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Se ci si scontra con delle evidenze non si può insistere con le illazioni personali, quindi riportiamo quanto abbiamo scoperto, cercando notizie sul Bertholdi e incappando nel nome di Foscolo.

Ludwig Jakob Salomon Bartholdy, nato il 13 maggio 1779 a Berlino e morto il 27 luglio 1825 a Roma, fu diplomatico prussiano presso la Santa Sede. Questo convaliderebbe le indicazioni di Macfarlane.

Altro elemento che ci induce a credere che fosse egli l'enigmatico Bertholdi, autore de “Memoirs of the secret societies of the south of italy particularly the carbonari”, è una frase del Foscolo sulle sette. Evidentemente il rapporto con Bartholdy gli aveva permesso di conoscere degli aspetti delle sette che lo avevano convinto a sostenere che “A rifare l'Italia bisogna disfare le sette".

Nella prima nota alla lettera indirizzata al Bartholdy dal Foscolo il curatore dice che egli avrebbe scritto un'opera contro il carbonarismo.

Tutto sembra quadrare.

La lettera che mettiamo a disposizione degli amici naviganti è tratta dal sesto volume di “Opere edite e postume di Ugo Foscolo – Epistolario, Volume primo” raccolto e ordinato da Orlandini e Mayer, edito da Le Monnier nel 1854.

Buona lettura.

Zenone di Elea – Luglio 2010


Al sig. Bartholdy, autore d'un Viaggio in Grecia.1

Milano, 29 settembre 1808.

Signore,

Sino dal dicembre dell'anno scorso un giovane italiano, che militava nelle ultime guerre, mi scrisse da Posen

1 Fu stampata primieramente nell'Antologia Italiana, (Anno I, T. t, pag. 442 e seg.) dal sig. F. Predari, a cui la diresse l'illustre conte Cesare Balbo, che avcala avuta in dono dal conte Annibale ili Mooteveccbio. Noi ne possediamo una copia ms. pervenutaci dall'inclito nostro Gio. Batista Niccolini; talché, colla scorta di questa e della edizione torinese, confidiamo di poterla dare adesso nella sua sincera lezione.

Sul conto del personaggio a cui il Foscolo la indirizzò, il sig. Prediri in una nota avverte che egli fu un ragguardevole diplomatico, nemico a Napoleone. Scrisse il Viaggio in Grecia di cui si parla in questa lettera, un'altra opera intitolata La guerre des Tyroliens, e finalmente un libro contro il carbonarismo. Mori nel 1826.


che il professore Kaulfus voleva imprendere la versione tedesca delle Ultime lettere di lacopo Ortis, e mi chiedeva emendazioni e notizie.

Risposi ch'io non aveva che correggere ed aggiungere in quell'operetta, perché io voleva conservare co' suoi difetti quel monumento della mia gioventù. D'altronde, a che disfare l'incanto dell'illusione, ritoccando gli scritti di un uomo creduto morto? L'autore forse sarebbe men censurato, ma si amerebbe l'uomo assai meno. Piaceami bensì che il traduttore sapesse l'origine di quel libricciuolo, e la mia opinione sovr'esso. Ed oggi, per compiacere a voi ed a me stesso, ripeterò ciò che allora scrissi al giovane italiano: né so se la mia risposta sia giunta sotto gli occhi del signor Kaulfus, poiché quando io la spediva in Polonia i nostri reggimenti ripariavano.

lacopo Ortis Friulano, studente nell'Università di Padova, si uccise di due pugnalate nel fiore della gioventù: — non si seppe il perché: scese sotterra senza lasciare né una sola parola scritta a' suoi parenti, né una congettura ai curiosi. Fra' i molti che sentenziano le azioni de' mortali, lasciandosi spaventare dagli effetti anzi che persuadere dalle ragioni, alcuni lo compiangevano, gli altri lo esecravano; solo chi lo avea conosciuto lodava i costumi della sua vita. Io era in Padova, ma, non frequentando io le scuole, non mi era toccato di vederlo mai. — Ammirai bensì nel mio secreto la filosofica tranquillità d'un giovane che visse con modestia, e mori con coraggio. Sia forza di natura o educazione d'avversità, io sin dalla prima gioventù ho meditato sempre sul suicidio. — L'età virile ha raffreddate in me molte opinioni, e molte ne ho ripudiate, conoscendo meglio me stesso e gli uomini: ma in questa della morte volontaria, quant'io più vivo e penso tanto più mi raffermo. Non già perché i mortali abbandonino disperatamente le care reminiscenze del passato, o il piacere di sentire la presente esistenza, o la consolazione che il futuro e la speranza promettono;

ma perché per vivere del passato senza rossore, e godere del presente senza viltà, e guardare la fortuna, gli uomini, l'avvenire senza vani timori né sciocca credulità, unico mezzo ho reputato sempre e reputo l'apparecchiarsi ad opportuna e libera morte. E allora, mentre io vedeva per la prima volta un suicida, e Tacito incominciava ad insegnarmi che fra le virtù restate ai Romani sotto la tirannide de' Cesari la più splendida e la più necessaria era il saper morire, i tempi mi facevano più attento all'esempio dell'Ortis e alle lezioni di Tacito. Lessi dunque i propugnatori e gli impugnatori del suicidio — non tutti, perché io allora appena intendeva l'italiano e il latino — e l'amore del proprio parere, congiunto all'ignoranza e alla baldanza giovanile, mi pose in mano la penna, presumendo che tanta questione non fosse ancora né ordinatamente né pienamente trattata. Ma la logica e lo stile non corrispondevano all'intento; però riserbai la pubblicazione delle mie meditazioni ad età più matura. E perché anche in que' tempi i nostri libri, le nostre carte e i nostri pensieri correvano sempre pericolo d'inquisizione, feci ricopiare quel mio scartafaccio in forma di lettere, e le intitolai Ultime lettere di lampo Ortis.

Non molto tempo dopo, viaggiando per l'Italia e fermar domi nel suo paese più bello, amai quanto il mio cuore poteva amare, e quanto gli bisognava per distogliersi, almeno per poco, dalla sciagura della mia patria. Scriveva allora e spediva alcune delle mie lettere d'amore che si leggono nell'Ortis, ma ricopiandole sempre, perché io scrivo tardo, a stento e di carattere quasi illeggibile. — Conservava quegli abbozzi, diligentemente involgendoli tra i quinternetti di altri manoscritti; — il cuore fa tesoro di ciò che produce mentre pgli regna, presentendo che con l'andare del tempo la ragione ripiglierà il suo impero, e renderà il cuore sterile e muto — ma, né scrivendo né rileggendo quelle lettere, mi venne mai la tentazione di pubblicarle.

Rifeci bensì verso quel tempo le lettere dell'Ortis, ed erano tutte disquisizioni filosofiche sul suicidio. Cominciai a stamparle e, pentito di nuovo, interruppi l'edizione, contentandomi d'avere scritto quelle lezioni per valermene contro l'ira della fortuna.

Mentre io col mio reggimento partiva d'Italia, affidai le mie carte e i miei libri a un ospite che, minacciato dagli editti degli Austro-Russi e dalle inquisizioni di nuovi magistrati, cercò di provvedere a se stesso ed al deposito, consegnandolo ad un uomo meno osservato. Quest'uomo era autore, e giovane, e povero; e si lusingò che le mie meste fantasie, scritte per me e a me, potessero piacere anche agli altri, e che egli avrebbe potuto farle piacere ancor più, e che il librajo, che vedeva infruttuosi nel suo magazzino i pochi fogli da me fatti stampare, l'avrebbe ricompensato. Però estraendo da' miei scartafacci e dagli abbozzi delle mie lettere molti squarci di filosofia, di politica, di amore, e raccozzandoli all'edizione interrotta, e annacquandoli con molte note, acciocché non offendessero chi governava, e rimpastandoli a un'istoria tutta sua, vi aggiunse del proprio una seconda parte, mezza versi e mezza prosa, e pubblicò in due volumetti la Vera storia di due amanti infelici, ossia Ultime lettere di lacopo Ortis. 1

1. Ad illustrazione della storia delle Ul/ime lettere, giovi qui riferire il seguente aneddoto, che riportiamo sulla fede del sig. Prospero Viani, di cui compendiarmi il racconto.

Ugo Foscolo cominciò a stampare in Bologna nel 1798 co' tipi di Jacopo Marsigli le lettere di Jacopo Ortis; ma, condotta l'impresa fin presso alla metà, se ne rimase in un tratto, e scomparve improvvisamente da Bologna, ansioso di tornare a Milano. Ma, o non avesse le debite carte di viaggio, o i rigori vigili e sospettosi degli stati modanesi impedissero a' viandanti il libero passaggio, egli con sola una guida passò il Reno e il Panaro, e prese la via delle montagne. Se non che, toccalo appena il territorio vignolese, diede in una squadra d'uomini d'arme, dai quali preso in sospetto, fu condotto e sostenuto otto giorni nella rócca di Vignola. Quivi umanamente raccolto e trattato dal Podestà del paese, entrò in tanta grazia del figlio di lui Pietro Grighenti, per la conformità degli studj e delle opinioni,

Ripatriato, vidi correre per l'Italia e spacciarsi con un mio ritratto nel frontespizio quel libro; onde, più per fuggire

che questi valse a farlo porre in libertà prima degli ordini di Bologna e di Modena, e ad agevolargli la sicurezza del viaggio. Frattanto delibero di far compiere il romanzo da altri: e avuto a so il Marsigli, stato qualche mese ad aspettare l'autore, finalmente lo stesso Pietro Brighenti, il quale avea dato qualche saggio di se negli studj, e per la tristezza dei tempi s'era condotto a Bologna a maniera di rifuggito, lo pregò e vinse a continuare le lettere. Difatti poco dopo egli le divulgò cui titolo: Vera storia di due amanti infeltrì, ossia ultime lettere di Jacopo Ortis: ed Angelo Sassoli, ricordato anche dal Correr al capo XXVI della vita del Foscolo, fu un nome fittizio. Intanto Ugo, datosi a seguire la fortuna dell'armi, udì bisbigliare appena della vera gloria degli amanti infelici; ma saputone e vedutone poscia co' propri occhi il seguito, se ne adirò sì fattamente, che proruppe quasi in un eccesso. Perocché tornato a Bologna nell'autunno del 1800, capitano aggiunto allo Stato maggiore della Divisione Cisalpina, corse di lancio alla stamperia del Marsigli. Il Foscolo era uomo di fiero cipiglio, ed avea un tono di voce profondo. Con atteggiamento militare: «Olà, dov'è Jacopo Marsigli?» grida a un garzone, a Eccolo là,» rispose il garzone intimorito, additando il padrone, che, sentito quell'intronamento minaccioso d'inchiesta, usci fuori d'un attiguo stanzino: e il comparire del Marsigli con una riverenza, lo sfoderare della sciabola del capitano e il dire. Oh briccone! allo stampatore, che s'acquattò e rannicchiò tra un banco e il muro, fu un attimo. Accorrono spaventati gli uomini della stamperia; le grida si fanno più forti; niuno si attenta di accostarsi al soldato furibondo, che lancia contro all'intanato Marsigli una tempesta d'ingiurie e di vituperj. In questa entrano varie persone o chiamate d;ii garzoni, o sospinte dentro dalla curiosità: fra le quali, per singolare benignità di fortuna, il figlio del Podestà di Vignola, lo stesso continuatore, bell'uomo della persona, maestoso a vedere, di pronto eloquio. Questi, preso gentilmente per mano il Foscolo, cercava d'abbonirlo con mili parole; e il Marsigli allora, fatto un po' d'animo metteva fuori ili quando in quando la, testa, e dimandava perdono, e additava il Brighenti, quasi volesse dire: Ecco il continuatore; se la rifaccia con lui. Finalmente il Foscolo riscosso dall'ira e mirato fiso involto l'amico da Vignola, rinfoderò la sciabola, e abbracciollo intenerito con veemenza d'affetti e amabilità di cortesia, quale noi abbiamo veduto più volte su le scene Luigi Vestri passare in un tratto dall'ira alla calma, dal riso al pianto, e far piangere. Ciò non ostante, il Foscolo obbligò il Marsali a una soddisfazione Sgnòur sé, Sgnòur sé, rispondeva tosto lo stampatore spaventato, che ben più duri patii avrebbe soscritto. La soddisfazione dimandata fu questa:


infamia che per acquistarmi onore, tornai per la terza volta ad attendere alle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ma allora, oltre

che il Marsigli dovesse inserire nel proprio giornale intitolato Monitore Bolognese la seguente protesta del Foscolo contro l'edizione delle ultime lettere di Jacopo Ortis. Accettò, e non falli della parola; salvo che, non so con quanto lodevole furberia, tolse dal foglio de'4 gennaio 1801, dove stampò i! rifiuto foscoliano, le parole co' tipi di Iacopo Marsigli, e ammoni ch'era tratto dalla Cunetta di Firenze, ove non so se veramente fosse prima pubblicato.

(Supplemento al Monitore bolognese n° 30.)

Rifiuto delle lettere apposte a Jacopo Ortis, morto.

Corrono delle Ultime lettere di Jacopo Ortis tre edizioni: la più antica in due tometti fu impressa in Bologna; l'altra ultimamente a Torino;la terza in un solo volume non ha data di stampatore. Perché oltre il nóme dell'Ortis vi è posto in fronte il mio ritratto, quasi io fossi 1* editore o l'inventore di que' vituperj, io dichiaro solennemente queste edizioni apocrife tutte e adulterate dalla viltà o dalla fame. Vero è che io erede dei libri dell'Ortis e depositario delle lettere da lui scrittemi ne' giorni, ne' quali la sua trista filosofia, le sue passioni, e più di tutto la sua indole, lo trassero ad ammazzarsi, ne impresi l'edizione non solo per confortare il mio esigilo o per far vivere (per quanto in mestava) il nome del mio solo amico; ma perché le sue disavventure, le sue virtù, la sua morie deliberata  e l'apologia ch'egli fa del suicidio fossero di consolazione e di esempio agli infelici. Se non che più fieri casi m'interruppero questa edizione abbandonata a uno stampatore, il quale riputandola un romanzo, la fé continuare da un prezzolato, che converti le lettere calde, originali, italiane dell'Ortis in un centone di follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche. Da questa vennero tutte le altre edizioni, guaste per altro diversamente, poiché dovendo spiacere gli alti sensi dell'Ortis a tutti gli usurpatori d'Italia, da lui profondamente abborriti, quei villani editori manomettevano anche ciò che spettava al suo vero autore, per palpare i diversi governi dove l'opera si stampava. Tacerò d'una versione francese stampata dagli Àlains a Parigi e pubblicata da pochi giorni a Milano. Tutto è al solito refondu, corrigé et augmenté. Onde, fino a che mi concedano i tempi di riprendere la stampa dell'autografo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, io protesto apocrife e contaminate in ogni loro parie tutte quelle che saranno anteriori al 1801, e che non avranno in fronte questo rifiuto.

Firenze, li 2 gennajo 1801.

Ugo Foscolo.

1 Si ammassò sui Colli Euganei presso la casa del Petrarca. A Padova tutti narrano il suicidio dell'Ortis, niuno ne sa la storia. (Nota di Ugo Foscolo.)

tre Seneca e Tacito, io aveva già letti Hume, Robeck, Montaigne e gli altri difensori della morte volontaria; —io aveva già conosciute indegne di nuova confutazione le declamazioni de' teologi e le leggi de' criminalisti, e mi avvidi che i miei ragionamenti non erano, al più, che espressi con novità, perché io li aveva sentiti e ricavati da me; ma che, stando essi nella eterna ragione della natura e del vero, erano già stati veduti in tutte le età dai filosofi, e illustrati dall'eloquenza degli scrittori, e santificati dall'esempio di molte grandi anime. Vidi che quanti fra'miei contemporanei assentirebbero alla mia opinione, non avevano bisogno del mio trattato, e che gli altri mi avrebbero o malignamente compianto, o piamente esecrato. E perché io pure doveva e voleva scrivere un libro onde smentire la rapsodia che mi avevano apposta, trovai più opportuno il dipingere il suicida che sillogizzare sul suicidio. E per rappresentare fedelmente e con religiosa sincerità la natura, penetrai nel santuario del mio cuore, interrogai tutte le mie passioni, rilessi tutte le malinconiche pagine che io aveva tentato di scrivere quando nell'esiglio, nelle sciagure domestiche, nelle pubbliche calamità e nella disperazione dell'amor mio vedeva unico rifugio la tomba: — piansi, ricordandomi le lagrime che io aveva versate: cercai di obliare ciò che aveva letto e imparato sui libri, onde esprimere più originalmente le verità, le opinioni e gli errori nati in me spontaneamente dall'indole del mio ingegno e dalle circostanze de' miei tempi, e scrissi mostrando non l'autore, ma l'uomo. Teresa, Odoardo, Isabellina, suo padre, Michele e mia Madre erano caratteri vivi, e destavano in me gli affetti assegnati al mio protagonista. — Alcune lettere d'amore sono stampate quali io le aveva scritte e inviate; — le descrizioni campestri sono tratte dal vero: solo vi sono mutati i nomi delle persone e dei luoghi. Lauretta è carattere storico, ma fantasticamente alterato; ed ora stralcierei que' frammenti della Storia di Lauretta, perché sentono l'inopportunità dell'episodio e l'imitazione della Maria di Lorenzo Sterne, s'io, stampato appena il libro, non avessi pattuito meco di non aggiungere né togliere sillaba.

Cosi dipingendo la mia vita come io la vedeva, e la mia mente come io la meditava, sotto il nome di lacopo Ortis illudeva me e gli altri; onde, tranne quei pochi a cui l'Ortis ed io non eravamo persone ignote, tutti si credevano a principio di leggere gli autografi del giovane ammazzatosi in Padova.

Io dava già l'ultima occhiata al mio manoscritto, quando mi capitò il Werther tra le mani. Maravigliandomi della virtù di quel libro e della conformità al mio nel carattere e nello scopo, conobbi dalle lagrime che io versava leggendolo che non avrei più trovate vergini le anime dei lettori; — conobbi il pericolo del confronto, e il sospetto di plagio. Ma né diffidai tanto di me da abbandonare il mio lavoro, né mi persuasi tanto da crederlo pari al modello tedesco, ché anzi ne profittai. M'accòrsi che la magìa del Werther essendo attinta dalla severa unità e dalla intensione de' lettori sulla sola passione del protagonista, conferiva non poco a questa unità e la perpetua direzione delle lettere ad un amico, e quel certo religioso secreto che risultava da quella corrispondenza. L'Ortis invece scriveva ora a sua madre, ora a Teresa, ora al padre di lei, ed esprimeva le sue diverse passioni secondando i caratteri e gli interessi delle persone alle quali parlava. L'Ortis non aveva un amico: vedendo Guglielmo, inventai Lorenzo, solo carattere immaginario nella mia operetta. Parmi infatti che l'amicizia di quest'uomo sia soprannaturale: e dov'é chi rispetti gli errori dell'amico suo senza ostentare saviezza? chi stima le altrui virtù senza farsene merito? chi compiange gli sventurati senza affettare pietà? — Werther ha una sola passione; lacopo molte. Quanto dunque non bisognava che all'unità, già sconnessa dalla varietà, fosse rimediato da una certa contemporaneità di sentimenti? Scrivendo sempre a Lorenzo, l'Ortis poteva sempre versare tutto il suo cuore in un sol punto, e mostrarsi in una medesima pagina amante, figlio, cittadino, e filosofare sulla umana natura e sul cielo senza violare le convenienze dovute alla religione di sua madre, all'innocente gioventù di Teresa ed ai pregiudizj del padre di lei.

Confessandomi obbligato di questo ripiego all'autore di Werther, dirò che io me ne valsi più utilmente, forse, perché celai sempre più la penna dell'autore coll'assegnare a Lorenzo la parte di editore e di storico. Nel Werther quest'ufficio é adempiuto dall'editore: nel primo Ortis il signor S. I.... ne scriveva alla madre di lacopo; ma una persona disinteressata o straniera può essa illudere il lettore quanto lo illude un amico, secretario dell'anima del suicida e depositario de' suoi scritti, religioso testimonio delle sue azioni, spettatore ad un tempo ed attore?

Divulgato appena il libro, i giornalisti ne fecero merito al Werther, senza considerare che l'animo e l'ingegno de' due protagonisti, benché somiglianti nelle sembianze, erano per natura e per circostanze differentissimi; che l'amore verso una vergine riamante s'insinua con la soavità della speranza e della virtù e l'amore verso una maritata arde col fomento d'una gelosia disperata e col rimorso della seduzione; e che quindi la passione, che versa veleno nelle viscere di Werther e gli rode tutte le potenze vitali, ristora invece come rugiada il sangue dell'Ortis ardente di vendetta e di libertà, e lo conforta a sostenere lo stato d'esilio e di solitudine. Non videro che il giovine Werther esce in iscena vagheggiando la felicità che il bel mattino della sua vita gli promettea, e che dall'altra parte l'Ortis, disperando dell'onore e della indipendenza della sua patria, si mostra sin dalle prime parole com'uomo che si crede d'avere vissuto omai troppo. Werther finalmente, condotto dal suo desiderio infelice a non sentire la vita se non nel dolore, si precipita negli abissi dell'eternità, e in ora in cui la natura gli fremeva intorno terribile e burrascosa: ma lacopo, quanto più vede l'inutilità della sua passione e la vanità delle umane speranze, tanto più si ostina nella sua prima volontà di morire; medita il suicidio da più di un anno, ne ragiona con sé medesimo, se ne persuade, considera la sua amante non come stimolo, ma come ostacolo al suo proponimento, e vedendosi rapita per sempre l'unica persona che gli rendeva cara la vita,

preordina il tempo, il luogo della sua morte; e quando la natura, riconducendo la primavera, parea che volesse allettarlo con la sua bellezza alla vita, egli si ferisce, e per più ore parla con la morte che va lentamente addensando sovr'esso le sue tenebre eterne. Non ch'io stimi d'avere meglio scelto il soggetto — né la scelta stava in me — ma non ho narrato se non se ciò che aveva patito, non ho dipinto se non ricopiando me stesso; e forse l'autore tedesco fu anch’egli più attore che poeta in quel libro: e lo scrisse, come ho fatto io, col sangue del suo cuore. D'altra parte sembrami che lo scopo di lui fosse di far compiangere e perdonare il suicidio, quasi fatale malattia di certi mortali; —io voleva farlo stimare come unico rimedio di certi tempi. L'arte non consiste nel rappresentare cose nuove: bensì nel rappresentare con novità. A chi mi si opponesse mostrerei le tragedie — e sono pur molte — di egregj scrittori sullo stesso soggetto, con la stessa storia, con la stessa catastrofe, co' medesimi personaggi; non però hanno taccia di plagio. Cosi all'arte ordinò la natura, l'universa natura che riproducendo perpetuamente gli stessi enti, li rende mirabili per le minime e infinite varietà con che li accompagna. Che se io posso senza nota di falsa modestia o d'orgoglio dare un suffragio sommario nella mia propria causa, parmi che il Werther riempia più il cuore, e l'Ortis la mente di chi legge. Dello stile, merito capitale, non fo paragone; perché io non so di tedesco, e le due versioni italiane sono fredde, secche e plebee. Le francesi non lessi, ad ogni modo saranno francesi. — Odo bensi dagli intendenti che il signor Goethe scrive mirabilmente. E quale non sarà egli nella sua lingua nativa un autore, che quantunque si mal tradotto, fu l'unico quasi che m'abbia lasciate norme e idee nel cervello per si fatti componimenti? Rispetto anche il consenso della letteratura alemanna che nomina il Werther tra i suoi libri classici.

 La fama del mio libricciolo in Italia é ancora immatura, e forse sarà passeggiera: — nel comune silenzio ho alzata liberamente la voce; ho difesa l'opinione de' miei concittadini; ho tentato di dare alla prosa italiana la vita e la schiettezza capitale dal freddo fasto delle discipline retoriche e dal contagio delle lingue straniere. Ma i tempi si cangeranno, e co' tempi le opinioni, il gusto e fors'anco l'idioma. Ed io stesso, ad onta della mia predilezione per quel frutto della mia gioventù, ad onta ch'io abbia talvolta la debolezza di esaminare la mia vita in quelle pitture, comincio io stesso a pentirmi d'avere irritate le passioni già forse sopite nelle viscere di molti infelici e svelata inumanamente a' mortali l'inutilità della loro vita. Oggi che i tempi, i casi e gli anni mi hanno insegnato che certe verità affliggono gli uomini buoni, e fanno più accorti i malvagi, dico a me stesso: a che pro le hai tu dette? Almeno quel libro non fosse letto che da persone provette che amano riscaldare i loro cuori intiepiditi dall'età e dall'esperienza, e che non vedono ne' romanzi se non l'immagine della vita passata! Invece poco gli assennati lo amano, ed é sempre in compagnia de' giovani e delle fanciulle. E perché aggiunger esca al fuoco delle passioni? perché insegnar ad essi a lamentarsi anzi tempo, e temere di una vita di cui vedono appena il mattino lusingato dai ridenti augurj dell'avvenire? Eccovi, o Signore, una lettera lunga omai troppo e di un argomento sopra cui tacqui per più anni. Abborro dalle quistioni retoriche come dalle porte dell'inferno. Quando più l'intelletto s'aguzza a notomizzare le cause dell'arte, tanto meno ampiamente guarda la natura e si lasciamene incantare dagli effetti. Ed io trovo in me più occhi e senso, che compasso e critica. Questa critica sillogizza e ciarla molto, ma  non sente né opera. Ho scritto nondimeno queste notizie al professore Kaulfus, ed ora più abbondatemele per voi.

Voi ed altri dotti vostri concittadini, quantunque ricchi di nobili autori, avete ospitalmente accolto il povero Ortis e l'avete compianto. Doveva dunque, per pagarvi di gratitudine, compiacervi delle vostre domande, narrandovi lealmente quanto mi abbia giovato uno de' vostri più insigni scrittori; tanto più che io vedo questo argomento agitato dal professore Luden nelle dissertazioni aggiunte alla sua versione tedesca delle Ultime lettere. Chi lesse per me que' due volumetti mi fece fede dell'esattezza della traduzione e della dottrina ed equità del giudizio tra il Werther e l'Ortis. Se mai incontraste in Germania quell'Uomo dotto, vi piaccia di ringraziarlo in mio nome, e di lasciagli copia di questa lettera; — ed io gli avrei già scritto, ed avrei cercato di mostrarmi riconoscente inviandogli qualche altro mio libro, ma il viaggio é lontano, le poste incerte, le occasioni rare.

E per voi pure vorrei potere adempire un altro ufficio, in contraccambio della gentilezza vostra verso di me e dell'amore con cui guardate la nostra letteratura; io vorrei, o signore, parlarvi del vostro Viaggio in Grecia, se non mi mancassero le cognizioni per parlarne convenientemente. Avendo viaggiato in quei paesi nella mia adolescenza, ho potuto portar meco alcuna memoria, ma ninna opinione di ciò che io vedeva, perché io allora appena cominciava a pensare; e più che le cognizioni mi mancherebbe l'imparzialità. Prestandovi intera fede ne' fatti e senza esaminare le conseguenze che ne traete, potrei sommariamente dirvi che anche un solo fatto può somministrare due o più considerazioni diverse, le quali esagerate dalla fantasia, dalla prevenzione e dalla facondia, appariranno affatto contrarie; ma che la fredda logica, l'equità e la modestia del discorso potrebbero conciliarle. Quali siensi i Greci odierni, considerati politicamente, e quali potrebbero essere, né lo so, nò mi stimo profeta. Forse l'egregio Coray per amor di patria, magnifica troppo le speranze della Grecia; forse voi, per amor di sistema, vorreste trarla alla disperazione.

Per me scelgo di consolarmi con le lontane e forse vane illusioni della speranza. Quantunque Italiano d'educazione e d'origine, e deliberato di lasciare in qualunque evento le mie ceneri sotto le rovine d'Italia, anziché all'ombra delle palme d'ogni altra terra più gloriosa e più lieta, io finché sarò memore di me stesso, non oblierò mai che nacqui da Madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de' versi con che Omero e Teocrito la celebravano. Percorrendola terra, cercai indarno tra' popoli dotti ed ingentiliti l'amore ostinato del suolo natio, l'antica ospitalità, la riverenza alla vecchiaia, la pietà materna, e le altre schiette e fiere virtù che risplendono tra la barbarie, le superstizioni, il servaggio e le tenebre della Grecia moderna. È vero, sino dai tempi di Plutarco taceano gli oracoli, perché i loro responsi si perdevano nelle solitudini della Grecia spopolata: ma fino d'allora i viaggiatori, che pieni della storia e della riconoscenza dovuta ai maestri del genere umano approdavano a quelle spiaggie deserte, e interrogavano ogni reliquia, ogni pietra, vinti da pietà e da brivido sacro per tante glorie perdute, non ardivano accusare lo stato abbjetto dei Greci, ma compiangevano l'incostanza delle cose mortali e le umane vicissitudini. E Plinio, contemporaneamente a Plutarco, scriveva a Massimo, spedito a governare la Grecia: reverere gloriam veterem et hanc ipsam senectutem, quae in homine venerabilis, in urbibus sacra est.... Habe ante oculos hanc esse terram quoti nobis miserit jura.






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