le 12.

Il Generale si alza e in mezzo al più profondo silenzio dell'Assemblea pronunzia queste parole.

«Io mi sento veramente fortunato, e credo che ognuno che assiste a questa Assemblea deve sentire la stessa soddisfazione che è quella di vedere qui riuniti i rappresentanti di un popolo libero, di un popolo che ha avuto la felicità di vedere la sua condotta approvala dalla intera umanità, di cui ha coraggiosamente abbracciato i principii.»

«SI, in sono fortunato di trovarmi qui in mezzo ai rappresentanti delle intero popolo italiano, abbenchè le attuali circostanze non permettessero ad alcune di essere rappresentate, pure abbiamo tra noi anche i rappresentanti di fratelli che abbiamo giurato di redimere. Oggi il principale oggetto per cui il Comitato Centrale delle Associazioni di Provvedimento ha convocate l'Assemblea è stato per coordinare in un sol centro tutte, le Associazioni liberali. -Scopo santo che deve portarci a conseguire l'adempimento dei destini del nostro paese.»

«Sono attorniato da uomini che conoscono la storia assai meglio di me, ma non fa bisogno di conoscerà tutta la storia per vedere come sieno sempre state le dissenzioni fra gl'Italiani la causa principale, unica dei mali della nostra patria.»

«Mi permetterete quindi che faccia un plauso alla nobile idea che ha avuto il Comitato Centrale di riunire questa assemblea per intenderci, per coordinarci. -L'idea di riunire in uno tutti gli elementi liberali del paese, di fare una Società sola delle Società liberali tutte, credo debba meritare l'approvazione di tutti i rappresentanti che si trovano in questa Assemblea. -Riunirsi e coordinare insieme tutte le nostre forze è la mia opinione. - in sono di opinione di tutto raggranellare, formare il fascio romano.... fascio d'avanti a cui s'inchineranno tutte le prepotenze.»

«Mi pare di avere emesso il mio concetto per ciò che riguarda il nostro paese-ho emesso ed emetto ancora sottoponendolo alla vostra determinazione anche il concetto di riunire in uno tutte le forze popolari si estendesse anche ad altri popoli, andasse anche oltre la penisola. -Vorrei che gl'Italiani porgessero la mano agli schiavi del mondo intero!!

Resta a sceglie«e una determinazione che possa rendere il concetto che ho emesso.

La seduta è aperta.

membro del Comitato prende la parola per dire che le parole del Generale annunzieranno all'Europa che la concordia regna nel campo della Democrazia. Mostra come l'Assemblea è destinata a gettare le fondamenta di quelle formidabili falangi popolari che operarono i portenti del 1848 e meravigliarono ai nostri giorni con la marcia della villa di Quarto a Gaeta. - A capo della falange dev'essere il gran Capitano.

Ringrazia i rappresentanti del numeroso concorso, dice la carità cittadina la sollecitudine a rispondere all'appello del Comitato che distrugge la speranza dei nemici, i quali sperarono coll'Assemblea del 15 aver resa impossibile ogni altra riunione. - Continua a mostrare come non fosse supponibile che il Capitano del popolo non si mettesse a capo della Democrazia. Gli uomini della Democrazia son fermi, e non cederanno mai, ma sanno altresì accordare alla concordia. Noi tutti vogliamo l'attuazione del plebiscito, noi tutti vogliamo Italia Una con Vittorio Emmanuele Re costituzionale A raggiungere questo scopo dobbiamo armarci. Non vogliamo porci in lotta col governo, vogliamo rafforzarlo quando sinceramente ed attivamente voglia l'unità.

Parte della codarda teoria del che nacque al paese ed al governo, e come i nemici nostri si prevalgono di questo a mettere in dubbio le tendenze popolari. Cita le parole di Antonelli e la continua spedizione della feccia dell'umanità a travagliarci. Se con 24 milioni di voci diremo che Antonelli ha mentilo, se manderemo 24 milioni di maledizioni al potere temporale, e se alle parole succedano i fatti di preparare un milione di fucili come vuole Garibaldi, e porle in mano ai Garibaldini che tanto bene sanno maneggiarli, cesseranno le prepotenze straniere che c'insultano. Dobbiamo, nei limiti dello Statuto, organizzarci ed armarci, e mostrare al mondo che l'Europa non avrà pace finché l'Italia non abbia la sua capitale.

Propone di formare l'ufficio della presidenza, e per ovviare al ritardo che porterebbero le schede segrete propone di deferire al Presidente le nomine. La proposta è approvata per acclamazione.

si leva, e nomina,

Dolfi, Mordini, Crispi, Montanelli, Carbonelli, Campanella, Brofferio.

Come Salii Guastalla, Corte, Savi, Sacchi, Cadolini, Asproni, e Pianciani.

Fatte queste nomine, l'Assemblea passa a discutere ilche aveva preparato una Commissione eletta nell'assemblea del 15 dicembre.

A questo proposito il Generale manifestò il suo concetto nel senso della più generale concordia fra tutte le frazioni liberali, ed eziandio della solidarietà coi liberali degli altri paesi. Si è perciò ch'egli volte anche eliminare ogni titolo in cui si potesse presumere idea di esclusività; ed evitando le abusate parole die di, propose la denominazione, accettata dall'Assemblea, di- Il progetto di regolamento restò in fine approvato con qualche leggiera modifica con voti 214 sopra 275 votanti.

Ciò accadeva il giorno 9 Marzo, ma nel giorno 25 febbraio, il Deputato Boggio aveva già chiesto al Barone Ricasoli fissasse un giorno per interpellarlo sui Comitati così detti di provvedimento, i quali secondo lui, formano una rappresentanza illegale di fronte alla rappresentanza legale del paese-Ricasoli dice essere in grà do di rispondere immediatamente, e dopo breve esordio continua cosi; Quand'anche non avessi avuto l'avvertenza di occuparmi di questo argomento la voce pubblica mi avrebbe costretto. Da poco tempo si fa una guerra non leale al ministero, ora accusandolo di aver provocate le dimostrazioni, ora di tollerare le riunioni dei comitati di provvedimento, accuse tutte che in disdegno«Però ho a grado che tale quistione siasi mossa in questo recinto, ed in dirò brevemente quali sieno gl'intendimenti del governo., Per lo Statuto i cittadini hanno il diritto di riunione. So bene ciò. che si disse su questo. Come ministro dell'interno ho riscontrato che nel tempo in cui fu emanato lo statuto vigeva nel codice penale una disposizione che regolava l'associazione, e che quindi fu tolto onde mettere di accordo i dritti dei cittadini che il governo non può osservare.

Ho consultati i regi procuratori, e tutti furono concordi in questo, anche l'onorevole ministro Guardasigilli. M'informai persino della storia dei primordii dell'attuazione dello Sta tutto, ed ho verificate che dal 48 al 52 il dritto di associazione fu esercitalo pienamente. Nel 52 fu fatto rapporto al consiglio di stato per mettere un'argine a cotesto dritto, ed esso decise che non poteva limitarlo. Quegli fatti provano che il governo non trascurò di esaminare cotesto punto, e fu in grado di convincersi che nessun disordine avvenne per lo passato nello esercizio di tale dritto. La via che dovea seguire il governo era dunque tracciata però egli dovea esaminare quali fossero gli scopi di questi comitati. Il governo che regge un paese libero ha debito di esaminare se nell'uso della libertà di riunirsi vi sia un qualche pericolo. Ed il governo del Re vide che dallo scopo manifesto dei comitati di provvedimento non poteva derivare alcun danno. Dico lo scopo manifesto, perché lo scopo occulto non dev'essere l'oggetto di uno esame speciale. Il governo libero trova la sua forza nella legge; dell'associazione deve temere il dispotismo; all'uso della forza il governo libero non ricorre giammai, ma deve limitarsi alla vigilanza. Il governo libero deve reprimere, ma prevenire giammai. Questa è la regola che sarà seguila da noi. Non dobbiamo temere alcun danno, perché abbiamo fiducia nell'amor patrio dei nostri concittadini. Il governo però veglia, e con tutti i mezzi che sono nelle sue mani, e va organizzando la pubblica sicurezza a questo scopo. Ora dichiaro che anche per l'avvenire sarà seguito questo mezzo di vigilanza. Se si abuserà della libertà, se saranno violate le leggi, i tribunali decideranno. in non chiamo disordini quelle piccole agitazioni che si manifestano, le quali anzi servono a mantenere vivo lo spirito pubblico d'Italia, e ad illuminare il governo sulla via che devo seguire. in non dico di volermi associare ai comitati di provvedimento, W sono indotto però a confessare essere la condotta loro irreprensibile, e lo sarà ogni qualvolta non si metta in contraddizione col principii fomentali sanzionati solennemente dal plebiscito, i quali proclamano l'unità d Italia col magnanimo Vittorio Emmanuele come re costituzionale. Se la libertà poi fosse in pericolo in non ardirei a proporre al Parlamento leggi e straordinarie repressive, qualora le esistenti non bastassero, ma sinché la libertà non è offesa, il governo, ripeto, si limiterà alla semplice sorveglianza.

Spero di avere in tal modo risposto in modo chiaro e preciso alla interpellanza che mi fu diretta. , a nome del comitato di provvedimento, ringrazia il signor Ricasoli delle sue parole; e ricorda il bene fatto da essi alla patria.. Non ostante questo discorso che aveva reso il Ricasoli benemerita del paese,, e simpatico a tutti i partiti, non ostante ìa manifestazione di quei principii che avevano procacciato al nostro Barone il più splendido trionfo in Parlamento., il presidente del consiglio cadde. perché dunque? Il barone Ricasoli era un primo ministro troppo indipendente per un regno per lo quale l'alleanza imperiale essendosi inveri ila in soggezione, non poteva altrimenti procedere che in forza di un programma tracciato a Parigi, e che il telegrafo di colà modificava e volgeva secondo le circostanze. Quindi le associazioni che non piacevano a Parigi non dovevano neppure riscuotere approvazione in Italia. Ricasoli non volte saperne e fu per lui una colpa, se non in faccia alla nazione al cospetto certamente delMa il Barone di Brolio non peccò solamente in ciò. Egli si rese assolutamente reo di lesa maestà imperiale quando disse in Parlamento che l'Italia aveva terre da conquistare, e non da cedere: reo quando prese sul serio la quistione romana: Ricasoli dunque secondo l'era incompatibile. D'altronde H viaggio del Rattazzi a Parigi non doveva essere infecondo. Il Bonaparte aveva visto in lui il suo uomo, aveva manifestato a lui le sue idee, il quale docile e volenteroso le aveva accettate; Rattazzi adunque era l'uomo fatto per rappresentare il concetto napoleonico in Italia. e Rattazzi fu primo ministro in sostituzione del Barone Ricasoli. Il nuovo Ministero fu composto cosi: Rattazzi esteri e Presidenza, ed; Sella Finanze: Depretis Lavori pubblici; Petitti Guerra; Persano Marina; Cordova Grazie e giustizia; Mancini Pubblica Istruzione; Pepoli Agricoltura e Commercio.

Dopo breve periodo per onorevoli divergenze il Mancini cedeva il posto a Matteucci: per vituperevoli intrighi usati a pro di Rattazzi, mentre faceva parte del precedente Ministero, Cordova fu obbligato a farsi sostituire da Conforti. Durando prese il Ministero degli Esteri; e cosi s'ebbe un ministero egemoniaco puro e fu completa la sventura d'Italia.

Nuovo Ministero, nuovo programma., s'intende. Quale fu quello del signor Rattazzi? Noi noir potremmo ometterlo: eccolo!

Ho l'onore di annunziare alla Camera avere, nella sera dello scorso venerdì, il barone Ricasoli, tanto a nome suo quanto a nome de' suoi colleghi, rassegnali i portafogli nelle mani del re. Il re gl'invitò a sospendere questa loro deliberazione; essi credettero d'insistere, e nella sera di sabbato, il re accogliendo le reiterate istanze del barone Ricasoli, e de' suoi colleghi, incaricava me della formazione del nuovo gabinetto. in ho accettato l'incarico e S. M. componeva la nuova Amministrazione nel seguente modo. Affidava a me la presidenza ed il Ministero degli Esteri, col provvisorio incarico di reggere il portafoglio dello interno; a ministro di grazia e giustizia nominava il sig. Cordova: alla guerra il generale. Petitti; alle finanze il sig. Sella, alla marina il Vice-Ammiraglio Persano, all'agricoltura e commercio il marchese Pepoli, all'istruzione pubblica il professore Mancini;ai Lavori pubblici il Depretis. Quindi nel giorno di ieri nominava Ministro senza portafoglio il presidente Poggi.

Signori. Nel darvi questo annunzio in sento il debito di esporvi il programma, o dirò meglio i principii politici che noi intendiamo si debbono seguire tanto nelle relazioni estere quanto nell'amministrazione interna. in li esporrò francamente, ma brevemente, poiché noi crediamo di poter senza orgoglio affermare che i nostri precedenti politici sono abbastanza noti a voi ed al paese, onde si possa conoscere quale sarà in avvenire la nostra condotta. D altronde ognuno comprende quanto sia facile formare Un programma in termini vaghi ed elastici, e come bene spesso ai fatti i programmi non corrispondono; e noi desideriamo che la Camera ed il paese ci giudichi dai fatti, anziché da semplici parole o vaghe promesse.

Non taceremo, signori, che nell'assumere questo difficilissimo incarico, noi abbiamo sentite quali e quante gravi fossero le difficoltà che ci attorniavano: noi abbiamo compreso quale e quanta fosse la responsabilità alle quali ci esponevamo. Noi vediamo che l'opera della unificazione interna, dell'ordinamento del paese è una delle opere più ardue che possano mai presentarsi, poiché si tratta di unificare Provincie le quali sono da secoli distinte, che hanno tradizioni particolari, che furono sempre rette da leggi ed istituti disformi.

Questa unificazione racchiude esso nei problemi che sono più difficili ad esser risoluti. A questa difficoltà si aggiunge pure l'altro non men grave impegno, che qualunque governo italiano deve necessariamente prendere quello cioè di riscattare le provincie italiane che non fanno ancora parte della comune famiglia, di dare all'Italia la sua libertà, di stabilire l'unità e l'indipendenza italiana.

Ora, o signori, se noi avessimo consultato le sole nostre forze, avremmo esitato ad assumere questo mandato, ma appunto perché i momenti sono gravi, appunto perché le circostanze sono perigliose, noi abbiamo creduto essere imperioso dovere di ogni onesto cittadino il non respingere dà noi quest'ardua missione, e quella energia che forse consultando le nostre forze non avremmo avuto in noi stessi, noi le troviamo e nell'affetto delle nostre libere istituzioni, quella devozione alla corona, ed all'augusta persona del valoroso principe che ci regge; noi la troviamo nell'intimo della nostra coscienza, la quale ci assicura che non certo fummo mossi da alcuna ambizione di potere, la quale in questi frangenti sarebbe non so se più funesta o più stolta, ma solo da un sentimento di abnegazione; ma unicamente dal proposito di sottoporci a qualsiasi sagrificio che possa esser richiesto dal servizio del paese. Ora appunto signori, perché difficili sono le circostanze, perché gravi sono i momenti in cui versiamo, ci è avviso che debba esser date opera solerte e costante a raggiunger la meta che ci siamo prefisso

E qui dirò innanzi tutto che per questo riguardo le nostre relazioni esterne, noi nel compito che ci siamo proposti crediamo di fare in modo da non trovarci isolati dalle altre potenze dalle altre nazioni. La politica dell'isolamento le può esser nociva in tempi normali, ella è funestissima in tempi eccezionali quali sono i presenti e renderebbe certamente impossibile l'opera alla quale dobbiamo mirare.

Si, o signori, se il vecchio Piemonte ha potuto, quantunque debole e per numero di abitanti e per estensione di territorio, compiere in poco tempo fatti cotanto meravigliosi, in credo che ciò sia dovuto e all'accorgimento col quale seppe stringere alleanze e contrarre relazioni con tutto le potenze; non che a quella energia con che seppe prender parte a tutti gli avvenimenti più grandi che hanno agitato l'Europa.

E quella parte che il Piemonte così ristretto ha potuto prendere molto più facilmente stimo si possa prendere dall'Italia, qual è oggidì costituita forte di 22 milioni di abitanti, la quale e per la sua postura, e per la ricchezza del suolo e per l'ingegno de' suoi abitanti, ha per sé stessa ragione di esser collocata fra le grandi nazioni.

È dunque inutile, o signori che in vi assicuri che sarà uno degli scopi principali del governo di stringere alleanza con le grandi potenze, di fomentare l'unione con tutte le nazioni più civili ed illuminate, e di non permettere che succeda alcun avvenimento nel mondo, il quale possa o direttamente o indirettamente toccare gl'interessi d'Italia, senza che lo stato italiano vi abbia pure quella parte; e prenda quella posizione che è dovuta alla sua situazione.

Noi abbiamo fede, o signori, soprattutto nell'alleanza, e nell'amicizia della Francia e dell'Inghilterra. Quanto alla Francia non dimenticheremo mai che a lei ed al suo sangue versalo dai suoi figli nei dobbiamo particolarmente il nostro risorgimento; non dimenticheremo giammai che abbiamo con la Francia identità di razza, comunanza d'interessi e di affetti, e che su queste basi si fondano e si rendono più salde principalmente le alleanze.

Quanto all'Inghilterra noi ricorderemo ognora ch'ella si fa sempre larga del suo morale concorso, ch'ella ci sorresse e contribuì grandemente a far si che noi potessimo percorrere il lungo e difficile cammino della nostra unificazione; ci ricorderemo sempre che l'Inghilterra fu la prima a riconoscerci.

Ma, signori, quando in dico che intendiamo mantener vive, e di rassodare le alleanze con queste potenze, in non intendo che debbono queste alleanze mantenersi e farsi più salde a scapito della nostra dignità e della nostra indipendenza.

Io credo che niuno potrà elevare sopra di noi un simile sospetto perché la dignità e l'indipendenza della patria stanno nei nostri cuori in cime d'ogni altra considerazione; e noi crediamo altresì che a questo fatto solo possano esser sincere, efficaci le alleanze, quando cioè la dignità e la indipendenza di tutte le parti che le contraggono, rimangono salve.

Quindi e il parlamento, ed il paese possono esser sicuri che in ciò non avrà giammai la fatica nostra a soffrire macchie di sorta:

Oltre l'alleanza con la Francia e con l'Inghilterra, noi, signori, cercheremo di essere riconosciuti dalle altre potenze, le quali finora hanno esitato a darci le loro ricognizione.

Noi per questo facciamo speciale assegnamento sui benevoli ufficii delle potenze che ci sono amiche ed alleate; e facciamo soprattutto assegnamento sul nostro contegno, sulla nostra condotta.

Io ho fede che se noi sappiamo costituire fortemente, sappiamo mantenereordine e la tranquillità nel nostro paese, sappiamo dichiarare altamente i nostri dritti e le nostre aspirazioni, ma nel tempo stesso non ci facciamo né aggressori, né provocatori, non provocatori con fatti, non provocatori con parole, se insomma noi facciamo comprendere che non vogliamo compromettere la pace del mondo, e che sappiamo governarci noi stessi, in non dubito signori, che tutte le potenze, le quali esiteranno a riconoscerci, cerio si affretteranno a compiere quest'alto che è vantaggioso non solo per noi, ma per quelle potenze stesse, poiché è d'interesse comune di esse e di noi che gì interessi commerciali possono liberamente tra i varii popoli stabilirsi.

Vengo ora, o signori, alla quistione di Roma.

Quanto a Roma un solo può essere il programma di qualsiasi Ministro: il programma sta sulle deliberazioni del Parlamento; in non ho che a ricordare i voli che reiteratamente questa Camera pronunziava riguardo alla quistione di Roma; noi ci atterremo strettamente a questi voli, noi non ce ne scosteremo in modo alcuno.

Quanto a noi è manifesto che la quistione di Roma non può sciogliersi che volendosi dei due mezzi che agiscono contemporaneamente; i mezzi morali ed i mezzi diplomatici. Quanto ai mezzi morali egli è forza che ci difenda sempreppiù nel mondo cattolico l'opinione che il potere temporale non è punto necessario nello interesse della religione; che anzi quanto più la chiesa sarà aliena dalle cure mondane, e degl'interessi terrestri tanto maggiore sarà il vantaggio che potrà la religione ottenerne.

E ci è grato signori osservare che un grandissimo progresso sulla opinione dei credenti si è fatto negli ultimi tempi, poiché se è vero che ora sono due anni quando cominciò a sollevarsi la quistione della caduta del potere temporale, molte coscienze erano spaventate e quasi temevano che con la caduta del potere temporale dovesse pure rovinare la religione cattolica, oggidì gli stessi che temevano in allora sono rassicurati, e compresero essi medesimi come non vi sia nessuna necessità per la chiesa che vi sia u nito il povere temporale; e mi è grato osservare che specialmente questo cambiamento si fece nella. vicina Francia.

Basta l'avere tenuto dietro al mutamento dello spirito pubblico presso quella nobile e generosa nazione per essere persuasi che mentre dapprima eravi un avversione contro la causa d'Italia appunto perché si temeva che per essa venisse compromesso il potere temporale, e col potere temporale potessero essere parimenti compromessi gl'interessi religiosità qualche tempo le opinionisi maturano, ed il numero dei cattolici che oggidì non sono spaventati da questo timore si è di molto ingrandito.

Non ho, signori, che a richiamare l'attenzione vostra sopra le discussioni ch'ebbero luogo nel primo corpo politico conservatore di quell'impero, nel senato. Se voi ponete in confronto le discussioni ch'ebbero luogo nell'anno passato intorno alla quistione di Roma a proposito dell'indirizzo dell'imperatore, con le discussioni che seguirono in quest'anno,. voi vi convincerete che le opinioni si sono grandemente modificate, e quelli stessi che erano più avversi a qualsiasi cambiamento per quanto riguarda gli stati pontificii, ora vennero a consigli assai più miti; dal quale cambiamento di opinione qui mi è grato il dire che noi dobbiamo essere in particolar modo riconoscenti alla parola autorevole ed eloquente di quel principe, il quale si valse ognora e della sua eloquenza e della sua alla posizione per favoreggiare tutto ciò che si riferiva all'Italia.

Signori, le verità morali soffrono bene spesso molti e gravi contrasti prima che siano riconosciute. Gl'interessi che si oppongono fin che la verità si conosca fanno sì che bene spesso una nebbia fittissima la oscuri; ma alla fine il sole dissipa questa nebbia, la verità viene in luce ed alla verità morale tiene incontestabilmente ed immediatamente dietro anche la vittoria morale.

Oltre ai mezzi morali, o signori, ho pur detto che possono servirsi dei mezzi diplomatici. E qui pure voi, o signori, ci avete tracciala la via; ed è questa la via che siamo decisi a seguire. Voi proclamaste che si deve andare a Roma di accordo con la Francia. Or bene questa e la nostra divisa. Noi intendiamo di andare di accordo con la Francia nello scioglimento di questa quistione. La Francia, signori, ha un grandissimo interesse, che questa quistione venga sciolta, e venga, sciolta nel senso dell'unità italiana. Se noi non andiamo di accordo con essa, se noi vogliamo o far soli, o peggio ancora contrariarla, certo noi potremo nuocere alla Francia, ma nuoceremo molto più a quello che è nel vostro, come nel nostro voto. Quindi noi ci atterremo strettamente anche in questa parte al programma che voi ci avete tracciato.

Va, o signori, è la quistione della indipendenza e la quistione di Roma e la quistione di Venezia si collegano soprattutto, noi riteniamo, col nostro ordinamento interno. Solo ripeto, quando noi saremo fortemente costituiti, quando noi saremo ordinati, quando noi presenteremo all'Europa lo spettacolo di un popolo che dopo aver compiuta una maravigliosa rivoluzione in pochissimi anni, di cui la storia non ha esempio, ha saputo altresì costituire, ordinare, unificare le nostre leggi, certo in allora la nostra voce sarà assai più autorevole, e molto più ascoltata nei gabinetti di Europa. Ora, quanto all'ordinamento interno in debbo innanzi tutto dichiarare che è ferma nostra intenzione di conciliare per quanto da noi dipende, tutti i partiti. Noi intendiamo valerci nella grande opera della unificazione e dell'ordinamento di tutte indistintamente le capacità, qualunque sia il partilo cui appartengono, purché abbiano per divisa l'unità e l'indipendenza d'Italia sotto la dinastia di casa Savoja.

Questo, o signori, in lo dichiarava a voi in occasione di una solenne discussione ch'ebbe luogo al principio della seconda parte di questa sessione parlamentare; quest'oggidi io vi dico ancora.

lo credo avervi dato pruova di questo spirito di conciliazione nella formazione stessa del gabinetto; poiché non ebbi difficoltà ili rivolgermi a tutti indistintamente i partiti che esistono in questa camera ed offrire la mano a tutte le gradazioni senza alcuna diversità.

Io stimo che nell'opera così difficile che ci resta a compiere tutte le capacità debbono portare il loro tributo nella formazione del grande edilizio.

E quando noi siamo di accordo sopra due grandi principii, sul principio cioè dell'unità e della indipendenza della patria comune, sopra l'idea di dare un forte e stabile ordinamento ali interno, qualunque dissidio in discussioni più o meno secondarie, certo non può produrre dissensi sostanziali fra noi, né vi è ragione alcuna perché questi elementi che hanno lo stesso scopo si propongono la stessa mela non debbono insieme concorrere.

Epperò in non temo il rimprovero che mi si viene facendo, che, essendo il ministero di uomini che appartengono a diversi partiti, non possa egli esser compatto, e presenti germi di dissidii e di dissoluzione nel cuor suo. No, signori, in non credo che ciò possa avvenire, poiché siccome noi tutti siamo di accordo in quei due grandi principii così saremo anche concordi nei mezzi coi quali questi principii si debbono attuare.

E quello che in feci nella formazione del ministero, tutto il gabinetto è disposto e promette di seguirlo nell'andamento della cosa pubblica.

Un altro scopo che noi ci proponiamo si è di distribuire gl'impieghi in tutte le Provincie senza differenza alcuna, Noi siamo persuasi che nel modo stesso che tutte le provincie concorrono nei. pesi e sopportano i sacrificii, così hanno dritto ad una partecipazione di beneficii: ciò signori, in spero, scomparirà tra non molto; in spero che non andranno molti anni, e non si saprà più la provincia alla quale ciascuno di noi appartiene.

Io spero che nel modo stesso che oggidì nel nostro esercito non si dice: è un soldato, è un uffiziale toscano, lombardo, napoletano o piemontese; ma si dice: è un soldato italiano; anche quando si % dovrà tra non molto nominare un impiegato non si ricercherà se egli appartiene alla Lombardia, alla Toscana, a Napoli, od al Piemonte, ma si cercherà unicamente se egli appartenga all'Italia.

Vengo ora più particolarmente a ciò che riguarda l'amministrazione. Comincierò dall'ordinamento interno. Quanto all'ordinanamento interno in dichiaro solennemente e mi è grato che si presenti questa occasiono per proclamarlo senza nessuna reticenza,

col più intimo convincimento. in sono fautore dichiarato del discentramento amministrativo, salvo il principio dell'unità politica.

Finché rimane salvo questo principio dell'unità politica, in largheggerò per quanto mi sarà fattibile nel discentrare amministrativamente, nel dare la maggiore libertà possibile ai comuni ed alle

Io so bene che fui chiamato il grande accentratole, ed è questa l'accusa che mi si, è sempre lanciata; ma io, signori, la respingo, e la stessa legge del 59, la quale venne indicata come un argomento che in fossi un grande accentratore è la prova la più convincente (a chi l'ha voluta giudicare imparzialmente) che in ben lungi dall'essere accentratore sono fautore del principio del discentramento amministrativo, e non mantengo che l'unità politica. Ponete, o signori, in confronto questa legge con le leggi ch'esitavano e vedrete dove sia l'accentramento o discentramento amministrativo. £ quando verremo a discutere intorno ai varii disegni di leggi, in lo dichiaro fin da ora tutte le modificazioni che tenderanno a portare un maggior discentramento, purché non si tocchi il principio dell'unità politica, troveranno in me il primo difensore.

E dicasi lo stesso per quanto riguarda l'autonomia dellecie: se nella legge del 59 non furono date molte facoltà alle province; se molte attribuzioni furono riservate allo stato, ciò fu l'effetto delle condizioni transitorie in cui trovavasi allora il paese, ma oggidì e quando saranno totalmente mutate queste condizioni, non vi sarà per me difficoltà alcuna di dare alle provincie la più salda, la più larga autonomia.

Quanto alle finanze, signori, anche questo ramo di pubblica amministrazione formò l'oggetto il più costante delle nostre cure. Noi dichiariamo che senza la bandiera del ministero, per quanto riguarda le finanze, sta scritta la parola economica, economia la più severa, la più rigorosa in tutte le spese, le quali non sono assolutamente necessarie. Crediamo che sia necessario addivenire questa economia per fondare il nostro credito pubblico, poiché senza il credito pubblico difficilmente uno stato può condurre a buon porto le sue cose.

Noi faremo una severa economia, e ne daremo immediatamente l'esempio nel bilancio stesso del 1862.

Non riterremo questo bilancio, poiché venne, presentalo ma saremo i primi a raccomandare alla commissione della camera di proporre tutti quei risparmii che crederà conciliabili coll'andamento dei servizii, e certo non troverà sopra i banchi del ministero opposizioni a tutte queste economie.

Quanto il bilancio del 1863 daremo opera per presentarlo entro il più breve termine possibile, e prendiamo impegno di presentarlo proponendo tutti i risparmii che saranno fattibili, e nello stesso tempo ordinandoli in modo che non riesca necessario di ricorrere continuamente ai crediti supplementarii. Prendiamo pure l'impegno di non preporne alcuno, senza che ne sia dimostrata l'assoluta necessità. Quanto alle leggi di finanze intendiamo di lasciar le leggi che furono presentate onde facciano il libero loro corso; le accettiamo, solo ci riserviamo quando avrà luogo la discussione di proporre le modificazioni che potranno esser considerate opportune, ma le leggi stesse continueranno il loro corso: si è come se fossero state da noi stessi presentate.

Riguardo alle leggi che non vennero ancora presentate dal ministro delle finanze, e che erano in corso presso le commissioni, noi dichiariamo che fra non molto esse pure verranno presentate, e che nell'ordinamento loro non ci varremo dei lumi, e dell'esperienze di questi onorevoli personaggi, i quali vollero in queste commissioni prestar l'opera loro al governo.

Noi in fine quanto alle finanze presenteremo fra non molto la situazione del tesoro e lo stato della cassa onde il paese possa riconoscere qual è la vera e positiva condizione delle nostre finanze.

Vengo ora all'esercito. Quanto all'armamento è dove, o signori, noi non potremo mantenere la nostra promessa dell'economia, poiché siamo convinti che se vi ha parte del servizio dove non convenga tener conto di una soverchia economia, è appunto là dove si tratta dell'armamento, chè nell'armamento del paese sta la salute del nostro avvenire; e noi non potremo esser rispettati se non prima saremo forti, e militarmente organizzali. Perciò noi intendiamo di ordinare tutte le forzi militari del paese, ordinarle a seconda delle leggi che vennero sancite, mettendo in pronta e reale esecuzione tutte queste leggi, e dando pure esecuzione agli ordini del giorno che furono votati in questo parlamento.

Noi intendiamo di dare questa esecuzione, signori, prendendo la direzione e la iniziativa, poiché crediamo che nell'organamento la direzione e la iniziativa non possa esser lasciata a chiunque, e che il governo, il quale la cedesse, sarebbe un governo, il quale perderebbe se stesso.

Vengo ai lavori pubblici.

Quanto ai lavori pubblici, certo è intenzione del ministero di eseguire tutti i lavori che furono già sanzionali dal parlamento: ma appunto per non scostarci da quella regola che ho sul principio accennata, d'introdurre le più severe economie, noi dichiariamo che nell'eseguimento di tutti questi lavori, senza punto trascurare quella parte di essi che si riferiscono all'Italia settentrionale, ed all'Italia centrale, noi spingeremo con maggiore alacrità quelli che si riferiscono alle provincie meridionale, ed anche all'isola di Sardegna, come quelle che ne hanno maggiormente bisogno, come quelle dovute costruzioni di questi lavori è richiesta da considerazioni politiche, economiche, finanziarie, e dirò anche di pubblica sicurezza.

Nel resto, signori, quanto alla marina, noi daremo puranche a questa parte importante dell'amministrazione tutto il maggiore sviluppo che sarà possibile. Promettiamo particolarmente di presentare fra non molto al parlamento il piano, organico della marina militare italiana.

Quanto all'agricoltura e commercio signori noi procureremo d fondare istituzioni di credito e di stringere trattati di commercio con le potenze amiche. In fine quanto all'istruzione pubblica noi cercheremo di estendere l'istruzione e l'educazione particolarmente presso quelle popolazioni, le quali finora non ne hanno sentiti ' i beneficii.

Signori, in potrei ancora molto allungarmi, se volessi entrare in varii altri particolari dell'amministrazione, ma lo credo soverchio, e panni che quanto dissi basta. Perciò in porrò fine.

Nel por fine in debbo riconfermare quanto ho sul principio accennato, cioè che noi stessi riconosciamo quanto grave e quanto ardua sia l'opera nostra, e riconosciamo ch'è tantoppiù grave, in quanto che certo non mancano i sospetti che la malevolenza cerca

di sollevare; non mancando le insinuazioni, che perversamente si aggirano intorno a noi, non mancano, dirò anche le calunnie.

Ma, signori, se questi rumori ci possono recar pena, poiché ci rendono (non occorre dissimularlo) più malagevole il governo, non ne siamo punto sgomentati.

Noi siamo saldi e sicuri sotto l'albergo della nostra coscienza; noi siamo saldi e sicuri di compiere un dovere da onesti cittadini, amanti del re e della patria; noi siamo saldi e sicuri sul senno del parlamento e sul buon senso delle popolazioni; siamo tranquilli che non ci vorrannno giudicare dietro questi rumori, ma vorranno giudicarci dai nostri atti.

Noi speriamo che innanzi ai nostri atti cesseranno i sospetti, svaniranno le calunnie, scompariranno le accuse. Noi siamo tranquilli che innanzi ai nostri atti potrà formarsi una conciliazione di tutti i partiti, quella conciliazione che fu sempre nei nostri voti, quella conciliazione che fu la leva più potente nell'esordio e nel progresso del nostro risorgimento, e che può grandemente contribuire a porre al risorgimento stesso la sua corona».

Il programma del Ministro Rattazzi è reso completo dalla seguente Circolare diretta ai Prefetti in data dell'8 aprile.

» Chiamato dalla fiducia del Re a reggere il Ministero dello interno mi credo in debito di portare cognizione dei capi dellevincie gl'intendimenti del nuovo Gabinetto, tanto perciò che concerne il suo indrizzo politico, quanto per ciò che riguarda il suo indrizzo amministrativo.

Oggi la nostra politica è dominata dal concetto della reintegrazione dell'unità nazionale, e da quello della libertà, che senza contrastare all'unità assicurino lo svolgimento della vita pubblica in tutte le parli della Nazione.

Finché l'opera unificativa non sia compiuta, finché, cioè, le diverse membra del corpo italiano non sa. anno riunite, ed instaurato nella sua sede naturale il Governo non vi possono essere due programmi politici in Italia.

Gli uomini che si avvicendano al potere non possono invero diversificare se non nel misurare il grado di libertà, di cui nelle condizioni presenti possono stimare suscettivo il paese.

Il senno e la maturità di cui gl'italiani hanno dato così irrecusabile pruove al mondo civile, inducono il nuovo Gabinetto

nella persuasione che non vi può esser pericolo nello estendere le franchigie che lo Statuto accorda alla Nazione.

Il suo programma politico si riassume nel grido che echeggia iu tutte le parti della penisola: unità e libertà, egli darà opera ad eseguirlo. Ma perciò fare ha mestieri del concorso di tutte le forze nazionali, senza fare eccezione fra gli uomini che hanno combattuto per l'affrancamento della Patria sotto le bandiere di Vittorio Emmanuele, perché tutti coloro che pugnano sotto questa bandiera sono benemeriti della causa nazionale. Tutti hanno fatto il loro dovere ed hanno perciò dritto ad esser ritenuti degni di continuare nei sagriflcii necessarii all'indipendenza d'Italia e di aspirare alle ricompense riservate ai migliori dei suoi figli. Per questi intenti la politica del Governo assume fra le parti il carattere di una politica di conciliazione, la sola per cui si possa compiere ed assodare l'opera del nostro risorgimento.

Epperciò i capi delle Provincie procacceranno ogni studio d'indirizzare a questo fine gli animi, promovendo tutto ciò che può favorire, o togliendo di mezzo tutti gli ostacoli che possono impedire gli effetti di somigliante politica. A tale uopo tutte le libertà costituzionali vogliono essere in ogni loro manifestazione protette, fino al limite oltre il quale uscirebbero dalla condizione dell'ordine pubblico e cesserebbero di esser legittime.

Non vuolsi però dimenticare che se conviene associare per tutti i modi tutte le forze vive del paese il Governo, altrettanto è necessario rintuzzare con energia tutti i tentativi che si potessero fare per sorrogarlo nell'operare che a lui solo appartiene, e che esclusivamente impegna la sua responsabilità tanto per ciò che tocca il reggimento interno, tanto per ciò che concerne i rispetti dello Stato coll'estero. Il Governo fattirebbe al suo dovere se si lasciasse soverchiare a questo riguardo; le leggi lo hanno sufficientemente armato contro simili esorbitanze. Egli tratterà come nemici dei Re e della Patria coloro che se ne rendessero colpevoli.

Da un altro lato mentre i Prefetti avranno a secondare lo svolgimento di tutta la libertà, non cesseranno dal tener d'occhio i resti delle fazioni avverse all'unità nazionale ed alla monarchia costituzionale, non per negare a coloro che ne fan parte la guarentigia,

cui hanno dritto tutti i cittadini, ma per essere pronti o reprimere con energia gli atti che fossero per far contro l'ordine fondato sul voto della Nazione.

In alcune provincie la sicurezza delle persone, e degli averi è turbata da bande di tristi e traviati, che talvolta a nome dei principi spodestati le infestano. É necessario purgare il paese, e rassicurare dovunque gli spiriti a questo riguardo. Vi è ragione di confidare che le autorità politiche, di accordo con le Magistrature comunali, e col concorso della milizia cittadina bastino a questo importante scopo.

Il Governo è fermo nel proposito di tutelare efficacemente la libertà delle coscienze, l'indipendenza del ministero ecclesiastico, e di assicurare rispetto a coloro che ne sono investiti. Ma non consentirà mai che sotto specie di religione si vengono a scalzare i dritti della dinastia, l'integrità, o l'indipendenza dello Stato. La potestà politica è sufficientemente munita delle leggi per rendere impotenti i tentativi di simil genere.

Una gran parte, la maggior parte senza dubbio del nostro clero geme di esser rattenuta di associarsi più apertamente al movimento nazionale. Conviene tener conto della natura dei motivi che gl'impediscono di abbandonarsi ai suoi istinti naturali, ed al sentimento de' suoi doveri civili. La nostra Chiesa per ciò che tocca il suo modo di esistere è in un momento di crisi non voglionsi imputarle tutte le conseguenze dello stato nel quale si travaglia. La libertà cui le convitiamo sarà più favorevole alla sua missione spirituale, che non le sono le condizioni, mi sembra rimpiangere, come sarà propizia alla sua missione di ordine, d'incivilimento e di progresso.

In quanto all'indirizzo amministrativo il nuovo Gabinetto, serbate le ragioni dell'unità politica, intende risvegliare tutto il paese alla vita pubblica, allargando le franchigie comunali, e provinciali.

La pubblica opinione ha accolto con plauso l'alto per cui il Parlamento dava facoltà al Re di deferire ai Capi delle Provincie alcune delle attribuzioni dianzi riservale al potere centrale. Si ravvisò in quest'atto il modo più acconcio di raggiungere in breve il desiderabile intento del più pronto disbrigo degli affari. Ma seè fatta con ciò opera per ogni riguardo lodevole, quest'opera però non sarà compita, se non quando, serbate le ragioni essenziali del potere esecutivo,

la maggior parte delle attribuzioni concernenti le amministrazioni delle Provincie e dei Comuni sarà ripartita fra le rappresentanze che la legge assegna a cotesti enti.

Per questa guisa si raggiungerà senso più conforme alle tendenze liberali, del nostro tempo l'invocato scentramento amministrativo il quale non consiste solo nel recare come suol dire il Governo alla parte degli amministrati, ma sì principalmente nel porre questi in possesso del Governo di se medesimi per tutte le cose riguardo alle quali hanno necessariamente maggior competenza morale e pratica, e che per considerazioni d'interesse generale non vogliono esser mantenuti sotto il potere politico.

Secondo questa massima si esplicherà l'iniziativa del governo nella riformazione delle nostre leggi amministrative. In questo spirito dovranno procedere i suoi Rappresentanti nelle Provincie per quanto lo consentiranno loro le leggi. L'ordinamento comunale e provinciale in rigore in quasi tutte le parti del Regno agevolerà loro questo procedimento. Stabilite. in vero sui principii del sistema costituzionale le autorità comunali e provinciali in cui la potestà regia si congiunge col vincolo di mutuo e perenne accordo colla potestà elettiva possono senza pericolo essere investite di tutte la attribuzioni di cui sono in possesso negli stati più liberi.

Il rappresentante del Governo che sta a capo delle medesime conferisce loro in pari tempo ed una forza di azione, ed un temporamento di rendere le Provincie ed i comuni capaci di franchigie, cui in condizioni diverse non potrebbero aspirare.

I Prefetti hanno in vero fin d'oggi nel concorso permanente delle Deputazioni provinciali un argomento morale di forza per amministrare le Provincie, argomento che cercherebbero invano nel suo appoggio del Governo. Essi hanno nelle medesime un consiglio che accresce l'autorità loro quando si fanno a propugnare in faccia al potere centrale gt'interessi collettivi degli amministrati, e che agevoli per diversi modi l'opera loro quando si tratta di promuovere l'esecuzione delle leggi e degli ordini del Governo nelle Provincie Così collo svolgimento dei principii che sono già nelle novelle istituzioni si otterrà per l'allongamento delle franchigie locali le consolidazione dell'autorità centrale.

Oltre le attribuzioni che loro specialmente assegnate, i capi politici delle Provincie hanno quella generale e principalissima di vigilare sopra tutti i pubblici servigii, e d'indurre quindi, salva la indipendenza e la responsabilità dei funzionarli che sono specialmente incaricati dei medesimi, tutti i rami della pubblica azienda a tradurre in atto il concetto governativo.

Essi avranno cura di provvedere a ciò che pel fatto dei loro subordinati gl'interessi degli amministrati non patiscano nocumento. Veglieranno con ogni studio che gli affari che da loro dipendano siano con la maggior sollecitudine spediti. Sono per fermo le lentezze e gl'impigli officiali cagione non di rado principale che non si dia cominciamento, o non si conducano a termine le più utili intraprese, e che giacciano sovente inerti le forze morali e materiali che per ispiegare la loro efficacia a vantaggio di tutte le contrade hanno mestieri del concorso dalla pubblica autorità. Vuolsi qui che ognuno si accorga esser oggi gli uffizi stabiliti a servizio del pubblico non a privilegio o comodo di coloro che ne sono investili come non ha guari accadeva in alcune fra le più belle parti della nostra penisola dove gl'impieghi governativi sembravano appunto creali piuttosto come un mezzo di cagionare per ogni forma i cittadini, anziché come funzioni istituite a loro beneficio: bisogna che tutti ad ogni occasione siano accertati del cambiamento operato a simigliante proposito.

Per conseguire questi diversi contenti il governo fa il più grande assegnamento sul patriottismo, sulle esperienze, sulle provate abilità dei Prefetti, e confida che conscii della responsabilità concorreranno a confortare, secondo l'indirizzo sopra esposto le ragioni dell'ordine e della libertà in tutto il Regno. In questa via essi e gl'impiegati che sono alla loro dipendenza continueranno a rendersi benemeriti del Re e della Patria. Ed il sottoscritto di niuna cosa andrà mai tanto lieto quanto di poter render loro testimonianza del concorso che gli avranno fornito nell'esecuzione del suo mandalo.»

Ed affinché nulla manchi alla completa intelligenza del programma rattazziano riportiamo qui alcuni brani di un'altra Circolare delle stesso Ministro in data del 20 Marzo diretti agli Agenti diplomatici del Regno d'Italia all'Estero.

L'Italia costituita nelle sue condizioni attuali, riconosciuta come un fatto compiuto da alcune delle grandi potenze, può ora pretendere di esser riconosciuta dalle altre, e pretendere così la parte nel concerto europeo, che appartiene senza dubbio nell'interesse dell'equilibrio politico e del progresso morale ed economico alla madre patria della civiltà moderna.

Il modo onde le popolazioni italiane che erano abbandonate a loro stesse dopo la pace di Villafranca si sono riunite intorno alla dinastia di Savoja ha mostrato ali" opinione pubblica in Europa che l'opera eretta dai trattati dei 1815 in Italia era fondata su cattive basi, e che dopo lo scopo che l'hanno distrutta devesi per lo avvenire astenersi da impossibili ristaurazioni.

La pace di Zurigo pareva offrire agli uomini più ragionevoli dell'Italia la soluzione più atta alle condizioni della penisola; ma il popolo nella confidenza del suo avvenire e de' suoi pericoli si prevalse della libertà e della propria iniziativa che gli fu accordata per protestare solennemente mediante votazioni reiterate contro forme di stato che il senso nazionale non che più voluto comprendere.

Questa protesta è sopraggiùnta in onta ai tentativi che la potenza da cui parli l'idea d'una confederazione italiana ha impreso in modo amichevole per prepararle un accoglienza favorevole presso le popolazioni, ed i principi.

Nulla accadde da poi che potesse recare in dubbio la costanza degl'Italiani Al contrario essi fecero prova della loro costanza, e del loro desiderio di essere uniti ed indivisibili, respingendo quel progetto di legge senza fargli l'onore di un dibattimento parlamentare, quantunque proveniente da ministri altamente rispettati, e tendente a dividere la penisola in un numero di distretti i cui termini sembravano coincidere coi limiti degli antichi Stati. E quando, l'Italia si vide privata del grande uomo di stato che essa piangerà sempre, i voti unanimi del popolo e del principe hanno chiamato l'uomo che combatte più energicamente quel progetto; cioè il capo illustre dell'antico gabinetto, il cui primo compito fu di abolire le luogotenenze generali. Tutti gli sforzi dei principi spodestali per provocare un movimento che potesse indicare che la loro memoria non era ancora dimenticala,

rimasero senza effetti in onta ai soccorsi che essi trovarono grazie all'influenza potente e organizzala, e finora sgraziatamente ostile alla ricostituzione dell'Italia.

Il brigantaggio, l'orma dei partiti irreparabilmente perduti poté inquietare alcune delle provincie meridionali, ove la conformazione del terreno sembra favorevole ai partigiani, ma non poté per un sol giorno stabilire neppure l'ombra di un governo; né un impiegato, né un uffiziale italiano, né un sol uomo di qualche fama osò addossarsi la responsabilità del brigantaggio.

Alcuni gabinetti d'Europa possono nutrire ancora qualche simpatia per la disgrazia delle dinastie cadute; ma non ve ne sarà alcuno che voglia, di fronte a tali fatti, ristabilire un ordine di cose a cui la Provvidenza chiuse il ritorno con tanti evidenti segni.

La quistione di Roma occupa egualmente ad allo grado gli animi de dei Consiglieri della Corona.

Il Re ha ricevuto dal Parlamento così come dalla nazione il inan dato di ristabilire la nazione nella sua integrità, e di trasferire la sede del Governo nella città eterna, alla quale sola appartiene il ' titolo di capitale dell'Italia.

Questo mandato non potrebb'esser rifiutato, la soluzione d'tale quistione si collega alla conservazione dell'opera compiuta in Italia in seguito all'ultima guerra. I nostri alleati che tanto contribuirono a questo successo, hanno interesse che anche da questa parte si compiano i destini d'Italia.

Il governo non nasconde a se stesso che fra i cittadini vi sono molti che sono opposti al suo punto di vista

Ma essi dimenticano che il potere temporale non esiste che per la protezione che gli si accorda, e che ogni protezione è una dipendenza. L'indipendenza del sovrano pontefice, sbarazzato del potere temporale, avrà una guarentigia imperitura nel fatto che la sua libertà sarà un bisogno continuo di tutti i popoli cattolici come di tutte le potenze che lo proteggono.

Essa ha un'altra guarentigia egualmente incrollabile all'interesse dell'Italia di conservare sovra il suo suolo la sede di questo potere e sublime, che è al tempo stesso quello delle sue glorie e delle sue forze.

Il nostro sistema che assicura su una vasta base la cooperazione

del popolo sul quale l'Autorità religiosa esercita l'influenza più efficace impedirà sempre che questa Autorità cessi d'essere indipendente. La sua indipendenza d'altra parte trae la sua sicurezza negativa dal principio che Serve di base alla nostra costituzione e secondo il quale governo è al tutto incompetente in materia di religione.

La resistenza che Roma fa ai voti del popolo italiano non consiste in oggi nel desiderio di rassicurare la coscienza dei cattolici contro pericoli immaginarli, ma di servire gl'interessi di un partito che straniero alla, religione, cerca a questa Corte l'appoggio che le manca sul terreno politico. Da ciò risulta che un altro motivo, perché questa quistione sia risolta nel nostro senso.

Il governo reale farà tutto per raggiungere questo scopo di accordo con J alto alleato le cui armi proteggono il Santo Padre.

Egli è pronto a guarentire di accordo coi governi interessati questa preziosa libertà necessaria per l'esercizio del potere spirituale,, e a regolare le relazioni della corte romana coi papali e i governi cattolici. Nel modo stesso, e coi medesimi accordi, e sotto le stesse guarentigie egli assicurerà una dotazione perpetua sufficiente e convenevole alla dignità del Sovrano Pontefice e del sacro collegio a necessaria alla conservazione delle autorità ed istituzioni della Chiesa cattolica. La libertà che abbisogna al Papa per assicurare l'esercizio delle sue alle funzioni, ei non la troverebbe in altro luogo a cosi alto grado che nella città madre del mondo cattolico sotto l'egida di un governo che più di ogni altro è in grado di mantenergliela intatta.

Quanto alla quistione veneta il governo si sente abbastanza forte da impedire che questa quistione venga pregiudicata da atti che potessero turbare l'integrità de' suoi impegni. Tuttavia non bisogna tacersi intorno ai pericoli di veder turbati ad ogni momento l'ordine e, le libertà del nuovo regno per il fatto della presenza dello straniero in quelle parti cosi importanti dell'Italia. La comunanza dell'origini del linguaggio, dei dolori delle speranze e della gloria che lega a noi le popolazioni della Venezia, i voti espressi nel 1848, le promesse che lo furono fatte nel 1859, involontarii ch'essa ci ha mandati, i suoi emigrati sparsi ora in tutte le città nel nostro esercito, tutto ciò rafferma i vincoli di simpatia e di solidarietà tra i veneziani, e penisola in modo

che giammai l'Italia libera potrà restare indifferente alla sofferenza di quel paese.

E a mano a mano che la nazione acquista forza è a temere che essa un giorno rompa le catene della pazienza, e cerchi di guarire dal dolore che i mali che una sì nobile parte del suo corpo le cagionano. Il dritto dell'Austria sulla Venezia è distrutto dal fatto indubitabile che essa non può mantenerla che con la forza; e la forza può, è vero, differire la crisi, ma non impedirla. Le potenze che hanno creato un tale stato di cose hanno il mandato di aver cura della soluzione pacifica di questa grande quistione.

Il governo reale aveva il diritto di mostrar loro i pericoli che possono nascere da un ritardo troppo prolungato, e che non potrebbero esser rimossi prima che l'Italia rigenerato non abbia; mediante una revisione fondamentale dei trattati del 1815 ricuperate le sue frontiere naturali.

Crediamo importante qui riferire le parole dette da Ricasoli in spiega delle sue dimissioni. Da essa emana come nessun motivo parlamentare, o richiesto legalmente dagli usi costituzionali esistesse ond'egli fosse obbligalo a dimettersi.

Io mi occuperò della crisi sotto l'aspetto parlamentare.

Nella discussione dell'11 dicembre sulla questione (dacché ci è voluto chiamarla con tale nome) romana e napoletana, in chiedeva nella mia qualità di Presidente del Consiglio che il voto fosse netto e senza equivoci.

Dopo quella lunga discussione si trovarono m presenza due ordini del giorno, entrambi i quali furono accettati dal governo, perché entrambi approvavano quello che fece il governo, e quello che credeva opportuno operare.

Io riteneva per fermo che nella coscienza di tutto il Parlamento italiano ci fosse una fiducia nei rappresentanti del governo.

Non mancarono poco dopo le occasioni in cui dovetti dubitare della mia credenza, e senza indagare la causa dovetti convincermi del contrario. Eppure noi abbiamo procuralo di spingere alacremente i lavori per l'interno ordinamento, i quali progredirono bene.

Così passarono due mesi e lascio al Parlamento il giudicare se il ministero si presentasse a lui con quella fiducia, della quale aveva d'uopo.

Ti fu poi un'altra importante discussione nella quale ho dichiarato come il governo intendesse operare. Quindi ho provato un nuovo atto di fiducia. Ma nella coscienza pubblica c'era cotesta fiducia? in proseguii nel mio governo con altrettante alacrità ed energia che per lo passato a fine di meritarmela.

Arrivammo al voto del 25 febbraio. Questo fu dei più solenni. Ebbi l'onore di esprimere teorie sulla libertà di associazione che ottennero la piena adesione della Camera. Pure anche quel voto fu notevolmente diminuito nelle coscienze dei rappresentanti del paese.

Donde questa contraddizione tra i voti di fiducia, e la condotta della Camera? Il governo, conviene confessarlo, aveva nel suo seno una causa di debolezza, nel non essere cioè completo. La maggioranza aveva esternata ripetutamente il desiderio che si completasse.

Sebbene il parlamento sapesse tutte le difficoltà che il ministero incontrava per completarsi, non cessava però d'insistere a tal uopo, e sebbene la maggioranza avesse segnato un termine a questo proposito, che non è ancora spirato, pòsava in modo misterioso ed arcano una diffidenza nell'animo dei deputati.

Si parla di discrepanze in seno del gabinetto.

Durante la mia amministrazione due cause di discrepanze si sono presentate. Una quando fu agitala la quistione se si dovesse abolire la pena di morte, come proponeva l'ex-ministro Minghetti. In una quistione cosi importante la maggioranza del gabinetto si decise per l'abolizione. - L'altra ebbe luogo quando si discusse nei Consigli della Corona la legge per dar corso legale in tutto il regno alle monete di oro. Tutti i Toscani visi mostrarono contrarii.

Domando però in se queste discrepanze potessero giustificare la demissione? in non credo. Ora non può negarsi che vi fosse omogeneità, e soltanto si esigeva che il ministero dovesse completarsi.

Io conchiudo che le differenze tra i voti di fiducia ed il contegno dei rappresentanti il paese era perché il ministero non si trovava completo, ed il ministero non poteva completarsi appunto pei continui lagni che su questo proposito si erano fatti sentire ed esistevano nei Parlamento, ed ingeneravano una specie di sfiducia nei membri dello stesso.

In una condizione equivoca, per carattere, in non poteva rimanere.

Nacque allora in me, e francamente accolsi il pensiero che il gabinetto dovesse dimettersi; a seguito di che la Corona usando della prerogativa avrebbe fatto quello che avrebbe meglio creduto. Io ritenevo che non si dovesse restare più a lungo fra le difficoltà di rimettere nella coscienza della Camera la fiducia che mi era necessaria, e non vidi altro scampo tranne quella della dimissione.

Fu portata al Consiglio questa proposta; il Consigliò vi aderì, ed in la compii, e poiché si è parlato dell'insistenza nell'atto della demissione bene si spiega il perché di questa insistenza, la quale partiva da profonda convinzione. in era persuaso che un lungo trattenersi in quella posizione non avrebbe potuto far altro che sciòglierò disfare maggiormente il consenso della maggioranza, il Parlamento si sarebbe diviso e suddiviso; già se ne vedevano i sintomi, e non fa d'uopo indicarli.

Conservare in nostre mani il potere sarebbe stato atto colpevole perché contrario ai dettami della coscienza, e sarebbe' stato vera ostinazione, della quale avrebbe potuto risentir danno il regime parlamentare; rassegnata la mia demissione al Re, egli ebbe la bontà di domandare che si attendesse la riunione del Parlamento ma in aveva già la convenzione che la riunione del Parlamento pur avrebbe mutato la condizione della cosa, ecco perché pregai di nuovo la Maestà del Re di voler accettare la mia demissione ed insieme quella dei miei colleghi. Il Re accettò, fece uso della sua prerogativa, e su questo non fa d'uopo che in mi fermi.

Credo aver dato pieno discarico al Parlamento del come procedettero le cose, quindi dichiaro non aver nulla ad aggiungere a questo riguardo.

Nelle prime tornate parlamentari dopo l'avvenimento di Rattazzi al Ministero, tanto nel Senato che nella Camera elettiva si ricominciò contro il suo successore, circa il dritto di associazione, quello stesso ch'erasi sostenuto contro Ricasoli. Ma per lui fu guerra davvero, ed egli ne riuscì glorioso e trionfante, ed il suo trionfo fu quello della pubblica opinione; ma per Rattazzi non fu guerra; ministero e Camera eran di accordo: la Consorteria piemontese aveva trovato il suo uomo; e questa volta non fu la pubblica opinione che trionfò ma la Consorteria.

Il primo ad entrare in campo è Gallenga, il quale parla cosi.

Il Barone Ricasoli in una recente tornata disse come la maggioranza lo avesse posto in una situazione equivoca. Le situazioni equivoche sono sempre da deplorarsi. La posizione dell'attuale gabinetto è più equivoco di quella del barone Ricasoli, perché nel mentre questi aveva una maggioranza, e l'onorevole presidente del Consiglio non conosce ancora quali sieno i suoi amici, ed i suoi avversarii.

Io muoverò al signor Presidente del Consiglio alcuna domanda. In seguito alle di lui risposte in farò un ordine del giorno esplicito o di fiducia, e di sfiducia. Qualunque sia quello che possa egli accettare allora cadranno le maschere e ci riconosceremo.

La prima dimanda che in intendo fare al presidente del Consiglio è questa: come avviene ch'egli non abbia potuto completare il suo ministero, e come e quando intenda completarlo. Un ministero, a cui manca il ministro o per l'interno, o per l'estero non è un ministero. Il presidente del consiglio ha detto che il portafoglio di grazia e giustizia è tanto serio che non solo un ministro, ma che vi occorrerebbero quattro ministri. in non ammetto troppo facilmente questa spiegazione. Si può supplire a questa affluenza di affari con l'accrescere il numero dei segretarii. I governi provvisorii hanno in ogni tempo fatto uso ed abuso di ministri senza portafoglio. È passato per l'Italia il tempo di ministri geografici. Non si chieda la fede di nascita per chi si chiama al portafoglio: sieno pure d'una stessa città poco importa.

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presidente del consiglio il quale ha detto che a quel ministero di grazia e giustizia non basterebbero quattro uomini trova poi di potersi adattare con due portafogli. Ma egli si appoggia nei precedenti. Cosi fu sotto il ministero Cavour, così sotto quello di Ricasoli.

A che giovava al barone Ricasoli questo cumulo se non si trovava chi in sollevasse di uno dei portafogli? Egli ha insistito perché vi uniste con lui, gli suggeriste un uomo. Gli fu dato un voto di fiducia, ma in non l'ho dato. A me parve che quel voto fosse una derisione al ministero e al parlamento e per questo non lo diedi. Ora basterà a sostenere il suo ministero l'accennare al papato? Dice Rattazzi: Date il tempo e completeremo il ministero. Questo diceva pure il barone Ricasoli. Credo di far punto, e di dire al presidente del consiglio: Compie oggi la quindicina che voi prestaste il giuramento; in vi dico; o voi vi completate, o voi vi dimettete entro il mese di marzo:

o voi vi completate e vi darò il mio voto di fiducia, o non vi completate, e dovete dimettervi. -Un ministero italiano non può avere che una sola politica. Guai a quel ministero italiano che non avesse un solo programma, e una sola politica. Esaminiamo i precedenti di Rattazzi. Nei tempi remoti. abbiamo un Ministero che terminava a Novara, un altro che cominciava a Villafranca, nei presenti noi abbiamo il suo viaggio a Parigi, e la pubblicazione delle lettere del Conte Cavour. Volesse il cielo che Rattazzi avesse fin da primo fatto nascere le sue vedute, che allora noi ci saremmo regolati!

La quistione nazionale si restringe secondo Rattazzi in questi termini: Andremo a Roma quando la Francia lo vorrà; andremo a Venezia quando l'Italia lo potrà.

In Francia vi ha un uomo che ha una politica ch'egli stesso non conosce quale sia. Rattazzi promette unificazione politica e discentramento amministrativo, ci promette anche economia. Volete prova di economia? ecco un ministro senza portafoglio, prova d'imparzialità? si destituisce il prefetto di Perugia.

Egli ha fatto adesione a tutte le leggi, a tutti gli ordini del giorno votati. Fra queste leggi si è quella del 4 agosto 1861 presentata da Garibaldi. Io non la votai, perché non la trovai attuabile. Questa legge porta l'armamento di 220 battaglioni di guardia nazionale mobile; domando se intende di eseguirla subilo.

Véngo alle associazioni. Domando se sia permesso ai cittadini di armarsi, come hanno intrapreso le associazioni popolari.

Io era presente all'adunanza del 9 stante a Genova, dove si trovava Garibaldi ed alcuni deputali. Sembrò ad alcuno che vi siano state pronunziale parole che hanno allarmato il paese, Rattazzi rispondendo in Senato aduna interpellanza sull'argomento, parve mostrare di prescindere a presentare un progetto di legge in proposito. Domanda qual concetto generale lo regolerebbe.

In quell'adunanza Mordini ha detto. Il barone Ricasoli ci affidò che sarebbe stato lieto di vedere tolto il bando a Mazzini; egli chiese alcun tempo per riuscire a quello intento.

Cambiati il ministero, Rattazzi esternò il suo desiderio che Mazzini fosse restituito alla patria, ed ha detto che parlerebbe col barone Ricasoli per la quistione politica, e col ministro di grazia e giustizia per la quistione legale. Credo che il parlamento abbia il dovere di riconoscere, quali sono le intenzioni del ministro in proposito.

Conchiudo ripetendo la mia domanda.

1.° Come avviene che Rattazzi non ha completato il suo ministero e come, e quando lo completerà?

2.° Quali sono i provvedimenti ch'egli intende prendere riguardo all'armamento?

3.° Quale facoltà di armarsi e d'organarsi crede che abbiano i cittadini?

4.° Quali sono le basi per un suo progetto di legge sull'associazione?

5.° Che risposta abbia dato e intende di dare a Garibaldi intorno al rimpatrio di Mazzini?

E Rattazzi risponde.

La prima interrogazione che mi moveva il deputato Gallenga si è come in mi sia presentato alla Camera senza che il ministero fosse compiuto e quali sono le mie intenzioni sulla composizione interna del gabinetto.

Io ho già avuto l'onore in altra circostanza, l'altro giorno di rispondere all'onorevole Gallenga ch'essendosi dovuto formare il ministero, in brevissimo tempo, in quarantott'ore, poiché le circostanze stringevano, e non si poteva indugiare lungamente, non è a maravigliarsi se non fu possibile trovare un ministro dell'interno immediatamente. Sa l'onorevole Gallenga che la carica di ministro dell'interno, egli ne conveniva d'altronde, è la più grave e la più difficile, poiché riassume in se l'intera amministrazione di tutto lo stato. Non è dunque a meravigliare se non fu possibile trovare in poche ore anche un ministro dell'interno. Ma aggiungerò che in stesso riconosceva l'assoluta necessità che fosse fra una volta il ministero interamente composto. Ed in prendo impegno innanzi alla Camera, ne dico fra un mese, forse anche prima che il ministero sarà fra breve completato; e quando non si possa completare, certamente in so quello che a me spetterebbe di fare.

Però osservo all'onorevole Gallenga che allora saranno tolte al ministero molte difficoltà di potersi interamente completare, quando sarà certo che la maggioranza gli dà il suo appoggio; finché rimane dubbio se là maggioranza lo appoggia, o no, in domando all'onorevole Gallenga, domando a tutti voi se sia possibile di trovare alcuno il quale voglia far parte di un'amministrazione che si trova continuamente esposta al pericolo di essere combattuta in questa assemblea.

Ora dunque in prego la Camera di voler dare il suo appoggio al ministero, e prendo l'impegno che quando questo appoggio sia fermo e sincero, il ministero sarà fra non molto interamente costituito.

Io non entro a rispondere quanto al ministro senza portafoglio, che non vi sia stato mai esempio di un ministro senza portafoglio, perché come lo stesso onorevole Gallenga fa osservare, vi fu al tempo del ministero del conte Cavour il signor Niutta, che era anche pel ministero di grazia e giustizia. - Vi fu anche il ministro Corsi, ma ora parlo precisamente del signor Niutta, ed osservo all'onorevole Gallenga che non entrò nel ministero il presidente Niutta unicamente per la considerazione geografica, di cui essa faceva cenno, poiché nel gabinetto di allora, vi era un altro ministro, il quale apparteneva pure alle provincie napoletane, e se il Gallenga richiamerà alla memoria i tempi di allora, vedrà che vi era il ministro de Sanctis alla pubblica istruzione. Allora la Camera non fece alcuna osservazione sopra questo fatto, non veggo perché ora possa menarne doglianza.

Egli disse: Come va, voi avete fatto entrare nel ministero due individui per un portafoglio del quale non vi siete incaricato nemmeno nel vostro programma? Ma, signorino non ho parlato nel mio programma della legislazione civile, perché credono perfettamente inutile che si venisse anche qui a ripetere che era ferma e decisa intenzione del governo di mandare a compimento la legislazione civile e penale, di unificare tutte le parti del regno sotto la stessa e medesima legislazione tanto civile, quanto criminale. in non lo dissi perché credeva perfettamente inutile che si venisse a fare questa dichiarazione; poiché questo è un atto desiderato da tutti, ed a cui tutti i ministeri prestarono l'opera loro, e fecero tutti gli sforzi per mandarlo ad effetto.

Or dunque, se questo si deve compiere l'onorevole deputato Gallenga vorrà esser meco di accordo, e nell'ammettere che trattandosi specialmente di un opera cosi vasta e grave qual è quella della unificazione dei codici, certo l'opera dei due ministri non può dirsi totalmente inutile.

Vengo all'altra interpellanza.

Qui dovrei rispondere a certi frizzi che l'onorevole Gallenga diresse contro di me. Ma siccome ho detto che non voleva uscire dagli stretti limiti delle sue interpellanze, in non m'intratterrò sopra di essi, persuaso che la Camera mi renderà giustizia, ed il paese saprà tenermene conto.

Dirò per altro, posciachè si toccò di Novara», che la sconfitta di Novara può dirsi quella che ha forse contribuito maggiormente a svolgere l'idea della nostra unità e a farsi che oggidì possiamo dalle varie Provincie d'Italia esser raccolti in questa assemblea.

Se per caso allora la casa di Savoja avesse fallito alle sue missioni, se non avesse fatto l'ultimo esperimento delle sue armi, in non so quali oggidì sarebbero le sorti di questa povera Italia., Quindi, ben lungi che di questo passo farmene censura, credo dovermene dar vanto. Della sconfitta che credo che non possa essere aggravato, perché quando entrai al ministero l'opera dell'armamento era interamente compiuta, e se di qualche cosa sono responsabile si è di aver avuto il coraggio nel bivio o di far credere che vi fosse un tradimento dal canto della dinastia di Savoja, oppure che si volesse fino all'ultimo condurre e spingere l'opera del nazionale riscatto, di opinare che a costo anche di rimanere soccumbente tuttavia l'onore della casa Savoja doveva uscirne illeso.

Mi si parla di Villafranca. Io, credo, signori, di aver reso un grandissimo servigio in quelle circostanze in cui mi assunsi il difficilissimo carico di reggere la cosa pubblica, lo vi prego di richiamare alla mente vostra quanto erano triste le contingenze in quei tempi, quale e quanta fosse la difficoltà di provvedere all'interesse pubblico. £ se vi fu qualcuno che ebbe il coraggio, quelle contingenze di non abbandonare il paese, certo in credo che per questo non gli si debba fare con rimprovero; non avrà meritato del paese, ma almeno penso di aver dritto a non esser rimproverato.

E nel tempo che in fui al ministero, amo dirlo, poiché so che la calunnia viene spesso anche a lacerarmi per questo lato, nel tempo che fui al ministero tutti i miei sforzi furono ognora diretti a far siche il principio dell'unità italiana trionfasse. Qui seggono molti uomini che appartengono alle Provincie che non erano allora ancora riunite; in fui con essi in relazione, e li prego a dire a testimonianza innanzi alla Camera, se in me non abbiano sempre trovalo l'appoggio il più franco, il più sincero, il più deciso per far sì che il principio dell'unità nazionale trionfasse; se mai in qualsiasi occorrenza in abbia titubato sopra questo argomento. Or dunque, e l'aver accettato il ministero nel momento della pace di Villafranca, ed il modo col quale in credo di aver retto, pendente quel tempo dolorosissimo il governo, penso non sieno fatti che possono essere attribuiti a colpa o a rimprovero.

Lascio, signori, il resto, e vengo più direttamente alle interpellanze: mi perdoni la Camera, se ho credulo dire alcune parole per ribattere censura che in verità non mi attendeva.

Mi domandò l'onorevole Gallenga quali erano le mie intenzioni sull'armamento; se in credeva di dare esecuzione intera alla legge del 4 agosto 1861; mi domandò quali erano gli ordini del giorno. ai quali in aveva fatto allusione nel mio programma. Ora quanto alla legge del 4 agosto 1861, qualunque abbia potuto essere il giudizio del deputato Gallenga su questa legge, l'abbia egli approvata o no dal momento che ha il carattere di legge a cui non rimane più che ad eseguirla, risponde chiaramente e nettamente che intendo eseguirla. Intendo di eseguirla secondo il vero suo spirito; e crederei che qualunque ministero, il quale non si dava pensiero a dare esecuzione ad una legge così grave ed importante quale si è quella che è diretta a provvedere per l'armamento nazionale, qualunque ministero che non adempisse a questo dovere sarebbe altamente colpevole: dovrebb'csser tradotto come traditore della patria innanzi al Parlamento. Ora in dico nettamente che eseguirò la legge e l'ordine del giorno.

L'Onorevole deputato Gallenga il quale ha sempre proposto alle discussioni parlamentari, sa che nelle tornate degli undici aprile dell'anno scorso, si è relativamente all'esercito meridionale, voluto un ordine del giorno che non è stato ancora eseguito per circostanze imprevedute.

Io credo che al ministero al quale deve premere di eseguire tutte le deliberazioni della Camera, incombe far anche l'obbligo di eseguire in questa parte, ciò che fu in quella contingenza dalla Camera approvato; non credo che vi siano altri ordini del giorno relativi ai nostro armamento; ma quando esistono, saranno senza dubbio eseguiti.

Vengo al terzo punto, cioè quale sia l'intenzione del Ministro circa all'articolo 4 dello Statuto e delle Società di associazione emancipatrice; nel quale articolo a dire del deputato Gallenga si obbligano gli associati ad organizzarsi e ad armarsi. Ora quanto a questo sarò esplicito. Credo anzi di aver dato implicitamente un'anticipata risposta col mio programma; quando ho parlato dell'armamento ho detto che il governo intende di conservare esso la iniziativa e la direzione dell'armamento. Ora ciò che ho detto allora lo ripeto oggi: il governo non permetterà giammai che nessuna società dello stato faccia concorrenza al governo armandosi ed organizzandosi ad esercito. Or dunque se credo che occorrono su questo argomento maggiori spiegazioni; il governo crede di aver egli solo il dritto di armare, egli solo ha il dritto di farlo, ha intenzione di armare il paese, e credo appunto che mettendosi egli efficacemente a quest'opera scompariranno più facilmente quelle velleità di alcuni che intendono di organizzarsi e di armarsi da essi.

Quale sia lo scopo della legge sulle associazioni in ciò non ho che a dare la stessa e medesima risposta che ho già dato in senato, poiché è impossibile oggidì, nell'intervallo solamente trascorso nelle tornate del senato, e la tornata d| oggidì che il ministero abbia potuto occuparsi per determinare i varii principi!, le varie fasi che possono adottarsi relativamente a questo progetto di legge.

Ho promesso che avrei studiato la legge che sarebbe a farsi, e che l'avrei presentala al Parlamento, e nella condizione attuale in non posso dare una risposta più ampia.

Se l'on. Gallenga o altri desiderassero di avere più ampie spiegazioni sopra l'una o sopra l'altra idea, la quale potesse riferirsi a questo progetto di legge in sarei in caso di rispondergli, ma se egli viene unicamente a dire quali possano essere le intenzioni del governo intorno alle basi di questo schema di legge, certo in non sono ancora in grado di dargli appagante risposta.

In fine quanto all'ultima interrogazione quale risposta abbia data o voglia dare al Generale Garibaldi sopra l'amnistia e richiamo di Giuseppe Mazzini; quanto a questo in dirò al deputato Gallenga che dopo l'adunanza di Genova in ho avuto il piacere di vedere il Generale Garibaldi, ed il generale Garibaldi non mi ha detto alcuna parola intorno a questo argomento; perciò in a mia volta non sono nella condizione di dargli alcuna risposta di quanto sarà per dirsi o per farsi.

Se la camera vuole che in dica la mia opinione, in non ho alcuna difficoltà, ma se si desidera sapere quale risposta ho dato, in dico che non ne ho data nessuna, perché non fu fatta nessuna dimanda.

Parmi di aver dato diretta risposta alle varie interrogazioni che mi furono mosse dal deputato Gallenga; se egli è pago ne sarà maggiormente soddisfatto ma, se egli per sé è pago spero che ne sarà paga la maggioranza della Camera, e perciò ella vorrà approvare l'ordine del giorno con la spiegazione che gli ha data. Lo ripeto, perché non conviene che vi sieno equivoci, colla spiegazione che approvando quest'ordine del giorno, la Camera intende di approvare il programma che fu presentato dal ministero, e di dargli il suo appoggio, affinché il ministero possa mandarlo a compimento. Il ministero ha detto che egli non intende essere giudicato se nonché dai suoi atti;su questo siamo tutti di accordo. Sarebbe ridicolo che il ministero venisse a chiedere un'approvazione di fatti che ancora non esistono; ma il ministero ha bisogno per compiere il suo programma di esser sicuro che la Camera gli dia il suo appoggio, perciò è necessario che la Camera esprime il suo volo, ed in spero che vorrà esprimerlo favorevolmente

Queste interpellanze sono quelle che delineano la politica del Ministero Rattazzi, e spiegano il contegno tenuto dalle due Camere verso di esso. Quindi non crediamo inutile riportare anche quelle avvenute in Senato.

. -I fatti avvenuti negli ultimi giorni a Genova, i discorsi ivi tenuti hanno prodotto un agitazioni ch'è necessario sia dissipata.

Il programma dei comitati di provvedimento è nato: far ciò che il governo non sa, non può o non vuol fare; a fianco della rappresentanza nazionale erigere quasi un secondo Parlamento: affidare l'esecuzione delle deliberazioni quasi ad un secondo governo sorto a fianco delle autorità legalmente costituite.

In sulle prime in era titubante credendo che questo programma esprimesse soltanto opinioni o sentimenti individuali, mai discorsi tenuti a Genova, gli applausi frenetici con cui furono accolte le parole più esagerate la elezione dell'oratore a membro del comitato esecutivo mi persuasero esser quelle non opinioni individuali, bensì le idee di un partito, che all'ombra delle leggi nostre e dello Statuto lavora a scalzare l'autorità del governo (legge uno squarcio del discorso dell'avv. Campanella).

Io non voglio menomate le franchigie costituzionali. Ma come si poté regolare l'esercizio del dritto della libera stampa, cosi potrà farsi dell'esercizio del dritto di associazione. Un governo per quanto sia liberale non può lasciarsi esautorare; esso ha il dritto anzi il dovere di difendersi.

All'onorevole presidente del consiglio rivolgo in conseguenza le seguenti dimande: 1.° Se furono realmente pronunziate dai discorsi quali furono annunziati dai giornali: 2.° Quali misure abbia preso il governo per tutelare in quei giorni l'ordine pubblico in Genova, 3. ® Quali misure voglia proporre il governo rispetto allo esercizio del dritto di associazione

È un fatto che si manifestò una qualche commozione nell'opinione pubblica, e non so trovare parole che bastino a biasimare quei discorsi che tendono a proclamare il dritto d'insurrezione. Credo però che i discorsi accennali esprimano opinioni individuali, e farò osservare al Senato che altri oratori sursero a disapprovarli. Questo dico per ristabilire la verità, e per non aggravare l'importanza di fatti che in ripeto essere stati degni di biasimo.

Venendo ora alla prima dimanda risponderò che fu pronunziato un discorso nel senso indicato dal giornale testé citato, ma aggiungerò che i diversi giornali non riferirono esattamente ciò che si fece in quella adunanza, anzi a seconda del diverso partito al quale appartenevano, piegarono o da una parte o da un'altra.

Dirò dippiù che la prima impressione cattiva venne dai dispacci telegrafici che non furono sempre esatti.

In quanto alla seconda dimanda dirò che quando ebbe luogo quella riunione, il ministero era da pochi giorni a capo dell'amministrazione, ed il Senato sicuramente non ignora quali dichiarazioni fossero state fatte dal ministero precedente, e qual voto avesse pronunzialo la Camera su questo argomento, riconoscendo il dritto di riunione, riservato al governo l'invigilare, perché l'ordine non fosse turbato. Alle autorità politiche di Genova furono date istruzioni in conformità alle dichiarazioni e a quel volo. Del resto la tranquillità pubblica non fu punto turbala, e se fosse il caso le autorità pubbliche provvederanno a norma delle leggi.

Vengo alla terza domanda. Dirò innanzi tutto alcune parole, considerando storicamente la giurisprudenza governativa rispetto al dritto di associazione dal 1848 in poi. Dopo la promulgazione dello Statuto corse presto il dubbio se per l'art. 32 fosse assicurato il dritto di associazione, oppure soltanto quello di riunione. Quell'art, parla soltanto del dritto di radunarsi; fino agli ultimi tempi si credette assicurato soltanto il dritto di riunione, ed in quanto a quello di associazione fu considerato come uno di quei dritti naturali, l'esercizio del quale è lecito finché non va a ferire un altro dritto; libero sempre al governo d'intervenire. Così anche senza una legge speciale non vi era pericolo.

Ma negli ultimi tempi la giurisprudenza fu variata dalle dichiarazioni del ministero, e dal voto della camera', sia il dritto di riunione, che quello di associazione furono riconosciuti. Il dritto di associazione vien dichiarato guarentito dall'art. 32 dello Statuto; è dunque il caso di fare una legge che ne regoli l'esercizio.

Non intendo d'impedire il dritto di associazione, ma soltanto di regolarne l'esercizio, come avviene del dritto della libera stampa, e della libertà individuale.

Credo poi opportuna una legge sia nell'interesse del dritto stesso sia nell'interesse delle nostre istituzioni. Nell'interesse del dritto stesso, perché i suoi eccessi potrebbero comprometterne l'esistenza, è utile che sieno determinati i limiti delle sorveglianza governativa.

Nello interesse delle nostre istituzioni, per i pericoli che possono sorgere dall'esistenza di assemblee rivali al parlamento, e perché la libertà illimitata di associazione può giovare ai partigiani delle cadute dinastie, ed ai fautori del do minio temporale ec. Occorre quindi una legge non per prevenire il dritto di associazione, ma per impedire che l'esercizio di questo dritto sia rivolto contro le leggi dello Stato, e l'ordine sociale.

Intanto noi sorveglieremo le società esistenti, e quando ne fosse il caso ne denunzieremo gli atti alle autorità giudiziarie, e nello stesso tempo studieremo una legge da presentarsi all'approvazione del Parlamento.

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DOCUMENTI

A dare un'idea di ciò che si pensasse in Inghilterra intorno alla quistione italiana trascriviamo qui alcuni documenti che la riguardano presentati nella Camera inglese.

Quello che segue è del sig. Hudron ed è relativo alla stampa.

Mentre che da una parte noi vediamo che la controrivoluzione è organizzata a Roma, donde si spediscono nelle provincie del Sud armi, danaro ed agenti, alfine di eccitarle alla rivolta, noi abbiamo d'altra parte un esempio del buon senso del popolo napoletano. Nel verdetto recentemente reso da un giurì nel processo intentato dal Governo all'editore del giornale la il giuri (e questo era il primo processo giudicato dal giuri a Napoli) condannò l'editore al doppio delle spese richieste dal pubblico Ministero, e vi aggiunse tre mesi di prigionia. Dopo la riunione del Parlamento il conte Russel per soddisfare il marchese Normanby sembra che abbia scritto a Sir I. Hudron riguardo alla stampa italiana. Il 18 marzo Sua Signoria ricevette la seguente risposta.

Milord per quello che riguarda le vostre dimande relative ai processi intentati dal Governo di qui contro la stampa, ho l'onore di dirvi che sotto il regime della legge costituzionale d'Italia, tutti i redattori e stampatori sanno perfettamente ciò che possono e ciò che non possono stampare. Perciò è un dovere del Procuratore del Re nel caso che questa legge venga violata, d'intentare mi processo contro il violatore di questa legge. I giudici italiani come vostra signoria conosce bene, sono irremovibili e completamente ed interamente indipendenti dal governo.

L'azione intentata contro un giornale o un opuscolo dev'esser recata ad un tribunale di l. l'istanza. Se l'accusato è condannato egli può appellarsi innanzi ad una corte superiore che rettificherà semplicemente ogni errore legale. L'accusato condannalo per una seconda volta ha ancora la risorsa dell'invio in Cassazione la quale rivede il giudicato della Corte di Appello.

Durante la mia residenza in questo paese ho inteso parlare di numerosi processi intentati contro i giornali dalle Autorità legali competenti, ma non ho mai inteso che sia stata esercitata dal Governo sopra i giudici alcuna pressione illegittima o influenza. Se vi fosse accaduta qualche cosa di simile il ratto sarebbe stato probabilmente deferito al Parlamento, ed il ministro che avesse commesso questo abuso di autorità sarebbe stato messo in istato di accusa,

Su tali circostanze non avendo giammai udito parlare di pressione, né di violazione della legge, né di manovre impiegate dal Governo verso i Tribunali, in pensai che non era necessario di occupare il tempo cosi prezioso di V. S. con rapporto sull'amministrazione della giustizia e i giudizii del Tribunale che non hanno. recato mai alcuna lesione sia ad un suddito inglese sia ad interessi inglesi. Questa materia non aveva sulla condizione politica del paese alcuna preponderanza di natura tale da render necessario l'interesse di V. S. sopra tale argomento.

perché interessa intimamente le quistioni vitali d'Italia, riferiamo per intero il discorso di lord Palmerston, pronunziato nella Camera dei Comuni il giorno 12 aprile in risposta alle osservazioni fatte dai signori Bowyer e Hennessy relativamente allo stato, delle cose nelle provincie meridionali d'Italia.

dopo aver confutato alcune ragioni esposte dall'onorevole deputato di Dungarvan sul modo ingiusto con cui si trattano i cattolici romani d'Irlanda, dice: Il potere temporale di Roma è in pericolo; quello che più lo accenna è il modo violento con cui si sostiene. Esso perderà tanto più presto la poca autorità che ancor gli rimane quanto più spiegherà zelo per difenderla. Pari a Catone, esso preferisce di morire combattendo.

Victrix causa Dei placuit, sed vieta Catoni.

Il potere temporale di Roma ha un germe di distruzione in se stesso. È commendévole per il preopinante di mantenersi amico ad una causa come lo era nei giorni della sua prosperità, ma credo che l'onorevole baronetto avrebbe potuto porre innanzi la quistione senza fare una descrizione luttuosa delle condizioni d'Italia. È chiaro che l'Italia ebbe immensi vantaggi dai rivolgimenti che in essa ebbero luogo. Non ripeterò ora gl'incalcolabili benefizii che derivarono dal cambiamento dei suoi giorni.

Io ometterò pure di descrivere le enormità commesse dal governo di Roma, sanzionate dal capo d'ella Religione cattolica, ed in Napoli coadjuvate dal suo sfortunato e profugo sovrano. in non parlerò di queste atrocità che son tali da tener lontano chiunque dal difendere una causa contaminata da queste crudeltà.

Se la parte, meridionale d'Italia è disturbata non è per interne insurrezioni, non dallo stesso popolo, ma totalmente per effetto di emissarii il cui scopo è di ammazzare, distruggere col fuoco le sostanze e le vile delle popolazioni.

L'onorevole membro di Maleon, se in l'ho bene inteso, disse che l'Italia non potrà compiere la sua unità, ma che invece dovrebbe confederarsi

ed una confederazione di patti era la proposta in principio fatta a Villa franca, ed in seguito a Zurigo.

Ma fu provato che gl'Italiani erano di opinione che una federazione sarebbe impossibile, e che se pur fosse stata stabilita non avrebbe avuto buon fine.

Ormai se ciò poteva accadere allora, oggi è rèso impossibile.

L'Italia è presentemente unita eccetto Roma, e la piccola parte del territorio veneto.

L'onorevole baronetto disse che il re d'Italia non avrà mai Roma, che il Papa continuerà a risiedervi e l'onorevole di Dungar van disse che i destini della Provvidenza faranno del Papa per sempre il sovrano di Roma.

Io come umile individuo, come semplice mortale, non essendo un profeta, né esploratore delle intenzioni della divinità penso esser cosa impossibile che il potere temporale del Papa abbia a continuare. La mia opinione è che presto o tardi esso verrà al suo termine, senza di che ne conseguirebbe di giorno in giorno sempreppiù l'allontanamento del popolo d'Italia dall'autorità spirituale.

È interesse del capo della Chiesa di spogliare se stesso di questo temporale potere, di cui si è tanto abusato da quelli che l'hanno esercitato, sia sotto la sua autorità, come sotto il suo nome.

L'onorevole membro disse che il Papa resterà sempre nel Valicano. in dico che il potere temporale del Papa cesserà, e che Roma presto o tardi diverrà la capitale d'Italia. Ma il Papa potrà mantenere la sua dignità come capo della Chiesa occupando il. Vaticano, e Roma essere nel tempo stesso Capitale d'Italia. Nulla avvi in ciò d'impossibile.

E stato affermato da un mio onorevole amico che i destini del Papa, per quanto riguarda il potere temporale sono nelle mani dell'Imperatore di Francia. Non havvi alcun dubbio su ciò. Certamente il potere temporale del Papa come oggi si trova è interamente dipendente dalla presenza delle truppe francesi a Roma.

Ilo inteso dirsi dai cattolici essere essenziale che il sovrano della Chiesa sia indipendente. È Egli il Papa un sovrano indipendente? Egli è mantenuto nell'autorità temporale da 20, 000 soldati francesi contro il desiderio della immensa maggioranza di tutti i suoi sudditi. É questa la posizione di un sovrano indipendente.

Questa è la più infelice posizione che possa occupare un sovrano. in non dirò che l'occupazione di Roma per parte della truppa francese sia una violazione delle leggi internazionali, dappoiché ciò accadde a seguito di domanda, e col consenso del sovrano che possiede quella contrada; ma senza dubbio ciò è una violazione del principio del non intervento,

il quale è stato proclamato dalla Francia come dall'Inghilterra, e ciò è anche contrario a tutte le dichiarazioni con le quali ebbe principio la guerra d'Italia, l'oggetto della quale era di dare l'Italia a se stessa e di farla libera dal Mediterraneo all'Adriatico.

L'Italia non fu ridotta a se stessa, l'Italia non è libera dal Mediterraneo all'Adriatico, ma invece la più importante parte di essa è occupata da truppe straniere, impedendo con ciò l'attuazione dei desiderii dell'Italia, e mantenendo un sistema repugnante ad ogni sentimento di popolo, e contrario a tutti i principii politici di un civil governo.

Ebbene, signori, in non penso che ciò abbia a durare per sempre; in non posso pensare che la politica francese richieda ciò che in non penso che sia interesse della Francia a che si debba mantenere questo stato di cose. Sonvi persone che dicono, come intesi nella discussione di jeri, che sarebbe contrario agl'interessi della Francia di avere un'Italia unita. Da un altro lato ho inteso dire come un rimprovero all'Inghilterra che il desiderio di un'Italia unita è voler far cosa di giovamento alla Francia.

Quanto alla Francia, un'Italia unita può esser abile ad essa non soltanto come un'amica, ma anche come una barriera contro ostilità di potenze al di là delle frontiere italiane. Pertanto in dico che sarebbe di corta vista la politica della Francia, se riguardasse con dispiacere ed apprensione il consolidamento dell'Italia in un solo regno, cosa che riuscirebbe altresì gradita all'Inghilterra, mentre le offrirebbe più vasto campo nel suo commercio.

Posso dunque dire che l'onorevole baronetto con la migliore intenzione di servire la causa di quelli, a cui è devoto, ha fatto sbaglio nella discussione a dare al mio amico sottosegretario ed al mio amico il cancelliere dello scacchiere e ad altri un'opportunità di cosi completamente demolire gli avanzi di quell'edilìzio di argomenti che egli ha addotti contro i principii esistenti. Ciò non ostante in faccio i miei complimenti alla sua onestà ed al suo zelo, ed accetto la critica sua su quanto il governo ha fatto per l'Italia.

Noi abbiamo mantenuto una stretta neutralità ed aderito al principio del non intervento e come fu saviamente detto da un onorevole mio amico questo principio non deve consistere in un'apatia ed indifferenza, nel non avere né opinioni né simpatie; il non Intervento consiste nell'astenersi dall'azione, nel non intervento con la forza delle armi; ciò però non c' impedisce di provare un sentimento favorevole più ad una parte che ad un'altra.

Noi non abbiamo mai dissimulato la nostra simpatia per gl'Italiani, e pei loro sforzi nello intento di ottenere l'indipendenza e per la loro libertà, particolarmente quando questi sforzi sono condotti come lo furono

dal popolo italiano, con moderazione, senza violenza, con saviezza non deviando mai dalla linea che si erano tracciato.

Due volte nelle storie del mondo Roma ha esercitato il più esteso potere sopra una grande porzione della razza umana. Ai tempi degli antichi romani questa influenza era esercitata dalle conquiste militari, e le nazioni erano sottomesse con la forza delle armi.

Nell'ultimo periodo, il Papa, quando la sua autorità toccava il suo appoggio, esercitava un potere quasi supremo sopra la mente degli uomini in quasi tutta l'Europa.

II regime militare fu annullato dalla forza dei barbari. Il potere spirituale fu indebolito sottoinfluenza dell'incivilimento europeo. in confesso che Roma, una volta divenuta la capitale d'Italia sarà nuovamente destinata ad esercitare non un potere dispotico, ma una grande e nobile influenza sopra l'Europa con lo sviluppo della intelligenza, col progresso delle arti e delle scienze, con l'attività del commercio, e con la saviezza politica. Quando ciò accadrà, ed in confido che non debba essere così lontano, come lo crede l'onorevole oppositore, la posterità giudicherà tra coloro i quali hanno contribuito a questo risultato con la saviezza dei loro consigli é colla loro influenza, e coloro che si sono fatti campioni ostinati contro ogni progresso, di tutto ciò che è tirannia, corruzione ed oppressione.

La posterità giudicherà. tra noi, e noi ce ne appelliamo senza timore al suo giudizio.

E per dare una idea più compiuta di questa seduta che tanto interessa l'Italia riferiamo pure varii altri discorsi che vi furono pronunziati.

Sir, si fa a parlare delle condizioni d'Italia. Accennando ad un discorso già fatto su questo stesso sobbietto da lord Palmerston dice parole aspre e quasi ingiuriose al primo ministro. Poi annovera molti casi di rigore e crudeltà usati dal governo, e dai magistrali piemontesi nell'Italia del mezzodì, la vita, le sostanze, l'onore egli dice, non sono sicuri, tutto è in balìa della soldatesca, e dei capi feroci. Il governo inglese nel trattare i proclami dei capi piemontesi divulgati per combattere il popolo delle Due Sicilie, proclami che di gran forza mostrano come non si possa per altre vie legittime governare, il governo inglese, ha trasfigurali i fatti, e usato arti poco convenevoli. E ferma sua credenza che il popolo d'Ischia non si vorrà mai assoggettare al piemontese, il quale non è italiano, e non parla neppure italiano.

Il governo inglese ha in gran parte da rispondere per quel che in Italia è avvenuto, e per le tante violazioni della fede pubblica dei trattati, e dello stesso dritto di non intervento, solamente in parola proclamato.

Il regno delle Due Sicilie tuttora è, ed il regno d'Italia non fu riconosciuto che dalla sola Inghilterra, non dall'Europa né dal gius internazionale. Intanto Nizza e Savoja son della Francia, e quindi l'equilibrio europeo è sbilanciato, la Francia essendo divenuta la più potente delle nazioni, e l'autorità inglese abbassata per tutto; l'Inghilterra è fatta antesignoma della rivoluzione.

Il sig. non vuol già dubitare che sir Giorgio Bowyer non sia schietto nelle sue credenze ed opinioni, ma egli non udì mai discorso più tristamente accolto. Sir Giorgio è dallo zelo acciecato se credeva quel che dice, o vede le cose in tutt'altra condizione ch'esse non sono realmente. Egli proverà con fatti, con documenti, con l'autorità di uomini gravissimi quel che è per dire, e saprà rendere giustizia agl'Italiani ed al popolo inglese, il quale ha ad essi Italiani dato aiuto morale così generoso e sapiente. Entra il dicitore a ragionare e descrivere la condizione presente del napoletano e delle Marche, della Romagna e dell'Umbria, contrapponendole a quella sotto i passati governi, e mostra che i fatti contraddicono a meraviglia la descrizione fattane da sir Browver. Nelle provincie romane state già del Papa non è mai avvenuto niun moto d'insurrezione, non ostante che i popoli siano lasciati a se stessi senza eserciti, e quasi senza forza pubblica. Se i popoli erano male trattali o non contenti avevano tutto l'agio di dimostrarlo. Nel napoletano le consuetudini del popolo non potevano essere ad un tratto cambiate, i suoi vizii generarono nella larga e brutale tirannide che l'oppresse; gli animi erano dalle arti dei governanti guasti e corrotti. Imperocché, egli dice; il fine di certi governi come quello di Napoli e di Roma era di tenere il popolo ignorante per tenerlo, meglio soggetto; la loro ignoranza politica era spaventevole. Ma il cambiamento sopravvenuto da due o tre anni fra quei popoli è meraviglioso. Chi non ricorda lo stato della provincia romana nel 1859! povertà e squallore regnavano per tutto; l'elemosina teneva luogo al lavoro. L'onorevole gentiluomo disse che Vittorio Emmanuele si spasima di aver Roma, e che egli non l'avrà mai, ma è il Re che vuol Roma, o non piuttosto il popolo romano che vuole il re?

Il signor Layard descrive poi lo stato presente delle provincie già ponteficie. Bologna si trasforma, e già annovera ventotto scuole, contro tredici che prima ne aveva, e spende dugentomila franchi per la popolare educazione. Ancora in diciotto mesi vide nascere di tremila cinquecento abitanti la città, Perugia ha già scuole di di e di notte, e cinquecento fanciulli vi attendono. Atenei e Ginnasii sorgono in tutte le primarie città.

I giudizii son fatti per giurati con grande successo e contentezze dei popoli, il commercio è vivificalo, e la ricchezza si accresce: strade, canali, telegrafi aprono comunicazioni fra popoli che prima appena si conoscevano. E cosi essendo la conseguenza naturale é che il delitto scema.

E all'incontro di questo noi vediamo che ora in Roma il ladrone e l'assassino signoreggia quasi immolestato. Non abbiamo noi udito più volte che i soldati francesi ebbero spesso ad interporsi, tra il popolo e truppe pontificie per impedire le stragi?

Quanto ai proclami, egli il signor Layard, gli ha già altra volta lamentati; ma ripeto, chi sta nel Parlamento italiano averne cura. Disse sir Bowyer che i popoli napoletani anelano a gettar via il giogo piemontese, ond'e che i rappresentanti di questo popolo pensano tutto al contrario, e che i rappresentanti del governo in quelle provincie sono dovunque accolli diligentissimamente? Garibaldi entrò in Napoli con un biglietto di strada ferrata di second'ordine. Molti disordini certamente avvengono in quelle contrade, ma non ne sono da tenere i governanti mallevadori, ma si i governi precedenti che infiltrarono la corruzione in alcune classi del popolo. Egli vorrebbe bene che il nobile baronetto si trovasse fra i briganti (non in carne per sua salvezza, ma in ispirito) e certamente ad un tratto toglierebbe loro il suo favore. Né sono essi condotti da Italiani, ma i capi sono i più forestieri.

Il signor Layard termina dicendo aver il governo ricevuto quella stessa mattina un dispaccio del Console di Napoli che pienamente risponde a tutte le obbiezioni mosse dall'onorevole baronetto.

Il signor vuol provare con molte citazioni, che le migliorie ricordate dal signor Layard non sono di fatto, anzi si crede e che tutto il contrario avviene nelle provincie romane e napoletane. Mostra che il commercio del Piemonte è rovinato, i patrimonii impoveriti, la rovina finanziaria sovrasta; e tutto è d'attribuirsi alla rivoluzione suscitata dal Piemonte a dispetto dei popoli. Si duole che il sig. Layard abbia citato dispacci e lettere che non furono ancora al Parlamento presentati.

Il signor fa fede per prova sua e certa che la condizione del napoletano è assai diversa da quella che è da taluni raffigurata, i popoli sono contenti ed attendono a migliorare la loro sorte aspettando nuovi beneficii dai commerci ampliali e dalle strade d'ogni maniera che dovunque si costruiscono. In Lombardia, Toscana, Romagna, e tutta Italia settentrionale i popoli sono concordi, quieti e felici.

Il signor dice che ammettendosi pure per amore di argomentare i fatti citati da sir Bowyer che dritto ha un Parlamento straniero d'immischiarvisi?

Il signor giudica non esservi alcuna ragione perché la Camera s'ingerisca in queste materie: né sir Bowyer ha detto alcun fatto, o fornita alcuna pruova che valga a dare alle Camere questo dritto.

Le controversie italiane riguardano gl'Italiani e da essi vogliono essere maneggiate. Spero che la disputa romana avrà scioglimento pacifico ed intero.

Il signor Whaly pone la controversia sopra una base semplice.

Se gli uffiziali italiani commisero atti atroci, questo avvenne contro la volontà e gli ordini del governo italiano; ma se i banditi dal fu re Francesco II e da Pio IX assoldati commettono atrocità è manifesto che secondo gli ordini del loro padrone essi operano, anzi secondo i principii della Corte di Roma. É tempo che si domandi alla Francia di lasciar Roma o sia fatta la Francia mallevadrice del brigantaggio.

Il signor, vi è molta forza e verità nel contraddire, il discutere delle cose d'Italia in questa Camera; poiché è atto scortese a governo amico, il quale è già fornito di una sua arena per siffatti dibattimenti. Ma abbenchè in in ciò convenga nell'astratto mi rallegro del modo a cui la discussione si è informata.. Il nobile baronetto volendo danneggiare l'Italia si è messo in una via che torna a grande vantaggio di lei. Delle molte dicerie udite non teme dippiù i nostri sentimenti che quelli dell'onorevole sig. Bowyer.

Io mi appello a tutti che qui seggono se egli non ha mostrato una capacità portentosa di paradossi ed una credulità ammirabile. Per lui l'Italia innanzi al 1859 era la più avventurata delle nazioni; dopo quel tempo si è la più sciagurata. Continua di questo modo il sig. Gladstone a dimostrare come le migliorie nell'educazione e nella legislazione, nei commerci, nelle comunicazioni, nell'esercito infine tutto quello che si è fatto per il bene dell'Italia da quell'anno in qua, al sig. Bowyer par fatto a danno e ad oppressione dei popoli. Accennando a Roma il sig. Gladstone dice che il popolo romano non può essere ora soddisfatto poiché si richieggono 20,000 francesi per sostenere il Papa, e termina con parole eloquenti a mostrare quanto sia ingiusto e contrario alla sua politica il prolungare il potere temporale de' papi.

Inseriamo qui, e sarebbe colpa l'ometterla, la corrispondenza ufficiale relativa agli affari d'Italia e più specialmente a quella delle provincie meridionali, comunicata dal governo inglese al Parlamento. Questi documenti consistono in una serie di lettere scritta da James Hudson rappresentante di S. M. Britannica presso la Corte del Re d'Italia e del sig. Bonham console inglese a Napo li. Noi ne trasceglieremo ed esamineremo i più importanti.

Una lettera del console Bonham narra la gran dimostrazione popolare al 10 febbraio fatta a Napoli contro il potere temporale del Papa, e dice che il Governo non intervenne in verun modo né accadde alcun disordine «Niente potrebb'essere più dannoso, soggiunge, all'influenza del Papato sia spirituale o temporale che l'essere costantemente citato e considerato come il principale ostacolo alla prosperità e consolidazione d'Italia».

Sir James Hudson scrive da Torino il 22 febbraio al ministro inglese degli esteri. «Ho buona ragione per credere che il brigantaggio si stia ora organizzando dietro ordini dell'ex re di Napoli e sotto il patronato della Corte di Roma per operare in ampie e sanguinose proporzioni nella prossima primavera».

Il console Bonham scrive il 25 febbraio essere stato informato dal confidante lo stato maggiore del generale Lamarmora che si temeva con fondamento un assalto sul territorio napoletano da Frosinone; che inoltre il governo italiano aveva motivo di credere che si facessero preparativi dagli agenti borbonici a Marsiglia a Barcellona ed a Malta per imbarcare un certo numero di avventurieri, onde sbarcare sul napoletano, che però il governo era ben preparato, che le notizie delle provincie erano favorevolissime., che lo stato generale dell'opinione era buono, e che se questi avventurieri ardissero sbarcare non troverebbero alcuno appoggio, ma verrebbero a certa distruzione. Il console aggiunge, scrivendo a lord Russell «Io credo che questo sia il vero stato delle cose, e che uno sbarco avrebbe ora, se è possibile, una minore probabilità di successo, di quello effettuato dal generale Borjes nello scorso settembre».

Sir I. Hudson, nel dispaccio testò citato, dice esser suo dovere sottoporre la quistione del brigantaggio alle serie considerazioni del Governo di S. M. perché, egli sostiene, se il brigantaggio deve essere di nuovo organizzato e tollerato, porrà per le forze delle circostanze il governo italiano fra due fuochi, infonderà forza nelle fila del partito di azione, e dall'altro conto porrà il governo ila no nella necessità di mantenere la sua autorità a rischi della guerra civile. Perciò, scrive il ministro, il brigantaggio se gli è di nuovo permesso di fare di Roma il suo quartiere generale, può obbligare questo governo ad adottare un movimento in avanti, e quel movimento può accendere la fiamma delle discordie per tutta l'Europa.

Parlando della riunione delle associazioni patriottiche d'Italia che si preparava pel 9 marzo sir James Hudson scrive.

Il pericolo non sta nella riunione, ma nel gran fatto politico della continuata occupazione di Roma da truppe straniere quando la necessità di questa occupazione è assolutamente cessata; e questo pericolo sarà tantoppiù aumentato dal fatto, che il brigantaggio che è costato le vite di molti onesti cittadini, e buoni soldati, che ha reso vedove alcune persone, e ridottene altre alla miseria, che è un grave carico per l'erario pubblico, e che e tanto più detestato in quanto che sarebbe represso se non fosse coperto dalla presenza degli stranieri, e costituito e guidato da stranieri, e composto principalmente dalla feccia della società, e di nuovo restaurato, riordinalo e fiorente nella città stessa che la nazione Italiana chiama sua capitale.

Tra i dispacci del Console Bonham troviamo degni di nota quelli relativi ai due proclami emanati dal maggior Fantoni in Puglia e dal maggiore Fumel in Calabria. Rispetto al primo il console inglese dice che il maggiore Fantoni scrisse il proclama attribuitogli, e lo fece stampare, e quindi lo sottopose al generale comandante del distretto, il quale «lo disapprovò, e rinnegò immediatamente» esso fu quindi messo da parte, e non ebbe alcuna esecuzione «Quanto al proclama del maggiore Fumel esso fu pubblicato dai sindaci il 1° marzo. Il dì 19 il console Bonham ne ricevo una copia da certo barone Antonio Valerio persona ignota al console stesso, il quale barone l'accompagnò con una lettera ove diceva non essere Furaci uomo da non mantenere la parola, giacché aveva già fucilate più di 20 persone ed incendiata case e capanne. Il console si recò immediatamente al generale Lamarmora con la copia del proclama di Fumel e gliela mostrò «Sua Eccellenza (scrive il sig. Bonham a lord Russell) mi disse che non lo avea veduto per lo innanzi, e che ne aveva conosciuto la esistenza solo per la menzione fattane nella Camera dei Comuni. Egli lo lesse, come chiunque avrebbe fatto, con indignazione e disgusto. Disse che il maggiore Fumel non appartiene all'esercito, ed egli, il generale, nulla aveva che fare con lui, a non intende con quale autorità agisca. Mi domandò lasciargli prender copia del proclama che naturalmente gli detti, ed egli chiamò il colonnello Farriola capo dello Stato maggiore, e gli fece inviare subito un telegramma al prefetto di Calabria per sapere per ordine di chi era stato emanato quel proclama, che ha eccitato l'indignazione generale delle nazioni straniere. Sua Eccellenza promise di mandarmi una copia della risposta del prefetto che appena la riceverò, trasmetterò a vostra Signoria.

Accludo pure copia e traduzione della lettera del barone Vaio rio. in non conosco lo scrittore, non posso dubitare della esagerazione delle sue asserzioni. É possibile che alcuni individui possono essere stati fucilati nei luoghi indicati, ma non credo che alcuno italiano del Nord sia colpevole del delitto di fucilare una donna, perché sua figlia era portata con un brigante. Non è necessario spero che in aggiunga che la ragione per cui non mandai più presto una copia di questo documento a V. S. è che in non la possedeva né alcuno in questa città ne conosceva l'esistenza. La copia che in ricevei è la prima giunta in Napoli. Senza dubbio le truppe sono esasperatissime contro i briganti. Non può essere altrimenti. Questi pongono a morte, con eccessiva crudeltà qualunque soldato che ha l'infortunio di cadere nelle loro mani, tagliano i mostacchi e i favoriti, o i ciuffi delle loro vittime e li portano come ornamenti ai cappelli. Con tali trofei non è possibile supporre ch'essi debbono aspettarsi ad aver quartiere quando alla lor volta caschino nelle mani dei soldati.

Il generale Lamarmora mi ha assento che un capitano e 19 uomini di una compagna d'infanteria in Lucera vicino Foggia, essendosi separati dal resto furono tutti soprafratti e massacrati dai briganti. I loro corpi furono più tardi ritrovati dai loro compagni spogliati e mutilati orribilmente.

Ecco quanto scrive il prefetto di Cosenza al generale Lamarmora (che lo comunicò al console inglese) sul proclama Fumel.

Io avrei impedito la pubblicazione del proclama Fumel, se ne avessi avuto cognizione a tempo. Esso non fu mai stampato ed il maggiore lo fece promulgare dai sindaci, specialmente in vista di eccitare la paura, egli ha tuttavia sempre agito con moderazione ed una giustizia lodevole.

In un dispaccio del 11 marzo, il sig. Bonham riferisce i seguenti particolari fornitigli da una persona giunta a Napoli, dopo essere stato spogliato dalla banda Crocco presso Foggia.

Io ho lasciato Bari accompagnato da mio fratello. La strada non essendo creduta sicura, due diligenze che avevano tra le due 14 passeggieri viaggiavano di conserva.

Il 14 marzo fummo fermati da una grossa banda nella valle di Bovino. Fra i passeegieri vi era una signora, un vecchio sergente dei veterani, un uffiziale di polizia, un monaco, e mio fratello, gli altri viaggiatori erano dei privati. Noi fummo presi e trascinati per qualche miglio nel cuore delle foreste, dove la grossa compagnia dei briganti era riunita. Ne contava un cento, tutti giovani vestiti da paesani, non da soldati. Due parevano fare da capi, uno dei quali chiamavasi Schiavone, un uomo di trentacinque a trentasei anni; l'altro Crocco, un uomo sui ventidue a ventitré anni. Fummo spogliati del nostro danaro ed abiti. Alla signora furono strappati gli orecchini. Poi fu fucilato il sergente, l'uffiziale legato e gittato su un mucchio di fascine alle quali fu posto fuoco ed egli arso. Noi altri rimanemmo per un pezzo con la maggior paura addosso, non sapendo che fato sarebbe il nostro. Finalmente uno dei capi ordinò che ci si lasciasse andare, e noi fummo quindi rilasciati: ci avviammo ad Ariano, ed indi a Napoli: Oggi ho visto un telegramma che annunzia essere stato bruciato vivo un prete dalla stessa banda di Crocco vicino ad Ascoli, che è un luogo non molto discosto da Bovino.

Seguono parecchi altri dispacci del console inglese a Napoli sullo stato presente del brigantaggio, l'ultimo dei quali ha data recentissima, essendo del 2 aprile: ecco come si esprime il console:

Una grande incertezza continua a prevalere nelle provincie di Capitanata. V'ha in esse parecchie bande di briganti, che tengono il paese nel terrore, e deludono con successo la caccia che loro danno i soldati.

Dei rinforzi sono stati mandati, ed un nuovo ed attivo generale è stato messo al comando.

«Delle relazioni sul brigantaggio esageratissime sono sparse generalmente ad industria e con perseveranza nel paese, con l'ovvia intenzione di cagionare allarme e disgusto. Il brigantaggio senza dubbio esiste sopra una vasta scala, e finora non ha avuto nessuna seria disfatta in Capitanata, ma in altre Provincie fin oggi almeno questo flagello non è qual era l'anno scorso, ed in parecchie non esiste punto.

Per quanto in sappia, le Calabrie sono tranquille, e gli Abruzzi del pari. Eppure queste provincie erano abitualmente le più perturbate. Negli Abruzzi si aspetta ora una invasione di avventurieri, i quali si organizzano senza molestia o impedimento a Tivoli negli stati romani. Gli agenti reazionarii qui si affacéndano non solo a spargere notizie allarmanti, ma a tentare di sedurre e corrompere i soldati napoletani, i quali sono ora incorporati in numero considerevole, e servono nei reggimenti italiani in queste , però in sono assicurato che questi soldati si comportano eccessivamente bene, e che i tentativi di questi agenti non hanno punto successo.

Non si può dubitare che il commercio avanzi a gran passi.

Durante i primi tre mesi di questo anno comparati coi primi tre mesi degli anni 1859, 1860, e 1861 il movimento della marina mercantile britannica dà i seguenti risultati.

Navi britanniche entrate nel primo trimestre del 1859, 51 navi tonellaggio, 15,925-1860, navi 62, tonellaggio 21646-1861 navi 57 tonellaggio 20, 341-1862 navi 93, tonnellaggio 34,740.

La dogana non è più capace per l'aumentata quantità di merci che ora arrivano, ed una grande aera di fuori è stata coverta a zinco onde ricoverare temporaneamente coteste merci.

Il popolo non ha nessuna difficoltà nel trovare lavoro. Le relazioni commerciali sono generalmente buono, ed inoltre il municipio occupa molti operai nel fabbricare in differenti parti della città. Il fitto delle case, ed i commestibili d'ogni genere sono salili di prezzo. in non sento che vi sia nessuna querela di miseria, o di mancanza di lavoro nei varii porti nei quali ci sono viceconsoli, e credo che gli affari commerciali, ivi come qui procedano prosperamente.

Il giorno in cui ogni italiano saprà maneggiare una carabina, non avremo forse più bisogno di guerra per revindicare tutto ciò che è nostro, anzi saremo al caso d'intimare ai nemici di restituire anche ciò che hanno tolto agli altri.

Queste solenni parole pronunziava anche il gran Garibaldi a Milano il giorno 22 marzo di questo anno al cospetto dei rappresentanti dell'Emigrazione venda, trentina ed istriana che recaronsi a complimentarlo. Ed animato egli da simile sentimento aveva divisato di organizzare

come in effetti organizzò nelle principali città d'Italia delle avente a scopo di esercitare la gioventù al tiro della carabina, ed al maneggio delle armi.

Così sperava egli, ed a buona ragione d'infondere un sentimento guerriero negl'Italiani, e di far la nazione forte e potente, e tale da imporne allo straniero. Seguiamolo dunque nel suo giro per le principali città d'Italia affine di organare queste così dette Guardiamolo in Milano, ove freneticamente viene festeggiato da una popolazione stivata nel suo passaggio, dove e rappresentanti delle diverse emigrazioni, e presidenti e deputazioni delle varie Società e municipio e guardia nazionale gareggiano a presentargli i loro omaggi. Ed egli che rivolge a tutti belle parole, a tutti discorsi che contengono la salute d'Italia.

Ciò che importa soprattutto, dice egli ai Rappresentanti delle diverse emigrazioni, è l'armamento. Non è ch'io respinga le alleanze in generale, ed in particolare quella della Francia, no; ma bisogna fare in modo che le alleanze non divengano dipendenze. Sarebbe un grave torto quello di non mostrare sufficiente fiducia nelle forze, e nello slancio della nazione. in lo conosco il popolo italiano e so di quanto sia esso capace. Se si facesse pel suo armamento il terzo di quanto si potrebbe fare, l'Italia opererebbe miracoli. Tutto sta dunque nel disciplinare le forze. Fui accusalo di non amare la disciplina, ma a torlo. I miei commilitoni sanno com'io la faccio osservare, in ho sempre pensato che la disciplina è forza ma alle regole disciplinari ho cercato di aggiungere l'ispirazione del dovere........

Gli si dà un banchetto, ed abbondano brindisi ardenti e generosi 'come i cuori di coloro, da cui erompevano. Quei brindisi rappresentano tutta intera la nazione italiana, le sue aspirazioni, le sue tendenze, le sue speranze.

Miei compagni, un pensiero ai martiri delle gloriose cinque giornate. -È questo il brindisi del generale Garibaldi.

Io veggo qui con orgoglio rappresentata la storia recente, e la storia lontana, ma pur vivente di tanti anni di patimenti, e di lotta in Italia, e fuori per la causa delle libertà. Ecco l'uomo che ci ha guidali, e che ci ha bisognato a vincere. Un brindisi dunque a quest'uomo, e combatteremo. - Cosi risponde il generale Medici con altri brindisi.

Alla rivoluzione di Venezia, e se occorre alla rivoluzione di Roma. -Così il generale Bixio.

Agl'insorti di Nauplia-Alle libertà della Grecia-Non più oppressori - Viva il popolo - Così col suo brindisi il maggiore Carissimi.

Al rimpatrio di Giuseppe Mazzini. A Giuseppe Mazzini tra noi, non più esule. Così il maggiore Castellini.

Un evviva all'istituzione dei tiri a bersaglio.

Ci apprenderà a tirar dritto, e ci farà correr dritto al nostro intento. Fu questo il brindisi del Colonnello Simonetta.

Oggi 22 marzo, vigilia della infausta battaglia di Novara giuriamo di vendicarla sui nostri nemici. Cosi il Colonnello Conte. Ed altri molti ancora che per brevità tralasciamo.

Alle ore undici del giorno 25 il Generale recavasi a Monza ad inaugurarvi la Società del tiro mandamentale. Alle stazioni fu accolto da un drappello di garibaldini, dalla guardia nazionale e da una immensa folla di popolo. Vi si rinnovarono quelle scene di entusiasmo e di delirio che ormai sono sinonimi con l'arrivo di Garibaldi, ed alle tre il Generale era già di ritorno a Milano.

Poco dopo egli conducevasi a visitare lo studio dei fratelli Induno, tipo di artisti soldati, che negl'ozii di pace ritrae sulla tela le battaglie della indipendenza. Il generale ammirò particolarmente il quadro di Domenico Induno che figura lo annunzio della pace di Villafranca a Milano e a vedere l'espressione del dolore, onde sono atteggiate le figure di quel quadro esclamò che non aveva mai visto una si bella pittura.

Ecco le parole che disse ai due fratelli stringendo loro la mano: «Sentite, in non m'intendo molto di pittura, ma credo di sentire qualche cosa anch'io. Eppure in vi dico che non mi ricordo di aver visto quadri con tanta espressione come quella che trovo nei vostri. Bravi, questa nostra Italia è pur sempre un gran paese.

La sera invitato a pranzo dal Prefetto Pasolini vi si conduceva con Bixio, Medici, Tur ed altri distinti personaggi.

Fra le altre pruove di disinteresse che la sua presenza suscita dovunque, il generale Garibaldi ricevé la seguente lettera dal signor Delfinoné di Milano.

Generale-Vi prego di voler far tratta sopra di me per qualunque circostanza, perché non si rinnovi più il caso dell'infelice Rezzadoro (1).

Ritornato a Milano ebbe luogo la distribuzione dei premii ai vincitori al bersaglio. Erano presenti alla funzione il generale Garibaldi, il Prefetto, il Sindaco, non che il generale Bixio, le altre persone del seguilo di Garibaldi, ed il generale della guardia nazionale.

Più tardi recavasi a visitare Alessandro Manzoni «Permettete, disse il Generale che in renda omaggio ad un uomo che tanto onora l'Italia».

«Sono io, rispose il poeta che devo prestare omaggio a voi; in che mi trovo ben piccolo innanzi all'ultimo dei Mille, e più ancora innanzi al loro Duce che ha redenta tanta parte d'Italia e nel modo migliore offrendola a Vittorio Emmanuele» Garibaldi rispose» in non ho fatto che il mio dovere. -Dopo averlo abbracciato, il Generale offerse a Manzoni un mazzolino di viole.

Le conserverò, disse il poeta, in memoria di uno dei più belli giorni della mia vita.

Da Milano Garibaldi indirizzò ai sacerdoti lombardi la seguente lettera.

Non solamente dal governo, ma dalla nazione intera voi sarete appoggiati, benedetti nella vostra missione riparatrice.

Avanti dunque! Porgete il vostro concorso alle aspirazioni sante dell'Italia, e gettatevi sull'arena dell'emancipazione del popolo colla generosa risoluzione dei primi cristiani

Più ardua di quella che dobbiamo percorrere fu la carriera degli antichi Apostoli dell'uguaglianza umana, ma non men bello sarà il vostro compito, perché non in minor numero sono i sofferenti.

Noi divideremo con voi il pane quotidiano, patiremo insieme con coraggiosa abnegazione i disagi e le umiliazioni, ma insieme vittoriosi sui campi delle battaglie, coi braccio o colla intelligenza noi segneremo sulla faccia del mondo l'era nuova della redenzione.

A Parma, il giorno 30 marzo il Generale aringava al popolo nel seguente modo «Sono stato veramente addolorato di non poter essere con voi il giorno 20, com'era mio desiderio. Circostanze imperiose me lo impedirono: aggi finalmente ho il grandissimo contento di essere fra questo bravo popolo, fra cui veggo tanti prodi miei compagni d'armi. Non è la prima volta che il popolo di Parma ha dato pruove di eroismo, e quando l'occasione si presenti, son certo che queste si centuplicheranno.

Si, a migliaia sorgeranno coloro che di nuovo verranno con me e col nostro prode esercito a togliere il velo a quella bandiera, (addita la bandiera dell'Emigrazione veneta) si, noi toglieremo il velo alla bandiera di Venezia. Sì, Venezia la redimeremo fra le sorelle, e vedremo una volta chi saranno gl'insolenti che calpesteranno la nostra terra. Alla prodezza degl'Italiani non vi ha nulla da aggiungere.

Tutti in armi, tutti destri alle armi, perché, persuadetevi, se oggi ci è dato il poter liberamente pattare, ciò non è per volere degli oppressori, ma perché siamo forti. In armi dunque, in armi tutti e tutte le quistioni del nostro paese spariranno. Sparirà quella di Roma, sparirà quella di Venezia: spariranno tutte e senza il concorso della Diplomazia.

La Diplomazia la faremo noi con le nostre armi, la faremo con le nostre carabine.

La missione principale del mio giro è quella di vedervi, e d'istituire il Tiro Nazionale, onde esercitarvi al maneggio della carabina.

Benché io sappia che sapete bene maneggiare la bajonetta, desidero anche che sappiate colpire il nemico come si deve. Con la carabina, e destri a maneggiarla noi otterremo tutto.

Popolo di Parma, ti ringrazio della tua viva accoglienza, e ti saluto. A Lodi si presentò al Generale Garibaldi una deputazione di sacerdoti,

la quale ebbe dall'illustre duce dei Mille la seguente risposta all'indirizzo da essa presentato.

Mi congratulo del vostro patriottismo, del patriottismo di molti preti lombardi. Ti fu momento che in dissi parole un pò acerbe verso di voi, ma adesso che voi mi stendete la mano io l'accolgo volentieri: l'opera vostra è necessaria al conseguimento del nostro scopo; se voi camminate di pari passo con noi, avremo abbreviato di metà il cammino: protestate perché il vostro esempio sia seguito dai preti di Roma.

Durante il breve soggiorno del Generale a Parma gli studenti dell'Università, del Liceo, dell'Istituto tecnico, rappresentati per ciascuna classe da una commissione, si presentarono a lui con un indrizzo, al quale il Generale così rispose.

Bravi, Bravi! grazie, voi avete fiducia in me e credete che in non vi verrò meno. La Provvidenza spero ch'esaudirà i nostri voli. Voi giovani siete la speranza della patria, noi già cominciamo a declinare, ed in conto molto sopra di voi; nelle armi sta il gran segreto dell'emancipazione.

Non dico che voi abbandoniate gli studii, e vi occupiate astrattamente delle armi. Gli studii fe le scienze edificano l'uomo. Ma ora primo studio siano le armi. Con questo tutti gli ostacoli spariranno.

Vi sono ancora schiave sorelle. S'incolpa il governo, ed altri individui; ma la colpa è nostra, in gran parie nostra.

Quando stati di Europa si troveranno sulla grande via umanitaria non vi saranno più eserciti stabili, non più flotte, edgrandi capitani che distruggono gli oppressori per opprimere altri popoli, s'invertiranno a prò delle classi povere.

Io vengo qui delegato all'Istituzione del tiro al bersaglio: ve lo raccomando, fatevi accettare nella Società di quel Tiro: provvedetevi d'una carabina, di un fucile, di un arme qualunque atta ad ammazzare un nemico: chi vuole un arme, tenetelo bene a mente, ha un arme: potrei darvi molti. esempii: ne volete una pruova? ho visto il villano mancare perfino di un tozzo di pane, ma avere un arme, perché la voleva.

Addestratevi adunque alla carabina, sappiate colpire un nemico a 200 passi, e colpirlo come si deve. Voi lo farete, in ve lo consiglio, in già vi conosco, voi mi avete già dati molti compagni d'armi e spero sarete d'esempio alle altre classi.

Marciamo come uomini forti, calmi, uniti, tranquilli. Nelle armi, ve lo ripeto, sta la potenza, sta la forza, e quando ci saremo addestrati, nessun prepotente oserà conculcare i nostri dritti.

Salutate i vostri compagni, e dite loro che sono riconoscente della fiducia che hanno riposto in me. Addio-Addio.

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CAPITOLO VII

Sommario.

Garibaldi a Casalmaggiore. -Vittorio Emanuele a Napoli. - Tentativi reazionari-Furto al baoco Parodi-Fusione dell'esercito meridionale nel regolare-Eccidi di Brescia-Sarnico-Fatti diversi.

La sera del 2 Aprile il Generale col suo seguito, ed accompagnato da molte signore, e signori di Colorno, ove venendo da Parma aveva fatto una sosta di circa due ore, in mezzo alle ovazioni di quelle entusiastiche popolazioni, arrivava alla spiaggia parmense del Po di fronte a Casalmaggiore. Una deputazione composta di Rappresentanti del Municipio, del Circolo Patriottico, del quale egli è presidente, del Comitato di Provvedimento, e della Società degli Operai, slava quivi attendendo l'Eroe del secolo per dargli il benvenuto a nome di tutto il popolo Casalese. Il generale venne accolto con reitirati evviva, che, ripetendosi da tutti coloro che sparsi nelle numerose barchette erano venuti ad incontrarlo sul fiume, trovavano l'ultimo eco nella folla che era siepata sulla sponda Casalese. Disceso dalla carrozza, e ricevuti gli omaggi dalla deputazione, rivolgeva ai singoli membri della medesima lusinghieri parole, ed esprimeva loro i favorevoli sentimenti, dei quali penetrato per Casalmaggiore. Il Po ingrossalo dalle acque degli ultimi «giorni, era più maestoso del consueto, e Casalmaggiore disteso sulla opposta riva, e tutto pavesato a festa, presentava un panorama magnifico. Salito sul colà apprestato, il generale, l'uomo del mare, provava una certa compiacenza di trovarsi sulle onde. Venuto il momento di salpare, e venuto a prender comíato quelli di Colorno, egli tutto affetto, e cuore, con cortesi parole rispondeva ai loro saluti.

Avendo alcuni cercato baciargli la mano, porse loro il volto, e ricambiò i baci, e perfino permise che una delle signore facesse tesoro d'una ciocca de' suoi capegli. - Durante M tragitto udivasi innalzare delle barche e dalle sponde del fiume continuati evviva al generale.

Un popolo immenso lo stava attendendo alla riva Casalese, e dall'Arco S. Sebastiano fino all'estremo meridionale della città pareva una massa sola. All'avvicinarsi del porto si vedeva questa massa animatissima, e dai volti di ciascuno traluceva il desiderio ardentissimo di vedere il Duca dei mille. Giunti al al punto di approdo un grido unanime, universale, continuato gli dimostrava quanto la sua venuta rendesse lieta tutta la popolazione. Il Generale impaziente del ritardo, non aspettò che si levasse la barriera del, ma sorpassandola si presentò alle rive. Quivi fu accolto dal Sindaco, e Giunta municipale, "ed Autorità del luogo, dalle rappresentanze delle diverse società, non che da 30 ragazze bianco vestite, fra le quali due a bruno rappresentanti Roma e Venezia le quali unite ad altre quattro recitarono patriottiche poesie. Le loro parole non potevano trovar eco migliore che nel cuore di Garibaldi. Egli commosso si recò la prima di quelle giovanette fra le braccia, e le stampò un bacio sulla fronte.

Sul suo passaggio facevano ala: a destra il Corpo della Speranza (studenti del Ginnasio formanti una Compagnia di 10 giovani), a sinistra molti volontarii garibaldini, e lungo la via la Guardia nazionale. Quattro bande musicali, tutte del comune di Casalmaggiore facevano risuonare l'aria dei loro concerti.

La gita dal Po alla sua temporanea abitazione, di proprietà del Senatore del Regno marchese Araldi Erizzo, situato alla estremità della contrada S. Francesco, fu un'ovazione continuarti ed una non interrotta pioggia di fiori che gentili signore affollata alle finestre ornate a festa facevano cadere sul generale e su chi lo avvicinava. Il Generale sdegnò di montare sulle carrozze apprestate, ma vi si recò a piedi. Onde preservarlo dagli urti della folla impaziente ed accalcata i volontarii in camice rosse formavano una catena attorno il Generale, ed il suo seguito.

Giunto alla casa destinatagli fu chiamato alle finestre dalla folla stipata con replicate acclamazioni, e mentre tutti gridavano: pronunziò le seguenti parole.

. Tenete il cappello Badate che ci sono dalle bambine, che non facciate loro del male -

Un popolo grande com'è oggi l'italiano, nelle sue manifestazioni deve sempre conservare la sua maestà, e perciò anche nelle sue dimostrazioni dev'esser grave e moestoso. Del resto non parole ci vogliono, ma fatti e poi fatti. Sono contento di trovarmi al cospetto del popolo casalese, pel quale nutro immenso affetto. Voi, parte eletta dal gran popolo italiano, rappresentate la dignità nazionale, la dignità di un popolo potente che vuol essere veramente indipendente da qualunque potere della terra, che vuole con potere suo, sorto del voto delle popolazioni. Ricordiamoci che noi diventammo forti con la concordia, siamo dunque concordi. Esercito regolare, camice rosse, Guardia Nazionale, Operai, Popolo della città e campagna, tutti, tutto siamo concordi, ed otterremo ciò che vogliamo.

Venezia.

Si Venezia e Roma, ma per andare più presto alle due città sorelle, per liberarle facciamo in modo da educarci esclusivamente alle armi. Ragazzi alla carabina! Pensate oggi soprattutto alla carabina, il resto verrà poi. Il giorno in cui ciascuno di noi possederà un fucile, e saprà bene maneggiarlo, vi assicuro che non vi sarà più uno straniero nella patria nostra, un solo straniero.

Ma sia presto.

SI facciamo presto; in lo desidero con voi. Ma perché ciò sia, ve in ripeto, bisogna assolutamente' addestrarsi alle armi, perché la diplomazia non saprà mai sciogliere le nostre quistioni, dobbiamo scioglierne noi con la punta delle baionette...........

Alla carabina dunque vi ripeto, con la carabina potrete far uscire dalla casa nostra i ladri. Vedo che il popolo casalese è disposto a fare il suo dovere. Si SI).

non ne ho mai dubitato, e non ne dubito nemmeno oggi.

Del vostro buon volere vi sono riconoscente a nome dell'Italia. Mi resta solo a farvi una calda preghiera ed è che si lavori di tutti per la istituzione dei tiri del bersaglio. A tale istituzione prendono parte la classe agiata, gli artisti, i campagnuoli, tutti insomma, perché tutti dobbiamo attendere a lai lavoro. Raccomandiamo poi ai potenti, agli agiati di facilitare il tiro a coloro che sono bisognosi,

perché tutti dobbiamo essere al festino, quindi tutti dobbiamo essere al lavoro, si tutti dobbiamo godere di tale lavoro. Addio»

Nello stesso giorno il Generale inaugurò il tiro, e fece il miglior colpo.

Alle ore nove del giorno 4 Aprile lo sparo dei mortaretti annunziò che il Generale era alle porte di Sabbionetta: il Municipio, i magistrati della Regia Pretura, il Clero ed una immensa quantità di popolo erano ad incontrarlo.

La Guardia Nazionale in bella mostra faceva ala al cammino che dalla porta mette al palazzo municipale. Sulle due porte della murata Sabbionetta erano acconce iscrizioni. Molte signore offrivano poesie e fiori al Generale, che nei suo cammino fu in mezzo a continue ovazioni, e grida di entusiastici evviva, preceduto da due bande civiche del comune, che alternavano le loro armonie.

Non è a dirsi il fremito, il delirio di un popolo intero stivato s nella piazza, quando Garibaldi comparve sul balcone del palazzo Municipale.

Fattosi silenzio, il generale disse le seguenti parole.

Sento un vero giubilo nel vedere questa brava popolazione entusiasmata per la causa nazionale; in devo ad essa una parola di gratitudine in nome dell'Italia. É veramente una grande soddisfazione il conoscere che in tutte le classi del popolo italiano regna una bella concordia quando si tratta del bene della nazione. Lasciate che in me ne congratuli anche con voi. Ritenete che la discordia fu e sarà sempre la causa d'ogni infortunio. - Ricchi, operai, cittadini siamo tutti fratelli; quindi ai primi raccomando di proteggere le classi dei lavoranti, così che queste arrivino a comprendere che il nuovo sistema di libertà dev'esser per loro veramente una manna del cielo, e tutto una volta raggiunto, formerà per essi la più solida guarentigia di felicità.

Al Battaglione della Guardia Nazionale composto delle varie frazioni, raccordando che sia sempre sbandito quel misero antagonismo che nel procreare interne gelosie, e domestiche scissure, indebolisce anche l'ardore e la virtù necessaria al compimento dei nostri voti.

Raccomando il tiro al bersaglio, sarebbe un pericolo, una vergogna

che ogni italiano non sapesse mostrare al nemico di saper maneggiare una carabina. In questo modo non accadrà mai che lo straniero ricalpesti il nostro suolo, depredi le nostre sostanze, insulti alle nostre famiglie.

Questa, amici miei, è la strada che mette a Venezia ed a Roma.

Rientrato dal balcone nuova scena gli si presentava. Cinquanta bamboli dell'Asilo Infantile erano già introdotti nel Gabinetto del Generale, il quale sfavillante gli occhi di gioja, accolse un mazzo di fiori che gli veniva dai medesimi offerto con opportuni versi, e baciò queste care creature del popolo, disse parole di conforto alla Commissione, e alle istitutrici, ed in fine ascoltò con la più dolce compiacenza da quelle tenere voci il canto dell' e di un altro per l'Italia.

Dopo un'ora di sosta, troppo breve all'entusiasmo dei Sabbiorietani, Garibaldi partiva per Gazzuolo in mezzo alle più vive acclamazioni del popolo, e lasciando in tutti la profonda convinzione che Garibaldi padroneggia le masse con tal fascino che una sua chiamata alla lotta suprema, vedrà non raddoppiato, ma centuplicato il numero dei valorosi che accorreranno a circondarlo.

É impossibile descrivere quel lieto spettacolo offriva il paese di Gazzuolo all'arrivo del Generale Garibaldi: le finestre tapezzate, numerose le bandiere, concorso innumerevole di gentili signore. clamorosi gridi di gioja, le bande musicali nel numero di sei, tutto concorreva a rendere brillante una giornata che certamente restò eterna nel cuore di tutti.

Disceso il Generale alle porle dell'abitazione dell'ingegnere Attilio Mari, v'incontrava per riceverlo i più cospicui cittadini. Non appena entrato nelle sale di ricevimento, la gentile signora Santina Bettinelli Mari gli presentava un magnifico mazzo di fiori, dono delle signore mantovane, unito al quale stavano un nastro ricamato in oro con molta maestria, ed un indirizzo in vero commendovole per le molte energie con cui venivano esposti i più caldi sentimenti di fratellanze e di patria.

La popolazione accorsa nella piazza sulla quale guarda la casa abitata dall'ingegniere Mori, desiderosa di vedere il generale, p di udirne la voce, lo chiedeva con grida di entusiasmo al balcone, ove in fatti si presentò, parlando come sempre parole di pace e concordia,

vera forza d'ogni nazione e mostrando il bisogno che ciascun cittadino imperi a maneggiare un arma.

Alle ore quattro pomeridiane dello stesso giorno quattro aprile il generale si mosse da Gazzuolo a Bozzolo passando permettale e S. Martino dell'Argine. Fu una vera marcia trionfale, accompagnato per tutta la strada dell'entusiastico saluto di tutti quei buoni campagnuoli.

Il giorno 9 aprile il generale era a Pavia, ed alle ore 8 e mezzo del mattino, ' usciva dalla casa Cairoti nella carrozza del prefetto accolto dalle salve di applausi della folla che lo attendeva fin dall'alba.

Dopo istituito il Tiro al bersaglio, seguendo l'impulso del suo cuore impareggiabile volte visitare l'Orfanotrofio. Quivi, trascorse il primo istante di commozione i poveri bambini asciugando le lagrime, cantarono l'Inno nazionale. Allora il Generale baeiolli, e poi con voce debole, e con profondo sentimento cominciò.

Vi ringrazio di avermi beato col canto dell'Inno nazionale... inno che ci ricorda tutte le nostre glorie ed i nostri martiri «Importa di nutrire il buon sentimento di patria. Uomini donne, fanciulli tutti sono chiamati a cooperare alla liberazione della patria. Spero che voi tutti vi coopererete a suo tempo. Ringrazio le vostre istitutrici. Addio ragazze, vi saluto, Addio.

Onorò poi di una visita anche l'istituto Montini, accolto con quelle dimostrazioni che non possono scompagnarlo; approvò il modo snello ed elegante col quale sono vestiti i ragazzi, e poi disse.

Oggi siete piccoli; fra poco tempo siete chiamati a soccorrere i più grandi:. addestrandovi nelle armi diventerete bravi soldati. Siate lontani dai vizii: i vizi indeboliscono. - Bisogna esser forti, avere il braccio fermo, saper puntare bene l'arma. - Studiate, lo studio è indispensabile. - L'uomo bene istruito si avvicina al suo Creatore. - Bravi, docili, forti, poiché un giorno farete onore al vostro paese. - in vi saluto, addio ragazzi, addio. Viva le speranze d'Italia.

Giunto Garibaldi a Brescia furon queste le parole ch'egli pronunziò dal balcone dell'Albergo d'Italia al cospetto della moltitudine che lo acclamava.

È certo l'avvenimento più felice di mia vita il trovarmi fra il popolo bresciano: popolo che merita da me cotanta simpatia ed affetto. Si, il popolo bresciano merita simpatia ed affetto da chiunque ami l'Italia, da chiunque non sa tollerare la vergogna che pesa ancora sui nostri fratelli. Si lo dico commosso da sentimento di vero affetto verso un popolo, il di cui esempio proverà a tutti popoli della penisola come si combatte lo straniero.

Nel 49 quando il resto della penisola era depresso, Brescia combatteva gli Austriaci con eroismo. in ed i miei compagni d'armi eravamo ben lontani; nondimeno chiedemmo di venire in soccorso di questa valorosa città.

Noi con orgoglio saremmo accorsi a combattere per essa, ma non fummo fortunati. Se fu momento in cui in provassi gelosia si fu allora, si in fui geloso di questi uomini che combattevano come noi. Nel 59 in coi miei compagni ci gettavamo sdrajati per le strade dalla stanchezza. Dissi loro che Brescia si trovava in pericolo ed essi volarono al suo soccorso.

Nel 60 un altro popolo era sorto a combattere per la propria libertà, mentre trovavasi quasi schiacciato sotto le ruine della propria casa; il popolo di Palermo mi fece ricordare di voi, di Brescia.

Se non esagero quando dico che mi lega affetto dell'anima all'eroica popolazione bresciana. Roma e Venezia è una vergogna ne che sieno schiave ancora. Questo bravo popolo però è garante che andremo a Roma e Venezia, e presto: perché una nazione come l'Italia che possiede il popolo bresciano, non potrà tollerare di aver figli schiavi. Dunque Roma e Venezia! Ai bresciani non ho bisogno di raccomandare il tiro al bersaglio. Vi si esercitano financo i bambini.

Si armi, armi, fucili, carabine, e non note diplomatiche per andare a Roma e Venezia.

Mancava all'Italia una cosa, e questo bello spettacolo prova che l'abbia acquistata, l'unione e la concordia fra ogni classe dj cittadini. Esercito, popolo, guardia nazionale, volontarii, e non volontarii tutti saranno quanto debbono per la patria. Concordia! Uniti e concordi certamente il soldato straniero non calpesterà il collo dei nostri fratelli. Mi resta a ringraziarvi per questa cara accoglienza, e brillante dimostrazione della causa nazionale.

E qui rinunziamo a descrivere ulteriormente il viaggio del generale; sarebbe ripetere la narrazione dello stesso frenetico entusiasmo in ogni più piccola città d'Italia, sarebbe a riprodurre sempre ed in ogni luogo le stesse manifestazioni di stima e di affetto, lo stesso accalcarsi, la medesima esaltazione in ogni classe di persone. Volgiamoci dunque altrove, continuiamo il filo delle nostre istorie.

Il giorno 24 del mese di aprile per le mura della città di Napoli leggevasi il seguente manifesto:

Il nostro Re Vittorio Emmanuele domenica sarà fra noi. La Maestà Sua allo sbarco sarà accolto in apposito padiglione alla Immacolatella ove si troveranno a riceverlo il Municipio e tutte le Autorità Civili e Militari. Di là il corteggio reale muoverà per la Reggia, attraversando le vie del Piliero, Castelnuovo, Fontana Medina, S. Anna dei Lombardi, e Toledo.

Le vie che percorrerà la Maestà Sua saranno ornate a festa, ed allietate nella sera di bande musicali, luminarie, e fuochi di bengala. Ed affinché la pubblica letizia arrivi anche al tugurio del povero, il Municipio ha destinato la somma di ducali tremila ad atti di pubblica beneficenza (a).

Cittadini,

La giunta Municipale nel darvi il fausto annunzio dell'arrivo fra noi al Re Vittorio Emmanuele non ha certamente bisogno di esortarvi a dimostrazioni di ossequio e di gioia, le quali tanto più vivi eromperanno dai vostri cuori, quanto più siano spontanee e sol dettate dal libero affetto.

Le luminarie adunque di che farete risplendere la vostra casa, le bandiere ed i drappi festosi di cui le adornerete, rendano immagine di quella concorde esultanza, che sarà solenne documento della fede incrollabile con la quale sempreppiù ci stringeremo al glorioso Trono di Casa Savoja, simbolo e palladio di libero reggimento, e di quella unità nazionale, sospiro secolare degl'Italiani ora recato a compimento pel favore della Provvidenza, e l'invitta costanza di popolo e Re. - il COLONNA.

Se cotesto manifesto abbia avuta larga esecuzione, e quanto larga abbia potuto aversela, ben può saperlo chiunque per poco conosca quanto sian pronti alla gioja all'entusiasmo, ed alte grandi espansioni di affetto i napoletani.

Ed in vero fin dal mezzogiorno del di 28 aprile tutte le vie erano ingombre di popolo, e le strade che dall'Immacolatella per S. Giuseppe S. Anna dei Lombardi, e Toledo conducevano al palazzo Reale avevano le finestre piene, riboccanti di signore. Tutto quel paese spaventevolmente numeroso che chiamasi Napoli, era rovesciato sopra alcune vie. Chiuse le botteghe, ornate tutte le case di bandiere e di damaschi, tutta la città aveva la impronta d'una festa, duna brillante festa nazionale. La guardia nazionale, la Truppa in tenuta di gala facevano ala al passaggio del Re. La gioja traspirava da tutti i volti.

Alle 4 pom. s'intesero i primi colpi di cannone che annunziavano il Re presso Napoli, cioè a Procida, e dopo mezz'ora il Re entrava nel Golfo. La squadra che lo accompagnava si componeva di sette legni, tre italiani, e quattro francesi: altri tre inglesi eranogià nel porto; e due altri anche inglesi mandavano il saluto da Baja dove erano ancorati.

Dalla il Re discese a terra in apposito padiglione, e fra la calca plaudente, ove Senatori, Deputati, Corpo municipale, Prefetto, e Stato maggiore della Guardia Nazionale, tutte le autorità civili e militari e le varie associazioni erano ad attenderlo. Salito in carrozza il Re aveva séco il Generale Lamarinéra, il Comm. Rattazzi, ed il Sindaco Colonna. Molte altre carrozze seguivano con Ministri e Generali. La sera vi furono fuochi artificiali, luminarie, e musiche e canti alla Piazza al Plebiscito, Vittorio Emmanuele insomma fu accolto come la personificazione della patria innanzi alla nazione, innanzi all'Europa.

Una delle più gravi quistioni che in quest'epoca preoccupava il ministero della Guerra non solo, ma tutto il Gabinetto era quella relativa al Corpo dei volontari italiani, quistione ardua e complessa che da molto tempo rimaneva irresoluta, che Garibaldi voleva sciolta in un senso, il ministero voleva sciogliere in senso diverso, ma che in ogni modo reclamava imperiosamente una soluzione.

L'esercito meridionale sorto, come tutti sanno per l'incantesimo della voce di Garibaldi, e compiuti fatti inauditi, venne poscia man mano sciogliendosi, solo rimanendo gli uffiziali che il governo con decreto dell'11 aprile 1861 volte ordinare e conservare. Giusto questo decreto con gli uffiziali del già esercito meridionale, confermati da' una commissione di scrutinio; dovevano costituirsi i quadri di tre divisioni del nuovo Corpo di volontarii italiani. Una quarta divisione fu aggiunta col decreto successivo del 20 ottobre 1861 ed una commissione di generali del Corpo stesso era incanta di proporre la formazione dei quadri di queste quattro divisioni. - Trattavasi oggi di attivare i quadri ed il Ministero diceva trovarsi a fronte di gravi difficoltà. In fatti non potevansi provvedere alla istituzione dei quadri degli uffiziali senza dar loro soldati a comandare. Per procurare soldati, o faceva d'uopo chiamare volontarii, o reclutare. Chiamar volontarii il Ministero reputava pericoloso, perché credeva potersi ciò ritenere come una dichiarazione di guerra dalle straniere potenze. Somministrare reclute di leva al corpo dei volontarii italiani, mantenendolo frattanto separato ed indipendente era, secondo il Ministero, creare due eserciti, e quindi un dualismo pericoloso. In presenza di questo dilemma o conveniva continuare a pagare gli uffiziali senza servirsene, o bisognava decretare l'incorporazione di questi uffiziali nell'esercito regolare.

Ne ciò poteva urtare le suscettilità degli uffiziali esistenti, perché i quadri dell'esercito regolare dovevano essere aumentati, e quindi eravi bisogno di novelli uffiziali.

Gli uffiziali dell'esercito meridionale ammontarono un giorno a circa 7300. Furono dispensati per nomina non regolare, o chiesero dimissione volontaria in Sicilia, dove esisteva una commissione di scrutinio circa 1000.

Furono dispensati, parte per nomina irregolare, parte per dimissione volontaria dal comando generale del corpo dei volontarii Italiani e dalla Direzione generale del Ministero della Guerra a Napoli circa 2000. Rimasere in numero di 5400; i quali, ad eccezione di circa 150 che si trattennero in Sicilia come comandanti, vennero distribuiti nei depositi delle antiche provincie, cioè a Torino, a Biella, Vercelli, Novara, Mandovi, Asti, Veneria o Casale. In seguilo all'operazione della Commissione di scrutinio, e per volontarie dimissioni, o per altri provvedimenti, uscire dai depositi altri 1200 individui in guisa che il numero effettivo riducevasi a 2000. dai quali 500 circa erano impiegati militari, i rimanenti 1700 erano uffiziali delle varie armi.

Il ministro della guerra proponeva che tutti coloro che si trovavano in attivo servizio, e che avevano grado inferiore a tenente colonnello fossero aggregati in soprannumero ai varii reggimenti e corpi dell'esercito regolare in fino a che con l'ampliazione dei quadri che questo stava per avere potessero ricevere una definitiva destinazione.

Gli uffiziali di grado superiore a quello di maggiore vennero in determinato numero, cioè in numero eguale a quello occorrente per quattro divisioni di fanteria, collocati a disposizione del Ministero, e coloro che rimasero in eccedenza al prefisso numero furono collocati o mantenuti in aspettativa, giusta le leggi vigenti.

Per gli uffiziali appartenenti al Corpo dello Stato maggiore, all'artiglieria, al genio, non che ai servizii amministrativi, sanitarii e giudiziali vennero stabilite norme speciali per constatare le loro idoneità nell'arme.

Siccome poi taluni fra gli uffiziali volontarii potevano sollevare difficoltà, vedendo essenzialmente cambiata la natura del Corpo, cui allora appartenevano, così veniva loro conservato il dritto di ritirarsi del servizio, con la gratificazione di sei mesi di paga che già era stata stabilità col decreto dell'11 novembre 1860 (1).

Terso quest'epoca dalle Autorità di pubblica sicurezza venne praticala una visita domiciliare in casa del vicario capitolare, e presso altri parroci, stante che da qualche tempo il governo aveva avuto sentore dell'esistenza di una latina diretta a quel Vicario monsignor Canzio e ai parroci. La misura presa produsse il più completo effetto, e la Circolare fu rinvenuta, la quale contenevasi nei seguenti articoli.

I. Di assolvere dalle censure, e pene ecclesiastiche tutti i singoli penitenti i quali hanno cooperato alla ribellione control! governo pontificio, o vi aderirono, e diedero il loro voto per l'unione d'Italia sotto un unico Re, condizione che abbiano dato anteriormente segni non dubbii di vero pentimento, abbiano nel miglior modo possibile, riparato al dalo scandalo, e promesso con giuramento fedele ubbidienza alla Santa Sede ed alle sue prescrizioni, previe le pene di una salutare penitenza regolata sul grado delle loro colpe. Sono eccettuati nullameno i capi di ribellione, i loro corifei, i pubblici uffiziali, e tutti quelli che violarono le immunità ecclesiastiche per violenza verso i cardinali, vescovi ed altri ecclesiastici costituiti in dignità.

II. Di assolvere sotto le prefate condizioni ed eccezioni questi ecclesiastici che avessero compartecipato a simili colpe, sempre che prima abbiano fatto in una casa religiosa gli spirituali eser cizii per un mese almeno.

III. Di assolvere egualmente sotto la condizione espressa al numero dalle censure e pene ecclesiastiche i militari che combatterono contro il governo pontificio, sempre che dichiarino di come appena il potranno, senza pericolo di vita, ed intanto dichiarino di astenersi tutti gli atti ostili contro i sudditi e le truppe pontificie, non che dagli alti contro i beni, i dritti, e le persone ecclesiastiche;

sia inoltre loro ingiunta una congrua salutare penitenza e l'obbligo di risarcire i danni recali. -Sono poi eccettuali i quali senza pericolo di vita potevano o dimettersi o abbandonare le bandiere, ed eccettuati come sopra coloro che violarono l'immunità ecclesiastica dei cardinali, vescovi ed altri dignitarii ecclesiastici.

E dopo tutto questo, dopo questi sforzi estremi di reazione che certamente doveano influire non poco sul brigantaggio dellevincie meridionali, è deplorabile il sentire rispondere il Ministro Rattazzi nei seguenti termini alla interpellanza del Deputato Caracciolo.

«Ammetto che le condizioni di qualche provincia, e specialmente della Basilicata, e della Capitanata sieno dolorose; credo però che vi sia dell'esagerazione, e sono d'avviso che saranno sufficienti i mezzi legali senza bisogno di ricorrere a provvedimenti estraordinarii.»

Appena ch'entrai al governo, in rivolsi tutte le mie cure a quella provincia, e chiesi al Generale Lamarmora se per avventura non avesse bisogno di un rinforzo di truppa. Il generale rispose negativamente, soggiungendo che credeva sufficienti a reprimere la reazione i soldati, dei quali poteva ora disporre. Vede dunque l'on: Caracciolo come fossi nel vero quando asserii esservi dell'esagerazione, perché è certo che quando il generale Lamarmora crede poter far senza di nuovi soldati, è segno che il brigantaggio non assunse quelle proporzioni che si crede possa aver assunte.

Quanto alle speranze d'una restaurazione sul partito reazionario ed alle pratiche fatte dal governo per l'allontanamento di re Francesco da Roma, dirò che il governo non ha tralasciato di fare immediatamente le pratiche più sollecite presso la corte di Francia per dare il bando da Roma al Re Francesco II, non nascondendo all'Imperatore tutte le mene, e le congiure che da quel re e i suoi adepti, si ordiscano, e facendo comprendere come Roma sia il fonte di tutto il brigantaggio che desola talune Provincie italiane.

La corte di Francia dev'esserne convinta ed in credo che l'Imperatore Napoleone sarebbe contento che Francesco II si allontanasse da colà; ma ciò non può avvenire sollecitamente, ed in nutro fiducia che il tempo sarà cessato quel fomite di reazione.

Certamente non prendere alcuno impegno ma posso però assicurare la Camera che il governo del Re non tralascia ogni cura per raggiungere cotesto scopo.

E rispondendo al Deputato Petruccelli lo stesso Rattazzi dice». Il governo non può servirsi che dei mezzi legali che ha in suo potere. Non potrebbe far uso di mezzi eccezionali se non che dietro una legge del Parlamento.

Quanto alla convenienza di questi in credo per ora non siavene bisogno, perché le condizioni della Basilicata, lo ripeto, non sono gravi come lo crede l'on. Petruccelli.

Quanto s'ingannasse il Ministro Rattazzi, e con quanto falso indrizzo volessero far l'Italia egli ed i. suoi colleghi, lo dirà abbastanza chiaro la continuazione di questa storia.

Narreremo un avvenimento, di cui quantunque molto si fosse parlato e scritto in quest'epoca, pure noi non lo reputeremmo degno d'interesse storico, se non fosse per l'addentellato a gravi fatti politici che molti credono, non sappiamo se a torto ed a ragione, scorgere in esso.

Nel di 1. maggio tutta Genova fu commossa da uno dei più audaci dei più prodiziosi attentati che abbiano mai figuralo negli annali dei furti e delle grassazioni. Eccone i particolari.

Nelle 2 pom. mentre. nell'ufficio della casa. bancaria Parodi quattro commessi erano intentissimi al solito lavoro, ed i principali occupavansi alla cassa aperta per la consueta opera dei pagamenti, quattro individui in abito civile ed elegante v'entravano: esso è situato al piano superiore, lungo la scala non vi è altra abitazione che quella dei proprietarii stessi, la persona di servizio che faccia guardia è il portiere nel cortile, ed il continuo andirivieni di gente che vi è ogni giorno distoglie ogni attenzione da chi entra ed esce. Appena costoro furono dentro senza che nessuno della banca se ne avvedesse, occuparono una porta di comunicazione interna con l'appartamento abitato dai principali, e subito cavati fuori stili e pistole a due canne sorpresero e paralizzarono tutti con l'intimazione di morte a chi si muovesse, e con la dimanda di quanto stava nella cassa. Ai quattro si aggiunsero altri due che si piantarono di guardia alla porta esterna.

In un attimo con corde preparate costoro legarono braccia e gambe ai commessi, ed ai tre signori Parodi, e gl'imbavagliarono con fazzoletti; anzi col signor Bartolomeo Parodi seniore vennero usati modi più aspri, e dopo aver respinta un'offerta di data comune ch'egli faceva contrastando quant'eragli possibile, udendolo legnarsi del bavaglio più ancora glielo strinsero. Cosi legati gli spinsero poi e li chiusero in attigua stanza, mentre gli altri saccheggiavano la cassa, dando di piglio specialmente ai biglietti di Banca. La somma rubata ascese a circa 800, 000 lire, in oro solo 60, 000; benché ve ne fosse quantità di gran lunga maggiore, il resto in biglietti. Ma qui non finiscono le estraordinarie circostanze di questo furto inaudito. Era impossibile compierlo senza che qualcuno capitasse per affari in un banco come quello Parodi, ed a quell'ora della giornata. Ed in fatti più di dieci persone capitarono successivamente, mentre il Banco era occupalo dai ladri, negozianti, commessi, fattori, ed uno di questi ultimi con somma cospicua da pagare che non fu toccata, né avvertita. I due ladri di guardia alla porta esterna man mano che qualcheduno entrava lo ponevano in mezzo, lo invitavano a passare nell'altra stanza, e se esitava ve lo spingevano con lo stile alla, gola, e là come gli altri lo legavano ed imbavagliavano. Non meno di 20 minuti pare durasse il soggiorno dei ladri nel banco; ed alla fine circa 20 persone si trovarono legale e chiuse nella suddetta banca, sorvegliati anche da due malandrini con le armi impugnate. I grassatori non nascondevano con alcuno artifizio la faccia: al linguaggio, benché poco parlassero, per lo più tronco e sommesso, furono giudicati non esser punto genovesi. Alcuno di essi disse che quel danaro pigliavano per la patria, confortò i commessi, li volte baciare, ed esserne baciato in segno di amicizia, si scusò di doverli legare, e protestò non esser eglino assassini, né voler far male ad alcuno. -Si tiene per sicuro che oltre i sei operanti nel banco, altri due fossero nella scala, e forse altro in istrada-La ritirata dei ladri si esegui precedendo quelli con la preda, e partendo ultimi quelli che custodivano i prigionieri nella stanza. Non ultima causa di meraviglia in tutto ciò si è il riflettere che un solo grido involontario uno strepito casuale poteva rompere cosi temerario piano in luogo tanto centrale, tanto frequentato, tanto osservato:

e che forse nuovo e il caso di un furto cosi commesso di pieno giorno catturando impunemente venti persone, di una esecuzione arrischiata prima, non turbato da minimo caso imprevisto. Pare accertato che nei giorni precedènti, e per due volte, taluno dei grassatori sempre vestito con eleganza visitasse sotto qualche pretesto di affari il banco per istudiare la località. Alcuni di costoro avevano a tracolla una borsa di viaggio. Misure furon prese su vasta scala per rintracciare i colpevoli, dispacci ed agenti furono spediti dovunque, convogli furon fermati sulla ferrovia e passeggieri visitati.

Ed in vero il giorno otto dello stesso mese di maggio la Questura faceva conoscere al comando del Porto che il brik-schooner comandata dal capitano Tarabotti di Lerici, ed equipaggiato di diciotto marinai, doveva uscire dal porto ed imbarcare sulle eque di Nervi i supposti ladri del furto Parodi. Il bastimento aveva preso la spedizione per destinazione al mar Nero. In fatti accertato che il vaporino rimorchiava fuori del porto l', il Comando del porlo colla più lodevole sollecitudine, e circospezione faceva immediatamente armare la cannoniera che salpava alle ore dieci della stessa sera tenendo dietro al bastimento fuggitivo. Raggintolo tra Nervi e la Foce, distante un miglio e mezzo da terra, dopo che aveva accolto al suo bordo sei individui, la cannoniera spiccò due canotti che abbordarano a destra ed a sinistra il bastimento. Salili al suo bordo i reali equipaggi operarono l'arresto d'individui nominati Ceneri Pietro, Rossi Enrico, Gatti Giovanni, Sabbalini Agostino, Minorelli Giuseppe, ed Enrico Ermenegildo, tutti bolognesi.

Si arrestarono anche il capitano ed i marinai, e si diede mano ad una perquisizione che fruttò 300 mila franchi in biglietti, molti giojelli, due bombe all'Orsini ed un pugnale. Molte altre armi avevano gettato in mare nel momento che furono sorpresi.

Nella istruzione del processo i detenuti dissero che essi se ne stavano tranquilli in Bologna, quando da persona sconosciuta venne loro proposto di trovarsi a Genova in un luogo stabilito«Recativisi essi trovarono la suddetta persona, che li richiese so fossero disposti a fare un gran colpo per una grande causa; e;dietro l'affermativa loro risposta concertarono il furto.

Compiuto il fatto la persona che li guidava divise a metà il frutto della rapina: una parte la tenne per se, l'altra la consegnò a loro che è appunto quella che si è trovata a bordo dello schoonerInterrogati se conoscevano la persona che aveva fatto loro le proposte, risposero negativamente, e soggiunsero essere assai dolenti di non conoscerla, poiché ritengono di essere stati traditi da questa. In seguito poi dissero che si riserbavano svelare per quale impresa riserbassero la somma che era nelle loro mani, e ciò qualora risultasse necessario per la loro difesa. Richiesti per qual motivo avrebbero scelto il banco Parodi, risposero per esser questi un conosciuto clericale e reazionario.

Quello però che rende il fatto politicamente importante si è che il passaporto del colonnello Cattabene era posseduto da Ceneri, uno degli autori del famoso furto; il documento cadde nelle mani del fisco, che dové verificare come e perché il Ceneri ne fosse possessore, e che su questo indizio arrestò Cattabene.

Alcuni degl'imputati dissero pure nella continuazione del processo di essersi recati a Genova per una spedizione di volontarii, e che trovandosi qui vennero indotti a partecipare il furto organizzato ad un tale che chiamasi colonnello, e che prese la sua parte nel bottino, ma che non sapevano indicare, il quale durante la perpetrazione del furto stava in fondo della scala del palazzo Parodi ad invigilare. - Dissero però non esser costui il colonnello Cattabene, ed il Cattabene in fatti risultò innocente.

Questo fatto fu seguito dai casi di Sarnico e Palazzolo che narreremo. Vi ebbe esso alcuna relazione? I malevoli il dissero, noi noi crediamo.

Garibaldi continuando il suo viaggio per la istituzione dei tiri nazionali rimase per qualche tempo a causa de' bagni a Trascorre, Quivi i capi del partito convennero e fu concertata una spedizione nel Tirolo italiano. Il Governo n'ebbe sentore ed il giorno 14 arrestava in Palazzolo gli ex-uffiziali dell'esercito meridionale Nullo ed Ambiveri fortemente iniziati nella impresa; la notte dello stesso giorno si arrestarono in Sarnico 55 individui che dovevano formar parte della colonna del volontarii, ed altri 44 furono arrestati ad Alzano maggiore. Il giorno 15 in Bergamo vi fu dimostrazione popolare che in breve venne sciolta pacificamente, e senza disordini.

Nullo e gli altri compagni tradotti immediatamente nelle carceri di Brescia diedero occasione ad una dimostrazione popolare, fecesi tentativo d'invadere le prigioni per liberare gli arrestali, la guardia dovette porsi a difesa: nello scontro vi furono tre feriti, ed uno morto. L'autorità procedette, tutti gli arrestali furono posti nella Cittadella d'Alessandria. Furono prese energiche misure per guardare i confini, ed impedire qualsiasi tentativo.

Il Ministro dell'Interno in una Circolare emanata in quel rincontro disse: «Il Governo è venuto a cognizione che in varie parti facciansi apparecchi militari, e si promuovano arruolamenti per una spedizione. Vorrebbesi far credere che il Governo se non consenziente fosse connivente a tale spedizione eccitata e diretta da un illustre generale caro al paese. - Il Governo reputa insussistente la compartecipazione del generale ad imprese che comprometterebbero gravemente quanto l'Italia col senno e col valore ha conseguito. Il Governo lungi dal tollerarli, condanna questi deplorabili tentativi, ed è risoluto di non retrocedere innanzi ad alcun mezzo per impedirli e reprimerli, mantenendo salda l'autorità delle leggi. Invita i Prefetti ad impedire coi consigli ed albi sogno colla forza ogni fatto che mettesse in pericolo l'ordine pubblico ed il rispetto alle leggi.

né a ciò si limitò il Governo, poiché fu spedilo un ajutante di campo del Generale Durando a Garibaldi, ed anche il generale Sonfront, richiedendolo del suo concorso onde calmare le impazienze dei giovani volontarii appartenenti alla mancata spedizione. Garibaldi lo accolse affettuosamente, e lo incaricò di assicurare al Generale Durando che nessuna spedizione avventata sarebbesi organizzata o mandata ad effetto sotto i suoi auspicii. Il deputato Brofferio fu pure inviato dal Ministero al Generale Garibaldi, e ne riportò eguali assicurazioni ferme ed esplicite. Garibaldi rinnovò le sue raccomandazioni in favore degli arrestati.

Fra gli arrestati fu Cattabene a Trescorre e Nullo a Palazzolo.

Intanto gli eccidii di Brescia andarono cosi. - Il prefetto di Brescia ebbe avviso telegrafico da Bergamo che sarebbe arrivato a Brescia Nullo, ed altri arrestati. Il prefetto di Bergamo per telegrafo cercò dissuadere il ministero, e fu annuito.

Ma ciò non ostante arrivarono a Brescia gli arrestati, e la cosa non senza fremito fu trapelala dal popolo. La sera una cinquantina di persone si portò alle carceri della pretura urbana gridando

E dettosi che Nullo non era fra gli arrestati, ma in libertà, ed al teatro, quivi recaronsi per cercarlo, e non rinvenuto, ed ingrossato con la gente uscita dal teatro ritornarono alla prigione. Intanto il comandante del capo di guardia mandò un picchetto alle carceri pretoriali. Ciò non fece più dubitare che Nullo fosse arrestato, onde fece setta maggiormente. L'uffiziale vedendoli avvicinarsi fece chiudere le porte della prigione; ma la calca batté il portone a segno d'aprirlo. L'uffiziale allora intimò replicatamente alla gente di ritirarsi, altrimenti avrebbe dovuto far fuoco, e dei colpi in fatti furono. sparati in aria, allora sospettò resistenza, ed allora vi furono morti e feriti.

Nel giorno seguente arrivavano a Milano per questo fatto 123 arrestati, e vennero subilo spediti in Alessandria. E comechè altre persone giungevano da Brescia per provocare altri disordini. Alla ferrovia furono arrestati.

Fatto consapevole di ciò il generale Garibaldi che si trovava a Trescorre recossi tosto a Bergamo ove dietro suo invito il prefetto Duca di Cesarò spediva a Torino il seguente dispaccio allo scopo di rettificare l'errore delle autorità, che tentavano fare del Tenente colonnello Nullo un avventuriere, la cui azione fosse tutta indipendente dal generale Garibaldi.

Bergamo 15 maggio alle ore Il circa - Si presenta in questo momento il Generale Garibaldi e dice la riunione in queste parti ed il trasporto armi esser per sua disposizione - Se è male, lui solo è responsabile. - Si chiede una determinazione del Governo.

A questo dispaccio rispondevasi tardi da Torino, ed il Prefetto di Bergamo inviava la sua risposta al Generale Garibaldi, mediante una lettera cosi concepita.

Bergamo 16 maggio 1862 - Appena giunta jeri sera la risposta del Ministero relativamente all'arresto del signor colonnello Nullo e compagni, il sottoscritto si faceva premura di far verificare se la S. V. ci trovasse ancora prosso il sindaco signor Camozzij onde fargliene la comunicazione.

Essendo la S. V. già ripartita chi scrive ci dà la premura di parteciparle questa mattina, nella sua integrità l'avete risposta.

Rincresce al governo di non poter ammettere il modo di vedere del Generale Garibaldi circa le conseguenze dei fatti avvenuti ec.

Tal fatto, per quanto generoso, non poteva non produrre tristissime conseguenze per la inettezza e l'incuria di coloro, cui è affidato in Brescia il governo della città. Fatte numerose le riunioni il colonnello della Guardia Nazionale signor Girolamo Fenaroli recavasi dal Prefetto chiedendogli istruzioni. Il Prefetto rispondeva che a tutto aveva già provveduto. I gruppi chiedevano se fosse possibile la liberazione dei carcerali. Nessun grido di morte, né di minaccia però - Tutti inermi.

Il sig. Prefetto peraltro pensava bene di non lasciarsi trovare, e benché in casa sua rispondeva che non vi era. - La pioggia cadeva diretta; la gente intanto col farsi l'ora tardi s'era già diminuita; separatasi la folla una parte di essa portavasi al teatro Guillaume ove entrata nell'andito chiedeva dal Prefetto, i soldati schierati l'arme in riposo, non furono menomamente insultali, anzi nemmeno avvicinati. Non avendo colà trovato il Natoli quella turba di gente inerme e senza gridi di minaccia procedeva verso le carceri dove (e questo fece il Prefetto per l'ordine pubblico) un sedici soldati erano stati spedili di rinforzo mezz'ora prima, i quali tosto arrivati chiusero la porta dietro di sè, ne diedero altro segno di vita prima che il discorso fatto fosse avvenuto. Le grida: raddoppiarono in quel momento, e 5 o 6 di quelli che stavano innanzi si diedero a bussare in quel momento alle porle, e non ottenendo risposta si diedero a spingere ed urtare. Nessuna intimizione di sperdersi fu udita, o si fu andò perduta nel tumulto. Il fatto sta che mentre una imposta del portone cadeva scassinata, una scarica di fucilate gittava la morte fra i primi che si avvicinar vano alla porta. Sulle prime nessuno si sgomentò, tutti credendo che fosse uno sparo a polvere. Ma al grido doloroso dei feriti la olla indietreggiò, e diedesi a fuggire, lasciando j miseri colpiti ¿dalle palle sul terreno.

«Appena corse voce del luttuoso avvenimento i cittadini Gravafe- Guzzetti con altri benemeriti corsero subito dal Prefetto Barone Natoli il quale freddamente chiedeva loro che volessero e chi fossero...

Siamo cittadini di Brescia: impediti nuovi disordini dissero. Ed egli: qual carattere vestite voi che mi interrogate? E scorgendo fra quelli il deputato Guzzetti soggiunse: parlo con oro, perché il signore è deputato, avrei potuto anche negare di dar loro ascolto. Dopo alcune altre parole fini col dire: Signori in so morire al mio posto. - Allora ella sarebbe già morto, risposegli uno, poiché il suo posto era fra i cittadini nel pericolo, non nelle stanze sue. Ma non ostante tutto ciò il Prefetto pubblicava manifesto il quale non fece che maggiormente irritare il popolo di Brescia.

Pochi giorni dopo Garibaldi pubblicava protesta nella quale dolevasi della truppa, e poscia una controprotesta che diceva così.

Soldato italiano non ebbe, né poteva avere intenzione di lanciare contumelie contro l'esercito italiano, gloria e speranza della nazione: esso deve unicamente combattere i nemici della patria e del Re.

La Francia e l'Inghilterra inviarono congratulazioni al nostro governo per la fermezza usata nell'impedire la spedizione del Tirolo.

In seguito di tutto ciò il Generale Durando in data del 19 maggio dirigeva il seguente ordine del giorno all'armata.

Soldati - La arme di questi giorni è cessato. Vi ringrazio di quanto avete fatto mentre esso durava: la vostra condotta fu quale in me l'aspettava, quale le volevano il Re ed il paese. La prontezza nei militari movimenti, la vostra abnegazione nel sopportare le fatiche imposte dalle celeri marce, e specialmente il nostro risoluto contegno hanno provenuto gravi sciagure all'Italia nostra. La Provvidenza volte risparmiarvi la dura pruova alla quale il nostro dovere ci chiamava, facendo rivivere la santa parola di concordia fra tutti gl'italiani, alla ispirazione dei quali unico è lo scopo; eia legge fu rispettata. - Dimenticate questo breve passato e tornate volenterosi alle interrotte istruzioni, per prepararvi al giorno, in cui avremo a fronte i nemici d'Italia, e se oggi otteneste l'approvazione dal Re ed alla Patria, potrete allora meritarne la riconoscenza (2).

Avvenne in quest'epoca una coincidenza di fatti da far supporre che le cose d'Italia questa volta senza alcun dubbio si rivolgessero in meglio, che l'unità della patria volesse compiersi in un istante solo.

I clericali stessi ne furono allarmati, i liberali ne gongolavano di gioia, e tenevano in mano il trionfo del loro principio, i giornali, che spesso servono i governi mentre credono disservirli, e far loro opposizione, i giornali cantavano vittoria. Questi fatti in coincidenza furono il viaggio in Napoli del Re Vittorio, lo stesso viaggio contemporaneo anche in Napoli del Principe Napoleone, il richiamo di Govon da Roma e le sostituzioni in Lavallette. E tutto contribuiva a dare una importanza politica di sommo interesse a tale coincidenza, poiché col Re d'Italia intervenivano in Napoli i ministri, e contemporaneamente alla dimora dei due grandi personaggi giungevano gli ambasciatori di Francia d'Inghilterra, del Belgio, della Olanda e della Svezia. Tutti credettero adunque che fosse prossima la soluzione della quistione romana tutti erano estinti fra pochi giorni il brigantaggio, ed il Re d'Itàlja assiso in campidoglio. Ma ben tosto il tempo chiari che Govon era stato sostituito da Lavallette unicamente per misure disciplinari, che il Principe Napoleone erasi recato in Napoli forse per uno scopo politico, che pur nessun risultamento produsse, che questo scopo poteva esser molto ai danni, piuttosto che a vantaggio d'Italia, il Re giunse in Napoli per una velleità ministeriale che in fin de' conti poi nessun vantaggio produsse. Si finiscono le speranze dei popoli, o essi passano da illusioni ad illusioni.

I fatti di Sarnico e di Palazzolo preparavano tempestose discussioni nel Parlamento. E sempre lo stesso dualismo: il governo che si crede impotente a compiere l'unità, l'elemento rivoluzionario che vuol fare quel che torna impossibile al governo: questo che reprime perché non vuole che altri assuma la iniziativa, ma non non avendo ordine né forza lascia che i tentativi si rinnovino ad ogni istante. Intanto spesso lascia fare per profittarne, ed ai reclami poi della diplomazia reprime, e crea imbarazzi interni. e fa aumentare sempreppiù quel dualismo che fu e cosi sempre cotanto funesto all'Italia (3).

Accadde in quest'epoca un altro fatto ben degno di attenzione: Il fatto avviene a Pisa il giorno 7 giugno.

La mattina del 6 gli studenti della università pisana determinarono di riunirsi tutti ed in ischiere andare alle 5 pom. al campo santo urbano a commemorare il funesto giorno in cui Italia perde il suo rigeneratore Cavour.

Alcuni degli scolari e pochi popolani si opposero a quel partito ed alle stolte ragioni aggiunsero le minacce. Alle o gli scolari si riunivano: gli opposi tori, quantunque poco numerosi minacciavano voler strappare dalle mani della scolaresca la sua bandiera. Ne seguivano attacchi, insulti ed una sfida. Ma le minacce non fecero che infervorarle nel suo proposito, e tante accorse. che il numero divenne tale da spaventare i contrarii, i quali furono costretti a ritirarsi meditando la più crudele vendetta che col fatto compirono.

Cosi raccolta e numerosissima andò la schiera universitaria a deporre una corona a più del busto di quel grande, cui tanto deve l'Italia. Null'altro seguì la sera. - Il giorno dopo si rinnovarono le minacce: vi furono schiaffi e prepotenze. tutti parlavano di ciò, solo il governo locale mostrava nulla sapere. Alla neve una parte della scolaresca era innanzi al caffè dell'quando giunsero i tre o quattro che ad ogni costo volevano la vendetta. Cominciò l'alterco che dalla strada si portò al caffè; alle prime parole quei facinorosi (un dei quali già visse in galera per omicidio) levarono stili e pistole e pugnalato nel cuore cadde subito morto Guidoni, di Lucera, cui null'altro era delitto che l'esser scolaro. Questi non pronunziò che le parole assassino e pochi istanti dopo morì. Tutta le scolaresca era inerme, pure alcuni si opposero gagliardamente, ma, perché pochi, ne riportarono ferite, ed inutilmente resistettero. Ne nacque una confusione ed un fuggire in modo che quelli scellerati poterono fuggire di mezzo alla folla in grazia delle loro armi e della troppo generale maraviglia o paura. Dove stavano intentate le guardie di sicurezza? dove i carabinieri?

Ma Pavia povera destinata ad esser sede di disordini in quest'anno.

Un recente decreto del ministro della Pubblica Istruzione obbligava tutti gli studenti a non potersi laureare in una Università che non fosse quella, ov'essi avevano fatti i loro studi. Questo decreto ministeriale dirigeva evidentemente alla legge Gasali, e veniva a garantire la ingordigia di certi professori universitari, alle cui istante fu attribuito il decreto in quistione.

Gli studenti di quella università mal sofferendo di veder manomessa la legge con tali restrizioni si unirono unanimi a protestare (4) ed irruppero in una violenta dimostrazione.

Qui vi si tonno innanzi dei fatti di molta maggiore importanza e che influirono sommamente sui destini d'Italia. In data del 29 29 giugno si scriveva da Palermo in questi sensi: Vi scrivo poche parole come posso sotto la profonda impressione provala qui da tutti per l'improvvisa venuta fra noi di Garibaldi, Arrivò tanto inaspettato che ebbe agio di attraversare due volte Toledo senza che alcuno loAppena ne usci l'annunzio, in come lo scoppio d'una mina- l'esplosione dell'acqua bollente e compressa. - Fu un grido solo:-La città s'illuminò e crebbe quell'apparenza di festa che già aveva per la presenza dei principi. Tutto Palermo si rovesciò sulle vie, a Toledo, verso la Trinceria.

Il generale andò, appena sceso a terra direttamente a Palazzo reale e vi si trattenne alcun poco, poi corse defilato all'albergo «Là venne subito a ritrovarlo Il marchese Pallavicino attraversando le strade in mezzo ad una folla di popolo stivata e plaudente. - Non vi dico degli evviva, dei battimani, dei canti. Corsa sotto la Trinceria la folla richiese Garibaldi che si mostrò alle finestre più volte, e salutato il popolo con calde parole disse - in Ma la folla non si diradava, né si diradò finché il Generale non disse:

La mattina di fatti dal Municipio il popolo lo rivide e l'udì ancora. , gridò poi Garibaldi, ci vogliono, sagrificii, bisogna farli coraggiosamente, purché l'Italia termini le sue opere di redenzione.

Parlò pure di Roma, e riprotestò contro i troppo lunghi indugi! indi soggiunse: Fidatevi di chi non v'ingannerà mai «Vittorio Emmanuele ed io, e qui nuovi battimani e viva all'Italia, al Re, a Garibaldi.

Non finirei più se volessi dare tutti i particolari di questa giornata. Fu un delirio continuo da iersera fino all'ora in cui vi scrivo. - Garibaldi uscì pure in carrozza col Principe Umberto, e dovrà oggi istesso fare la inaugurazione del Tiro nazionale. -

crede qui che il Generale rimarrà, come disse, qualche giorno tra noi. Percorrerà le Provincie e rialzerà lo spirito pubblico, indi verrà a Napoli. Dopo chiusa la sessione parlamentare si crede il raggiungeranno alcuni suoi compagni d'armi.

Una donna si presentò al Generale offrendogli i suoi tre figli prendeteli, disse, se vi occorrono pel bene del paese. Il generale la ringraziò. Tutti gridano a Roma ed a Venezia, Generale, ed egli si andremo a Roma ed a Venezia.

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DOCUMENTI

(1) Crediamo utile inserire, come alto di non lieve importanza il Decreto relativo alla fusione, e la Circolare che le riguarda.

Abbiamo decretato, e decretiamo.

Art. 1. Il Corpo dei Volontarii italiani 6 sciolto.

Art. 2. Gli Uffiziali confermali dal Corpo Volontari Italiani, sono trasferiti coll'attuale loro grado nell'Esercito regolare, prendendo ivi anzianità dalla data del presente Decreto, salve pel personale sanitario l'eccezioni stabilite con altro decreto in data di ieri gli Uffiziali. la cui posizione non è ancora definita presso la Commissione di scrutinio, l'anzianità decorrerà dalla data di conferma.

Art. 3. Gli uomini di bassa forza hanno la scelta di ottenere al congedo con sei mesi di paga, o di essere ammessi coll'attua le loro grado nei vani Corpi dell'Esercito regolare, assoggettandosi alla ferma' legale d'ordinanza.

Art. 4. Per gli Uffiziali che appartengono al Corpo di stato maggiore; all'Artiglieria al Genio, alla Cavalleria, ai Servizii amministrativi, Sanitarii e giudiziali, saranno dal nostro Ministro Segretario di Stato per la guerra stabilite le norme per constatare le loro idoneità nell'arme o amministrazione rispettiva.

Art. 5. Gli Uffiziali attualmente in effettivo servizio di grado inferiore a quello di Luogotenente Colonnello, saranno provvisoriamente aggregali in soprannumero ai varii Corpi Reggimenti dell'Esercito regolare infino a che con l'ampliazione dei quadri che questo sta per avere possano ricevere una definitiva assegnazione.

Art. 6. Gli Uffiziali di grado superiore a quello di maggiore saranno nel numero che è necessario pei quadri di quattro Divisioni di fanteria collocati a disposizione dal Ministero della Guerra.

Coloro che rimangono in eccedenza al numero determinato saranno collocali in aspettativa a tenore delle leggi vigenti.

Art. 7. Gli Uffiziali del Corpo Volontarii, i quali preferiscono esser dispensati dal servizio potranno entro il termine di tre mesi chiedere la loro dimissione, colla gratificazione di un semestre di paga.

Il nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari della guerra è incaricato ec. -Tonno 27 marzo 1862.

In seguito di questo Decreto fu diramata la presento Circolare a tutte le Autorità militari.

Con Decreto firmato in data d'oggi S. M. ha determinato che gli Uffiziali appartenenti al Corpo dei Volontari! Italiani, siano trasferiti nell'esercito regolare, prendendo ivi anzianità nel rispettivo loro grado, dalla data stessa del decreto di fusione, fatta riserva pel personale sanitario, per cui sono stabilite alcune eccezioni.

Trasmetto qui unita a tutti i corpi la copia del real Decreto, non che della relazione che lo procede, dove trovarsi svolti i mo ivi che consigliarono questa importante misura, e dove viene ad un tempo dimostrato che gli uffiziali dell'esercito regolare non avranno a soffrire danno sulla loro carriera, e nei loro incontra bili dritti, giacché la fusione coincide con un adeguato ampliamento dei quadri che verrà fra breve effettualo, giusta la facoltà contenuta nell'art. 6 del regio decreto 34 gennaio 1861,. relativo al riordinamento della fanteria.

Il governo è persuaso che l'esercito riceverà con cordiale e fraterna accoglienza questi valorosi volontari, e che scomparendo ogni armi ogni traccia di divisione, una sola sarà la mente degli uffiziali itali ed unanime sarà in tutto lo spirito di abnegazione, l'amore al servizio, l'osservanza della disciplina, e l'inconcussa devozione al re ed alla patria. Gli uffiziali volontarii di grado inferiore a tenente colonnello che si trovavano in servizio effettivo, saranno per ora provvisoriamente aggregati in soprannumero presso i vani corpi e reggimenti in attesa che l'ampliamento dell'esercito dia mezzo di fissare loro una definitiva destinazione.

Sarà intanto cura dei comandanti dei corpi porgere loro ogni opportunità d'istruzione.

Con riserva di diramare più tardi, a seconda dei casi, ulteriori disposizioni, affinché il real decreto riceva in ogni sua parte mia perfetta esecuzione, si stabilisce fin da ora quanto qui appresso.

1. I depositi di uffiziali volontarii attualmente esistenti a Eosino, Biella Asti, Vercelli, Novara, Mondovì, Venaria, Casale saranno sciolti appena che gli uffiziali che vi sono addotti abbiano ricevuta la loro destinazione.

2. I comandanti gli era detti depositi dovranno immediatamente per pervenire al ministero tre ruoli nominativi compitati colla maggiore esattezza ed indicanti:

Il primo gli uffiziali e personali varii già confermati, i quali si trovano in effettivo servizio.

Il secondo, quelli già confermati, che si trovano in aspettativa.

Il terzo, quelli non ancora confermati. Si dovrà eziandio unire un elenco nominativo degli uomini di bassa forza, con indicazione se chiedono il congedo con la gratificazione di sei mesi di paga o se ositano per la incorporazione dell'esercito regolare.

In esso elenco dovrà essere notata la loro statura, età ed attitudine fisica onde poterli assegnare nell'arme per cui meglio tornano adattati.

3. Col mezzo del bollettino del Ministero sarà partecipalo ai comandanti i mentovati depositi, e dai varii corpi dell'esercito lo stato nominativo di aggregazione ad un determinato corpo o reggimento di tutti gli Uffiziali volontari di grado inferiore a tenente colonnello che sono in effettivo servizio.

Verrà con speciale comunicazione provvisto a quanto riguarda la bassa forza.

4. Gli Uffiziali ora detti,. appena ricevuta tale partecipazione dovranno immediatamente raggiungere il corpo cui furono aggregali, ed ove, con una legittima giustificazione non si presentino nel termine utile stabilito dalle vigenti leggi, incorreranno nelle penalità in essa nota indicate.

5. Al loro giungere ai corpi i predetti uffiziali, dovranno prestare giuramento, e verranno quindi con ogni cura ed ogni sollecitudine utilizzati pel servizio.

6. Il comando superiore del già Corpo volontari italiani è provvisoriamente mantenuto fino a nuovo ordine pel disbrigo degli affari correnti.

7. I depositi degli uffiziali volontarii sciogliendosi, trasmetteranno le carte ed archivii loro al ministero della guerra.

8. Gli uffiziali del già corpo volontarii italiani che ora sono in aspettativa passano anch'essi a far parte dell'esercito regolare, continuando nell'attuale loro posizione di aspettativa.

Essi dovranno prestare immediatamente giuramento colle formalità prescritte dal regolamento di disciplina nelle mani dei comandanti militari di circondario o distretto ove hanno fissato il lor domicilio.

9. Colla emanazione del presente decreto di fusione restano in modo assoluto aboliti gli uniformi di volontarii.

10. Gli uffiziali in effettivo servizio vestiranno la divisa del corpo, cui sono aggregati.

11. Quelli a disposizione oppure in aspettativa hanno facoltà di vestire in borghese, ma indossando l'uniforme dovranno vestire la divisa dell'esercito regolare, ciascuno secondo l'arma cui appartiene.

Gli Uffiziali superiori, capitani e subalterni di fanteria avranno bottoni lisci, cioè senza indicazione del numero del reggimento.

Gli uffiziali di cavalleria dovranno far pervenire per la via gerarchica del comando militare di divisione territoriale la loro domanda per vestire l'uniforme, ed il ministero si riserva di accordar loro la divisa

o di cavalleggieri o di lancieri, o di cavalleria di linea secondo la proposta che trasmettendo la domanda, dovrà fare il comando di divisione, tenuto conto della migliore loro attitudine. -

Il Luogotenente generale Sirtori in data del 21 aprile 1862, dirigeva il seguente ordine del giorno al diciotto corpo dei Volontarii italiani.

Commilitoni, la fusione del corpo dei volontarii nell'esercito regolare mette fine ai gravi e delicati ufficii da due anni in poi affidatimi dal Generale Garibaldi e dal. governo del Re, ufficii che non ambii per onore, ma accettai per dovere per devozione alla patria, e per affetto a voi che amo come fratelli. -Mentre la mia missione verso di voi sta per finire, la coscienza non mi rimorde di favori indebitamente largiti, o d'ingiustizia scientemente commesso. Se mancai al debito mio, fu umana fragilità, non difetto di zelo per la giustizia, e per gl'interessi vostri e della patria, che mai non divisi.

Il dolore di veder disciolta la famiglia, cui mi legano memoria e affetti indelebili, è compensalo dalla gioja di veder fuse in una due famiglie egualmente ricche di gloriose tradizioni, egualmente degne di tutto l'amore della comune madre Italia.

Commilitoni, molti di voi appresero in più campagne di guerra l'arte di combattere e vincere. Nondimeno ricordatevi che la modestia è il più bello ornamento del valore. Ricordatevi che il sagrificio dell'orgoglio è più grande virtù che il sagrificio della vita. Con la modestia, con la disciplina, con lo zelo nell'istruirvi nella teorica e pratica conoscenza dei regolamenti militari, mesterete l'affetto ed il rispetto dei vostri compagni d'armi. -I vincitori di Palestro, di S. Martino di Castelfidardo e di Gaeta saranno lieti di contare nella loro fila i vincitori di Calatafimi, di Palermo, di Milazzo e del Volturno. -E l'Italia che aspira, come a suprema condizione di salute, a concordia e unità politica e militare, benedirà riconoscente ai suoi figli, che sanno sagrificarc interessi, passioni, e pregiudizii di corpo o di partito sull'altare della patria.

Ed il Generale Medici comandante il deposito del corpo dei volontarii a Biella, indirizzava ai suoi il seguente altro ordino del giorno.

Il fascio romano proclamato da Garibaldi si fa. Voi siete chiamati a formare con l'armata regolare un solo esercito italiano.

Ampliati i quadri senza nulla togliere alle giuste aspettative di chi vi ha preceduti, aoi entrate nelle fila per combattere da prodi a fianco di prodi, le future battaglie della patria.

Educati del pari a forti fatti avete voi pure passate glorie da confondere coi vincitori di S. Martino e di Gaeta.

Ma voi dovete mirare più in alto-Una gloria comune vi aspetta al cui confronto scompariranno le passate.

La suprema decisiva battaglia che farà l'Italia una, indipendente, e libera non è ancora combattuta, e dev'esser vinta da noi, Italiani soli.

Questo sia il vostro d'ogni sveglia. Dovrcbb'essere quello d'ogni Italiano Ogni giorno. Epperò non vi lasciale mai distrarre da vani confronti o sterili e sul merito d'imprese passate: gareggiate bensì nello apprendere e presto tutto quanto può farvi più forti, e più sicuri di vincere in avvenire.

Entrate a fronte alla con questo spirito nell'armata.

Tutti i combattenti per la stessa causa sono fratelli; tutti sanno che la reciproca stima, la concordia sono indispensabili some la disciplina, a rendere compatti ed invincibili gli eserciti.

A me duole separarmi da voi; un caro legame stretto su tanti campi di battaglia, oggi si spezza. Ma noi lo riannoderemo su campi più vasti; là dove accanto al Re guerriero duce nostro supremo, rivedremo quel Garibaldi che tante volte ci ha guidati alla vittoria.

Stringo a tutti cordialmente la mano. -Il mio affetto vi seguirà sempre, e più mi sarete cari quanto più farete per la patria e per meritarvi dai vostri nuovi capi quella stima che in sempre ebbi ed ho di voi.

(2) A spargere maggior luce sui fatti di Bergamo e di Brescia pubblichiamo qui la lettera che l'aiutante maggiore del 9° di linea scriveva a Garibaldi. Essa è anteriore alla dichiarazione fai data Garibaldi.

Generale - Lessi non senza sorpresa anzi con meraviglia la protesta che prorompeva dal vostro animo pur troppo esulcerato dai dolorosi fatti che contristarono la città di Brescia la, notte del 15 corrente.

Conoscendo la rettitudine del vostro cuore esitai per un momento a creder vostra la protesta inserita nel n. 149 del giornale il Diritto, ma la vostra sottoscrizione, la riproduzione che se ne fece da qualche giornale, i funesti effetti di discordia fra truppa e popolo, che dessa ha incominciato a produrre, mi fecero credere all'evidenza ed alla verità.

Siccome da alcuni giornali inconsideratamente, e senza alcun fondamento si disse che chi vi aveva comandato il fuoco era stato un aiutante maggiore del 19° fanteria; siccome nella vostra protesta chiamaste quei soldati che furono destinati alla custodia del carcere, siccome chi comandò la voi lo proponeste per, siccome l'aiutante maggiore incaricato solamente di condurre il picchetto alla custodia del carcere era io, perciò mi farò un dovere d'informarvi minutamente dall'accaduto assicurandovi da soldato di onore che desso sarà la genuina e precisa esposizione del fatto.

Alle 8 e mezzo circa della fatale notte un Delegalo di P. S. mi avvisò che il Prefetto sig. Natali aveva bisogno di parlarmi, in meno di 5 minuti era al suo ufficio, e mi dava la seguente consegna che in mi pregio trascrivervi.

La si richiede a voler immediatamente spedire 12 uomini con un sergente a custodia delle prigioni della pretura urbana - Brescia 15 maggio 1862.

Io mi portai subito alla gran guardia £d ottenni dall'uffizi le comandante quel posto 8 soldati un caporale ed un sergente che condussi a custodia delle prigioni. Colà raccomandai al capoposto sergente Perina di usare moderazione, parole di conciliazione (ciò che fece) e di non ricorrere all'ultima ragione se non quando il carcere fosse invaso, o le porte forzate. Quel che poi si operò da una moltitudine di giovani sconsigliati, quel che poi avvenne, Brescia, Italia, tutti sanno. A voi intanto vel dica la bajonetta di un soldato ritrovata nella notte dalla Guardia Nazionale, e restituita al comando del 19° fanteria dietro ricevuta dall'aiutante maggiore in 1.° capitano signor Ferretti, vel dica il Kepi della sentinella rovinato da non riconoscerai. Quel che poi fa meraviglia si è che voi, o generale. prestando fede solaviente a lusinghiere asserzioni dal 15 al 19 non siete venuto a cognizione della verità.

Ora che avete sentito la veridica esposione del fatto, voi che siete il secondo soldato d'Italia (ed il primo è il Re) voi che conoscete che cosa sia la custodia di un carcere, vorrete ancora chiamare quei soldati che d'altro non son rei che di aver adempiuto al loro dovere? Continuerete ancora a' proporre per quell'aiutante maggiore, che, eseguili i comandi si ritirava in quartiere, e partecipando il tutto al suo comandante di corpo, si metteva in attesa di ulteriori ordini? Oserete ancora paragonare il doloroso incidente di Brescia con le terribili carneficine di Varsavia?

Generale, voi in un momento di dolore prorompeste in accenti d'ira; diceste parole che desolarono ed amareggiarono il cuore dell'armata e di ogni buono italiano. Il vostro animo però è troppo nobile, voi siete troppo grande, perché non vogliate riconoscere un torto, ed un torto gravissimo che bugiarde e mensogniere dichiarazioni solamente, ed un'istante di dolore vi fecero commettere.

Cosi facendo, o generale, voi riparerete un atto d'ingiustizia, inviterete popolo e truppa alla concordia della quale si ha tanto bisogno in questi momenti, farete un'azione gradita al Sovrano, e quando la voce del Re ed il rombo del Cannone annunzieranno alle venete lacune l'ora della finale liberazione, vedrete o generale, che noi sapremo tutti farcii nostro dovere, gradite ec.

A questa lettera Garibaldi risponde cosi.

Non aveva bisogno della lettera vostra per esser persuaso che nessuno degli appartenenti alla valorosa uffizialità dell'esercito avrebbe ordinato, né ha ordinato il fuoco contro inerme moltitudine di cittadini.

Quanto alle verità dei fatti accaduti in Brescia la notte del 15 corrente, spero che risulterà evidente per tutti dalla istruttoria processuale degli auditori militari. Vi saluto distintamente

Nella tornata del Parlamento del giorno 3 giugno si lesse la seguente lettera del generale Garibaldi.

Onorevole signor Presidente -Nell'atto in cui la Camera dei Deputati ripiglia i suoi lavori mi credo in obbligo di dare ai miei colleghi qualche spiegazione intorno all'ingerenza da me presa nelle cose pubbliche in questi ultimi giorni.

Lasciai Caprera chiamato dal ministro Ricasoli che si mostrava disposto ad occuparsi seriamente dell'armamento nazionale. - Il nuovo ministero costituitosi poco dopo il mio arrivo nel continente, mi mantenne il mandato che in aveva avuto per promuovere gli esercizii del tiro a segno, mi diede inoltre larga speranza che esso si sarebbe in ogni altro modo energicamente adoperato per ottenere la definitiva costituzione di questa nostra Italia una ed indivisibile, quale essa venne solennemente proclamata coi plebisciti delle provincie meridionali. Le fatte promesse stavano per avere un principio di esecuzione nella creazione di due battaglioni di carabinieri genovesi il cui comando doveva essere affidato ad un uffiziale che gode tutta la mia fiducia.

Appena sparsa la notizia di questa organizzazione, i generosi giovani accorsero da ogni provincia d'Italia ad arruolarsi in Genova.

Non avendo più luogo la presa deliberazione la maggior parte degli accorsi fornita di mezzi sufficienti ritornava ai propri domicilii. -Qualche centinaio rimaneva, cui il ritorno in casa troppo ripugnava, o perché non sapevano più adattarsi all'assoluta inoperosità, cui erano stati per lo addietro condannati, o perché con l'abbandono dei mestieri, e delle professioni avevano perdute la risorsa con le quali campavano prima.

Consigliai quei cari e generosi giovani a raccogliersi in alcuni luoghi della pacifica Lombardia, 'nei quali si doveva provvedere al loro mantenimento con ¡spontanee oblazioni di buoni cittadini, mentre essi si sarebbero esercitati viemeglio alle armi in aspettazione di futuri avvenimenti.

Il governo equivocò fatalmente intorno allo scopo di quei depositi.

I cari giovani colti senza armi, senza che avessero data spinta alla menoma apparenza di disordine, sono ora in gran parte incarcerati e sotto processo, unitamente al colonnello Nullo, uso dei più benemeriti comandanti del cessato esercito meridionale.

I giornali che pretendono rappresentare il pensiero del governo diedero a pretesto delle ordinate coercizioni un tentativo d'invasione che stasse per farsi nel Tirolo.

Niente di più. falso.

Il concetto di quella spedizione non è che un sonno.

Quei buoni giovani non avevano altre missioni che di esercitarsi alle armi, e le armi raccolte non erano che quelli accordate per siffatti esercizii. I miei colleghi possono ben capire quanto abbiano dovuto esser dolorosi i tristi fatti che seguivano gl'ingiusti sospetti. Spetta al Parlamento di correggere questi fatali errori.

Ma per fertilizzare l'unione del re e della nazione a comune salvezza, per unificare e rendere invincibili la forza dell'esercito e del popolo bisogna compiere l'armamento da tanto tempo desiderato.

La Svizzera e la Russia possono dare armati in tempo di guerra oltre il quindici per cento della popolazione.

Date ai liberi cittadini d'Italia strettamente uniti intorno al glorioso monarca una organizzazione simile a' quella della Svizzera e della Prussia e voi sarete sicuri di sottrarre la Corona ed il popolo a qualunque illegittima influenza, ed allora si che forse senza versare nuovo sangue, e per la sola potenza morale di un Re appoggiato a tutta la forza viva della nazione, noi otterremo il compimento dei nostri più caldi voti, Italia una ed indivisibile sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emmanuele.

Diversamente l'Italia non può quietare. Essa tende verso la sua unificazione, come ogni ponderabile verso il centro della terra, Un'agitazione febbrile e sempre crescente spinge la nostra gioventù a compiere la grande opera. L'inazione non è rimedio al male. Essa è sorgente d'ogni possibile disordine. In un paese i spirato dal sentimento della nazionalità gli uomini dell'ordine sono quelli che si affaticano per la redenzione della patria. La resistenza passiva non. può non mutarsi in reazione. Chi vuole opporsi di fronte al generoso movimento assume tutta la responsabilità delle disgrazie che si possono minacciare.

La prego, signor Presidente, di comunicare alla Camera questi pensieri che in sottopongo colle serie di lei meditazioni.

. - Dopo questa lettera è necessaria una spiegazione. Avrei desiderato che qui fosse lo stesso Generale Garibaldi, il qua le avrebbe espresso in persona quelle idee che espresse in lettera. Cosi si potrebbe sapere più facilmente come le cose passassero. Il generale Garibaldi accenna che fu invitalo da Ricasoli a venire sul continente. In questo non entro; non so che relazioni passassero tra l'on: Garibaldi ed il barone Ricasoli.

Quando fui in al Ministero il generale Garibaldi venne per prendere la direzione del Tiro, ed allora il Ministero promise il compimento dell'armamento; ma nel procedere alla pratica della cosa, s'incontrarono quelle difficoltà che erano previdibili. Il generale Garibaldi dice che s'incominciò coi due battaglioni dei carabinieri genovesi. Ecco la cosa. Era l'aprile quando ci pervenivano cattive notizie del brigantaggio. Vennero allora da me alcuni membri del Parlamento, venne l'on: Castagnola e mi parlò come i Carabinieri genovesi desiderassero combattere il brigantaggio; e disse che sotto questo pensiero non si nascondeva altro fine. Presi informazioni. e queste mi giovarono. La legge sulla Guardia mobile autorizza la formazione di battaglioni distaccati, cosi autorizzai i due battaglioni de' carabinieri genovesi, e nel decreto reale si determinò non esser essi che corpi distaccati di Guardia nazionale. Il governo che tolse egli stesso il dualismo, come poteva richiamarlo in vita?

Garibaldi disse che i giovani arrestati erano a Bergamo per esercitarsi nelle armi. In questo non entro. È aperto il procedimento: quindi mio dovere tacere onde non compromettere la sorte di coloro che sono sotto processo. Non permette però che si dica che gli organi officiosi sono quelli che dissero si trattasse di spedizione nel Tirolo. Il e non sono giornali ufficiosi, ed, essi annunziarono appunto si trattasse della spedizione nel Tirolo.

Quanto all'armamento noi il vogliamo, ma vogliamo il faccia il governo, e nessun altro. Solo con questo mezzo si può raggiungere quella mela, cui tanto aspira il gen: Garibaldi.

La Camera ha potuto comprendere la circospezione di Garibaldi nel mandare la lettera che ora voi avete sentito. Il ministro, continuò nella stessa circospezione, ma lanciò qualche parola che si può credere non sia la pura verità.

Arresti furono fatti, ma arresti disse Garibaldi di uomini inermi che volevano esercitarsi per le prossime battaglie. Non entrerò nella organizzazione dei carabinieri genovesi: ma so che avevano un intento più largo di quello di combattere il brigantaggio. in non posso lasciare sotto silenzio un fatto che il ministero deve conoscere. Parlerò con riserva.

L'altare del Tirolo è una favola, una fantasmagoría. È un pretesto per venire in Parlamento con qualche legge contro la libertà, l'erano progetti che ¡governo sa. (Qui Rattazzi risponde e Crispi ripiglia) È verissimo: ho testimonianza; ho nomi da pronunziare. Lo scopo del progetto era rivolto per andare al di là dei mari. Il ministro dell'interno saprà i messaggi passati tra lui e Garibaldi. Il ministro dell'interno promise un milione e fucili.

Il 21 aprile uno dei messaggieri si recò dal ministro Rattazzi,

e questi disse che il milione non l'aveva, perché non poteva prenderlo tutto dalle spese segrete; promise però sempre il milioncino e le armi. L'onorevole Rattazzi fa il viaggio per Napoli. Ci rimane il segretario, si fece a lui la dimanda del danaro e delle armi. Ei rispose per dispaccio: «pronte armi, indicate luogo ove portarle» Così cospira l'onorevole Rattazzi.

Non ho mai cospirato.

Sì, ha cospirato con me. Ha cospirato; ma non ha l'audacia della cospirazione. Ne lira l'utile suo. Quando si vede implicalo si ritira, e si ajuta con colpi di polizia, che in questi tempi potrebbero avere gravi conseguenze.

Signori, è al polare l'onorevole Rattazzi, il perché non lo so: non c'è differenza fra lui e Ricasoli: venne al potere, perché un portafoglio è buono. Quando venne al potere tutti lo videro con diffidenza. La destra si è scissa, la sinistra si ricorda del 1859, e non poteva accettarlo. Il generale Garibaldi venne a Torino; parlò con le persone più influenti, e col battesimo di Garibaldi il ministero si formò.

Garibaldi mi disse: secondiamo il Gabinetto; ci fece promesse, tanto più che in esso è un amico che sta vigile per noi. in gli risposi: Generale, non credete a queste promesse. E poi in conosco l'onorevole de Prelis fin dall'epoca che egli recossi in Sicilia; egli ha delle esitazioni....

Signori la prudenza m'impone di non andare troppo oltre entro questi intrighi: sonovi certi nomi superiori ohe richiedono tutta la nostra venerazione. Il sig. Rattazzi non dimenticherà forse le visite fattasi al generale Garibaldi a Trescorre il giorno 10 maggio, né le promesse fatte al generale in questa occasione.

Allorquando il com: Rattazzi abbandonò iGaribaldi dovette ritirarsi. Il ministro Rattazzi credette dar pruova di fermezza, arrestando a Sarnico ed in altre parti quei bravi giovani, facendo far rumore dai giornali; a questo si aggiunsero casi luttuosi di Brescia, ed il rullo dei tamburi nelle vie di Napoli.

Signori, in qui mi arresto, dacché in questa grave quistione potrebbero esser compromessi i nostri destini avvenire. in chiedo che la Camera nomini una Commissione d'inchiesta per inquirere su questi fatti; chiedo pure che la Camera si riunisca in comitato segreto, perché possono pronunziarsi dei nomi, e vedere se la colpa sia del Governo.

Risponderò con calma di chi ha sicura la coscienza. Il signor Crispi dice che l'istituzione dei battaglioni di Carabinieri aveva un altro scopo che quello di recarsi a combattere il brigantaggio. in dichiaro che prima di proporre al re la nomina del figlio di Garibaldi a luogotenente di quei due battaglioni, volti ed ebbi la parola di onore che egli non intendeva destinate ad altro uso quei due battaglioni.

L'onorevole Crispi dice che si volte fare questo colpo di scena per presentare la legge sulle associazioni politiche. La legge sulle associazioni la presenterò oggi stesso, ma a ciò non sono indotto da soli fatti di Bergamo. Respingo la insinuazione che in fossi di accordo col partito di azione: e poi il e l' non dissero che il solo partito d'azione aveva dritto di fare l'Italia?

Dice che si voleva fare una spedizione al di là dei mari: ma se i volontarii erano a Genova, ed invece d'imbarcarsi recaronsi a Bergamo ed a Brescia? Volevano andare per la via dei monti al di là dei mari? Il signor Crispi s'inganna nel muovermi simili accuse: in ho sempre solennemente dichiaralo che non avrei permesso mai veruna spedizione che potesse compromettere in alcun modo gl'interessi nazionali..

Molti giovani intendevano di emigrare pacificamente; in dissi che avrei chiesto al Parlamento dei fondi per sovvenirli. A questo scopo serviva il milione cui accennava il sig. Crispi. Quanto al dispaccio cui accenna l'onorevole Crispi, in ne nego l'esistenza. Non so poi come parli ancora delle promesse fatte a Garibaldi in Trescorre dopo quello che è avvenuto. in respingo la proposta che la Camera si raccolga in comitato segreto. Non a porle chiuse ma alla luce del giorno in voglio essere giudicalo.

Quanto alla inchiesta parlamentare faccio notare esser pendente un giudizio sugli arrestati. Terminalo questo giudizio il ministero è pronto a sottoporsi alla condanna del Parlamento, se questo lo crederà colpevole.

II sig. Crispi parve volesse rimproverare il contegno da me tenuto. in mi vanterò sempre dell'amicizia di Garibaldi. Ma tlal momento che sono entrato nel gabinetto non posso mancare al debito mio, e non posso permettere che un solo uomo all'infuori del Governo si faccia arbitro dello indirizzo del paese: non posso esitare a pronunziarmi in favore della sola iniziativa del governo.

Il ministro dell'interno ha confessato a mio credere il suo torlo. È ingenuo il dire che il milione di cui si è parlalo dovesse servire a sussidio degli emigrali che andavano all'estero. I giornali pubblicarono una lettera del segretario intimo di uno degli onorevoli ministri.

Questa lettera ha prodotto sensazione. Si discusse da me e dagli amici miei privativamente sul tentativo del Tirolo: lo si riguardò come pericoloso: pericolosissimo un tentativo contro Roma. Al 60 si parlò pure così della spedizione di Sicilia. Abbiamo anche noi la. nostra disciplina. - Garibaldi non dice mai quello che vuol fare: perciò i volontarii si diressero ai monti, anziché ai mari. Cosi, all'epoca della spedizione di Sicilia alcune vittime dovettero immolarsi a Talamone. Io avrei a dire molte altre cose; ma per un passeggiero trionfo parlamentare non voglio compromettere le sorti del paese. E perciò che in chiedo una inchiesta.

V'è la quistione giudiziaria per gli arrestatila ministeriale pel parlamento;l'una non intralcerà l'altra. L'inchiesta è la sola via che può farci uscir dall'equivoco.

Questi punti culminanti delle tornale circa i fatti di Samico bastano a fare intendere in quali condizioni si trovasse la Camera in quale il Ministero. - Intanto a far meglio rilevare lo stato preciso nel Ministero Rattazzi rapportiamo qui un discorso da lui stesso fatto nella Camera che riassume tutte le accuse nelle varie sedute lanciate contro di lui.

«Al punto in cui si trova la discussione spero che la Camera vorrà permettermi di parlare. Se la discussione si fosse circoscritta ai fatti di Sarnico, come da principio pareva in non parlarci. Ciò dopo le allegazioni del deputato Crispi fermamente respinte dai Governo, la franca dichiarazione del generale Bixio, il quale per le sue relazioni appartiene al partito stesso del deputato Crispi, deve aver pienamente convinto la Camera della verità delle smentite del Governo. Ma la quistione si estese a tutta l'amministrazione governativa, e dai banchi della destra e della sinistra si accusarono gli atti del governo. Credo dunque che il Governo debba pienamente sdebitarsi di tali accuse, e la Camera mi permetterà di farlo colla maggior chiarezza e brevità che mi sarà possibile.

«Si disse che noi non abbiamo eseguilo il nostro programma, che abbiamo fatto promesse che trassero in errore giovani inesperti; che nulla abbiamo fatto per le grandi quistioni politiche, nulla per l'allontanamento di Francesco II, nulla per l'ordinamento dell'amministrazione; che invece di mostrare principii liberali, abbiamo mostrato tendenze retrive, che abbiamo trascurato l'armamento nazionale. in passerò a rassegna tutte queste accuse, ma prima risponderò al deputalo Massari, il quale ieri mise in dubbio la legittimità d'origine dal Ministero. in non credeva certo di udire da lui tale accusa. - Egli disse che la nostra origine è sospetta. Ma forse siamo noi che abbiamo fatto cadere il ministero Ricasoli e non piuttosto coloro medesimi che lo appoggiavano?

Egli deve conoscere meglio di noi quale fu la vera causa della dimissione di quel Ministero. Noi non ne sappiamo la causa, e non ne siamo punto responsabili. La nostra origine è la più pura, cioè la fiducia del paese e della Corona; ed il sig. Massari ben sa che noi non potremmo trovarci a questi banchi, se non fossimo forti della fiducia della Corona. È vero che per governare ci. è pur necessario l'appoggio del Parlamento; ed è perciò appunto che quando entrammo al potere chiedemmo al Parlamento il suo appoggio e ne ottenemmo un voto di fiducia. Ma lasciamo ormai questa quistione, la quale è fuori di luogo. - in risponderò alle varie accuse mosse al Ministero, e chiarirò quali siano i suoi intendimenti allo scopo di far cessare gli equivoci.

«Il sig. Massari ci accusava di non aver fatto progredire la quistione di Roma. Ma signori, in non ho mai dello con tuono profetico che andremmo a Roma in brevissimo tempo. Lo dissi tre mesi or sono che la quistione di Roma non poteva sciogliersi che. coi mezzi morali e diplomatici. Ora è chiaro che con questi mezzi non era possibile che lo scioglimento non avesse luogo in tre o sei mesi, Signori in non m'illudo, né cerco illudere alcuno. Ora può farsi appunto al governo se in tre mesi la quistione non si è sciolta?

Dissi che per lo scioglimento della quistione romana abbisognavano mezzi morali e diplomatici. II mezzo morale più efficace è quello di far comprendere all'Europa esser ferma volontà de. gl'Italiani voler l'Italia una con Roma a capitale. Ora in credo che il viaggio del Re in Napoli ed anche in Toscana, e l'accoglienza da lui ricevuta, accoglienza la quale' prova come il popolo persònifichi in Vittorio Emmanuele la idea dell'unità italiana sia stato un mezzo potentissimo ad affrettare lo scioglimento della quistione. Se noi avessimo potuto ascoltare le voci mandate in Roma d;il partito retrivo in occasione del viaggio di S. II. ci saremmo accorti delle gravi conseguenze che quel partito ne risentiva. Le grida dl' gioja popolare erano altrettanti colpi pel partito temporale. -Quanto ai mezzi diplomatici noi non abbiamo omesso di far conoscere all'Europa i pericoli che derivano dal ritardalo compimento dei nostri destini. Ma trattandosi di diplomazia certi fatti non possonsi compiere in brevissimo tempo o in tre o quattro mesi. Anche alla Francia preriie di mettere in assetto l'Italia; ma se per altre considerazioni essa è talvolta costretta ad esitare, non possiamo imputarglielo a colpa.

Scenderò a parlare di Francesco II. Noi non abbiamo tralascialo d'insistere per l'allontanamento di lui da Roma, e forse un giorno non lontano in cui egli dovrà lasciate quella capitale. Ma più che della presenza materiale dell'ex-re Francesco a Roma, a noi imporla di rimuovere i mezzi perniciosi di cui egli ed i suoi seguaci si avvalgono a nostro danno.

La guarnigione francese non si mostrò mai quanto ora sollecita a vigilare sulle mosse di briganti. I briganti sono ora consegnati alle autorità francesi. La spedizione della flotta francese in Napoli ha una grandissima importanza. Essa è una protesta della Francia contro Francesco II, è un alto che disapprova i mezzi di cui gli si serve a nostro danno.

Ci si chiede che si fece per la provincia napoletana.

Il ministero prese la decisione del viaggio di Napoli: si astenne, prima di quel viaggio, di prendere alcuna determinazione, poiché voleva vedere da vicino le condizioni di quelle provincie. Noi ritornammo da Napoli. Si lasci ora al Governo il tempo di fare e di occuparsi dei dati che ha raccolti a Napoli. Il ministero non mancherà d'introdurre nella amministrazione quelle riforme, quei mutamenti che sono del caso.

Non ammetterò nelle amministrazioni i raccomandati da alcune consorterie, ma bensì tali uomini che son devoti alla causa nazionale. Il ministero ha principii inconcussi, i principii della democrazia. Noi siamo figli della democrazia, noi sortimmo dalle sue fila: noi combatteremo per essa. Ma signori, la libertà non si deve confondere con la licenza. Quando mi sono esposto a presentare la legge sulle associazioni, il feci per giovare alla libertà! Il feci per salvare le nostre istituzioni. Non è qui il momento di entrare in particolari su questo proposito ma ci entrerò quando si discute questo progetto di legge; pure dirò qualche parola. L'on: Bertani si fermò sul punto delle associazioni e non solo volte spolpare l'associazione di Genova, ma le disse necessaria per mantenere il fuoco patrio. Disse che questa associazione ha pubbliche sedute, e che rende pubblici i suoi atti. Ma a costa alle sedute pubbliche vi possono essere delle segrete. Esso se ne avvede. Che più?

Si disse per tipo che l'associazione è moralmente sovrana. Come? La sovranità morale resterà in quella associazione? e con qual titolo? per qual Mandato? Se la sovranità morale è in quella assemblea che forza avrà allora il Parlamento?-Fermo nel pensiero di mantenere le, nostre istituzioni volti oppormi a queste associazioni. E mi oppongo per salvare le patrie istituzioni.

Diceva l'on: Bertani che noi siamo mossi da paura. Signori, non faccio vanto, ma venendo il momento vedrà che in ne ho paura. Ho però una paura; che si compromette l'Italia. Ho paura che si accendano discordie là ove solo la concordia deve regnare. Ho paura.... È la paura che hanno i cittadini onesti.

Noi abbiamo dichiarato di amare il paese. Abbiamo adempiuto alla promessa di aumentare le nostre forze.

Abbiamo fuso l'esercito meridionale col regolare. Ecco un maggior numero di un ' mini sotto le armi.

L'òn: Massari ci accusa di aver creato il dualismo coi corpi distaccati di Guardia Nazionale. Legga l'on: Massari la legge sulla Guardia Nazionale, e si persuaderà che noi non creammo dualismo di sorta, e che non facemmo cosa che non sia conforme alla legge. Il Governo dichiara armare, ma vuole la direzione dell'armamento.. Il Governo che deve rispondere dell'armamento, vuole anche averne l'iniziativa. Non si ammette che altri armi il paese. Se ciò fosse noi mancheremmo al nostro do vere. Ci mostreremmo così senza forze innanzi all'Europa. -Il governo vuole armare, ma vuole a se la direzione e la iniziativa. E meraviglia che altri dice che in feci promessa in contrario. Di nulla dunque posso essere cagionato.

Il dissi già. Abbiamo provvisto all'armamento, ma nei limiti della legalità,

ma non lasceremo la iniziativa, né lasceremo che altri comprometta la sicurezza dello stato. Il Governo non piegherà non prometterà che altri armi sotto qualunque pretesto. In tempi anormali la rivoluzione può armare.

Signori. In qualunque tempo il governo deve avere la iniziativa delle armi; però può qualche volta servirsi dei mezzi rivoluzionari e ciò già fu fatto. Ma ora le cose mutarono. Non c'è stupirsi che trattandosi di un piccolo stato che voleva l'Italia, si servisse di mezzi rivoluzionarti, ma ora l'Italia è di 22 milioni di abitanti, e può fare senza i mezzi rivoluzionarti.

La politica non sta sempre nel servisi degli stessi mezzi. Possiamo fare con dignità e grandezza. Ma non dobbiamo lasciare che si avventuri con velleità la sorte della nostra patria. Ho fede che con le nostre forze potremo vincere tutte le difficoltà. Esporremo noi la sorte d'Italia, lasciando che pochi inesperti si avventurino ad un impresa pericolosa? Dobbiamo occuparci dell'esercito, e ciò facciamo, lo son certo che nell'interno potremo così ottenere l'ordinamento che ci è necessario; e l'Europa vedrà che al contrario di questo fu sempre detto contro l'Italia essa sa esser forte e concorde. L'Europa quando conoscerà che non vogliamo turbare alcuno, che vogliamo essere una nazione indipendente e libera, terminerà col riconoscere e darà alla nostra causa il suggello della sua approvazione.

È questa la legge che regola il dritto di associazione, di cu1 parla Rattazzi nel succitato discorso, e che fu da lui presentata alla Camera stessa dopo i fatti di Bergamo e Brescia.

Art. 1.° I fatti agli alti di una qualsiasi associazione diretti a promuovere accolte di uomini ed acquisti di armi e munizioni senza l'assenso del governo, e a diffondere principi! contrarli allo statuto al fine di compromettere la sicurezza dello stato, saranno puniti col carcere o confine, salvo le maggiori pene contemplate pei casi speciali delle leggi vigenti.

Art. 2. L'associazione predetta potrà essere sciolta dal governo con decreto reale.

Art. 3. I fatti od atti che hanno dato luogo allo scioglimento saranno immediatamente denunciati all'autorità giudiziaria per l'opportuno procedimento a termini dell'art. 1.

Art. 4. i membri di un'associazione disciolta che si riuniscono durante il procedimento o dopo la sentenza di condanna, ' e continuino a fare atti dipendenti dall'associazione saranno egualmente puniti col carcere o col confine.

Pei capi, direttori, ed amministratori la pena non sarà minore di tre mesi.

Documenti per lo scioglimento della scuola polacca di Canee.

Rattazzi e Wisocki direttore della scuola.

Trovandomi in questo momento sotto la pressione di una necessità politica superiore, la quale esige imperiosamente lo scioglimento della scuola, se m'indirizzo a voi, generale, per pregarvi nella nostra qualità di direttore di sciogliere la scuola polacca di Cuneo, a (in di risparmiare al governo del Re gl'imbarazzi di una difficoltà diplomatica. In pari tempo mi affrettò ad esprimervi il mio profondo rincrescimento, ed a rendere giustizia all'ordine ed alla tranquillità che sono stati sempre mantenuti nello stabilimento affidato alla vostra cura. Aggradite ec.

Signor presidente del Consiglio - Ho l'onore di parteciparvi che conformandomi al desiderio che mi avrete espresso nella vostra tetterà del 19 giugno, la scuola polacca di Cuneo divenendo oggi pel governo italiano causa di difficoltà diplomatiche sarà sciolta giovedì 26 giugno.

Le armi che han servito agli esercizii degli allievi saranno consegnate alle autorità locali

Se in non posso da una parte nascondere il mio rincrescimento di essere obbligato a sopprimere uno stabilimento tanto utile al mio paese, dall'altra son lieto di annunziarvi che essendo giunta a Cuneo la trista nuova della vostra decisione, la nostra giovane emigrazione l'ha accolta con quella degna rassegnazione, che l'era stata ispirata dal suo patriotismo, e dalla riconoscenza per l'ospitalità e la benevolenza che hanno sino all'ultimo giorno così bene caratterizzato i sentimenti del governo del Re verso di noi, e pregarvi di aggradire ec.

Wisocki a Garibaldi.

Mio generale - La nostra disgraziata scuola è stata testé definitivamente sciolta. Poveri noi siamo obbligali di andare a cercare altrove un asilo qualunque. Certamente voi col vostro cuor generoso direte che è per lo meno ridicolo dalla parte dei nostri oppressori di coalizzarsi per perseguitare un pugno di giovani anche in un paese lontano, ma la paura non ragiona, e noi siamo forti per l'unione e la santità della nostra causa. Ciò ci addita il cammino che dobbiamo seguire, e non falliremo alla nostra missione.

Fortunatamente noi siamo secendati in quest'azione della gioventù stessa che ha compreso la sua vocazione, e recandomi a Cuneo l'ho trovata pronta a rischiar tutto piuttostochè separarsi o dar sua vinta la causa ai nostri nemici.

Sono dunque deciso, mio generale, di trasportare la nostra scuola in un altro paese.

Io spero che tosto o tardi, la vera diplomazia, quella che si fa a colpi di cannone sarà chiamata a sciogliere solo le quistioni pendenti, ed allora l'Italia e la Polonia si troveranno fraternamente 'una presso l'altra sugli stessi campi di battaglia. -

Documenti inglesi sulla quistione romana.

Al Conte Cowley - In questo riguarda il dispaccio di V. G. del 13 marzo vi dico che una guarnigione mista franco-italiana a Roma mi converrebbe meglio che si permettesse alle truppe italiane di occupare tutto lo stato romano colla riva sinistra del Tevere, e che i francesi occupassero la region del Vaticano, Civitavecchia, ed il patrimonio di Pietro se ha una destra del Tevere.

Se questa combinazione fosse adottata con accomodamento provvisorio il papa sarebbe protetto, la dignità del principe sovrano sarebbe riconosciuta, ed in inoltre il re d'Italia ed il Papa si troverebbero più tardi riconciliati per la forza delle circostanze. Il sig. Thouvenel non dovrebbe chiudere gli. occhi sui gravi inconvenienti della situazione attuale.

1. Il governo francese si rende impopolare agli italiani, e soprattutto alla popolazione romana.

2. Nessun ministro italiano, né Ricasoli, ne Rattazzi. né alcun altro può sorvegliare efficacemente i mazziniani, che quindi ottengono una influenza illegittima.

3. Potrebbe sorgere una guerra da un momento all'altro, e l'imperatore esser forzalo, o ad abbandonare la sua opera in Italia, o a difenderà l'indipendenza italiana a prezzo di una guerra grande e sanguinosa.

L'Inghilterra lungi dall'incagliare la Francia, desidera di cooperare seco lei per trovare la soluzione della quistione italiana.

In un dispaccio seguente al Conte Cowley dice che il sig. Thouvenel pensa che la combinazione suggerita da sua signoria non sarebbe accettata da alcun partito. Il Papa dichiara di non voler intendere alcuna proposizione che non gli renda il territorio da lui perduto, ed il governo italiano rifiuta di sanzionare ogni combinazione che non riconosce Roma come capitale d'Italia.

Il Conte Russel risponde.

Non ho mai avuto il pensiero che il Papa accettasse la combinazione. Noi sappiamo benissimo che le proposte stesse del 1815 per quanto fossero liberali provocarono le proteste del Cardinale Consalvi riguardo a Ferrara ed a Comacchio.

In conseguenza il Papa dovrà esigere la restituzione di Bologna ed Ancona, ma non si ha più bisogno di domandare questo consenso, che non fu necessario di attenerlo per Bologna, V. E. si ricorderà che alla partenza delle truppe austriache da Bologna la città cessò di riconoscere la sovranità del Papa. Avverrebbe lo stesso se i francesi lasciassero Roma. Quanto al consenso del governo italiano V. E. saprà che il governo della regina propone o suggerisce questo piano come misura temporanea.

Se fosse proposto come accomodamento definitivo senza dubbio un ministro italiano esiterebbe, o rifiuterebbe di aderirvi.

Ma come misura temporanea niuno crederà che l'evacuazione di Roma di Velletri di Frosinone, e dalla riva sinistra del Tevere per parte dei francesi non venga accettata con premura degli italiani.

Napoli vedrebbe con piacere un governo residente a Roma, e l'accusa d'impiemontizzare l'Italia cadrebbe da sè.

Il 28 marzo il conte Cowper informava il ministro di aver avuto una nuova conversazione col sig. Thouvenel, il quale aveva impiegato diversi argomenti per provare i dritti del Papa di conservare sempre la sovranità temporale, e per dimostrare che le pretese del governo italiano di aver Roma per capitale non erano assolutamente sostenibili dal punto di vista dalla intelligenza ordinaria del dritto internazionale. Quindi soggiungeva.

Io non entro nei particolari di questi argomenti, poiché è facile di convincersi che non avevano alcun peso presso il governo imperiale quando le legazioni, l'Umbria le Marche, la Toscana, Napoli e la Sicilia furono annose alla Sardegna. Non faccio che menzionarli, alla V. S. per provarle al di là del bisogno (lo dico con dispiacere) la debole speranza che si deve avere di modificare. colla discussione, o colle rimostranze la via che il governo dell'Imperatore ha deciso di seguire riguardo alla quistione papale.

La soluzione ne fu abbandonati, almeno da quanto può giudicarsi da tutte le apparenze, al papa, e non veggo altra politica sicura da seguirsi dall'Italia che di sforzarsi di consolidare l'amministrazione interna. Ella otterrà cosi della forza all'interno, comandare le confidenze all'estero, e sarà pronta a profittare di tutte le occasioni favorevoli per completare la propria unità, dimostrando la verità del proverbio ohe

2 aprile il conte Russel fa osservare quanto segue - «Il sig. Thouvenel non parla più della difficoltà di persuadere il governo italiano ad accettare le condizioni suggerita dal governo inglese. Non si tratta neppure di forzare il papa ad abbandonare il potere temporale, ed a restare in Italia come suddito di un altro sovrano. Tutta la quistione si è di sapere se il papa avendo perduto la Romagna, le Marche e l'Umbria, conserverebbe tutto il territorio occupato dalla Francia o se le truppe francesi non occuperanno per il papa il patrimonio di S. Pietro compreso il Vaticano.

Fatta estrazione d'ogni differenza tra un Monarca protestante ed un cattolico romano, è evidente che questo principio così sviluppato è in contraddizione coi principi! sostenuti dappertutto dalla Francia e dall'Inghilterra. Roma è in territorio estero. I Romani devono dir nulla, e le truppe estere tutto. Quanto alla forma del suo governo, tale sistema non saprebbe durar molto tempo. Esso è troppo direttamente contrario alle massime di dritto internazionale, ed ai voti del popolo italiano.

Per altro non desidero che V. S. intraprenda una polemica su questo argomento. Ma d'altra parte il governo francese non deve rimproverare

all'italiano la mancanza di tranquillità nel mezzodì, finché la bandiera francese incoraggerà il papa a mantenere un santuario, in cui, tutti i capi dei briganti trovano un rifugio, e si preparano con le loro bande ad invadere delle provincie pacifiche.

Non leggerete questi dispacci al sig. Thouvenel, ma gliene comunicherete la sostanza.

Il dispaccio di sir J. Hudson maggio fu un quadro molto onorevole dello stato delle cose ad Ancona, e alle altre città d'Italia. La fisionomia delle città delle Marche ed Umbria è quella di paesi richiamati a nuova vita. Da Ancona alla frontiera pontificia si aspetta con impazienza jl compimento delle ferrovie cominciate. Al Tevere la scena cangia; noi entriamo nel deserto.

Il contrasto e palpabile tra il fertile giardino delle Marche e dell'Umbria pieno di fattorie ben tenute, e la campagna desolata di Roma; tra l'animazione della città, e la via silenziosa che mena a Roma. È evidente che la ragione della loro speranza è l'impotenza o il rifiuto della Corte romana di avanzare sulle vie del progresso; esse quindi l'abbandonarono per avvanzare da se. Roma potrà riunirsi a quelle città, ma esse non ritorneranno volontariamente verso Roma.

La riforma delle lasse universitarie proposta alla Camera in quest'anno fu la seguente.

1.° Dritto annuo d'iscrizione per tutte le facoltà, pagabile in due rate lire 100.

2.° Dritto di esame di laurea per tutte le facoltà lire 100.

È conservata la deduzione proporzionale sul dritto d'iscrizione per quei corsi che gli studenti dichiareranno di voler seguire presso insegnanti privati; quale deduzione verrà rimborsata nella presentazione dei certificali comprovanti di aver seguito il corso presso insegnanti legalmente autorizzati.

È mantenuto pure che il pagamento debba farsi nelle casse dello stato, e che quanto serva per tutte le Università, ove avesse a trasferirsi lo studente.

Restano soppresse le partecipazioni dei professori alle propine di esame; mediante l'indennità da essi accordata con maggiore assegnamento.

Quanto all'ordinamento definitivo è affidala la compitazione di un regolamento da sottoporsi alla sanzione del Parlamento nel 1863 ad una Commissione di sedici membri, di cui otto di nomina regia, quattro eletti dal Senato, e quattro dalla Camera dei deputati.

Ecco la prima interpellanza Boggio sulla spedizione di Garibaldi in Sicilia.

In un atto dell'Associazione Emancipatrice del 15 giugno si leggeva: «Noi siamo tra quelli che hanno fede nella nazione per gl'Italiani

questa condizione di cose è una vergogna che non può durare. Tutti abbiamo dritto di marciare alla liberazione dei fratelli schiavi»

Ma memore in di fatti recenti queste frasi mi fecero la impressione la più ingrata; accennavano chiaramente ad una iniziativa che non è quella del governo.

Ora: arrivano i principi a Palermo e vi arriva anche Garibaldi. Si parlò del fatto. Che è? Che non è? si disse. E tutti credevano quel viaggio fosse inopportuno, e sollevò grandi clamori.

La peregrinazione di Garibaldi aggiornata in Lombardia fu ripresa in Sicilia. E la ebbe le dimostrazioni che riscuote dappertutto. Egli rese dei servizii al paese; ma in questo modo può anche procurarci dei grandi danni.

#Ed ecco che stamane vedo il, il quale ha due discorsi di Garibaldi con molte reticenze. Giunto al fine trovo il perché delle reticenze. Il dichiara che non stampa quelle parole, se non perché teme un processo.

E dove si va dunque? Si va all'anarchia? Il Generale Garibaldi

è illustre, ma quando fa questo in lo compiango E le parole

mancanti nel le trovo nell'Opinione. Signori, l'ingratitudine è la più nera colpa delle nazioni. Come? Essere ingrati all'Imperatore dei francesi? A lui ch'espose la vita e l'esercito per salvare l'Italia? A lui che vinse l'Austria a Solferino? - in sono indipendente con tutti, epperò anche quando trattasi di parlare Contro Garibaldi.

il traditore del 2 dicembre,... macchiato di sangue.... che fece le stragi di Parigi..

E poi che ci dice? Egli dice che si faranno- Il generale dice: Noi potremo combattere le grandi potenze.

Ma, o Signori, siamo noi tornati al 1848? Eppure anche allora non mordevamo le mani ai nostri benefattori.

Rispetto al Prefetto Pallavicino, ò vero ch'egli soffri per la patria, ma questo non gli dà il dritto di compromettere i[ governo.

È pur necessario sapere se il governo prese provvedimenti contro ogni genere d'iniziativa individuale.

Riassumo i miei quesiti.

Il Governo conosceva con quali intenzioni Garibaldi si recava a Palermo.

2. Se il ministro approvo la condotta di Pallavicino.

2.

° Se il ministro ha provveduto a che non facesse mai nessun tentativo d'iniziativa non legale.

Alle quali parole risponde.

Ringrazio gli onorevoli Boggio ed Alfieri di avermi posto l'occasione di far si che dal banco dei ministri sorgesse una voce per protestare

contro le parole ingiuriose profferite dal gen: Garibaldi verso l'imperatore dei Francesi, e per conseguenza verso la Francia. Sì, o signori, quelle parole colpiscono anche la nazione francese. = Non interrompano, o signori. Ognuno interpetri a suo modo quelle parole; in lo interpetro secondo la mia coscienza m'ispira. - Quello che in so da sorgente governativa si è che il gen: Garibaldi nell'arringare il popolo di Palermo si lasciò trascorrere a parole ingiuriose verso l'Imperatore dei Francesi: quali fossero queste parole l'annunzio telegrafico non lo dice; ma che fossero ingiuriose è un fatto accertato dalla voce pubblica, dagli organi della stampa, e dall'autorità governativa. Mi è grato quindi di protestare, e credo che unendomi al deputato Boggio, col fare questa protesta, interpetro il sentimento unanime della nazione italiana.

La Nazione italiana non può consentire che un uomo caro al paese pei grandi servizii che gli ha resi, si lasci trascinare a pronunziare parole ostili contro chi, coi consigli, con le armi, e con la diplomazia, ha fatto assidere l'Italia al banchetto delle nazioni; contro chi jeri stesso cooperava per ottenere che la Russia. riconoscesse il nuovo regno italiano. La nazione italiana non può essergli sconoscente e delle parole del gen: Garibaldi sentirà dolore grandissimo.

Ora risponderò alle varie dimande degli oratori.

Il governo seppe che il gen: Garibaldi intendeva portarsi a Palermo quando s'imbarcò da Caprera. Egli non manifestò mai a nessuno rappresentante del governo questo pensiero. Ciò esclude qualsiasi concerto tra il gen: Garibaldi ed il governo. Del rimanente nessuno poteva impedirgli di recarsi in Sicilia. Cittadino come ogni altro anch'egli ha dritto allo locomozione.

Io deploro che quando Garibaldi pronunziava a Palermo qualche parola ingiuriosa l'autorità governativa fosse presente. Notificai ciò per telegrafo al prefetto; gli scrissi che non sapeva comprendere com'egli assistette impassibile a quella arringa. - Mi rispose che esso non voleva condurvisi, e che per lettere avrebbe spiegato la sua condotta.

Bisogna dunque aspettare la sua difesa. Se vi fu colpa per parte delle autorità il governo non mancherà al debito suo.

Del rimanente a me non costa che Garibaldi avesse intenzione alcuna di agire in modo ostile al governo. Che anzi egli ha sempre parlato di concordia, ed ha lasciato a divedere che egli non procederebbe mai in modo da compromettere sia le nostre relazioni all'estero, sia la nostra sicurezza all'interno.

Qualunque però sieno, se non le sue intenzioni, quelle di coloro che lo attorniano, ed abusano del suo%nome tutte le disposizioni opportune per impedire qualsiasi colpevole tentativo sono prese.

Il governo ha la responsabilità degli avvenimenti, ed ove l'occasione si presentasse il governo non mancherà al debito suo. Di questo la Camera può esser sicura.

Ecco i principali e più importanti documenti presentati dal Ministro degli affari esteri alla Camera Elettiva nella tornata del 12 luglio corrente relativi al riconoscimento del regno d'Italia per parte della Russia e della Prussia.

Signore - L'accoglienza entusiastica fatta al Re nostro sovrano nelle Provincie che non ha guari visitate, e specialmente in quelle del mezzogiorno, vi ha dimostrato quanto il sentimento dell'unità nazionale si è sviluppato e rafforzato da due anni in qua nella coscienza delle popolazioni italiane.

Allorquando nel mese di luglio 1860 il governo dei Borboni di Napoli il quale non si sosteneva più che con un sistema di corruzione organizzata, cadde quasi da se alla prima scossa, coloro che conoscevano imperfettamente l'Italia, poterono credere che questo avvenimento non fosse che il risultato di una sorpresa, od il frutto di un tradimento, e che il giovane re se avesse avuto maggiore esperienza avrebbe potuto sfuggire al proprio destino; eppure egli era difficile di non vedere nello stesso isolamento in cui si era trovato l'ultimo rappresentante della caduta dinastia la pruova evidente che le forze vive del paese si erano allontanate da quelle razza, e che nulla più la teneva unita al popolo ch'essa aveva si male governalo.

Questa impressione di diffidenza e di dubbio malgrado la luce dei fatti domina ancora nella disposizione di alcune potenze a nostro riguardo tende ad accettare il giudizio favorevole già recato dall'opinione generale, essa parvero aspettare che l'opera della nazione rigenerata la sanzione del tempo. Ma due anni sono trascorsi, eia pruova è completa: la vera popolarità del Re, la universale aderisce all'ordine delle cose stabilite, sono tali testimonianze che non potrebbero essere attenuate dalle difficoltà inseparabili da una simile trasformazione, e queste circostanze provano altamente che la fusione è ormai un fatto compiuto ed occultato.

Tuttavia un flagello contrista ancora le Provincie meridionali intendo parlare del brigantaggio represso ogni qualvolta risorge minaccioso che ad ogni nuovo sforzo lascia scorgere il progressivo indebolimento delle proprie forze, e che finalmente degenera ogni giorno più in una specie dila quale reca inquietudine unicamente per la sicurezza delle persone, e della proprietà, e pone ai servizi di un trono perduto, ed una fede che non è punto minacciata, le triste imprese di volgari malfattori.

Noi ne abbiamo ricercate e contrastate le cause nelle condizioni deplorabili in cui si sono trovate in passato quelle Provincie.

Le tracce lasciate da una cattiva amministrazione spariranno col tempo sotto l'azione costante di un governo vigile ed attivo. Ma fra le cagioni che mantengono vivo il brigantaggio ve ne sono alcuni che sfuggono ai nostri mezzi di azione. Tale è l'influenza di un governo ricino che le sue particolari condizioni di esistenze rendono da molti anni sistematicamente ostile al nostro, tali sono gli incoraggiamenti d'ogni genere che da quel governo ricevano, i banditi ai quali la natura dei luoghi permette di penetrare di quando in quando, e malgrado ogni sorveglianza del nostro territorio; tale è soprattutto l'azione libera ed immediata dell'ex re nell'opera di devastazione e di disordine che ei non cessa di fomentare. In fatti le sole località che sieno ancora desolate da quando in quando da quel flagello sono quelle che confinano con gli stati romani, dei quali i briganti ricevono armi sussidii, ricompense. Sarebbe superfluo signore di ritornare qui su fatti provati fino all'evidenza dalle note e dai documenti che vi sono stati precedentemente comunicati. La coscienza universale si è d'altronde pronunziata su questo punto. Egli è incontestabile che il brigantaggio, il quale all'ella ancora qualche volta delle apparenze politiche nelle Provincie napoletane, ha per cagione principale la presenza in Roma della Corte caduta.

L'imperatore che tanto ha fatto per l'Italia, e che recentemente aveva con gli ordini dati alla sua flotta, ha dimostrato all'Europa questi interessi al consolidamento della nostra unità non può ne siamo certi vedere con indifferenza che all'ombra della bandiera francese. e sollo gli occhi degli stessi suoi soldati, la sorveglianza dei quali è inevitabilmente delusa a cagione degli accidenti dei secolo e della estensione della linea di confine, bande disposte ad ogni violenza continuano a partir da Roma per piombare sopra un regno alleato ed amico.

«Facendo assegnamento sopra i sentimenti di giustizia e benevolenza dell'Imperatore verso l'Italia non esitiamo a ricorrere alla sua influenza, ed ai buoni ufficii del suo governo, affinché l'ex re, ed i principali instigatori di quelle colpevoli imprese siano allontanati da Roma. Nessuno più di noi apprezza ciò che vi ha di generoso, e direi quasi di glorioso nel concedere l'ospitalità alle sventure politiche. Ma vi ha qualche cosa di superiore alle leggi che regolano le reciproche relazioni degli stati; sono i dritti conculcati, e la necessità di porre un termine ad eccessi che per l'isventura esigono rigorosa repressione.

Egli è tanto indispensabile di por fine una volta ad un simile stato di cose, in quanto che i nostri stessi avversarii non possono più ripromettesse altro risultalo che lo inutile spargimento del sangue e la rovina delle contrade invase giacché i due anzi trascorsi hanno provato sempreppiù che non può aver luogo una seria reazione. Egli è a questi doveri internazionali, a questi doveri di umanità che abbia veduto in varie circostanze

allorché ci siamo determinati, quantunque di mal animo ad allontanare i rifugiati, la cui presenza presso i confini comprometteva la sicurezza pubblica negli stati vicini. Egli è anche in considerazione di questi stessi doveri che noi crediamo di poter attendere dal governo francese l'intervento efficace che da lui chiediamo. Per tal modo l'imperatore rendendo un nuovo omaggio ai principii supremi di umanità e di giustizia acquisterà un titolo dippiù alla riconoscenza dell'Italia.

Vi autorizzo sig. cavaliere a dar lettura e copia del presente dispaccio al ministro degli affari esteri ec.

Signore - Il sig. Benedetti mi ha dato comunicazione ufficiale delle pratiche che il governo dell'imperatore va facendo da qualche tempo presso il gabinetto di Pietroburgo nello scopo d'indur lo a rannodare col regno d'Italia i rapporti spiacevolmente interrotti nel 1860.

Io debbo pregarvi prima di tutto, signore, volervi fare presso S. M. l'Imperatore l'interpelre dei sentimenti di riconoscenza che c'ispira la sollecitudine ch'egli ha cessato di manifestare, perché l'Italia si avesse il posto che le appartiene per le nazioni europee. Volendo secondare le sue intenzioni benevole, e facilitare semprepiù i buoni ufficii del suo governo nei negoziati che ci concernono, ed alla riuscita dei quali il ricordo dei vincoli di amicizia che ci hanno per tanto tempo legati alla Corte di Russia ci fa annettere un valore tutto speciale, eccomi signore a rispondere nel modo più categorico alla domanda che formano il soggetto delle ultime comunicazioni del sig. Benedetti.

Il gabinetto di Pietroburgo sembra prima di tutto preoccuparsi della importanza che possono avere gli elementi rivoluzionarii della Penisola, come pure dei mezzi di repressione che noi siamo in grado e disposti ad impiegare per ¡scongiurarne i pericoli. Io ho avuto l'onore d'indirizzarvi da Napoli, in data del 19 maggio ultimo una nota circolare relativa ai tentativi che avevano avuto luogo in alcuni punti dell'Italia settentrionale. Risulta da quel documento che il governo ha l'intenzione come è meglio di reprimere qualsiasi atto che fosse tale da compromettere i nostri rapporti internazionali e che siffatto compito gli è stato più facile in quanto che egli sa di essere in ciò appoggiato dall'opinione pubblica d'Italia. Vogliate, signore, dare al sig. Thouvenel copia di questa nota, e pregarlo di farla tenere al gabinetto di Pietroburgo.

Le recenti discussioni della Camera dei Deputali, e l'imponente maggioranza che ha dato al ministero l'appoggio de' suoi voti nella seduta del 6 giugno, verrebbero inoltre a rafforzare, ove ne fosse d'uopo, le disposizioni del Governo.

Una legge presentata già al Parlamento ristringerà ben presto ne' suoi giusti limiti l'azione delle associazioni politiche, e darò al potere esecutivo facoltà meglio definite per impedire di usurpare le prerogative dei poteri costituiti. Per tal modo si troverà completata la serie dei mezzi che permettono al governo di rispondere d'avanti all'Europa. del pieno esercizio dell'autorità che gli appartiene sia pel consolidamento dell'ordine interno sia pel mantenimento delle buone relazioni con le Potenze estere.

Tutto ciò che precede, signore, mi par di natura tale da rassicurare interamente il Gabinetto di Pietroburgo sulle viste del governo del Re.

Lo stesso Gabinetto sembra inoltre preoccuparsi della presenza e della condotta dell'emigrazione polacca nel regno: esso manifesta il desiderio che i conciliaboli diretti contro l'integrità dell'impero vengano interdetti, che il governo non permette la formazione di alcuna legione di Polacchi, e che in fine la scuola speciale ch'essi hanno istituita sul nostro territorio sia chiusa.

I

voti espressi dal Governo russo sono conformi agli usi stabiliti tra tutte le nazioni civili. II dritto sacro di asilo, ed i riguardi dovuti all'infortunio politico non debbono divenire presso alcuna nazione un pericolo per la sicurezza degli altri stati. Noi non abbiamo difficoltà alcuna di dare degli schiarimenti completi sui punti indicati dalla Russia.

Non è affatto a nostra conoscenza che conciliaboli di Polacchi, diretti contro l'integrità dell'Impero russo sieno stati tenuti sul nostro territorio.

L'interruzione delle nostre relazioni con la Russia non sarebbe stata a nostro modo di vedere una ragione per tollerare mene di simil fatta; non si potrebbe dunque giungere a supporre che noi la permettessimo, allorquando i nostri buoni rapporti con quella peleaza saranno rannodate.

Il Governo non ha mai autorizzato pel passato la formazione di una legione polacca; e molto meno quindi può esserne quistione per l'avvenire, la Russia può esserne sicura.

In quanto alla scuola speciale dei Polacchi la semplice enunciazione dei fatti basterà a far conoscere quali sono state sempre le nostre intenzioni. Gli avvenimenti del 1859 hanno attratto in Italia un certo numero di giovani sia dalla Polonia, sia dalle contrade limitrofe: un'associazione privata formatasi nell'emigrazione volendo togliere questi giovani ai pericoli dell'ozio fondò per essi una scuola speciale che fu aperta a Genova, e che contò ben presto un centinajo di allievi. Intanto il ministro attuale giudicò non essere senza inconvenienti che la sede di una simile istituzione esistesse in una città come Genova, la quale è specialmente soggetta ad influenze dei partiti politici. Uno dei primi atti di questo Ministero si fu quindi d'impegnare i fondatori dello stabilimento a trasferirsi nello interno di una residenza

più adattato sotto tutti i rapporti allo scopo che gli stessi si proponevano, ciò che in fatti venne eseguito. D'allora i direttori della scuola hanno dovuto riconoscere le difficoltà morali e materiali ad una siffatta istituzione; la scuola sarà dunque sciolta verso i primi di luglio, epoca della chiusura dei corsi, e non sarà più riaperta.

Queste spiegazioni di cui saranno fuor di dubbio apprezzate la chiarezza e la franchezza attesteranno il nostro desiderio di vedere in breve ristabiliti, con l'intervento di S. M. l'Imperatore dei Francesi, gli antichi rapporti tra il governo dell'Imperatore di Russia, e quello di S. M. il nostro Augusto Sovrano. Esse avranno inoltre per risultato, in ne ho la ferma fiducia di prevenire qualsiasi causa di raffreddamento tra i due paesi la cui nuova armonia interessa in sì alto grado la prosperità dell'uno e dell'altro.

Vogliate, Signore dar lettura confidenziale del presente dispaccio al sig. Thouvenel, e lasciargliene copia - Aggradite ec.

Onorevolissimo sig. Ministro - La comunicazione ufficiale del riconoscimento del regno d'Italia per parte della Russia, già annunziata per telegrafo giunse jer l'altro per dispaccio all'ambasciata russa a Parigi se fu da questa comunicata oggi al ministro imperiale degli affari esteri. Il sig. Thouvenel mi diede partecipazione del contenuto del dispaccio del principe Gorciakoff, di di cui egli non ha ritenuto copia.

In detto dispaccio il gabinetto di Pietroburgo annunzia a quello delle Tuilleries che S. M. l'Imperatore Alessandro, avendo trovato soddisfacenti le assicurazioni e le spiegazioni contenute nel dispaccio di V. E. del 16 giugno scorso consente a ricevere un inviato di S. M. il Re, incaricalo di notificarli la costituzione del regno d'Italia. II principe Gorciakoff aggiunge che la risoluzione dello Czar ha per uno dei suoi scopi principali il pensiero di aiutare con quest'atto il governo del Re a perseverare nelle vie di ordine e di regolare amministrazione da esso seguila.

In seguito alla presente comunicazione ufficiale fattami dal sig. Thouvenel, e che le sarà rinnovala dalla legazione di Francia a Torino l'E. V. potrà provocare gli ordini di S. M. per mandare senza ritardo a Pietroburgo un inviato delle M. S. con incarico di annunziare allo Czar la costituzione dal regno italiano - Gradisca ec.

Nota del generale Durando al conte di Lanay

Signore - Il conte Brassier di Saint Simon mi ha dato testé comunicazione di un dispaccio in data del 4 corrente

col quale il conte di Berstorff ci fa conoscere le nuove disposizioni del governo di S. M. il Re di Prussia relativamente al riconoscimento del regno d'Italia.

Questa comunicazione che l'attitudine simpatica del governo Prussiano, la vostra corrispondenza ci avevano fatto presentare ci cagiona una viva soddisfazione perché attesta che l'intenzione del governo del Re sono degnamente approvale dal gabinetto di Berlino.

Tenendo pur conto delle difficoltà interne, e della cagion di convenienza temporanea che ha potuto ritardare quest'atto, noi non abbiamo cessato dal pensare che la Prussia alle sue volte darebbe il loro valore alle guarentigie di ordine di tranquillità che la ricostituzione dell'Italia offre all'Europa.

Cotesta potenza esprime nullameno il desiderio di ottener da noi delle dichiarazioni che la rassicurino su certi punti della nostra politica interna ed estera, e noi vi aderiamo tanto più volentieri in quanto che non abbiamo che a ripetere quelle da noi anteriormente fatte nei termini più espliciti.

La questione della Venezia sembra preoccupare specialmente il gabinetto di Berlino: ai suoi occhi essa interessa la sicurezza della Confederazione germanica. Seguendo l'esempio del sig. Berstorff in non discuterò qui sino a qual punto il possesso della Venezia per parte dell'Austria possa importare alla sicurezza della Germania; a questo riguardo in mi riferisco al contenuto della nota circolare che questo ministro vi ha indirizzata in data del 10 marzo ultimo.

In quella nota noi segnalavamo alle Potenze i pericoli, cui l'Europa trovasi esposta, in seguito alla situazione eccezionale di questa provincia italiana ritenuta sotto la dominazione austriaca; quindi noi aggiungevamo che spetta alle Potenze che hanno creato un tale stato di cose provvedere alla soluzione pacifica di questa gran quistione.

V'ha dippiù; nella previsione che intraprese imprudenti vedrebbero a formarsi al di fuori dell'azione regolare dei poteri costituiti, il governo nella stessa nota dichiarava che egli sentivasi forte abbastanza per impedire che la questione della Venezia venisse pregiudicata da tentativi di turbare lo stato attuale delle relazioni esistenti e che non lo si vedrebbe venir meno al suo compito.

Questi impegni che il governo del Re prendeva verso se stesso e in faccia a tutte le potenze e che egli non ha punto difficoltà di rinnovare qui in modo formale, sono stati costantemente tenuti, e la Germania in ciò particolarmente ne ha trovalo la pruova nella repressione pronta e completa dall'aggressione preparala sopra alcuni punti delle nostre frontiere contro il Tirolo. La fermezza spiegata dal governo davanti ai partiti estremi, l'appoggio luminoso che gli dà il paese

nel compimento della sua missione devono essere pei governi conservatori dell'ordine e della pace in Europa dei motivi irrecusabili di rassicurarsi interamente sulle disposizioni dell'Italia manifestata d'altronde soventi volte dal governo del Re.

Il conte Bernstorff certo per differenza alle suscettività religiose d'una parte della popolazione del regno di Prussia tocca ad un tdlra quistione, la quistione di Roma.

Noi non saremo a questo riguardo meno espliciti di quanto lo siamo stati per la Venezia.

Gli uomini di stato che si sono succeduti al potere in Italia del 1859 in poi hanno tutti riconosciuto e proclamato altamente d'avanti al Parlamento nazionale e davanti all'Europa che questa quistione non doveva esser risoluta che con mezzi morali e per via diplomatica. Dobbiamo aggiungere oggi che noi aspettiamo con sicurezza i risultati di questa politica irrevocabilmente tracciata dalla deliberazione del Parlamento; questi risultati, giusta noi li conosciamo cattoliche ed ai dritti dell'Italia.

Io non dubito che dopo tali spiegazioni, voi sig. ministro comunicherete al gabinetto di Berlino, dandogli copia di questo dispaccio le ultime incertezze che potevano ancora trattenerlo, e che gli antichi rapporti di amicizia esistenti fra l'illustre casa reale di Prussia e quelle del nostro augusto Sovrano siano pienamente ristabilite - Aggradite ec.

Signore - Il programma svolto innanzi alla camera elettiva nel giorno di questo mese potò farvi conoscere quale direzione la nuova amministrazione pensa di seguii sia per quanto riguarda gli affari interni sia perciò che spetta alle nostre relazioni estere.

Tuttavolta desiderando di mettervi in condizione di concorrere per quanto sta in voi all'effettuazione di queste idee, credo opportuno informarvi del pensiere del governo su qualche principale quistione, il cui scioglimento interessa al più alto grado la gloria del Re l'avvenire del paese, e la pace del mondo.

L'Italia come si trova attualmente costituita, riconosciuta da alcune grandi potenze come fatto compiuto, acquistò anche titoli abbastanza gravi per essere riconosciuta anche dalle altre, e per prendere conseguentemente in Europa la parte che spetta incontestabilmente nell'interesse dell'equilibrio politico e del progresso morale alla nazione madre della civiltà moderna.

Il modo con cui le popolazioni italiane abbandonate dopo i preliminari di Villafranca alle loro proprie risoluzioni vennero a costituirsi

attorno alla dinastia di Savoja, mostrò al giudizio dell'Europa quanto l'opera fondata in Italia dei trattati del 1815 era male basata e come dopo le scosse che la distrussero sarebbe impossibile il farla rivivere.

La presenza dei fatti che sotto l'impulso del principio nazionale si sono compiuti negli ultimi tre anni, fa che divenga inutile cercare le cagioni di quanto avvenne nel carattere dei governi che resero a lungo le varie parti della penisola, e che vi caddero: se anche quei governi fossero stati più illuminati, meno sottomessi all'influenza straniera stabilita in Italia, essi non avrebbero avuto egualmente una sorte migliore per la sola ragione che essi erano un ostacolo all'avvenimento di una nazionalità di cui nessuno pregiudizio municipale ebbe potenza d'impedire la formazione. Fu l'istinto italiano che solo condusse le popolazioni della penisola.

La pace di Zurigo rendendo omaggio contemporaneamente al sentimento nazionale, ad alle supposte tendenze municipali, parve a menti rispettabilissime fornire la soluzione meglio appropriata alle condizioni dell'Italia, ma il popolo pieno del sentimento dei suoi destini o dei pericoli che lo circondavano, approfittò delle larghezze che gli erano accordale protestando con voti ripetuti e solenni contro una Torma che il senso nazionale non poteva più ammettere; questa protesta avveniva, malgrado i tentativi fatti in forma amichevole dalle potenze a cui doveva attribuirsi l'idea di una confederazione italiana per fare accogliere questa idea dalla popolazione o dai principi. Nulla avvenne che possa indurre il menomo dubbio sulla persistenza delle volontà degl'italiani a questo riguardo. Una nuova pruova di questa persistenza e del bisogno sentito dall'Italia di costituire un tutto organico ed indivisibile, lo s'incontra in questo fatto che l'opinione pubblica precorrendo la deliberazione del Parlamento respinse un disegno di legge nel quale in considerazione della diversità della legislazione esistente per le Provincie, ministri che pur godevano una grande autorità proponevano di dividere amministrativamente la penisola in altrettante regioni, la cui circoscrizione sembrava coincidere con quelle degli antichi stati.

Ed allor quando l'Italia si vide rapire il grande uomo di stato che non cesserà mai di rimpiangere, il volo unanime del sovrano e del paese chiamarono a rimpiazzare l'uomo che aveva combattuto più apertamente questo disegno, l'illustre capo dell'ultima amministrazione, il quale senza tener conto dei presagi funesti, ed ispirandosi unicamente al sentimento nazionale, soppresse "arditamente le luogotenenze, mercé le quali cogli antichi centri politici gli antichi Stati di fatto erano mantenuti. Nessuna previsione sinistra fu giustificata e le più splendide capitali accettarono la condizione modesta di sede ai governi provinciali.

Tutti i mezzi posti in opera dai partigiani dei principi decaduti per suscitare qualche movimento che potesse far credere non essere interamente dimenticali dai loro sudditi, non riuscirono ad alcun risultalo malgrado l'appoggio che essi trovarono in una influenza potentemente organizzata e che per nostra disgrazia si mostrò fino adesso contraria alla ricostituzione dell'Italia.

Il brigantaggio, quest'arme dei partiti irrimediabilmente perduti, potò desolare qualcuna delle Provincie meridionali, dove la natura dei luoghi si prestava maggiormente, con dei colpi di mano cortigianeschi; ma esso non giunse mai a poter stabilire nemmeno per un giorno un simulacro di governo in qualsiasi località, in qualsiasi villaggio.

Non un uffiziale italiano di quel grado che fosse, non una persona di credito osò assumersi la responsabilità di questa guerra di banditi, disdetta da quelli medesimi in nome dei quali erasi accesa. Presso alcuni gabinetti di Europa può esistere una qualche simpatia per le sventure della dinastia caduta, ma nessuno potrebbe più al cospetto di somiglianti fatti pensare a ristabilire un ordine di cose, di cui la Provvidenza con segni si manifesti rese impossibile il ritorno.

Gl'interessi materiali devono altresì essere ascoltati. Se si considera in fatti il progresso industriale e commerciale realizzato in questo breve periodo di regime contrario si è condottò a prevedere l'importanza economica che avrà il nostro paese in un avvenire poco lontano. Da ciò la convenienza di aprire delle tratta live cogli altri stati ad oggetto di conchiudere con essi delle convenzioni che aumentino le sorgenti della prosperità comune. Tutte le nazioni da questo punto di vista hanno un eguale interesse a ciò, che, seguendo l'esempio delle due grandi potenze occidentali, le altre potenze riconoscono altresì l'Italia. Questa ricognizione avrà per effetto di rassicurare gli animi contro la minaccia d'una ristaurazione che al punto in cui sono oggidì le cose non potrebbe operarsi se non con l'intervento delle armate straniere e col terrore.

L'ordine nella libertà non può contenersi e consolidarsi in Ita se non con la ferma monarchia rappresentativa e sotto la gloriosa dinastia di Savoja, che congiunge alla legittimità storica quell'altra legittimità che scaturisce dal fatto per cui le diverse parti d'Italia vivono insieme nella pace e nell'ordine civile.

La quistione romana preoccupa pure il Consiglio delle corone. Il Re ebbe il mandalo dalla nazione e dal Parlamento di effettuare l'integrità nazionale di portare la sede del governo nella città eterna alla quale soltanto può appartenere il titolo di cui è già insignita di capitale dell'Italia. Questo mandato non può esser declinalo. La soluzione di questa quistione si collega alla conservazione dell'opera compiuta in Italia in seguito all'ultima guerra.

I nostri alleali, che tanto fecero per quest'opera sono interessati al compimento dei destini d'Italia. Il governo non si dissimula punto che in certo numero di cattolici sono opposti alle sue intenzioni: agli occhi di qualcuno fra essi la confusione dei due poteri a Roma e la condizione principale della loro separazione sul restante della cattolicità. Essi non vedono che questo gran beneficio della separazione dei due poteri si produsse già, e la storia lo attesta nel tempo in cui la S. Sede non aveva pur l'ombra di potere temporale. I pontefici che più potentemente aiutarono a fondare la indipendenza del sacerdozio, come anche l'autore della loro fede non trovavano spesso come lo disse il mio illustre predecessore fra essi una pietra su cui posare la loro testa.

La libertà della Chiesa non divenne dubbia, i rapporti del pontefici con le potenze non diedero luogo a scismi irreparabili se non quando la sua sovranità temporale divenne più estesa e più incontestata. Da più di tre secoli il potere temporale è il più grave dei pericoli per la Chiesa considerata come istruzione religiosa. La caduta di questa religione del medioevo non farà che raffermare la libertà del medioevo si appoggiavano ad una passione di sovranità territoriale: fu egualmente in tal modo che la chiesa edificò le sue. Al disparire di quei tempi la sovranità risale alla sua sorgente, e le libertà d'ogni specie cercano nel dritto comune la guarentigia che altra volta chiedevano al privilegio territoriale. Chi dunque può sostenere che gli elettori ecclesiastici o i vescovi sovrani nello impero o negli altri stati fossero più liberi spiritualmente che non siano oggidì i prelati che loro succedettero? È evidente il contrario. La protezione non è che una forma di servitù.

Il bisogno che aveva la S. Sede di una protezione per i suoi possedimenti territoriali diminuiva agli occhi dei popoli la sua libertà a riguardo delle potenze protettrici. L'indipendenza del sovrano pontefice, esonerato del potere temporale, avrà una guarentigia indefettibile in questo fatto, che la sua libertà è in bisogno perpetuo e costante per tutte le popolazioni cattoliche, e per i sovrani che le rappresentano, e le governano. Ve n'ha un'altra egualmente assicurata nell'interesse che ha l'Italia a conservare nel suo seno il seggio di questo potere sublime, e che è anch'esso una delle sue glorie e delle sue forze. Il nostro sistema elettorale assicurando largamente il concorso di quelle classi della popolazione sulle quali l'autorità religiosa ha maggiore influenza impedirà sempre che questa abbia a perdere la sua indipendenza. La libertà della S. Sede ha ancora una vera guarentigia, quantunque negativa, nel principio che serve di base alle nostre istituzioni, e secondo il quale il governo è assolutamente incompetente nelle materie religiose.

La resistenza che Roma oppone alle legittime aspirazioni dell'Italia in nome di un interesse che non è né compromesso, né minacciato, conduce evidentemente, qualunque sia d'altronde l'intenzione di questa resistenza, non tanto a mettere le coscienze in Guardia contro immaginarti pericoli quanto a sostenere gl'interessi i partiti estranei alla religione, e che cercano in quella medesima Corte, e nelle influenze di cui essa dispone il punto di appoggio che loro manca sul terreno politico. È una ragione dippiù perché la quistione sia risoluta nel senso da noi indicato.

Il governo del Re farà tutti i sforzi per giungere a questo scopo importante, di accordo col grande alleato, le cui armi proteggono la persona del Santo Padre; è disposto a garentire di concerto coi governi che vi sono interessati la elevala libertà tanto nell'esercizio del potere spirituale, quanto nei rapporti della S. Sede coi governi e colle nazioni cattoliche.

Conio stesso concorso, e sotto le medesime guarentigie sarebbe costituita a titolo perpetuo una dotazione che bastasse a provvedere convenientemente alla dignità del pontefice e del sacro Collegio, come anche al mantenimento degli uffizii e delle istruzioni che costituiscono il governo della Chiesa.

Quando la S. Sede si sarà rassegnala alla necessità di sacrificare per la ricostituzione dell'Italia, e per la pace la sua sovranità temporale, sarà facile il riconoscere che il papa non potrà avere scienza della libertà indispensabile dell'esercizio del suo alto ministero se non nella metropoli della cattolicità, sotto l'egida di un governo che più di ogni altro è in situazione di mantenere intatta questa libertà.

Così si compirà con la ricostituzione di un gran papato, l'emancipazione della Chiesa per il bene comune della religione della civiltà.

Tutti i pericoli che nell'antagonismo attuale possono minacciare la religione, dispariscono; Roma capitale d'Italia consolida ed incorona l'edilizio dell'unità nazionale, ed assicura nel tempo stesso l'unità cattolica.

Un'altra quistione della medesima importanza, la quistione della Venezia, preoccupa vivamemente le potenze amiche ed agita gli animi in Italia. Il governo nondimeno si sente abbastanza forte per impedire che questa quistione non sia pregiudicala da tentativi che possono intorbidare lo stato attuale delle relazioni esistenti, e non mancherà al suo dovere. Tuttavolta non conviene dissimularsi quanti pericoli possono minacciare ad ogni istante l'ordine e la pace del nuovo regno a cagione della presenza dello straniero in una parte così importante del territorio italiano.

La comunanza della lingua, delle origini, dei dolori, delle speranze, delle glorie onde sono avvinte a noi le popolazioni venete; i voti espressi, ed il sangue versato da esse nel 1848, l'appello e le promesse che loro furono fatte durante la guerra del 1859,

la parte che presero in conseguenza di ciò i volontarii di tutte le Provincie della Venezia; il numero degli emigrati di quellecie che attualmente sono sparsi nella nostra città, e nella nostra annata, tutto stabilisce fra la Venezia ed il resto della penisola un legame di simpatia e di solidarietà cosi potente, che è impossibile all'Italia libera restare un'ora indifferente ai patimenti di quella provincia, che un destino funesto incatena ancora ad una potenza straniera.

Quanto più la nazione diventa forte, più si ha a temere che un giorno, a dispetto dei consigli essa non tenti d'irrompere da quel malessere profondo che le fa provare l'oppressione sotto cui soffre una sì nobil parte di se stessa.

L'Austria, qualunque sia la sua politica può ben conservare per la forza delle sue armi le Provincie che occupa in Italia, ma è visibile agli occhi anche meno vegenti che quelle Provincie cessarono moralmente di appartenerle per la incompatibilità che risulta dalla ripulsione del sentimento nazionale contro di lei.

Il suo dritto è infirmalo da questo fatto stesso che non può più conservarlo se non con la forza. Essa potrà aggiornare la crisi ond'è minacciata, ma non impedirla. L'esempio della nostra libertà è fatalmente destinata ad accelerarne l'ora..

Sebbene non vi sia luogo a credere che l'Austria sta disposta a rinunziare ad uno dei suoi possessi senza esservi costretta, pure si potrebb'esser condotti ad ammetterne la possibilità quando si considerasse la quistione dal punto di vista degli enormi pesi che il governo austriaco impone senza un proporzionato compenso per. consertare i suoi possedimenti italiani; e dal punto di vista dei vantaggi d'ogni specie che essa troverebbe nel restituirli al Italia nella quale essa non avrebbe più a vedere d'allora in poi che una potenza naturalmente alleata ed amica, e che non avrebbe risparmiato nessun sagrifizio per giungere ad un tale risultato.

Spelta alle potenze che hanno creato questo stato di cose il provvedere alla soluzione pacifica di questo grande quesito. II governo del Re su cui pesa il mantenimento dell'ordine e della pace, perciò che riguarda l'Italia era in dovere di avvertirle, e di denunziar loro i pericoli, cui possono dar luogo i troppo lunghi indagini questa materia, pericoli che non saranno allontanati, se non quando mediante la restituzione del sistema territoriale stabilito nella penisola coi trattati del 1815, l'Italia emancipata sarà riconcentrala nei suoi limiti naturali.

Voi coglierete, o signore, le occasioni che potranno offrirvi, i vostri rapporti ufficiali, ed officiosi per portare a notizia del governo presso cui siete accreditato il modo di vedere del nuovo gabinetto su queste quistioni che interessano a tanti titoli è sotto torti rapporti diversi l'ordine e la pace generale.

É questo il testo delle note scambiate tra il conte Bernstorff, ed il generale Durando concernenti il riconoscimento del Regno d'Italia fatto dalla Russia.

Abbiamo riportato la nota di Durando, il dispaccio di Bernstorff che le serve di risposta è questo.

Signor Conte. Il governo del Re Vittorio Emmanuele ha confidenzialmente espresso, a differenti riprese, per organo del suo ministro a Berlino, il desiderio di veder riconoscere il titolo di Re d'Italia dal re nostro augusto signore.

Ci ha segnalato l'interesse che avremmo a fortificare, ed a consolidare il potere monarchico nella penisola contro le tendenze anarchiche e repubblicane, e ad aiutare col nostro morale sostegno quel potere nel difficile ed arduo su incarico di ristabilire i principii di ordine di stabilità profondamente scossi dalla rivoluzione. Ci ha fatto rappresentare nel tempo stesso che riconoscendo l'ordine di cose stabilite in Italia, in seguito ai grandi avvenimenti che sonosi colà compiuti noi aiuteremmo potentemente l'assicurazione della pace generale di Europa, poiché lo stato d'incertezza e di agitazione che eccita gli spiriti e gli eccita alla stravaganza, cesserebbe in seguito ai riconoscimento delle grandi potenze di Europa, e farebbe luogo alla ragione ed alla moderazione, di cui la penisola ha si gran bisogno per consolidare il nuovo edilizio all'interno, e per farvi di meglio in meglio prevalere i grandi principii d'ordine morale e sociale.

I ministri del Re Vittorio Emmanuele pur tenendo lo stesso linguaggio, signor conte vi hanno dato spesse volte l'assicurazione che non è nell'intenzione del governo di Torino il far valere con la forza delle anni certe pretese territoriali, le quali si riguardano generalmente come facienti parte del programma politico del Regno d'Italia, che essi stessi rinnegano in teoria, ma che quel governo è fermamente risoluto a mantenere la pace coi suoi vicini, e lasciare all'avvenire, ed ai negoziati, o allo sviluppo morale delle cose la soluzione delle quistioni onde si tratta. Ve n'è una la quale interessa particolarmente la Prussia in quanto che tocca gl'interessi e la sicurezza della Confederazione germanica; è la quistione di Venezia.

Non ho l'intenzione, sig. conte, di trattar qui cotesta quistione sotto il punto di vista strategico, e di esaminare se il possesso della Venezia sia necessario per assicurare il sistema di difesa militare dal mezzodì della Germania. Qui non si tratta se non del fatto che i trattati in vigore assicurano quel possesso all'Austria, e che il tentativo di toglierlo a lei per forza potrebbe facilmente, mettendo il territorio federale in periglio trascinare la Confederazione germanica nella lotta, ed apportar cosi una conflagrazione cui la Prussia, nella sua qualità di membro della Confederazione non potrebbe restare straniera.

In vista di questa eventualità possibili, le cui conseguenze probabilmente funeste alle sorti future della nuova monarchia italiana medesima non hanno potuto sfuggire alle perspicuità degli uomini di stato che consigliano il Re Vittorio Emmanuele, noi abbiamo applaudilo sinceramente al linguaggio pieno di saggezza e di fermezza che il gabinetto di Torino ha tenuto in una occasione recente in cui la pace era minacciata dalla petulanza del partito rivoluzionario.

Questo atteggiamento del governo di Torino se fosse assicurato per l'avvenire, ci darebbe le guarentigie che desideriamo, ed onde abbiamo bisogno par regolarizzare i nostri rapporti con lui riconoscendo il nuovo titolo che il Re Vittorio Emmanuele ha preso, e che noi fin qui abbiamo esitato a riconoscere specialmente a causa delle pretese che esso sembrava implicare e dar dubbio che potevansi nutrire sulle conseguenze cui contava tirarne il governo della suddetta Maestà per la sua propria azione futura; giacché pur dichiarando espressamente che noi non vogliamo né possiamo pregiudicare i dritti dei terzi, i quali trovansi lesi dai fatti occorsi nella penisola, sempre però riconoscemmo che non ispetti a noi farli valere, ed opporci alle conseguenze degli avvenimenti compiutisi senza il nostro concorso, quali non hanno potuto impedire coloro che vi avevano con speciale interesse.

Se dunque, signor Conte, il governo di Torino è disposto a darci, nella forma ch'egli stesso giudicherà più conveniente, sulle sue intenzioni riguardo alla quistione di Venezia e di Roma delle assicurazioni che potessimo riguardare come garenzie per noi sufficienti, e sieno nel tempo stesso idonee a rassicurare i nostri confederati, non che la parie della nostra propria popolazione, la quale potrebbe vedere nel nostro riconoscimento un riconoscimento anticipato di futuri avvenimenti per essa temuti, in sono autorizzato dal Re nostro augusto Signore d'incaricare l'E. V. per dichiarare al governo di S. M, il Re Vittorio Emmanuele che S. M. è disposta a riconoscere il Re d'Italia.

Vogliate signor Conte, fare la comunicazione precedente al signor generale Durando, lasciandogli copia di questo dispaccio, e ricevete le mie nuove assicurazioni.

CAPITOLO VIII

Sommario.

Garibaldi in Sicilia. - Operazioni di una prossima spedizione. - Opinioni della stampa. - Intrighi diplomatici. - Processo Cenatiempo.

Il primo ad annunziarearrivo di Garibaldi in Palermo fu il giornale ilil quale in un suo supplemento del 29 giugno cosi si esprime.

Mentre Palermo a tutt'altro pensava, ed i fogli di jeri avevano pubblicato la notizia che Garibaldi si era imbarcato per Caprera. Jeri sera verso le ore 8 p. m. si sparge improvviso un bisbiglio per la città. Che fu, che non fu?... è in Palermo, e arrivato ora... egli in persona, Garibaldi. L'avvenimento giunge cosi improvviso, inaspettato, che difficilmente vi si crede. Chi domanda, chi dubita, chi afferma, chi l'ha visto. É al Palazzo Reale, passò per Toledo... è alla Trinacria passò in carrozza con Menotti ed altri. Il bisbiglio cresce, il popolo è tutto in istrada. - Alle ore 9 ogni dubbio è cessato... Garibaldi è veramente in Palermo, alla Trinacria... egli è venuto dalla Maddalena sul piccolo vapore ilinsieme a due suoi figli. La città s'illumina istantaneamente a festa, il tripudio è indiscrivibile. Il Prefetto Pallavicino va a trovarlo; un immensa calca acclama in istrada il nostro liberatore, vuol vederlo, vuol sentire la sua voce. Ei si mostra e pronunzia presso a poco le seguenti parole: in vi saluto, popolo di Palermo; noi ci siamo conosciuti nei momenti di pericolo. Se vi ha popolo al mondo che meriti il mio affetto e il popolo di Palermo.

Popolo delle grandi iniziative! tu meriti la gratitudine della intera penisola, eammirazione del mondo! in sono commosso. Si questo popolo mi commuove. Vi saluto: in sono con voi, e non lascerò cosi presto Palermo - Vi saluto, vi saluto.

L'immensa moltitudine affollata sotto i balconi dell'albergo applaudiva freneticamente; gridava fuor di se, piangeva... chiamava ancora Garibaldi, non era possibile allontanarsi da quel punto. Ei si mostrò più volte, e disse:

L'immensa calca si sparse per la città; a malgrado la pioggia tutti sono fuori, e gridano, ed esclamano, ed espandono quelle piene inesauribili di entusiasmo.

Questa mattina alle ore 6 Garibaldi accompagnato da pochi amici si avvia per la marina a visitare il locale del tiro, che questo giorno all'una p. m. sarà inaugurato anche con la sua presenza. Entrata per la stessa porta per dove entrò il 27 maggio, e che oggi reca il suo nome; e facendo la stessa strada che seguì allora il cammino della rivoluzione trionfante, si recò al palazzo dei Municipio. Il popolo adunatosi ivi in gran numero lo vide al balcone, e l'acclamò con quello entusiasmo che non si descrive. Egli parlò dei nemici d'Italia e del bisogno di concordia tra tutti i partili liberali. Esortò il popolo a stare in guardia contro i preti, che qualificaQui, soggiunse, ve ne sono assai buoni, li ho conosciuti, ma starò in guardia è pur giusto. Nel trasporto della sua passione esclamò, Parlò di Roma e Venezia die dobbiamo prontamente avere, ed esortò il popolo a rassegnarsi ai sagrificii che ci costeranno. Egli conchiuse marcando con fuoco queste parole. L'Italia dev'essere una, una, . Il popolo l'accompagnò in massa sino alla Trinacria con acclamazioni sempre crescenti.

Questo arrivo di Garibaldi lo crediamo provvidenziale. Quante facce che impallidiscono! Quanti mestatori di discordie, quanti soffiatori di rancori, e quanti specolatori di grettissimi sensi municipali, di meschine quistioni di tasse, che han travagliato tanto per mostrare la macchina delle passioni in senso contrario alla spinta comune, ritornano oggi di un colpo alla miseria del loro nulla.

Onde si chiarisca sempre meglio la pubblica opinione intorno al viaggio di Garibaldi in Sicilia, riportiamo qui alcune parole del di Genova.

Le molte e contraddittorie voci, cui diede una effimera autorità la repentina partenza del Generale Garibaldi, hanno generato nel campo della politica narrativa una strana confusione di fatti e d'idee che molto imporla il chiarire. A tutti è noto, perché tutti vi partecipano qual più qual meno, narrando, ascoltando, e ripetendo, come si favoleggi nei crocchi di una segreta intesa di Garibaldi col Ministro Rattazzi, di un suo abboccamento con un alto personaggio, e di simili altre diplomatiche astruserie.

Ora noi possiamo asserire che nessuno abboccamento di questa fatta abbia luogo. Il Generale Garibaldi si portò da Torino, senza aver veduto né alti, nè bassi personaggi. Duole a noi veramente il dover porre in sodo tal fatto che ci mostra la politica imperiale non essersi punto fatta più operosa ed indipendente da straniere derivazioni, e da stranieri disegni; ma la verità è una sola cioè che non esiste tra il generale Garibaldi ed il ministero Rattazzi alcun vincolo palese o segreto.

Se la voce di diversi amici di Garibaldi, e niente interessati a rovesciare ministri, quali siam noi, può avere alcuna autorità, vogliamo adoperarlo a mettere in guardia i troppo felici socratici. segnatamente perché non abbiansi a ripetere le commedie d'altra volta, quando una congerie di voci accortamente sfrontate poté creare dolorosi equivoci, la traccia dei quali, per somma sventura del paese non è anche scomparsa.

Dal Palazzo della Città in data del 30 Garibaldi arringava al popolo con le seguenti parole:

Or son due anni che da questo stesso luogo in parlai a te, o popolo di Palermo. Allora ritornava da una conferenza coi rappresentanti dei tuoi tiranni, e dissi che avevo condiscese a concessioni umanitarie, ed avevo condisceso, perché sapevo generoso il popolo: dissi che avevo pure respinta una condizione umiliante, ed allora il popolo, questo stesso popolo emise uno di quei ruggiti che fanno tremare i tiranni, e rovesciano le dinastie.

Oggi in parlo nuovamente al popolo per chiamarlo alla concordia. Noi ci conosciamo. in sono l'amico del popolo, egli deve fidare in me, perché in non l'ingannerò. Concordi nel pensiero dell'Italia Una... Una... Una. Chi va contro cotesto principio è nostro nemico.

Noi abbiamo il cancro in Italia... A Roma! ove il despota della Francia, l'autocrata della Francia c'impedisce di andare. E quando parlo di Francia intendo di Napoleone, non del popolo. Il popolo di Francia, come quello di Germania, come qualunque popolo del mondo e nostro fratello. Il popolo di Francia, calpestato dal suo Autocrata ha bisogno di libertà.

Un altro cancro d'Italia è il papa, e con lui i preti. Pure quando parlo di preti intendo quelli che stanno a Roma stretti in conciliabolo col papa. Costoro sono i preti del demonio, non i preti di Cristo. I preti del Cristo sono i nostri bravi Padri della Gancia, i nostri Padri che con noi pugnarono sulle barricate.

Un altro cancro per l'Italia è il Borbonismo, il quale, favorito tenta rialzare la testa. Il Borbonismo s'insinua sott'erba come il serpe, e cerca seminare la discordia. Diffidatene, o popolo, noi abbiamo bisogno di concordia per fare la patria, e come la concordia deve regnare fra provincia e provincia, per modo che non vi sia più distinzione per l'uomo di Sicilia ed il napoletano, fra l'uomo del Piemonte e del Lombardo, cosi dev'essere concordia tra i figli di una stessa famiglia. Bisogna diffidare delle voci che tendono a separarci gli uni dagli altri.

Qui si avvedeva il generale che alle sue spalle stava il Brigadiere Giovanni Corrao. Lo abbracciò, in baciò, in richiese dello stato di salute e delle ferite. Indi rivolto nuovamente al popolo.

Io vi raccomando il mio amico Corrao, il Brigadiere Corrao (applausi). Un popolo che dà uomini pari a Corrao è un popolo di Eroi, un popolo che dà uomini come Corrao e questi prodi amici che mi circondano, sta calmo e sereno a fronte del nemico, come noi qui stiamo ragionando, questo popolo può tutto.

La sera Garibaldi si recò al Teatro che porta il suo nome.

Alla fine del primo atto il generale rispondendo agli applausi del popolo prorompe.

Viva il popolo del Vespro Siciliano... L'Italia spera che ne farà un secondo se ne avrà il bisogno.

Dopo una breve pausa, nelle quale lo entusiasmo divenne delirio, si alzò di nuovo e parlò.

Quando ho chiamato il popolo siciliano popolo delle grandi iniziative non ho fatto che palesare ciò che sentiva nel profondo del cuore, un popolo generoso come questo non può dirsi che il popolo delle grandi iniziative.

Con ciò non intendo però derogare in nulla al nostro programma, ma rammentare questa iniziativa popolare che vi fece liberi, che ci condusse di gloria in gloria, e rannodò gl'Italiani in unita famiglia.

Il programma che si rese vittoriosi fin oggi, in ve ne assicuro che ci renderà vittoriosi anche in appresso.

Esso è Italia e Vittorio Emmanuele.

Coloro che vogliono sostituirvi un diverso programma cercano la disunione, suscitano le gare municipali, essi vi conducono al dispotismo.

Il fascio romano che noi abbiamo formato ò il simbolo per cui corsero le legioni romane che passeggiarono sul mondo vittorioso.

L'Italia conta adesso 25 milioni... essa e più forte di quanto lo possono credere i nostri potenti vicini.

Essa non passeggerà più conquistatrice come Roma; ma è abbastanza forte per reclamare i suoi proprii dritti, e quelli ancora di tutti i popoli oppressi, perché i principii d'Italia sono solidali, come quelli#dell'umanità.

È una vergogna che con 25 milioni d'Italiani vi siano ancora dei fratelli schiavi... Si è una vergogna, ma per coloro che ci tennero inerti fin qui. E noi, noi libereremo Roma e Venezia... ve ne rispondo. E quantunque avanzato in età, spero ancora coadjuvare alla liberazione degli altri popoli oppressi.

E noi anche con voi, proruppe il popolo, con voi a Roma, con voi, a Venezia. Con voi per tutto il mondo.

Al Foro Italico Garibaldi fece uno de' suoi più famosi discorsi. Comechè ben degno di Storia, noi qui lo riprodurremo.

La moltitudine ivi raccolta che attendeva, a non meno di 10 mila persone applaudiva freneticamente. Il generale baciava la bandiere, e si mostrava grandemente commosso. Il popolo alle acclamazioni a Garibaldi mesceva il grido; a Roma, a Venezia. Allora il generale fe segno con la mano di voler parlare; si fè silenzio, ed egli pronunzio le seguenti parole.

Si, vogliamo la nostra Roma, la nostra Venezia. Ciò che vuole il popolo di Palermo, lo vuole l'Italia intera. Siatene persuasi che oggi non vi sono più dissensioni tra noi: dal più umile villaggio alla città più grande. tutti abbiamo lo stesso desiderio di liberare i nostri fratelli schiavi di Roma e di Venezia. Naturalmente l'animo dei Palermitani non può essere rivolta ad altro che a Roma.

Il grido che domina oggi queste riunione di generosi Palermitani non ha altro scopo. Però a Roma ed a Venezia non bisogna andarci con parole, bisogna andarci con fatti.

L'Italia bisogna domandare al padrone della Francia, all'uomo del 2 dicembre, a colui che si è macchiato del sangue del popolo di Parigi bisogna domandare che sgombri Roma. perché lui occupa Roma indebitamente. Non è vero che stia lì per proteggere il santo Padre, il cattolicismo, le religioni di Cristo. Menzogna, menzogna, è li perché è un tiranno. Perocché vuole contentare la sua libidine di dominio, per fomentarci il brigantaggio, per essere in una parola il capo (

A lui dunque che è il principale autore della sciagura d'Italia, a lui dobbiamo dire che sgombri Roma, non con parole, non con proteste scritte, che bisogna parlare nello stesso modo che parlavano i Palermitani del Vespro; i Palermitani gli sgherani del Borbone nel 1860. Questo è il modo con cui quella classe di gente intende; con le armi in poche parole. Sapete se in sono leale: in non bramo altro che a farla finita in Italia, e ad accompagnarvi il giorno che sarete decisi a finirla davvero.

Io non posso ingannarvi. Ti raccomando quindi di serbarvi uniti nello stesso modo che siamo venuti fino a questo punto: niuna parola di discordia sorga tra noi: lo stesso programma col quale abbiamo battuti gli Austriaci al Ticino, col quale siamo sbarcati a Marsala, e siamo venuti a dividere le vostre sorti, lo stesso programma ci condurrà a Roma ed a Venezia.

Non vi lasciate sedurre da altre voci che abbiano significato diverso. Il murattismo non sarebbe che un proconsolato di Bonaparte in Italia; ve l'ha già detto.

Il Borbonismo non ha altro significato che la coppa del silenzio, la prigione, l'esilio, la morte.

Il re papa, o il papa re che è lo stesso è ancor peggio.

Non vi lasciate lusingare da qualunque altro programma.

, con questo termineremo di fare l'Italia. Io non adulo né i grandi, né il popolo cui ho consagrato interamente la vita.

Però debbo prevenirvi che siccome il nostro governo non è forte abbastanza per farsi rispettare dall'uomo del due dicembre, bi sogna che il contegno del popolo italiano sia eminentemente parte per gittare nella bilancia una diplomazia i nostri ferri bene arrotati. Allora otterremo ciò che vogliamo, ciò che è giusto finalmente, cioè la liberazione dei nostri fratelli.

Dobbiamo spingere il governo finché non avremo ottenuto la liberazione della penisola intera.

Ripeterò solamente che ci vogliono fatti e non parole, ferri e non scritti. Ogni uomo che ha in cuore l'emancipazione del proprio paese deve prepararsi un ferro. Il popolo è unito al nostro prode esercito, e noi manderemo fuori gli oppressori.

(Voci, ma presto).

Ho più premura di Voi amici miei.

Non veniamo noi a discordia intestina, a qualunque costo dobbiamo evitare la discordia: amiamoci come fratelli: perdoniamoci reciprocamente i nostri difetti; anche quelli che hanno divergenze in politica in quanto ai mezzi, perché tutti vogliono la stessa cosa. Chi è senza difetti?

Dunque concordia con tutto il cuore. L'italiano non deve temere alcuno.

Se lo straniero è venuto in Italia a calpestarci, egli è perché ci ha trovati discordi. Dunque concordia, e presto a Roma.

Alla colezione offertagli dalla guardia dittatoriale, il generale così parlò.

Non fa bisogno che in vi dica quanto sia contento di trovarmi fra voi, miei vecchi amici.

Tutti voi siete unitarii in non né dubito, che certo alcuni fra voi la penseranno diversamente sul modo di raggiungere quello che tutti vogliamo. Consentaneo alle mie parole di questi ultimi giorni occorre però che ve ne dica alcune altre che conciliano questa diversità di pareri.

Da ciò importa ora occuparsi, non di questa 0 di quella forma di governo.

Quando nel 1848 in ed i miei compagni partimmo dall'America per venire in Italia non avevamo altro voto che quello di servire il paese. Eravamo decisi di non badare a forma di governo. Volevamo avere una patria, ed avremmo seguito anche il diavolo, se il diavolo ci avesse potuto ajutare ad unificare il programma. Questo era il nostro programma.

Nel 1849 fui uno dei primi a proclamare la repubblica romana: me ne vanto. Lo dico alla palese, in sono repubblicano. Ma la mia repubblica è perfettamente consentanea alla monarchia attuale, dacché per repubblica in intendo la sovranità della pubblica opinione. Oggi la maggioranza del popolo italiano è pel sistema monarchico, quindi anch'io sono e lo deve con me essere ogni buono italiano pel programma, Italia e Vittorio Emmanuele.

Dopo il 1849 il governo di Piemonte mi mandò via.... non me ne curo... non voglio parlare del passato.

Tornati in Italia vi trovai ancora il principio dell'alleanza della Democrazia con la Monarchia, iniziata da Manin e da Pallavicino, che dobbiamo onorare, e lo appoggiai.

Con questo principio qualche cosa si è fatta. Faremo il resto. Noi siamo determinati a seguirlo e per l'unità del paese,, che é la suprema necessità nostra, lo seguiremo anche fino al dispotismo. Ma in credo fatale il dispotismo alle Monarchie... esso le perderebbe, il popolo invece rimarrebbe sempre lo stesso.

Altra volta accennai come Dante abbia voluto l'unità con un imperatore germanico, Macchiavelli col Borgia, l'epoca nostra è meglio rappresentata. Credo Vittorio Emmanuele amantissimo dell'Italia, e vero Galantuomo, tale in somma che non traviato da) ministro, può rendere grandi servizii alla patria.

Io dissi a voi, lo penserete con me esser follia sperare la quiete dell'Italia finché Roma ci manchi. Roma dunque a qualunque costo ci bisogna ottenere. Faccia udire ben alta la sua voce al popolo italiano, e non si troverà chi resista alla volontà generale. Se tutti, tutti marceremo uniti ed in ischiere compatte, abbiatemi fede, non ci sarà potenza della terra che ci possa imporre, ed a dispetto di chi noi vuole, noi avremo Roma e Venezia.

Al governo non potremo perdonare giammai allora solo che ci faccia perdere il fruito dei nostri sforzi. Capite che accenna alla situazione della Sicilia e di Napoli, dove corrono voci di più o meno lontani moli di reazione. A ciò provveda il governo, nel caso noi faccia, allora noi ci getteremo nella lizza, e ci faremo fare a pezzi per mantenere, per conquistare l'Unità d'Italia.

A voi miei vecchi amici partecipo il mio concetto, e mi auguro vedervi ben presto riuniti pel finale compimento dell'opera nazionale.

Nella solenne riunione sotto la sua presidenza delle associazioni democratiche nella chiesa di S. Domenico pronunziò queste parole.

Me fortunato che mi trovo qui in mezzo ai rappresentanti della vera libertà, mentre gli uomini che stabilirono queste associazioni sono gli nomini disposti a propugnare la libertà e la indipendenza del paese.

A voi non fa d'uopo ricordare come la storia ne insegni la cagione del passato avvilimento d'Italia essere state le differenze esistenti fra noi, le gelosie tra provincia e provincia, tra municipii e municipii, tra famiglie e famiglie resero facile allo straniero di conculcare i nostri dritti.

La nostra concordia ha ottenuto oggidì che il nostro paese cessi di essere un luogo di passeggio per lo straniero: la cacciala. di questi è ormai il fermo proposito di tutta l'Italia.

Gli uomini che hanno la mia età possano agevolmente capire quanto è necessaria la concordia per compiere i destini della patria, non cosi i giovani. La concordia è per me la cosa più preziosa', né saprei raccomandarla abbastanza.

Quando tornai dall'America trovai in Italia più associazioni democratiche sotto sensi diversi. Benché dirette ad unica meta la sola differenza di nome bastava perché quelle associazioni venissero fra loro ad antagonismo, di cui poi si conobbero le conseguenze funeste. Ecco perché vi consiglio a formare una sola delle tante associazioni che esistono in questa generosa capitale della Sicilia, lasciando che le associazioni riunite ne stabiliscano il titolo, e le forme.

Io il titolo già lo diedi a Genova quando espressi che le libere associazioni debbono avere per iscopo di liberare gli schiavi. Se credete chiamatele (Sorte difficoltà intorno alle classi operaje, il generale risponde.

Quanto a ciò penso che la classe degli operai possa far parte dell'associazione emancipatrice.

Chi ha rendita propria non ha bisogno delle cure del governo, o di altri.

Chi ha bisogno è l'Uomo del popolo, quindi le Società operaje non possono che guadagnare al contatto di chi ha una istruzione elevata, e deve usarne a loro benefizio. E poi, perché l'operajo non farebbe parte di un'associazione politica? in fui contrario a quel che si fece in Asti. Gli operai hanno dritto quant'altri a prender conoscenza degli affari politici che interessano lo stato!

Qui mi torna opportuna una riflessione politica. - Se le classi alte si fossero avvicinate alle meno alte, se le avessero avute a cuore, in credo che non avremmo avuto l'89, ed ora non avremmo gl'incendo di Pietroburgo, cosa ha fomentato ciò?

In questa riunione eminentemente democratica il mio voto non conto che come quello di un altro, come quello di quel bambino. Ciò che proposi, lo proposi col convincimento di proporre una cosa buona. Credo che la fusione di tutte le associazioni di Palermo in una sola sia trionfo per la libertà italiana, trionfo per la concordia che ci fa forti e rispettati dai dominatori stranieri. Se non ci vedessero forti ci calpesterebbero (avviene immediatamente la fusione, Garibaldi continua).

Auguro bene dei destini d'Italia da questa determinazione. Una volta l'Italia concorde e in fratellanza, la libertà, è assicurata.

Vi ricordo che in conseguenza della formola: ognuno di noi deve tenersi pronto ed effettuare ciò che si è proposto, l'emancipazione dei fratelli schiavi. Per bene della causa si affiglino alle associazioni quanti qui sono che non appartengono a Società.

Voi gridate a Roma ed a Venezia. Figli del generoso popolo di Palermo andremo a Roma ed a Venezia. Nello stesso modo che in una sola famiglia non vi possono essere figli liberi e figli schiavi, così in un solo popolo non ci possono essere figli liberi e schiavi. Il nostro voto e il voto del popolo italiano, è la voce di Dio.

Il Generale rispondendo alle associazioni di varie Società operaje diceva le seguenti parole 0 non bisogna cominciare, o cominciando bisogna Unirla.

Per finirla una volta per sempre ci vogliono armi ed armati innumero sufficienti e la nazione può dare al di là del bisogno. In caso di guerra la Russia dà il 15 per 100. Ebbene quand'ancheItalia non dasse altro che il 10 per 100, avremmo più di due milioni di uomini armati. E con questa forza credete a me si va a Roma ed a Venezia senza combattere. La Francia e la diplomazia tutta darebbero ragione al nostro dritto, l'Austria batterebbe subito la sua ritirata. Credete voi che se 100 mila uomini nel 1860 mi avessero seguilo, in mi sarei fermalo sul Volturno? oh! in avrei marcialo in avanti. Ma badate di non interpretar male le mie parole. Con esse non intendo dire che avrei fatto la guerra contro l'armata italiana: no questo non sarà mai. Noi dovremo procedere, e procederemo sempre di accordo col governo di Vittorio Emmanuele, e con la valorosa armata italiana. Dicendo dunque che se 100 mila uomini mi avessero seguito non mi sarei fermato sul Volturno, intendo dire che questi 100 mila uomini uniti all'armata italiana avrebbero potuto arrivare a Roma ed a Venezia, senza che alcuno avesse osato dire: da qui non si passa.

Persuadetevi, la forza del dritto, sta nel dritto della forza.

Pubblichiamo altri discorsi di Garibaldi.

A Corleone (la sera del 10 luglio nella casa Bentivegna).

Un popolo che può dare del Bentivegna, dei Firmalura, ed altri prodi che operarono gli ultimi fatti, che tanta parte presero alle ultime lolle per la libertà e l'indipendenza d'Italia, è un popolo di forti, ve ne assicuro io.

Non in solo, ma voi, ma tutti abbiamo fatto qualche cosa per questa nostra Italia. Però ci resta ancor molto - ci resta ancora a liberare i nostri fratelli schiavi.

A Roma, a, Venezia, voci frenetiche.

Io ho percorso l'Italia in tutti i sensi, e dovunque, dal grande al piccolo, dal vecchio al giovane ho udilo elevare quest'amico grido.

Roma! molte volte abbiamo chiesto che Roma si sgombri-ed è vergogna per noi che vi siano schiavi ancora in Italia.

Roma! Sì, noi dobbiamo ripetere al padrone della Francia, che sarebbe tempo che ci lasci Roma, che ritiri le sue truppe, perché noi Italiani non abbiamo bisogno di protettorati, perché Roma è nostra, perché senza Roma non vi può essere Italia.

Roma! Noi non chiediamo l'altrui, chiediamo ciò che è nostro. Essa ci appartiene. Non sono veri i sotterfugi coi quali il tiranno di Francia restasi a Roma. Egli non vuole proteggere il papa, non vuole difendere la religione di Cristo, Menzogna! Egli vi resta per libidine del dominio, quando un popolo di 25 milioni crede potentemente, ha dritto, e modo di far rispettare la sua autorità.

(A Roma, abbasso il tiranno).

Io vi ringrazio, resterò grato per tutta la vita a questa e generosa popolazione por la magnifica accoglienza fatta, non all'individuo ma al principio.

(A Misilmeri 11 luglio dalla casa Gacciardi).

Sono ormai passati due anni che in ebbi la fortuna di vedere questo popolo generoso. Ricordo commosso la bella accoglienza che allora in tempi ben più difficili mi faceste. Il vostro patriotico slancio di allora incoraggiò me ed i miei compagni. Ricordo veramente commosso quei giorni.

Un popolo che nei momenti di pericolo non retrocede, saprà marciare avanti al compimento de' suoi destini.

(Viva Roma? Viva Garibaldi).

Queste grida sono eccellenti augurii per la causa dell'Italia nostra perché se qualche cosa abbiamo fatto in pochi, cosa faremo in molti?

Un giorno col valoroso nostro esercito revindicheremo dallo straniero ciò che è nostro, Roma e Venezia, quel giorno non è lontano.

Oggi deve finire questa vile tresca degli stranieri, che l'Italia hanno fatta una villeggiatura, un luogo di piaceri.. Amici li abbracceremo come fratelli, nemici li combatteremo.

Nella Cattedrale.

Quando Gesù Cristo, il primo legislatore dell'umanità fece agli uomini il supremo dono del Vangelo, egli li benedì fin la legge santa dell'eguaglianza e della generazione sociale. Da quel momento sparì la distinzione tra padroni e schiavi, tra poveri e ricchi, tra deboli e potenti, tra gli uomini delle glebe e quelli che siedono sui troni,

e non in un borgo, non in una città, non in un popolo, ma in tutto il mondo intero. Questa legge dev'essere invocata da noi come codice delle associazioni le quali hanno per iscopo di migliorare l'umanità. È mestieri quindi che la classe elevata si unisca a quella dei meno intelligenti, a quella degli operai. Quando ciò sarà fatto spariranno dalla terra gli antagonismi che sgraziatamente esistono nella umana famiglia, antagonismi ai quali si collegano la rivoluzione dell'89, e gl'incendii di Pietroburgo.

Io ha avuto la fortuna di consigliare in Palermo la unificazione delle società politiche. Ilo avuto la fortuna di essere ascoltato ed esaudito nel desiderio mio, cioè che alla gente più intelligente e più agiata è necessario unire l'ignorante ed il povero.

Ciò che consigliai a Palermo, consiglio a Misilmeri. Quando il desiderio mio venga appagato, avremo raggiunto lo scopo di una migliore direzione, e gli operai potranno occuparsi di politica, senza pregiudizio del lavoro e dei loro interessi.

Ciò non è che un parer mio. in però non voglio che il mio volo x propenderà sugli altri. in voglio soprattutto la Concordia.

(voci: viva la Concordia).

Sì la concordia è la base dell'esistenza politica. Noi abbiamo avuto la sventura di esser dominati dallo straniero, perché discordi. Ora chieggo all'associazione unitaria ed operaja, se accettano il pensiero di fondersi.

(Voci: accolliamo, accettiamo).

Vi ringrazio della patriótica liberazione.

(Viva Garibaldi, Roma, Venezia).

Roma! Questo grido prova il generoso proposito di questa popolazione-Roma e Venezia. Sovvenitevi che questo pensiero domina tutte le operazioni della mia vila. Sta in cima a tutt'i miei pensieri.

Un anno dietro e propriamente nel 18 luglio del 1861. dopo ordini del generale dei carabinieri, di accordo con la questura di Napoli, un drappello di soldati di quest'arma si presentava allo scoglio di Frisa in una villa dove si credeva esistere un Comitato borbonico in allo di cospirare contro la sicurezza dello stato. Il luogo era in tutti i casi scelto con molta intelligenza, si poteva giungere alla villa isolata per mare e per terra, luna e l'altra strada frequentatissime

permettevano senza dubbio ai cospiratori di transitare a tutt'ora senza svegliare i sospetti, stante che nelle ville circostanti, quanto nelle due vicine trattorie moltissima gente affluiva ogni giorno. - L'arresto avvenne, e dopo un anno compariscono innanzi alla Corte di Assise di Napoli Morsi Cenatiempo, il Conte de Christen, la Santa Bercila, Tortora, De Luca, Roeber, de Angelis, Noli, Caracciolo, e Meneghini. - Gli avvocati che ne assunsero la difesa sono Tarantini, Bax, Troyse, Roberti, d'Urso, Morelli, La Cecilia, e Casella. Un numeroso pubblico è gremito nei recinto, e nelle tribune riservale si osservano molte persone distinte. Uno stenografo siede d'appresso al banco del pubblico ministero, i giornalisti napoletani, e parecchi corrispondenti dei giornali esteri occupano i posti riservati.

A capo del primo banco troviamo la signora Santa Beretta. Questa donna ha 45 anni, ed è pressoché impossibile immaginare una faccia ed un aspetto più volgare; il viso è nero, ha pelle rugosa, lo sguardo indeciso, il contegno è volgare. Elle tiene in mano un ventaglio col quale si fa brezza. La di lei reputazione viene accompagnata da esageralo bigottismo: esercitava mestieri stravaganti, faceva un pò l'indovina, un pò la medichessa, un pò la confidente; del resto teneva bottega di segreti per guarire le malattie, specialmente le malattie di occhi: essa stessa s'intitola

Appresso sta Roeber, giovane di circa 26 anni d'aspetto ordinario e volgare; è il servitore del Conte de Christen.

Meneghini anch'esso è uno di quegli agenti senza nessuna importanza, e senza alcuna significazione ne fisica, né morale.

Noli, che pare, secondo l'istruzione, aver fatto la parte di delatore, ha circa 50 anni, fisionomia di volpe, sguardo astuto, faccia aspra nella quale si trova il basso tipo ebraico, una barba grigiastra e lunga.

Il Conte de Christen, giovane di anni 26 ha la fisionomia aperta e simpatica, improntata di nobile distinzione, il volto pallido; la larghezza della fronte, la vivace mobilità degli occhi giunta alla purezza dello sguardo indicano l'intelligenza unita alla risoluzione ed al coraggio.

Caracciolo antico uffiziale dell'armata napoletana è un tipo magnifico di quella energica razza meridionale nella quale si trova tutto lo splendore degli antenati greci unito alla severa espressione della fisonomía spagnuola: il suo sguardo è di fuoco, il contegno dignitoso e risoluto.

Tortora ha l'aspetto di un onesto e placido cittadino, e non si potrebbe al suo contegno per nulla supporre un uomo mischiato in qualche gran disegno politico.

Monsignor Cenatiempo era vicario generale del Vescovo di Avellino, ma non è stato mai vescovo come si è creduto. 'Egli ha una fisionomia placida, ma piuttosto ironica, la bocca un pò grande si stringe talvolta in un sorriso tutto ecclesiastico: pare aver 45 anni, capelli grigi, due occhiali gli nascondono lo sguardo a segno da vietarci di definirlo. Egli affetta indifferenza tale da sembrare quasi estraneo al dibattimento.

De Angelis ha 20 anni, una faccia da ragazzo, un viso piuttosto grazioso, l'occhio vivo, intelligente, il gesto rapido ed espressivo dei Lucani: egli è messinese. Sembra facesse da arruolatore.

De Luca, che pare facesse anche lui da arruolatore, è un uomo insignificante in tutto.

Ecco il fatto quale sorge dall'istruzione.

La sera del 18 luglio 1861 alle ore 10 pomeridiane un drappello di soldati di polizia e di carabinieri circondano il casino sito alla punta di Posilipo detto lo scoglio di Frisa. Ciò fatto si picchiò alla porla, e la prima volta nessuno rispose, e tutto restava silenzioso una seconda volta si picchiò inutilmente ancora, ma nell'interno del casino si senti un'agitazione straordinaria. Le sedie si muovevano a passi precipitali indicavano genie che si preparasse alla fuga. Allora il comandante la forza ordinò la scassinazione della porta d'ingresso. Ciò fatto si trovarono in presenza di un certo Cardinali, guardaporta del palazzo, ed accanto a lui un tal Salvatore Magliardo, e Sigismondo Vagano. Si vide costoro non esser roba da cospirazione e si andò in traccia di altri soggetti. Monsignor Cenatiempo fu il primo che cadde nelle mani dei carabinieri, e si trovarono nascosti dopo perquisizioni, Ettore Noli, e Girolama Tortora. E continuando la loro perquisizione i carabinieri trovarono documenti, armi, munizioni e danaro, una valigia di Cenatiempo che conteneva 32 piastre,

ed una fede di credito di due mila ducati in un sacco di notte che più tardi si seppe essere di De Christen. Più minute ricerche fecero scoprire un elenco di congiurati pronti a sollevarsi, una nota dei capi, un notamento delle persone devote ai Borboni, con l'indicazione del luogo delle loro abitazione, i nomi di quelli che dovevano somministrar danari, in fine diverse lettere di una signora Petrella.

Ma documenti più gravi ancora furono anche sequestrali: le corrispondenze, tre telegrammi rubati all'ufficio del telegrafo di Napoli nei quali i governatori delle provincie domandavano soccorsi contro i briganti, un scritto da Noli sui movimenti reazionarii e sullo stato di tutte le provincie, una lettera di Mons. Cenatiempo a Cesare Firrao a Roma, la cifra di chi si serviva il generale Contendon per scrivere a Francesco II sotto il nome di conte di Mayes, le ricevute delle somme incassate, una corrispondenza scritta in cifre da Noli segretario del Comitato reazionario, diversi documenti della stessa mano tutti riconosciuti da Noli, che rivelò l'origine ed il progresso della congiura, i luoghi di riunione, i mezzi preparati, i nomi dei principali congiurati, le spedizioni progettate. In fine si scopri una quantità grandissima di polvere.

Caracciolo, che fu arrestato presso Cosenza nel comune di Gizii, nel punto che pareva volesse andare a Roma per conferire con Francesco II era il segretario del Comitato.

Cenatiempo raccoglieva danaro ajutato in ciò da Barelli e da Salvatore Avellino. Il casino fu affittato da Cenatiempo e dal prete Avellino, ed una barca fu fornita dal nipote del famoso Manetta, la quale serviva per andare da Portici a Frisa, e da quivi a Gaeta. De Luca fu presentato alla Santa Berretta da Néli.

Le rivelazioni fatte da Noli sono importanti, e noi non possiamo qui trasandarle.

Arrestato Noli quale complice dopo essere stato segretario del comitato, e dopo aver fatto a Roma un viaggio nel quale fa in rapporto diretti con Francesco II si presentò come un uomo devoto al nuovo governo, che cercava solo intromettersi nella congiura per rivelare il segreto a lui affidato. Assumendo questa parte Noli non esita a denunziare i correi, e produrre un sistema in suo discarico incriminando tutti. In sostanza egli disse.

Il palazzo di Frise fu abitato da lui, da Cenatiempo, dal generale Coatondon, il visconte de Moyol, de Luppè, Tortora, e la donna che viveva con lui. D'accordo poi con Mons. Cenatiempo afferma essere stato Tortora il cassiere della Società, il danaro raccolto doveva servire. alla ristorazione dei borboni, e lo spendeva Tortora come credeva.

Avere Cenatiempo versato da prima e sempre nelle mani di Tortora in varie volte duc. 5000. -Assicurava alla sua volta Cenatiempo di aver passato a Tortora in varie riprese circa duc.600, quegli stessi raccolti dalla signorina Petrella.

Ei parla cosi.

Il Cenatiempo raccolse ili breve tempo delle somme vistose, eh«in parte versava nelle mani di Girolamo Tortora, che era il cassiere del Comitato e parte spendeva con costui in tanti pranzi e bagordi.

E continuava il Voli.

Mi costa direttamente e per confidenza fattamene dall'ex segretario generale Domenico Sansone che sborsavano delle somme in varie volte al generale de Coatondon nella scienza dell'uso di esse, cioè per la riuscita della borbonica reazione S. E. il Cardinale di Napoli, il Duca di Bovino, il primogenito del Principe di Montemiletto, il primogenito del Principe di Ottajano ed i negozianti D. Luca Buonocore, e Ragozzini, ed un cerajuolo di cui men mi si disse il nome domiciliati tutti e tre al mercato, ove esercitano la loro industria, mi costa egualmente che il generale de Coatondon che introitava delle somme vistose ne usava per l'organizzazione delle bande, spendendo danaro nelle Provincie, e taluna volta passandolo a dagli ex ufficiali borbonici che arruolava e spediva nelle dette provincie. Nulla però potrei dire di preciso, perché il suddetto generale serbava scrupolosamente mistero su tutti. Conosco però che dette somme furono da lui passate al signor Giuseppe Capomazza ex-Ispettore di Polizia. Il danaro per l'acquisto di due pariglie di pistole che servir dovevano per l'assassinio che padre e figlio Boccadoro consumar dovevano in persona di Cialdini fu sborsato da Coatandon.

Proseguendo l'istruzione ritroviamo istruzioni di Cenatiempo e di Noli.

In fine per dare una idea esatta di quanto lia dichiarato il Noli a carico di tutti e principalmente di Tortora riportiamo testualmente un altro brano di un importantissimo interrogatorio nel quale si tratta di un progetto assassinio contro il generale Cialdini che allora comandava l'armata nell'Italia meridionale.

Il danaro, ei dice, dato a Gerlando Boccadoro, ed al di lui figlio Antonio, che aveva assunto l'incarico di uccidere il generale Cialdini fu passato agli stessi da Girolamo"Tortora in duc. 120 dovendo poi ricevere maggior compenso ad opera eseguita.

Noli soggiunge.

Mi costa egualmente che per mezzo di D. Salvatore Cardinale il Tortora pagò a Luigi Larizalone duc. 130 ex sergente dell'ex guardia reale borbonica, di poi capitano garibaldino, il quale si recò nel Cilento per arrollare gente che servir doveva alle bande reazionarie borboniche; e Salvatore Cardinale presentò a Tortora il ricevo di Lunzalone il quale fè ritorno dal Cilento quando il Comitato fu scoverto.

Ricordo, finisce per dire il Noli, che Cardinali e Tortora passarono una volta al colonnello Nicoletti duc. 60 che doveva mandare all'ex-sergente di gendarmeria Viscusi che comandava la banda di Somma ed altra volta il Tortora passò allo stesso colonnello dieci napoleoni per lo stesso oggetto. Dopo si seppe che di tutto il danaro cioè dei duc.60, e dei dieci napoleoni appena sette piastre erano giunte a Viscusi. Venne ciò assicurato da Giosuè Vespoli, cui l'aveva detto un tal Cretella che manteneva la corrispondenza tra Nicoletti e Viscusi.

Lo stato delle forze di cui i congiurati potevano disporre sorge da una lettera scritta in cifre da Coatandon a Francesco II, ed è il seguente.

Stato delle masse dipendenti da C. F.

N.° 225 soldati del disciolto esercito comandati da Mig: e de Btts, Napoli-N.° 700 armati comandati dal sig. de Lorenzo Scafati - N.° 550 urbani in parte armati sotto il comando del sig. Nicola Tortora - Pagano - S. Egidio - Corbara - S. Lorenzo - Nocera. N.° 7500 Polla, Diano, Auletta, - comandati da Palmieri, Saladini, Colletta, e D. Francesco Novello -

N.° 70 fra quali sono compresi 15 negozianti, e dei quali 40 con fucili, gli altri inermi comandali dall'impiegalo della vecchia polizia N. N.

Il Noli dichiara unitamente a Mons. Cenatiempo di essere quello stato di carattere del cav. Tortora, e le due lettere iniziali di C. T. sono quella del suo titolo e del suo cognome.

Disse inoltre il Noli che i due cognomi abbreviati Mig. e Blts, sono quelli dei due complici Migliardi e de Benedictis e che l'impiegato della vecchia polizia segnato N. N. sia ex ispettore Giuseppe Capomazza.

Dall'interrogatorio di Noli si rileva pure che i congiurali dovevano far testa a Capodimonte o quindi sopra Napoli, e che una delle prime loro operazioni doveva esser quelle d'impadronirsi del Castello del Carmine, forando un muro della Chiesa contiguo a quel Castello.

Dopo quattordici giorni di pubblica discussione fu pronunziala la seguente sentenza.

Per Santa Berretta, essendovi le circostanze attenuanti, la Corte sospende la sentenza, e rimandai altra sessione-Francesco de Angelis è condannato a cinque anni di reclusione in grazia della giovane età-Bonaventura Cenatiempo, Girolamo Tortora, Emilio de Christen, Achille Caracciolo, e Domenico de Luca convinti di aver cospirato contro lo Stato sono condannali a 10 anni di lavori forzati, ed a 200 lire di multa per ognuno. - In fine Rocher, Menghini, e Noli, quest'ultimo in virtù dell'art. 179, sono rimessi in libertà.

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DOCUMENTI

Documenti relativi alla spedizione di Garibaldi in Sicilia.

Mentre nella Camera si discute di materie finanziarie succede la. circolazione del proclama del Re. Succede un breve, ma tempestoso incidente se debbasi o no sospendere la discussione per dar luogo ad una interpellanza del dep. Ferrari. - La Camera è agitatissima. Si legge il proclama reale che è interrotto da vivi e frequenti applausi - L'onorevole Ferrari ha la parola.

- Questo proclama esprime sentimenti, cui in aderii sin da quanto entrai nel primo Parlamento italiano. in ho sempre desiderato che trionfasse la più rigorosa legalità, lo ho prestato sincero ossequio allo Statuto sagrificando sull'ara della patria tutti i miei antecedenti convincimenti. in intendo fare una interpellanza nel senso e nello interesse stesso dello Statuto. in protesto che nessuna intelligenza corre fra me e Garibaldi. Lo Statuto è una istituzione. Voi senza città capitale, con una unità effimera, con la guerra di briganti sorgete con l'arma dello Statuto alla mano quasi fosse sicura come la costituzione del loro paese nelle mani dei ministri inglesi. Voi siete imprudenti a gittare in mezzo al paese delle parole che oggi sono inopportune. Voi credete che il momento dell'energia sia venuto, che la legge debba essere imposta ai reluttanti. Quali sono le persone che voi volete combattere? in non voglio anticipare nomi, ma non posso ignorare che Garibaldi è in Sicilia, e che Garibaldi non si muove inutilmente. Garibaldi ha una storia, Garibaldi ha dei seguaci, degli amici nel paese, nelle Camere, persin nella Reggia. Garibaldi è quello che ha donato un regno alla Casa Savoja. Se il nostro proclama è contro di lui, se volete misurarvi con lui, noi siamo alla vigilia della guerra civile. - Il ministero non è sorto a dichiarare che Garibaldi è il punto obbiettivo del suo proclama. Se in m'inganno sul silenzio del ministero, se Garibaldi è in causa permettetemi che ci si esponga chi è Garibaldi, meglio anzi, quali idee rappresenta.

Egli rappresenta la generalità dell'Italia. in ne parlai al Conte di Cavour, al quale dissi ch'egli faceva gl'interessi della Casa Savoja Garibaldi sarebbe nulla se i popoli non lo seguissero. Permettetemi una particolarità che vi spiegherà come Garibaldi sia entrato in tante città. Egli nonne bombardata Voi avete dovuto evocare un'antica tradizione.

Garibaldi rappresenta il popolo. Signori, in constato fatti, annunziando la sua popolarità e la sua influenza. Voi dite di andare a Roma chi con questo, chi con quello. Egli va col popolo. Evidentemente voi potete impedirlo coi vostri battaglioni. Supponiamo che Garibaldi osi resistere. Sarebbe la Sicilia che vi resiste.

I briganti vi resistono a 10 a 20 a 50 uomini, perché non sarà possibile a Garibaldi sostenersi come fanno i briganti, Garibaldi desta simpatia. Io vengo da Milano. Milano gli manda delle reclute. Non vogliate dare il segnale della guerra civile. Voi vincerete, in ve lo concedo, ma quali saranno i frutti della repressione? Voi ve ne pentirete per i primi. Finora le vostre mani sono pure. Si contestano le vostre proposte, e voi avete sempre la volontà del paese che vi appoggia, ma non ponete la mano nel sangue!

Il sangue chiede sangue. Le sommosse si succederanno. La libertà sarà sostituita dal dispotismo, sul pendio del quale non potrete sostare. La unificazione si fa con la forza. La storia ve lo dice, una piccola monarchia che si è quintuplicata in due anni è un grave inconveniente. Voi Sarete trascinati, per concentrare l'unità a fare un colpo di stato. Sarà bene, sarà male: ciò accade. Io parlo di guerra civile, perché la temo; se scoppiasse voi sareste trascinati a questo colpo di Stato. Supponete che l'Austria incoraggi i disordini, che la diserzione diradi le file dei nostri soldati.......

Il dubbio che il Ministero sia di accordo con Garibaldi è inoculato con tutti.

Voi siete stabiliti sull'equilibrio.

Riassumo la mia interpellanza.

1° Quali sono i fatti che occasionarono il proclama di questa mattina.

2° Se non vi siano altri mezzi prima di ricorrere alle armi.

Io ritengo che Garibaldi sarà il primo a ritirarsi quando gli si affacciasse il pericolo di una guerra civile.

lo son felice di non aver mai compulsato il governo ad andare a Roma.

Nel rispondere alla interpellanza dell'on. Ferrari risponderò anche alle sue osservazioni. Ei chiuse la causa del proclama letto. Questi fatti sono già nella mente universale. - E inutile che mi dilunghi. Si sa degli arruolamenti che si facevano anche dicendo che vi era il consentimento del governo. Era necessario perciò che il governo li disdicesse. - Ci si chiede se il governo ha dei mezzi per frenare dei tentativi. Sì il Governo ha tutta la forza possibile, e saprà frenare ove venga il caso.

L'onorevole Ferrari si professa, devoto allo Statuto, e mi dice che il proclama può esser conforme allo Statuto, ma non alla prudenza. Noi giurammo lo Statuto, e lo manterremo. Il regno è concordo, perché il re si eleva su 22 milioni d'Italiani. Il re è il più potente Sovrano, perché ha con se il suffragio universale.

E come fu che il piccolo Piemonte divenne l'Italia di 22,000.000?

Ciò avvenne, perché il Governo aveva con se il prestigio dello Statuto e della libertà. A questo Statuto poi non verremo mai meno.

L'onorevole Ferrari disse che Garibaldi rappresenta l'Italia. Non è vero, Garibaldi operò grande cose; ma perché aveva sulla sua bandiera:Riconosco che Garibaldi prestò al paese servizii singolari; ma appunto per questo egli dev'essere il primo a rispettare le legge. E quando Garibaldi non rispetta la legge e si assume un'autorità ch'egli non ha entra nella sfera degli uomini comuni, e la legge lo colpisce. Ma confido che Garibaldi non vorrà non rispettare la legge.

Non si dica a noi che vogliamo la guerra civile; no, noi leviteremo sempre.

Respingo pure l'insinuazione fatta che noi possiamo fare un colpo di stato: la respingo anche a nome de' miei colleghi.

Il proclama del principe sarà accolto con affetto dalle popolazioni.

E poi dica l'on. Ferrari che vuol che si faccia quando un uomo si assumesse i dritti della Corona e del Parlamento? Si lascerà al giudizio di un uomo il destino della nazione?

Non si può a questo momento chiudere la discussione. Il Deputato Ferrari è illustre, ma non rappresenta le nostre idee. Ci vorrete negare di esprimere le nostre idee?

Anche noi deploriamo la guerra civile. Nei governi costituzionali il re è superiore a tutti gli uomini, ed il proclama è un atto censurabile. Allo stato presente delle cose in Sicilia non si è violala la legge, non s'intaccò lo Statuto. Si provocò l'attuazione del gran principio della unificazione d'Italia. Il proclama del Genera le Garibaldi giunto per telegrafo rende giustizia al valoroso nostro esercito, e protesta gratitudine ai nostri alleali, il generoso popolo francese.

Nelle riunioni che si tennero non venne punto violata la legge:

Bastava l'autorità regale, non faceva d'uopo ricorrere ad un proclama. Il Governo andò pure nelle Romagne a nome della rivoluzione.

Chiudesi la discussione.,

Ecco il proclama del Re che ha dato luogo alla surriferita discussione.

Italiani - Nelin cui l'Europa rende omaggio al senno della nazione, e ne riconosce i dritti è doloroso al mio cuore che giovani inesperti, illusi, e dimentichi dei loro doveri, e delle gratitudini pei nostri migliori alleati facciano segno di guerra il nome di Roma, quel nome al quale intendono concordi i voti e gli sforzi comuni. Fedele allo Statuto da me giuralo, tenni alta la bandiera dell'Italia fatta sacra dal sangue, e gloriosa dal valore dei miei popoli.

Non segue questa bandiera chiunque viola le leggi, e manomette la libertà e la sicurezza della Patria, facendosi giudice de' suoi destini.

Italiani,

Guardatevi dalle colpevoli impazienze, e dalla improvvida agitazione.

Quando l'ora del compimento della grande opera sarà giunta, la voce del nostro Re si farà udire tra voi. Ogni appello che non è il suo è un appello alla ribellione, alla guerra civile; la responsabilità ed il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole. Re acclamato dalla nazione conosco i miei doveri, e saprò conservare integra la dignità della Corona, e del Parlamento per avere il dritto di chiedere all'Europa intera giustizia per l'Italia. ,

E questo il Proclama del generale Cugia, Prefetto in Palermo nel tempo in cui vi si trovava Garibaldi.

Palermitani. - Un sentimento di devozione al Re ed alla Patria, m'indusse ad accettare il nobile ufficio di reggere la Prefettura di Palermo. Nello adempimento del difficile incarico in mi affido alle vostre virtù cittadine.

Da gran tempo imparai ad ammirare la generosa iniziativa di questo popolo in tutte le patrie imprese, la sua indomabile fermezza, la sua abnegazione, i suoi sagrifieii. Da gran tempo fui persuaso che la Sicilia per la sua posizione, per la ricchezza del suo suolo, e per l'ingegno de' suoi abitanti è destinata ad un avvenire di prosperità e di grandezza.

Ma per giungere a tal fine era necessario ch'essa facesse parte della patria italiana con l'ordine, con la sicurezza pubblica, e con la buona amministrazione: questo è ciò cui dobbiamo intendere insieme con tutte le forze.

Fatalmente al momento che giungo tra voi deplorabili illusioni hanno suscitato un'agitazione, cui lo scopo è generoso bensì, e voluto da tutti, ma che si traduce in atti opposti alla legge, e già severamente condannati dalla parola del Re e dal voto del Parlamento.

In questa dolorosa circostanza la mia linea di condotta è inalterabilmente tracciata; farò rispettare la legge.

Palermitani,

Nativo di un'isola sorella; scendendo in queste rive mi parve di toccare il suolo nativo; e l'affetto cui fa sperare intendere i vostri bisogni ed i vostri desiderii. Soldato mi presento a voi col sol titolo di aver combattuto anch'io per la libertà ed indipendenza nazionale.

Estraneo ai partiti in invoco il concorso e la cooperazione di ogni ordine di cittadini. La spero da tutti coloro che hanno voluto

A proposito della stessa insurrezione di Sicilia riportiamo un ordine del giorno del Ministro Petitti, dato il 5 agosto. Soldati,

Alcuni sconsigliati minacciano compromettere le sorti d'Italia- II Re ha già parlato alla nazione; e la regale parola insegna a voi la via a seguire.

E voi la seguirete. Col vostro contegno, con la vostra fermezza voi eviterete la maggiore delle sciagure, la Guerra Civile.

E se alle voce sovrana le colpevoli impazienze non si calmino, per quanto doloroso possa tornarvi voi farete il vostro dovere. Soldati!

Nella insensata impresa s'invoca una solidarietà con voi, che in a nome vostro respingo.

A nome vostro dichiaro che le gloriose nostre tradizioni, la gloriosa vostra bandiera, la quale sventolò vittoriosa in certe battaglie non sarà macchiata. Soldati!

Il Re e la Nazione contano su di voi; alle antiche, alle recenti glorie voi siete chiamati ad aggiungerne una novella: mantenere rispettate le leggi, incolumi i dritti della Corona.

Ed è proposito di quest'ordine del giorno il deputalo Saffi nel di seguente 16 agosto, fa la seguente interpellanza nel Parlamento.

A mio nome, ed a quello de' miei amici deggio fare una dichiarazione di sentimenti in riguardo all'ordine del giorno del 4 agosto del ministro della guerra.

Quell'ordine del giorno disconosce i sentimenti del paese e dell'esercito stesso.

Né il paese, né l'esercito potranno considerare come un'occasione di gloria l'immensa sciagura di dover rivolgere le armi contro i proprii concittadini, contro i proprii commilitoni nelle pugne della patria indipendenza.

Fortunatamente la guerra civile è impossibile in Italia - nazione ed esercito vogliono la stessa cosa, il compimento dell'Unità italiana.

Saranno impazienze contro un'occupazione straniera, saranno proteste contro chi contende i nostri dritti, ma non saranno collisioni intestine.

Queste impazienze non sono colpevoli. sono generose; sono sintomi di vita, sono pruova che l'Italia non tollera codardemente l'arbitrio straniero.

Voi stessi, o ministri, non potrete resistere al bisogno di andare a Roma: Questo è il problema, del giorno, del secolo, dell'Italia, del mondo.

- in non ho dolore, né rimorso di un atto che la mia coscienza non ha dettato.

Se quell'atto spiacque all'onorevole preopinante ed ai suoi amici, non spiacque altrettanto al paese, ne all'esercito.

Quest'ultimo sarà sempre pel Re e pel suo Governo.

Le colpevoli impazienze non stanno nel voto di andare a Roma ina nel volere andarci quando il Re che non crede venuto il momento opportuno, e cui spetta il dichiararlo, impone sostare.

L'esercito, ripeto, è tulio fedele, e sono menzogne quelle che circolano, ili defezione. Nessuno uffiziale diede la sua dimissione: nessun soldato mancò al suo dovere.

Il governo è stato longanime per evitare appunto la guerra civile, ma non potrà tollerare a nessun costo che altra disponga della prerogativa di condurre i destini del paese.

Appena cominciala la tornata del giorno Rattazzi pregalo da Minghetti a fare una dichiarazione sulle cose di Sicilia, egli dice le cose seguenti.

Prega la Camera ed il paese a non prestar cieca fede, e a non commuoversi per le notizie meno esatte, e quasi sempre inesattissime che venissero da Sicilia, e si pubblicassero dai giornali. Le cose non sono altrimenti a tal misura che il paese se ne possa allarmare. È vero che il generale Garibaldi quando gli fu presentato il proclama del Re ha sulle prime dichiarato non volere non, potere per esso ritrarsi dalla via in cui si è messo. Ma perciò possono perdersi le speranze di vederlo ritornare sulle sue dichiarazioni. Di ciò anzi il Governo mostra profonda lusinga. È falso che sieno avvenuti scontri fra il generale Garibaldi ed i suoi volontarii da una parie, e le nostre truppe dall'altra. È falso del pari che abbiano avuto luogo diserzioni nell'armata. Tutt'all'opposto, lo spirito dei nostri soldati ò eccellente e consono alla più rigorosa disciplina. Diserzioni sono invece avvenute nelle file dei volontarii di Garibaldi.

Il qual fatto è una delle circostanze che potranno influire con giovamento sull'animo del generale, perché egli si ritragga dalle sue imprese. Quando arrivino al governo notizie di rilevanza, la Camera ed il paese non dubitino che i Ministri si faranno un do. vere di pubblicarle immediatamente.

risponde che chi si fa organo delle notizie alterale o false che vengono, o si dicono venute da Sicilia non sono soltanto i giornali cui accennava il presidente del Consiglio, sibbene anche la che riferiva poco stante il telegramma in cui si leggeva

la quale proposizione è affatto, quanto poi al dire che il generale Garibaldi non si è inchinato alle parole del Re, l'oratore trova queste parole in contraddizione con altre state pronunziate dallo stesso Presidente del Consiglio. Il sig. Rattazzi lia detto che il proclama del 3 agosto era un atto governativo come qualunque altro, perla quale il Ministero si costituiva responsabile. Or perché si viene a mettere in campo la persona del Re? Garibaldi non è che abbia negato di ottemperare alla parola del Re, sebbene egli ha dritto di avere un'opinione diversa ed anche opposta a quella del governo. Tanto è vero che può averla che domani potrebbero venire al gabinetto uomini che rappresentassero le sue opinioni.

Ricorda al presidente del Consiglio che egli il 10 dicembre 1848 si trovava in, una posizione presso a poco analoga, a quella in cui si trova oggi il generale Garibaldi, e che sei giorni dopo quell'epoca, egli, il sig. Rattazzi sedeva nei Consigli della Corona. Prega la Camera di non pronunziarsi intempestivamente sul carattere di ciò che oggi fa il generale Garibaldi. Egli finora deve credersi che è nella legge.

I tribunali giudicheranno pur come hanno fatto in occasione dei fatti di Sarnico, e la Camera vedrà che molto probabilmente non si riuscirà ad un successo differente da quello, a cui sono riusciti quei fatti di cui non è rimasta che l'ombra.

Svolgendo le pagine della nostra storia degli ultimi tredici anni troviamo il nome di Rattazzi accoppiato ai più importanti episodii della nostra libera vita. Egli cinque volte Ministro. e fra queste tre capo del Gabinetto; egli due volte Presidente della Camera subalpina, ed una volta Presidente della prima Camera del Regno d'Italia. Sempre però avvenimenti anormali, e sventurati hanno accompagnato la sua prevalenza al potere, in guisa che ormai, e dopo gli ultimi avvenimenti nazionali, il suo nome suona sventura in Italia. E per quanto egli oggi resista alle accuse, ed audacemente si arrabbatti a ricuperare il perduto potere, la pubblica opinione teme di lui, sospetta potentemente del suo avvenimento al potere, e qualora ciò si verificasse per un concorso fortuito di eventi, essa, pubblica opinione, non tralascerebbe di vedere in ciò un cambiamento di politica nel senso di retrogradismo e di repressione. A lui s'imputa la sciagura di Novara, a lui la cattiva riuscita delle elezioni nel 1851, a lui la ritardata annessione dell'Emilia e della Toscana, a lui le inopportune opposizioni a Cavour. ed il volerlo orgogliosamente emulare. Nel 1859 abusò dei pieni poteri: nel 62 spense l'elemento rivoluzionario, e tradì Garibaldi: fin anche nell'opposizione fu cavilloso, meschino, personale.

I suoi amici gli volgono ad encomio che re Carlo Alberto dalla sua solitudine di Oporto lo raccomandasse come uno fra quelli, cui potesse meglio la monarchia affidarsi. Noi in vero non sapremmo dire quanto onorasse il Rattazzi le raccomandazione di un Re che per secondarne i consigli dovette abdicare. Non è a meravigliare che colui che non seppe conoscere il suo primo ministro quando era in trono, continuasse a disconoscerlo dopo esserne disceso.

Urbano Rattazzi nasceva nel 1810 da una famiglia borghese 'di Alessandria. Compiva i suoi studii universitarii nel Collegio delle Provincie, e pochi anni dopo, munito di laurea in ambe le leggi, veniva aggregato, dietro concorso alla facoltà di giurisprudenza di Torino quale dottore collegiato. Nella sua vita privata altro non v'ha che sia degno di storia.

Prima che il Piemonte avesse ottenuto lo Statuto, Rattazzi non era nulla più che un avvocato, né consta ch'egli prendesse parte in alcun modo in taluno di quei movimenti politici che prepararono il 1848. La prima occasione che dal campo forense lo fece passare nel politico fu la sua elezione a Deputato avvenuta nel collegio elettorale di Alessandria.

Entrato cosi in Parlamento colla prima sessione che inaugurava tra noi il regime costituzionale il Rattazzi ebbe ben presto occasione di distinguersi. La Lombardia inebriata ancora dal trionfo delle cinque giornate, aveva votato l'unione al Piemonte, ma agitata ancora dall'incomposto entusiasmo, opponeva a tal volo la condizione d'una Costituente che avesse a regolare le basi d'una Monarchia Costituzionale sotto lo scettro della Dinastia di Savoja. Siffatta determinazione, con le tendenze repubblicane di quell'epoca mantenute deste dalla vicina repubblica francese, produceva delle gravi apprensioni, ed alcuni vi vedevano per fino in pericolo la dinastia.

L'errore stava nell'annessione immediata prima di mandarsi a compimento la guerra, solita smania, ed aulica aspirazione piemontese l'annessione immediata. E Rattazzi il quale perché ottenuto avesse la desiderala annessione immediata poco si curava di tutte le Costituenti del mondo, Rattazzi fu per la costituente. Egli relatore della Giunta per le due leggi dell'annessione in contraddizione di Pier Dionigi Pinelli e di Cavour sostenne il voto dei Lombardi. E riuscito trionfante nella lotta riuscì a far parte del Ministero Casati, ritenendo il portafoglio della pubblica istruzione. Ma siffatto ministero fu il più breve fra quanti si ebbe fin'ora il governo costituzionale fra noi, poiché la rotta di Custoza precipitando a male le cose, e surtane quella fatale necessità che si disse armistizio di Salasco, e che faceva succedere la mediazione, il ministero dovette smettersi.

Al riaprirsi dei Parlamento, nell'ottobre, Rattazzi capitanò l'opposizione, e quando il Ministero della mediazione dovette cedere fu chiamato a ricomporlo Vincenzo Gioberti, Rattazzi ne fece parte.

Questo Ministero così detto democratico ebbe due diversi periodi: luno sotto la presidenza di Gioberti: l'altro sottoaspirazione, e la guida di Rattazzi. Son note abbastanza le cagioni per cui l'autore del Primato dovette cedere il seggio. In vece di ordinare le nostre forze, e farle compatte sul minacciato Ticino, egli ordinava una spedizione, dando così un pretesto all'Austria di romper la guerra, mentre noi non eravamo in caso di poterla sostenere. Quando questo disegno venne dal Gioberti proposto al Consiglio dei Ministri, Rattazzi era assente, tutti gli altri riprovarono. Che cosa avrebbe fatto Rattazzi se fosse stato presente? E' chiaro, quel che fece dopo, quando egli stesso fu chiamato al Ministero. Gioberti quindi si dimise, e con lui Rattazzi. Carlo Alberto accettò la dimissione del primo, ed incaricò il secondo della ricomposizione del Gabinetto. Allora fu che questo fatale Gabinetto dopo poche settimane disdissearmistizio, e ruppe la guerra, donde la memoranda catastrofe di Novara. Ma è d'uopo esaminare più accuratamente le condizioni delle cose in quell'epoca.

Fra i fatti più importanti è a tener conto di questo. -Facendoci indietro di qualche mese troviamo che il di 15 ottobre il Gabinetto Perrone in una sua nota ai rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra scriveva. «La lentezza con cui procedono i negoziati, i gravi avvertimenti che si verificano a Vienna ed in Ungheria, l'oppressione intollerabile sotto la quale gemono i popoli dell'Italia sottoposti al giogo austriaco hanno eccitato a tal punto la pubblica opinione, sia negli stati Sardi, sia nelle provincie Lombardo Venete che sarà difficile il poterle ancor contenere alcun tempo. Lo stato dell'Italia rende imminente una esplosione ben più terribile del mese del decorso marzo; crisi che il governo del Re non potrebbe padroneggiare, né impedirsi, di secondare senza correre ì più grandi pericoli, e senza mancare al suo dovere.»

Pochi giorni dopo la data di questo dispiaccio, impegnavasi nella Camera dei deputali una solenne discussione, provocata da un grave discorso del deputalo Buffa, il quale tendeva ad insinuare negli animi di tutti la fatale necessità della guerra.

Il Conte Camillo Cavour che allora sedeva sui banchi della destra finiva un discorso dicendo, u quest'ora suprema potrà suonare domani, potrà suonare fra una settimana, fra un mese; ma qualunque volta essa suoni, ci troverà, ne son certi, pienamente uniti e concordi sui mezzi della guerra, come ora lo siamo già tutti sul principio di essa.»

Il Ministro della Guerra, Generale Dabormida, quantunque non nascondesse che a ristorare pienamente le nostre forze, richiede vasi ancora un po di tempo, diceva:

L'esercito è pronto. l'esercito si è rilevalo dallo stato in cui trovavasi dopo l'inaspettato, l'imprevisto suo rovescio.»

Il Ministro dell'Interno Pirelli dichiarava.

Quanto alla mediazione siamo in questi termini che si dichiari alle Potenze mediatrici che, attesa la tergiversazione dell'Austria nell'assegnare una risposta alle proposte fatte, atteso quanto poco lealmente fossero eseguili i palli dell'armistizio, attese le circostanze attuali del lem ' noi prenderemo consiglio dalle opportunità unicamente, e che non siamo obbligati che dal paltò di denunziare di otto in olio giorni l'armistizio.»

Angelo Brofferio dalle tribune dice «Proclamate la pace, e la Repubblica proclamerà la guerra.» Ei parlava della Repubblica già proclamata a Roma, ed in Toscana.

Sotto questa impressione la stessa maggioranza ministeriale era tratta a volare un ordine del giorno, il quale dichiarava che il Governo «sul rifiuto delle proposizioni fatte all'Austria afferrerà con franchezza ed energia il momento opportuno di rompere la guerra.»

Tutta questa concitazione di animi si mette innanzi per giustificare la determinazione del Rattazzi alla guerra! Ma diciamo noi 'era sufficiente tulio ciò per spingere ad una guerra imprudente, ad una guerra, cui il Ministero sapeva benissimo non trovarsi preparalo il paese? Non è forse maggiore la concitazione degli spiriti oggi per muover la guerra all'Austria, per finirla una volta col Papa. e coi Francesi che sono in sua difesa? Non dura da tre anni questo furore di guerra, quest'esaltazione degli spiriti? Eppure la guerra non si e fatta, perché si è credula imprudente; anzi si è per fino giunto a compiere un Aspromonte. E quel Rattazzi che faceva Aspromonte nel 62, non poteva aver la fermezza di resistere alla maggioranza della Camera nel 48. Rattazzi che davasi in preda alla pubblica esecrazione, che spegneva l'elemento democratico in Italia, che con l'eccidio di Garibaldi giungeva per fino a macchiar d'ingratitudine la Monarchia, quel Rattazzi non poteva reggere alla maggioranza della Camera, ed alla concitazione degli spiriti in quel tempo? E perché poi quel furore di guerra non pote vasi soddisfare col sollecitare gli armamenti, con lo spingere più attivamente i negoziati coll'Austria, anzi che doveva assolutamente, ciecamente, fatalmente trascinare ad una guerra? Bisogna dunque conchiudere che la si volte una volta per sempre farla finita con le aspirazioni nazionali, si volte una volta per sempre colmare quel torrente d'indipendenza,

si volte finirla addirittura con quelle velleità, e si lasciarono venire le onde austriache in Italia, e si tentò un colpo estremo, quel che avesse potuto derivarne.

Il Ministero Perrone allora senti che doveva ritirarsi, e successe il Ministero Gioberti-Rattazzi, il quale significava guerra pronta. Interrogato il paese con le nuove elezioni, ne segui che da una maggioranza di quattro quinti si rispose all'indirizzo della Corona nei seguenti termini.»

Rincorali dall'energico voto della nazione, la quale non può durare più oltre nelle fatale incertezza, i deputali del popolo vi confortano, o Sire, a rompere gl'indugii, ed a bandire la guerra. guerra, e pronta. Noi confidiamo nelle nostre armi; nelle armi sole, e nel nostro dritto abbiamo fiducia.».

All'armistizio di Novara tennero dietro i moti di Genova, e l'occupazione di Alessandria per parte delle truppe austriache: la reazione cominciò a predominare dappertutto. In quest'epoca il Rattazzi fu meno ambiguo nel definirsi in politica. Egli si staccava allora dalla sinistra, e costituiva quel partito parlamentare che sotto il nome di usciva fuori col suo programma del 3 dicembre 1849. Per mezzo di esso il Rattazzi diceva come i principii della sinistra fossero sempre i suoi; ma che tutti i veri principi! non possono sempre ottenere una immediata applicazione, che tutti i tempi non arridono favorevolmente ai propositi anche più utili e più generosi, che la politica consiste soprattutto nella scienza della opportunità, e che le aspirazioni più elevate, e più liberali non escludono che si accetti, e si ajuti ogni passo che si faccia nella via di un perfezionamento gradualo. Divenne allora un gretto municipalismo la politica del Rattazzi, e come il paese

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giudicasse ognuno può immaginarlo. E data fin da quell'epoca quel municipalismo piemontese, che doveasi poi convertire in egemonia su tutti gli altri stati italiani, cui fin da quel tempo cominciò ad aspirare.

Avvenuto il colpo di stato in Francia per opera di Luigi Napoleone, la politica di Rattazzi si rendè sempreppiù determinata. Egli allora si avvicinòL'Austria prendendo argomento da ciò che era avvenuto in Francia cercò mettersi di accordo col Dittatore francese per restringere la libertà nel Piemonte. Napoleone non annuiva, ma per mezzo del suo ambasciatore a Torino, consigliava prudenza intorno alla stampa. E quindi il 19 dicembre 1851 il ministro Guardasigilli Deforesta introduceva nella Camera un progetto di legge diretto a punire più energicamente le offese recate dalla stampa ai Sovrani esteri. Convinto il Cavour della poca lieta accoglienza che una simile legge avrebbe trovata presso il partito della maggioranza del paese, malgrado i timidi consigli di d'Azeglio,

e di Galvagno si determinò a fare un passo ardito, quello cioè di staccarsi apertamente dalla destra ed associarli al centro sinistro.

Nella memorabile seduta del 4 febbrajo 1852 l'onorevole Menabrea si assunse di rendere più agevole questo compito, e quantunque fino a quel tempo non fosse stato che la lancia spezzata della destra, usci fuori a perorare per la necessità di una riforma radicale delle legge sulla stampa, soggiungendo esser venuto il tempo di

A fronte di questa dichiarazione, il distacco del. Ministero dalla destra divenne anche più pronunziato. Nella medesima seduta fa che Urbano Rattazzi imprese a parlare contro la legge Deforesta, offrendo nel tempo stesso al Ministero l'appoggio del proprio partito. Cavour allora accettava ed il connubio avveniva. «Sarei colpevole d'ingratitudine, diceva Cavour; se non riconoscessi che l'oratore, il quale seppe jeri tenere più desta l'attenzione della Camera, adoperò le armi più cortesi per togliere ogni amarezza alle sue opposizioni. Mi sento inoltre l'obbligo di ringraziarlo delle dichiarazione che volte permettere al suo discorso, con la quale, in vista delle gravi circostanze in cui versa il paese, promise di accordare il suo appoggio nella prossima sessione al Ministero; promessa di cui prendo volentieri atto; promessa che pregio altamente, perché se le circostanze consentiranno che l'onorevole oratore le mandi ad effetto, potremo riprometterci che nella nuova sessione egli adoprerà nel sostenere il Ministero qualche parte di quel grande ingegno che finora adoperò nel combatterlo; onde possiamo acquistare la fiducia di vedere appianala la via nella carriera parlamentare.»

Ed onde sorga più chiara l'accessione che avveniva fra Cavour e Rattazzi non taceremo le parole con le quali quel primo elimina l'estremo rappresentato in questa vertenza del Menabrea. «La Camera sarà convinta che in non posso, né debbo aderire all'opinione manifestata jeri dall'onorevole deputalo Menabrea, perocché il Ministro non può in alcuna guisa ammettere la necessità di un mutamento radicale delle legge sulla stampa nello scopo di renderla più efficace. Il Ministero non ha questa convinzione; i membri che lo compongono dichiarano all'opposto che nel caso in cui una simile proposta fosse fatta, partisse essa dai banchi dei deputati, o in altre circostanze da quelli del Ministero, essi la combatterebbero risolutamente. Forse questa mia dichiarazione sarà tacciata d'imprudenza, perché dopo di essa il Ministero deve a spettarsi a perdere in modo assoluto, il debole appoggio che da qualche tempo gli prestavano l'onorevole deputalo Menabrea, ed i miei amici politici. Ma il Ministero dichiarò già al cominciare di questa discussione che nelle gravi contingenze attuali stima come primo dovere di ogni uomo politico

quello di manifestare nettamente, e senza ambagi i suoi proprii intendimenti, di spiegare in presenza del parlamento e della nazione qual è lo scopo che si, propone di raggiungere, quale la condotta che si prefige di tenere.

In tal guisa la fusione dei due centri riceveva il suo battesimo parlamentare.

Ciò provocò una crisi ministeriale, per la quale Cavour usci dal Ministero, ma ben tosto vi ritornò. Con lui in quell'epoca, e propriamente nel 1854, fu Rattazzi col portafoglio di Grazia e Giustizia, e poco stante per l'uscita di Ponza di S. Martino, anche quello dell'interno.

In questo periodo della sua vita politica Rattazzi propose la legge sulle corporazioni religiose, e quanto cotesta legge soddisfacesse ai pubblici bisogni, lo hanno dimostrato i tempi posteriori, in cui è stato necessario allargarla e modificarla. Dalla sua iniziativa usci pure l'altra legge, che ora fa parie del Codice penale la quale stabilisce pene contro i Ministri dell'altare che nello esercizio delle loro funzioni facessero atti contrarii alle istituzioni dello stato. Ma fu tale il suo dispotico potere, tali furono i guasti della sua amministrazione che dal 1856 a tutto il 51 egli ebbe a sostenere delle, gravi lotte contro tutti i partiti che per rovesciarlo si fusero insieme; onde l'elezioni generali del 56 riuscite tutte di opposizione, egli fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni.

Alla pace di Villafranca, epoca infausta, come ognuno sa, per I Italia, Rattazzi era chiamato a succedere al conte di Cavour ed a formare il nuovo Ministero; ed egli, poiché nessun altro ne avrebbe avuto il coraggio, come non se l'ebbe il Cavour, egli conveniva a patto col più odiato dei nostri avversarii nelle conferenze di Zurigo. Ed era in piedi il Ministero Rattazzi-Lamarmora quando cominciò ad attuarsi la perniciosa teorica delle annessioni, non già nuova, come abbiamo visto più in dietro, non già nuova nella scuola Rattazziana. La Toscana infatti, Bologna, Modena, e Parma furono annesse al Piemonte. In quest'epoca il Ministero s'ebbe pieni poteri, e Rattazzi non fece che estendere a tutta l'Italia annessa le leggi piemontesi, le quali che cosa fossero e quanto potessero soddisfare ai bisogni di quelle popolazioni, ognuno lo intende, e chi intenderlo non sa lo ha visto dipoi abbastanza chiaramente espresso.

Le leggi che vennero alla luce in quel lungo periodo di quattro mesi di pieni poteri, non saranno da noi giudicate, ma le lasceremo giudicare allo stesso Rattazzi, il quale non esitò a dichiarare in pieno Parlamento che la brevità del tempo e la fretta con cui vennero compitate, lasciarono in esse la tracce di quella imperfezione, che l'opera sagace del Parlamento potrà tosto emendare.

Ed infatti la legge sull'amministrazione comunale e provinciale fu modificata dal Parlamento italiano nel corso della sessione del 1863: quella sul pubblico insegnamento fu reputata universalmente insufficiente, tanto vero che il Governo, luogotenenziale nelle provincie meridionali dovette farne delle altre, e poi vi fu rimescolamento delle antiche e delle nuove in guisa che la pubblica istruzione ora che scriviamo, è un vero caos, che chi sa quanto altro tempo durerà: quella sulle opere pie è stata già modificata in Parlamento, e non senza lunghe discussioni: quella della sicurezza pubblica si vide pure insufficiente e fu modificata dal Governo luogotenenziale, ed ora non regge che con raffazonamenti, e con modifiche apportatevi dai regolamenti.

Dopo il trattato di Zurigo, quando era voto generale la immediata annessione dell'Italia centrale, il Rattazzi la ritardava attendendo l'oracolo di Napoleone, ed aspettando il Congresso, che per altro non venne mai più: di ciò ragionevolmente gli fu fatta accusa gravissima. Del che egli nella tornala parlamentare del 26 maggio 1860, all'occasione della discussione del trattato relativo alla cessione di Nizza e Savoia, fra l'altro con le seguenti parole cerca giustificarsi.

«Per quanto in fossi avvezzo a conoscere quanto possano le ire dei partiti, e per quanto una dolorosa esperienza mi avesse dovuto persuadere a quante calunnie, a quanti ingiuriosi sospetti siano esposti gli uomini che si trovano sventuratamente costretti adtarsi nel mare tempestoso della vita politica; per quanto vi dico di ciò dovessi esser persuaso, tuttavia non avrei giammai potuto prevedere che oggi mi si volesse far rimprovero di aver avversalo l'unione con l'Italia centrale, anzi solo il rimprovero di non averla abbastanza favorita.»

«Ricorderò, o signori che non solo in questo recinto, ma anche fuori di esso, quando l'idea della unificazione d'Italia pareva un delirio, un sogno di mente inferma, in era generalmente designalo come, quegli che in fronte a tanti ostacoli mostrava francamente di aspirare alla unificazione d'Italia, e designato come ostile a questa unificazione,. come meno di altri solleciti di essa.»

Rattazzi cadde per tal fatto, e gli succedette Cavour: il suo ministero fu reputalo di transizione, e di sventurata transizione. Ma chi vuol conoscere quanto il paese si trovasse irritato contro di lui, lo potrà rilevare dalle sue stesse parole, che egli pronunzia per difendersi.

«Non vi era alto della nostra amministrazione che non venisse aspramente censuralo, Le leggi che noi fummo costretti di fare per meglio fondere gl'interessi della Lombardia con quelli delle antiche province, erano argomento di continue disapprovazioni per parte di chi non le conosceva;

poiché quelle leggi hanno potuto offendere qualche interesse locale, qualche suscettività municipale, ma certo informale allo spirito vivificatore della libertà e del progresso. Non v'era intenzione nostra che non fosse in qualche guisa travisata. L'illustre generale che presiedeva alle cose della guerra, e della cui amicizia altamente mi onoro, quell'uomo la cui vita fu una serie non interrotta di atti di patriottismo e di annegazione, quell'uomo che avea ristorato il nostro esercito, che attendeva indefesso a riparare le piaghe ed i mali cagionati dalla guerra, a mantenere ferma la disciplina che dopo una lunga campagna non può a meno di essere scossa; ebbene quell'uomo per una di quelle ingratitudini di cui si hanno pochi esempi, era continuamente l'oggetto di censure di ogni maniera. E qui dirò con dolore che quella stessa benevolenza che il re Re mi portava, quella benevolenza della quale posso menar vanto con fronte alla e serena, quella benevolenza che so avere acquistata non con bassa e cortigiane adulazioni, non con vili compiacenze, ma sì come si può ottenere da un re leale e generoso, con un linguaggio ossequioso si ma franco e sincero, con un linguaggio ispirato non da interesse personale, ma solo da affetto verso l'augusta sua persona, e verso il paese; quella benevolenza o signori, era pure argomento alle più aspre, alle più atroci calunnie che si possano lanciare sul capo di un uomo di onore.

S

Ciò che deve mettere il colmo dell'avversione nell'animo di ogni buon italiano verso Rattazzi è l'avvenuto di Aspromonte che i contemporanei tutti ben dolorosamente conoscono, e che i posteri non rammenteranno che con raccapriccio. Egli in candidatura di Ministro dopo l'uscita di Ricasoli seppe fare le più splendide promesse alla sinistra parlamentare onde non aversela avversa, seppe lusingare lo stesso Garibaldi, e mettergli in cuore le più ridenti speranze, egli in fine seppe in certo modo offrir guarentigia in faccia al partilo di azione, chiamando il Ministero de Petris. Ma assisosi quel primo Ministro cominciò dallo sciogliere associazioni, e in un tranello finissimo seppe trascinare Garibaldi dall'isola di Sicilia al continente per farlo sacrificare in Aspromonte, quell'Aspromonte che ormai è divenuto il Calvario per tutte le genti elette e democratiche dell'Universo. Aspromonte suggella vergognosamente la vita di Rattazzi, e noi ci auguriamo che quel suggello possa esser sempre rammentato con orrore dagli Italiani, ma non mai rotto onde novellamente si esca fuori a prender posto nella vita pubblica quell'uomo che fu tanto fatale ai destini d'Italia.

FINE DEL VOLUME PRIMO

INDICE ANALITICO

DEL PRIMO VOLUME DELLA CRONACA ITALIANA

CAPITOLO I

1860 21 Sett. - Dimissione di Liborio Romano - Nuovo Ministero sotto la dittatura di Garibaldi: Pallavicino Trivulzio prodittatore pag 9

» Dualismo tra

gli uomini di azione e gli uomini dell'ordine

» 10

» 1 ott. -Combattimento dei volontarj presso Capua, Maddaloni e S Maria » 11

» 2 d.° -Altro a Caserta Vecchia » 14

» 10-29 sett. - Campagna delle Marche e dell'Umbria sotto gli ordini del Generale Cialdini » 15

Bombardamento e resa di Capua » 11

Circolare ai Governatori delle Provincie Meridionali riguardante il Plebiscito » 20

» 21 ott. -Descrizione del Plebiscito in Napoli » 21

» 6 nov. -Promulgazione del Plebiscito » 24

CAPITOLO II

» » 7 d°-Ingresso del Re in Napoli » 36

» » 8 d°-Ultimi fatti di Garibaldi e sua partenza » 38

» Descrizione delle fortificazioni di Gaeta-Blocco a 49 » 40

Crudeltà e velleità di Francesco II-suo Ministero, suo governo » 42

» Reazione d'Isernia » 44

» Condotta dei Francesi contro gl'Italiani - Bombardamento » 45

» Ripresa delle ostilità-Capitolazione » ivi

1861 14 febb. -Francesco II s'imbarca co' suoi ministri e generali per Civitavecchia » 46

» 15 d° - Cialdini entra in Gaeta - Tratti d'eroismo italiano » 41

» Proteste di Francesco II alle Potenze straniere » 48

» Statistica borbonica dei 14 discendenti di Luigi XIV » 49

1860 8 nov. -Istituzione del Consiglio di Luogotenenza » 50

» Principi della Consorteria-Farini primo Luogotenente » 51

Riforma di Scialoja in fatto di Dazi di Consumo - Altra per l'Amministrazione del Banco (n. a. b.)

» 52

Nuove leggi nel ramo di Grazia e Giustizia, Agricoltura a Commercio, Lavori Pubblici, Poste, Polizia, Affari Ecclesiastici, Istruzione pubblica-Riforma dell'organamento Amministrativo, Provinciale e Comunale » 53-62

CAPITOLO III

Garibaldi e Lamoricière » 82

Quistione d'Unità e d'Annessione » 84

Garibaldi, Fanti e l'armamento » 85

Protesta del Borbone da Roma » ivi

Egli organizza la reazione nelle provincie di Terra di Lavoro e Campobasso

» 86

Giacomo Gorgi capo della reazione

Lettera di Vittorio Emanuele diretta a Francesco

» 90

Borbone dopo la battaglia di Solferino » 92

Murattismo-Dissidi tra Garibaldi e Cialdini » 94

Protesta della Corte Pontificia per la invasione delle Marche e dell'Umbria-Giudizi della stampa estera su tale invasione » 95

1861 27 genn. -Elezione dei Deputati al primo parlamento italiano-Cavour Presidente del Consiglio » 112

Natura del primo parlamento italiano » 113

Politica napoleonica in Italia » 116

Quistione veneta - Discussioni-Opuscoli » 118

Quistione romana e politica bonapartista intorno ad essa » 121

Opuscolo di Laguerronière - Discussioni del Senato francese intorno la quistione italiana » 123

Simpatie per la causa italiana in Inghilterra, in Prussia, nella Spagna

» 124

Di nuovo Murat » 121

CAPITOLO IV

Ricasoli, sua biografia » 186

Sua chiamata al ministero per la morte di Cavour » 191

Suo programma » 192

Circolare Ricasoli sul brigantaggio (all'estero) » 194

1861 (secondo semestre)-Situazione generale dell'Europa - Quistione ungherese - Nesso di questa con la quistione veneta da una lettera di Kossut

» 203

Protesta proposta da Deak e votata dalla Dieta Ungherese

» 206

Autografo imperiale per intimidire gli Ungheresi » 208

Dichiarazione dello stato d'assedio in Ungheria » 210

Quistione polacca » 209

Quistione germanica » 212

Quistione fra la Germania e la Francia concernente le rive del Reno » 213

Riconoscimento dell'Italia » 214

Note diplomatiche scambiatesi tra il governo francese e l'italiano intorno al riconoscimento del Regno d'Italia » 215

Riconoscimento di altre potenze » 211

Vertenza tra l'Italia e la Spagna per la consegna degli Archivi all'inviato del Re d'Italia » 219

Discussione nella camera belga a proposito del riconoscimento d'Italia » 221

Documenti sulla questione romana presentali nella tornata del 20 novembre dal Presidente del Consiglio al Senato ed alla Camera dei Deputati Lettera al Papa » 226

Lettera al Commendatore Costantino Nigra inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Re d'Italia a Parigi » 232

Altra al Cardinale Antonelli » 235

Capitolato proposto al Papa dal Ricasoli » 236

Giudizio di diversi deputali su questi documenti » 237

Giudizi della Stampa estera sopra i medesimi documenti » 243

CONTINUAZIONE DEL CAPITOLO IV

Condizioni dell'Italia in sull'esordire del primo parlamento » 218

Ragioni che determinarono il prestito di 500 milioni di lire » 279

Quistione sul catasto » 280

Concessioni delle ferrovie Discussioni in Parlamento sulla concessione Talbot » 282

Decreto di occupazione delle case religiose per pubblico servizio e della vendita dei beni demaniali » 284

Nuovo ordinamento giudiziario » 285

Deplorevole stato dell'amministrazione interna » 286

Porto di Napoli-Bonifiche-Cassa di Risparmio » 287

Dell'armamento » 286

Stato dell'Istruzione pubblica in Napoli

» 290

Eccesso del Deputato Proto Duca di Maddaloni alla Camera » 291

Destituzione del Tofano » 292

Proposta Mancini in favore dei mille di Marsala » ivi

CAPITOLO V

Resoconto finanziario dell'Italia e dell'Europa al cominciare del 1862 » 301

1862 - Condizione dell'Italia

Rifiuto del Municipio e degli abitanti di Tene del Greco, del soccorso inviato ai poveri di quella città in occasiono dell'eruzione

» 302

« 9 febb - Offerta dell'Avv Giov Antonio Traversi ai Torresi » 304

« Brigantaggio-Istruzioni del Gen Clary a Borjes » ivi

« 3 gen -Condizioni del regno d'Italia delineate in una circolare del Ricasoli diretta ai rappresentanti italiani all'estero » 306

« Stato della quistione romana in quest'anno (1862) secondo i documenti diplomatici » 308

« «11 d° - Lettera di Thouvenel ministero degli affari esteri di Francia al March. Lavallette ambasciatore a Roma » 309

« 18 d°-Risposta del marchese Lavallette » 311

Lettera del cardinale Antonelli allegata alla precedente » 313

1861 8 giugno - Lettera di Thouvenel al Duca di Grammont ambasciatore a Roma » 314

« 22 d° - Risposta del Duca di Grammont » 315

« 6 luglio- Lettera di Thouvenel al marchese di Cadore incaricato di affari di Francia a Roma » 316

Scopo di Napoleone III nel far queste trattative » 317

Circolare di Ricasoli diretta ai Prefetti sulla quistione romana » 318

Discussione avvenuta nel Senato francese intorno la quistione romana -Ragionamento del Senatore Pietri » 320

Parole del Principe Napoleone » 322

Parole del ministro Billault » 323

Tenore di vita di Garibaldi a Caprera » 324

CAPITOLO VI

Associazioni democratiche e Comitato di provvedimento » 332

1862

9 marzo-Adunanza generale dell'Associazione emancipatrice italiana, nel Teatro Paganini a Genova, presieduta da Garibaldi » 333

25 febb -Interpellanza Boggio al Ricasoli pei Comitati di provvedimento - Risposta di Ricasoli » 336

Caduta del ministero Ricasoli - Ministero Rattazzi » 338

Programmi del ministero Rattazzi » 339

8 aprile-Circolare del ministro Rattazzi ai Prefetti » 349

20 marzo-Passaggi di un'altra circolare diretta agli agenti diplomatici del Regno d'Italia all'estero » 354

Parole dette dal Ricasoli in ispiegazione della sua dimissione » 351

Interpellanze di Gallenga a Rattazzi » 360

Risposta di Rattazzi » 362

Interpellanze mosse in Senato » 367

Risposta di Rattazzi » 368

CAPITOLO VII

« 2 aprile-Garibaldi a Casal Maggiore per la istituzione del tiro a segno (V. il principio del suo viaggio per quest'oggetto a pag. 382 tra i documenti) e seguilo del suo viaggio lino a Brescia » 386

« Vittorio Emanuele a Napoli » 394

« Quistioni relative al corpo dei volontari italiani » 396

« Tentativi di reazione clericale - Circolare diretta a Mons Canzio ed ai Parroci

» 398

« Interpellanza del Deputato Caracciolo a Rattazzi sull'influenza della reazione sul brigantaggio, e risposta del Ministro » 399

« Maggio - Furto della banca Parodi a Genova » 400

« Seguito del viaggio di Garibaldi per l'istituzione del tiro nazionale- Sua fermala a Trescorre-Concerto d'una spedizione nel Tirolo italiano-Arresto di Nullo ed Ambivieri in Palazzuolo e di Cattabene a Trescorre e d'altri in altri luoghi

» 403

« 15 d° -Dimostrazione a Bergamo ed a Brescia in favore degli arrestati - Resistenza della forza - Storia degli eccidj di Brescia

» 404

« Condotta del Prefetto Natoli » 406

« Protesta di Garibaldi » 407

« 19 d° - Ordine del giorno del generale Durando all'armala » ivi

« 7 Giugno-Dimostrazione degli studenti di Pisa e di Pavia » 409

«

29 d° Garibaldi a Palermo perla inaugurazione del Tiro Nazionale » 410

CAPITOLO VIII

« 30 d° - Parlala di Garibaldi al popolo di Palermo » 451

« Altra al teatro » 452

« Altra al Foro Italico » 453

« Altra alla guardia dittatoriale » 455

« Altra pronunziata nella solenne riunione sotto la sua presidenza delle associazioni democratiche bella chiesa di S Domenico » 457

« 10 luglio - Discorso di Garibaldi a Corleone » 459

« 11 d° - Altro a Misilmeri » 460

1861 18 d° - Sorpresa di un comitato borbonico sullo scoglio di Frisa - Processo Cenatiempo e condanna dei congiurati

» 461

INDICE DEI DOCUMENTI

CAPO I

1860 - Proclama di Garibaldi al popolo di Palermo intorno all'epoca in cui unire le due Sicilie al regno d'Italia, e Decreto nel medesimo senso

» 27

2 ott. - Programmi dell'Associazione nazionale unitaria e del Comitato di provvedimento » 28

né Apostati né nielli - scritto di G Mazzini » 29

6 d°-Lettera del Pro Dittatore Pallavicino a G Mazzini per invitarlo ad uscire dal napoletano

Risposta di Mazzini » 34

Ricompense offerte ai combattenti dell'esercito meridionale «35

CAPO II

27 d°~Programma per l'ingresso di V E in Napoli » 65

18 nov, -Proclama di congedo di Garibaldi a' suoi compagni d arme » 76

15 d°-Nota del Ministro degli esteri di Francesco II indirizzata ai rappresentanti del Re presso le corti estere » 68

26 sett -Comunicazione fatta dal Ministro segretario di Stato degli affari esteri, a tutti i rappresentanti delle corti estere accreditate presso S. M. » 70

24-25 d°-Decreti e comunicazioni ai rappresentanti esteri emanati da Gaeta da Francesco II » 72

Documenti 'dimostranti la feroce tirannide borbonica » 75

8 nov. -Relazione del Luogotenente Generale del Re nelle provincie napoletane a S. M.

» 79

CAPO III

luglio- Documenti comprovanti l'impreveggenza per parte di Lamoricière dell'aggressione piemontese delle Marche e dell'Umbria, e la sua sicurezza del soccorso francese » 129

Lettera di Grammont al Card Antonelli in cui domanda rettificazione della falsificazione di un telegramma inviato all'ambasciata francese e pubblicato dal Giornale di Roma » 133

Il nov. - Lettera di Garibaldi al popolo napoletano » 135

1861 26 febb -Protesta del Borbone da Roma per giustificare all'Europa la sua condotta » 137

1860

25 nov - Lettera di Luciano Murat ad un ignoto personaggio » 141

1861 21 aprile-Lettera del generale Cialdini a Garibaldi » 143

Risposta del Generale Garibaldi » 144

Indirizzo dei napoletani a Garibaldi, Cavour e Cialdini in attestato di letizia per l'accaduta conciliazione » 145

Giudizi della stampa francese sulla lettera di Cialdini » 146

Opuscolo intitolato - L'Imperatore Francesco Giuseppe e l'Europa- comparso in occasione dell'agitarsi la quistione Veneta

» 147

Opuscolo intitolato La Francia, Roma, e l'Italia, per A. de La Guerronière » 163

21 marzo -Altra lettera di Luciano Murat al suddetto personaggio, intorno alle cose del regno delle Due Sicilie » 183

Lettera di Napoleone » 185

CAPO IV

1859 22 agosto-Lettera di Mazzini a Ricasoli in occasione delle ricerche contro di lui

» 247

7 sett. - Circolare Ricasoli - Massime Generali da servire di norma alle autorità politiche ed agli agenti diplomatici del governo della Toscana

» 249

Lettera di Mons Liverani al Cardinale Marini intorno ai vantaggi d'una riconciliazione della Corte Romana col Re d'Italia

» 251

Lettera del Conte S Martino al Gallino intorno al disimpegno della sua carica di Luogotenente in Napoli

» 254

Opuscolo che ha per titolo-L'Imperatore, Roma e il Re d'Italia » 259

CONTINUAZIONE DEL CAP IV

Circolare del Presidente del consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri agl'inviati italiani all'estero a dimostrazione dei provvedimenti presi dalla Camera durante la prima parte della sessione parlamentare

» 294

CAPITOLO V

Lettera del Cardinale Caterini invitando i Vescovi a Roma per la canonizzazione dei ventitré martiri giapponesi

» 327

Giudizi dei Francesi intorno la quistione romana Parole del principe Napoleone dette nel Senato francese sulla quistione romana

» 328

CAPITOLO VI

Documenti comprovanti come gl'Inglesi riguardino la quistione italiana -Intorno alla stampa

» 372

12 aprile- Discorso di Lord Palmerston pronunziato nella Camera dei Comuni, relativo alla quistione del potere temporale

» 372

Accusa all'Italia di Browver » 375

Risposta di Layard » 376

Altre opinioni » 377

Corrispondenza officiale inglese relativa agli affari d'Italia comunicata dal governo inglese al Parlamento

» 378

1862 22 marzo-Garibaldi alla istituzione del tiro nazionale - Suo viaggio per le città italiane, e dimostrazioni ricevutevi

» 382

CAPITOLO VII

27 d°-Decreto relativo alla fusione dell'esercito dei volontari nell'esercito regolare » 413

Circolare sullo stesso soggetto a tutte le autorità militari » 414

21 aprile - Ordine del giorno del generale Sirtori e del generale Medici al disciolto corpo dei volontari italiani » 416

21 maggio-Lettera che l'aiutante maggiore del di linea scriveva a Garibaldi dopo i fatti di Brescia

» 419

Risposta di Garibaldi »418

3 giugno- Altra lettera di Garibaldi diretta al presidente dei ministri sui fatti di Brescia » 419

Spiegazioni di Rattazzi » 420

Opposizioni di Crispi » 421

Discorso di Rattazzi alla Camera riassumente tutte le accuse nelle varie sedute lanciate contro di lui

» 424

Legge che regola il diritto di associazione presentata da Rattazzi dopo i fatti di Bergamo e Brescia e scioglimento della scuola polacca di Cuneo

» 427

Lettera di Rattazzi a Wisoki, e di questi a Garibaldi sullo stesso soggetto

» 428

1862

- Documenti inglesi sulla quistione romana » 428

Riforma delle tasse universitarie proposta alla Camera » 431

Prima interpellanza Boggio sulla spedizione di Garibaldi in Sicilia » 432

Risposta di Rattazzi » 432

Documenti presentati dal ministero degli affari e steri alla Camera elettiva nella tornata del 12 luglio relativi al riconoscimento del regno d'Italia per parte della Prussia e della Russia

» 434

20 maggio-Nota del Generale Durando al Cav Nigra » ivi

16 giugno-Altra dello stesso allo stesso » 436

8 luglio-Nota del Cav Nigra al Generale Durando » 438

9 d°-Altra del Generale Durando al Conte di Lana » ivi

20 marzo- Circolare Rattazzi alle regie legazioni all'estero » 440

4 luglio-Nota a Brenier di Saint Simon a Berlino » 445

CAPITOLO VIII

Documenti relativi alla spedizione di Garibaldi in Sicilia » 469

Interpellanza del deputalo Ferrari alla Camera sul proclama del Re

» ivi

Risposta di Rattazzi » 410

3 agosto-Proclama del re che dette occasione a quella interpellanza » 411

Proclama del general Cugia prefetto in Palermo quando vi si trovava Garibaldi

»412

5 d°-Ordine del giorno del ministro Petitti ai soldati » 473

16 d°-Interpellanza Saffi in Parlamento a proposito del riferito ordine del giorno » ivi

Risposta del Petitti » 474

Simile di Sineo al generale » ivi

Biografia di Urbano Rattazzi » 476

























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